L’ultima parola non è la parola fine ma la parola bene: esperienza della malattia

Press Meeting

Rimini, 26 agosto 2015 – Paola Marenco, responsabile del Centro trapianti midollo dell’ospedale Niguarda in sala ENI B1 racconta di “Arco di luce”, libro scritto da Giovanna, una sua paziente. Il titolo dell’incontro “L’ultima parola non è la parola fine ma la parola bene” è tratto proprio dal libro, in cui la scrittrice parla del dolore della malattia. Nel libro Giovanna propone un percorso al figlio e a noi come lettori, perché anche noi, dice Marenco “siamo bisognosi di una strada”.
Rodolfo Balzarotti, direttore scientifico della Fondazione William Congdon, ha conosciuto in prima persona Giovanna e ha voluto dare un’idea di quello che l’amica desidera comunicare nel libro, “una favola per bambini e una parabola per adulti”. Il volume è corredato da tavole che “fanno cogliere la vibrazione del senso musicale del racconto”. La favola narra di due protagonisti, un Principe e la sua futura sposa, che chiaramente alludono al marito di Giovanna e a lei. Balzarotti si sofferma in particolare sulla tavola VI in cui il Principe scopre un luogo incantato, una terra sconosciuta e bellissima, che lo attrae irresistibilmente. Si tratta di una finestra sul Mistero nel momento della felicità, prima della scoperta della malattia. Sulla riva del fiume si scoprirà la vocazione del protagonista. Balzarotti si sofferma così sulla tavola VIII che evoca sagome umane corrispondenti alle immagini della malattia. A questo punto il relatore rievoca “la leggenda del re pescatore” in cui si narra di un re che a causa della perdita del Sacro Graal si avvia lentamente alla morte, come tutto il mondo che lo circonda. Ma un cavaliere, nemmeno tanto nobile, ad un certo momento domanda decisamente “dov’è il Graal” e così il re ritrova le proprie energie e tutto il paese si ridesta. “Solo il richiamo al desiderio di ciò che manca veramente – conclude Balzarotti – è capace di ridestare la vita, perché la nostra ricchezza sta, appunto, nella mancanza”.
Originaria della provincia di Venezia, Silvia Spagnoli Rossi dopo la laurea in Economia e Commercio si trasferisce a Milano per lavoro, dove vive tuttora. Silvia è moglie di Ugo, da sei anni malato di Sla (Sclerosi Laterale Amiotrofica) e mamma di Riccardo di 7 anni e Letizia di 6. In occasione dei dieci anni di matrimonio, Silvia e Ugo hanno rinnovato le promesse matrimoniali. Nel raccontare della malattia del marito, Silvia si è chiesta che cosa vuol dire “grazia”. E ha risposto: “Un fatto che accade nella vita e che ti cambia, la trasforma in un cammino”. Il disegno di Dio, il matrimonio e la nascita del figlio sono tutte occasioni in cui questa grazia si è manifestata nella sua concretezza. “Ma anche la malattia lo è, perché lì ti accorgi che la vita diventa vera quando si smette di farla propria. Essere costretti ad affidarsi ad altri perché da sola non ce la faccio più a seguire tutto, la badante, gli amici che sono venuti in supporto, fa capire che il significato di tutto è nelle mani di un Altro che agisce in modo misterioso”. “Il mio desiderio – ha concluso Silvia – è che ognuno di noi possa percorrere il proprio cammino di santità, perché la gloria di Dio possa manifestarsi a tutto il mondo”.
A questo punto Marenco passa la parola a Giorgio Cerati, psichiatra e componente del Comitato Salute Mentale della Regione Lombardia. Cerati esordisce illustrando la relazione della persona con la malattia e l’esperienza del limite, della ‘mancanza’ e del bisogno che l’uomo sente. Lo psichiatra prende in esame il singolo soggetto e i rapporti tra soggetti nel lavoro clinico per trovare un percorso di cura ‘buono’. Il relatore parla di una vera alleanza terapeutica tra medico e paziente, paragonandola a una forma sui generis di associazione familiare. Anzi, aggiunge: “Come si potrebbe curare senza l’apertura all’altro? L’esperienza della malattia opera un cambiamento nel paziente e qui troviamo un nesso tra la speranza e la cura. In medicina – afferma Cerati – il ruolo dei fattori umani è fondamentale: è necessario riscoprire i fattori umani e umanistici. Dalla malattia può scaturire un bene, una positività che non può non coinvolgere il medico e l’equipe medica”. Un grande medico, aggiunge Cerati, una volta ha detto che ciascuno ha dentro di sé un fine e la cura è un’assistenza del malato che tenga conto anche di questo fine della persona. Lo psichiatra conclude: “La carità non è elemosina, ma è un dono. Bisogna attivare reciprocità e fiducia tra medico e paziente, questo rapporto terapeutico necessita di un lavoro e di una crescita professionale autentica”.
In ultimo la Marenco cede la parola a Mario Melazzini, assessore alle Attività produttive, ricerca e innovazione della Regione Lombardia e malato di sla, che ripercorre il suo personale percorso di malattia. “Che senso ha l’esistenza? – si chiede Melazzini – c’è sempre una motivazione che ci dà consapevolezza di noi stessi, la consapevolezza quotidiana, senza dimenticare nulla”. La serenità ci dà la coscienza del nostro limite e ci fa ringraziare Dio ogni giorno dell’esistenza. La patologia edifica una serie di colonne d’Ercole, che non ci permettono di tornare indietro e ci aiuta a non dare più nulla per scontato. “Quando la malattia ci sveglia bruscamente – aggiunge l’assessore – la nostra scala di valori cambia”. A questo punto parte un video sugli ‘sguardi’ di malati di sla che non hanno altri mezzi per comunicare e quello che colpisce e diverte la platea è la frase finale: “Cosa serve lamentarsi quando è brutto tempo? Comprati un ombrello”.
Quindi, conclude Melazzini, “chiunque può avere speranza ed essere felice”, come diceva sant’Agostino. La speranza è vita per ciascuno di noi, come avviene per Giovanna, Ugo e tutti gli operatori che testimoniano la realtà del presente. Alla fine Marenco fa un ringraziamento e un saluto speciale a Giovanna e ad Ugo, ribadendo, ma con una consapevolezza corroborata dalle storie ascoltate, che “l’ultima parola non è la parola fine, ma la parola bene”.

(A.Cap., D.P.)

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