L’uomo: essere di mancanza

Press Meeting

Rimini, 23 agosto 2015 – Si è tenuto alle 15 in sala Eni B1 l’incontro filosofico dal titolo “L’uomo: essere di mancanza”, che, come ha detto nell’introduzione Costantino Esposito, docente di Storia della Filosofia all’Università di Bari, si è configurato come vero e proprio “momento di lavoro, non appena un momento di ascolto”. Il moderatore ha posto quattro domande e spunti di riflessione a Carlo Sini ed Eugenio Mazzarella, rispettivamente professore emerito di Filosofia teoretica all’Università di Milano e docente di Filosofia teoretica all’Università di Napoli Federico II.
Inizialmente Esposito ha chiesto ai due filosofi di definire, in base ai loro studi e tendenze di pensiero, la peculiare condizione umana come “essere di mancanza, la coscienza della cui finitezza lo pone in continua tensione con un’alterità, quell’origine da cui nasce e in cui il mondo trova senso”. Sini ha preso le mosse dal paragrafo 58 di “Essere e tempo” di Heidegger, evidenziando che la finitudine dell’uomo è data dal fatto che la sua infinita domanda sull’origine può avere solo una risposta umana e quindi finita: di qui la sensazione di debito e colpa. Mazzarella, invece, ha analizzato l’evoluzione che nell’antropologismo tecnicistico conosce la definizione hegeliana per cui “l’essenza dell’uomo è non avere essenza”. Lo studioso ha citato il filosofo contemporaneo Arnold Gehlen, il quale, parafrasando Goethe, riconosce nell’originaria mancanza umana uno spirito che è azione: essa ha carattere non naturale ma psichico, come ricerca del senso della vita, cioè stabilire relazioni, cioè religio.
Esposito ha di seguito riflettuto sul desiderio: “In esso l’uomo fa principalmente esperienza della propria mancanza, che può cercare di colmare riempiendo se stesso o da sé uscendo, nella coscienza dell’irriducibilità della realtà e del proprio bisogno”. Sini ha definito l’oggetto di questo bisogno richiamando l’apologo della svestizione di san Francesco. “Laddove il padre mercante si chiede ‘cosa c’è di poco’, sentendosi in credito con la vita, Francesco si chiede che cosa ci sia di troppo, quale sia il debito umano”. Solo con quest’ultimo atteggiamento si può superare il conflitto tra natura e cultura postosi al momento del peccato originale dell’uomo: “Una conoscenza che si fa dismisura – puntualizza Sini – non può che portare infelicità, come realizzatosi nella storia quando nella società si è imposta – pericolo ancor presente – una dittatura della tecnica che ignora la vita del lavoratore e del pianeta”. Mazzarella ha integrato tale riflessione aggiungendo che ogni tentativo di colmare la mancanza umana con la tecnica “ci consegna a uno sfrenato attivismo, contro cui si leva la protesta nel cuore di colui che si ferma ad ascoltare la pienezza che dà radice alla sua indigenza. Il credito con la vita è in realtà credere, cioè porre il proprio cuore su qualcuno o qualcosa che dà senso al mio daffare”.
Secondo Esposito, “vivere la mancanza in questa maniera permette di stare nelle trame del mondo e nelle forze della storia: avvertendola, viene meno ogni tendenza all’autoaffermazione – e non è un caso che i tentativi di ideologizzazione presumano di annullare ogni mancanza”. Di nuovo richiamando l’apologo francescano, Sini ha sottolineato la necessità, in tal senso, di una ridefinizione del concetto di “possesso”. Spogliandosi delle sue proprietà, il santo non riconosce semplicemente che queste non gli appartengano perché donategli dal padre, ma perché percepisce come indegno l’uso fattone. “L’insegnamento della povertà francescana – ha asserito lo studioso – non sfocia certo in un collettivismo, ma in un’abolizione della proprietà senza possesso, trasferisce cioè la questione nodale sull’uso che della proprietà si fa, le cui conseguenze ricadono su chi ce l’ha donata. È questa la sfida a cui oggi l’Europa è chiamata: intendere il capitale come qualcosa da mettere in circolo”. Ampliando tale riflessione sulla politicità dell’episodio di Francesco, Mazzarella ne ha rilevato una esemplare ripresa nell’enciclica “Laudato si’”. “Essa non è solo un discorso di ecologia della natura, ma di ecologia umana. Francesco propone un’ecologia dello spirito, un cambiamento dello sguardo dell’uomo su se stesso, che porta ad una conversione personale e comunitaria. In tal senso l’enciclica ci richiama ad una ‘banalità del bene’, alla bellezza disarmata che ci prende”.
In conclusione dell’incontro Esposito ha invitato i relatori ad esprimere un’opinione sulla mancanza come esperienza di dipendenza, che ci fa scoprire che consistiamo in ciò che non abbiamo, ma così non ci priva della libertà, anzi la potenzia. Per Sini “la questione è quella posta nel finale del Faust goethiano: diciamo sì alla vita se siamo disposti ad accettare che abbiamo un destino, e ad accettare l’occasione di farne qualcosa. L’occasione della libertà non è fare tutto ciò che voglio, ma la libertà di fare. ‘Non come voglio io, ma come vuoi tu’”. Mazzarella ha risposto citando una frase di Maria Zambrano: “Man mano che l’uomo ha creduto che il suo essere consistesse in null’altro che nella coscienza, l’amore si è andato trovando senza spazio vitale, come un uccello soffocato nel vuoto di una libertà negativa”. In tal senso – ha sottolineato il filosofo – “Il dramma della modernità è affidarsi a una libertà che dimentica di essere non solo libertà di sé, progetto individualista, ma anche progetto sociale, e progetto complessivo della natura. Proprio come sintetizzato da don Luigi Giussani: ‘io sono tu che mi fai’. E ognuno di noi sa che il meglio è quando ha davanti qualcuno che fa ciò che egli è, e questa forse è la libertà”.

(A.B., V.Car.)

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