L’INEVITABILE CERTEZZA: RIFLESSIONE SULLA MODERNITÀ

Press Meeting

“Se anche mi confermassero che nel dicembre 2012 ci sarà veramente la fine del mondo, ciò non mi impedirebbe di avere un figlio in novembre, e di scrivere poesie, e di piantare un albero, perché non faccio queste cose solo per l’avvenire terreno, le faccio perché è già partecipare alla vita eterna”. Brillante, sapido e accattivante negli esempi, pronto a far riaffiorare il filo del discorso quando un approfondimento sembra avergli fatto lasciare il seminato. Il filosofo (e non solo) francese Fabrice Hadjadj, in un auditorium gremito, ha rilanciato il tema del Meeting. Don Stefano Alberto, docente di Teologia all’Università Cattolica di Milano, ha parlato di “argomento primordiale”. “Nel dibattito odierno la certezza è vista come un pericolo – ha annotato don Stefano – mentre al Meeting avvengono incontri fra uomini certi, da cui nascono progetti e prospettive nuove. Si tratta di un’eccezione come vorrebbero alcuni osservatori o di un durevole cammino, utile a ciascuno di noi e al nostro popolo? Siamo qui per rispondere a questa domanda”.
Hadjadj ha individuato tre ragioni che oggi portano a rifiutare la parola “certezza”: perché è una parola superata in quanto siamo nel tempo dell’incertezza; perché le certezze ideologiche del XX secolo hanno generato il totalitarismo, distrutto la libertà e i popoli; perché è mortifera in quanto è vista come una “Medusa che gela l’acqua, ci affascina e ci pietrifica”. La vita, piuttosto, è più vicina all’acqua, inafferrabile, sfavillante e capricciosa, come la donna del duca di Mantova del Rigoletto: mobile qual piuma al vento. Scettici e relativisti, secondo Hadjadj, negano che possano esserci certezze, al massimo possono ammettere che ciascuno ha le sue. Ma senza punti fermi non potremmo fare neanche un passo. Per uscire dalle contraddizioni, bisogna capirsi su cosa intendiamo quando parliamo di certezze. “La certezza è solidità – ha spiegato Hadjadj – ma non la solidità della pietrificazione bensì quella del nostro cammino”. Ciò che non fa vivere, per il filosofo francese, non è la certezza ma il dubbio. “Se voi non foste certi che io non sia un terrorista norvegese pronto a spararvi – ha esemplificato – non potremmo andare avanti nella nostra riflessione. Lo stesso Aristotele associa il dubbio a ciò che incatena e la certezza a ciò che libera”. Per questo motivo gli scettici, nella pratica, finiscono per essere sempre conformisti: siccome non c’è alcuna certezza, non cambiano niente.
È la certezza che mette in movimento, ma cosa garantisce che non costruisca la strada dei carri armati e dei cannoni del totalitarismo, come avvenne per il comunismo e il nazismo? La certezza non può basarsi su sentimenti interiori o su propri pensieri perché finirebbe per essere mutevole come loro. L’esempio dell’attrazione per una bella donna è illuminante. Davanti a lei un uomo promette amore solido e indistruttibile, “ma – ha sorriso, scusandosi, Hadjadj – si tratta di una solidità che si trova al di sotto della cintura e che finirà per rammollirsi. L’amerà sempre, ma per una notte”. Se vorrà davvero amarla per sempre, quell’uomo dovrà appoggiarsi su qualcuno che prima di lui ha davvero amato fino alla morte. La vera certezza ha bisogno di un’evidenza, qualcosa che non abbiamo deciso noi, che ci è data, che, dicono i francesi “spacca gli occhi”, cioè non ci gratifica ma ferisce e sconvolge i piani.
Perché è inevitabile questa certezza? Perché un giorno o l’altro dovremo guardarla tutti in faccia, anche se cerchiamo di evitarla, e ne abbiamo paura visto che sfugge al nostro potere. Si è impotenti, davanti a questa certezza, di una impotenza che “ci fa uscire dalla logica della concorrenza e entrare nella logica della comunione”.
Secondo Hadjadj il nostro tempo vive una specifica incertezza che è quella della morte dell’umanesimo. L’umanesimo, rompendo con la tradizione, ha rincorso la moda che, per sua natura, è il culto di ciò che prima o poi sarà antiquato, retrò. Un iPhone dell’ultima generazione è un futuro fossile, un corona del rosario sarà sempre di attualità.
Gli stessi elementi positivi della modernità (fede nell’uomo e fiducia nell’avvenire), a detta di Hadjadj, sarebbero il frutto di una riduzione, di una censura, di una voluta dimenticanza dell’origine: sono valori cristiani privati delle loro radici. E come una rosa che, tagliata dal ramo, resta bella e luminosa per qualche tempo ma poi spande per la casa un odore di marcio, così certi valori orizzontali per un po’ stupiscono ma poi mandano cattivo odore. Il primo valore a crollare è stato la fiducia nel progresso. Kolyma, Auschwitz, Hiroshima ne sono le testimonianze storiche, che hanno fatto dire ad Arthur Koestler, nel 1979, “che l’umanità deve vivere nella prospettiva della sua scomparsa”. “Ai nostri giovani – ha detto amaramente Hadjadj – è inutile parlare di lavoro, futuro, riuscita sociale. Sentono di non aver più tempo e allora chiedono il successo facile”. I tempi lunghi della cultura e della politica non hanno più nessuna garanzia. Un artista poteva pensare al suo successo presso i posteri e un eroe confidare nella gloria postuma, ma oggi ci sono solo le star che durano uno zapping.
Davanti a tutto questo è inutile proporre un nuovo umanesimo o un nostalgico ritorno alle tradizioni. “In questo clima – ha affermato il filosofo – il demonio propone alla nostra stupidità tre opzioni contrarie fra loro: il tecnicismo, l’ecologismo, il fondamentalismo”. Sono tre modi di abbandonare l’uomo e la storia e che partono dalla prospettiva della scomparsa dell’uomo stesso. Il superuomo pensa che il tecnicismo ci salverà; l’ecologista sogna di rivivere nei fiori e negli uccelli; il fondamentalista si rifugia in uno spiritualismo disincarnato. Tutti e tre separano il logos divino dalla carne, quando invece, secondo Hadjadj, la rivelazione di Dio nel Logos incarnato, dovrebbe essere vista, anche dai miscredenti, “come un’alleata dell’uomo e dell’ordine della realtà”.
In questa ora tragica, cosa ha da dirci il Verbo incarnato con la sua croce? “Che non arriveremo mai alla felicità – ha risposto il filosofo francese – ma pure che valiamo più della felicità”. Hadjadj ha richiamato il buon ladrone che fece del tutto per andare all’inferno ma che accoglie la misericordia di Dio ed è il primo a finire in paradiso. “Ma Dio non ci rimette mai sulla dritta via – ha spiegato il filosofo – si serve dei nostri vagabondaggi per inventare la strada unica di ciascuno”.
“Nel mezzo dell’incertezza del postmoderno l’unica immensa certezza è quella che aveva capito don Giussani e cioè che c’è qualcosa e non niente. Bisogna partire da questa certezza della vita presente”. La vita, il presente dicono “che ho ricevuto la vita da un altro e l’ho ricevuta per darla ad un altro”. Questa è la maturità, l’attitudine a comunicare la vita, una comunicazione che l’uomo fa diversamente dagli animali. “Lucidamente egli esige delle ragioni per dare la vita”, infatti perché far nascere per soffrire e morire? Questa mancanza di ragioni, il catastrofismo dilagante hanno dei contraccolpi sociali: in Europa non si nasce più. “Sono fatto per dare la vita ma non percepisco più chiaramente le ragioni per dare la vita. La prospettiva della nostra sparizione ci obbliga a ricercare una ragione più alta per dare la vita in modo più lucido, gratuito, divino”. Una prima risposta a questa domanda, Hadjadj l’ha trovata nella circoncisione degli Ebrei: “Il segno dell’alleanza con l’invisibile, una cicatrice fatta ad immagine delle stimmate del Risorto, una ferita che lascia passare la luce”.
Ma resta la contraddizione del dolore, della morte, in una parola dell’oscurità. “Non posso rispondervi chiaramente – ha confessato il filosofo – tuttavia intuisco che questa oscurità che non viene dai nostri difetti ma che è strutturale non è solo privazione di luce ma è anche la possibilità di partecipare all’opera della luce”. Dio oltre ad illuminarci vuole che siamo noi stessi chiarore, diversamente “saremmo i prodotti della sua opera, mentre Dio ci vuole collaboratori alla sua opera”. Il deserto di umanità in cui ci troviamo è come il “segno che siamo fatti per scavare fino alla sorgente, è una chiamata per diventare noi stessi, gli uni per gli altri, canali della sorgente”.
Infine Hadjadj ha aggiunto un terzo aggettivo a quelli già usati per definire la “certezza”. “La certezza è apocalittica, non nel senso oggi comune di catastrofica, ma nel suo significato di ‘rivelazione’. Dopo il crollo delle ideologie e oltre le incertezze della post modernità, ci resta un’immensa ed inevitabile certezza di apocalisse, un’esistenza feconda che manifesta la gloria attraverso la croce, che porta una rivelazione fin nel cuore della catastrofe”. Don Stefano, concludendo l’incontro, ha parlato di “un percorso esigente a cui siamo stati invitati, nella consapevolezza che nel dramma della nostra vita quotidiana non siamo soli; apocalisse vuol dire che Gesù è fra noi, davvero, e con lui il cammino di ciascuno diventa un’immensa certezza”

Scarica