La violenza della porta accanto. Domande sul terrorismo internazionale

Press Meeting

Tre personaggi e un’unica risposta: è possibile un attentato terroristico del fondamentalismo islamico oggi in Italia. Ma anche un’unica certezza: il lavoro delle forze di polizia, specie da tre anni a questa parte, ci consente di sperare. Infine, una convinzione unanime: il pericolo esiste ma dobbiamo saperlo gestire, se ci rinchiudessimo in casa, i terroristi avrebbero già vinto.
È il concentrato degli interventi del generale Mario Mori, Direttore del Sisde, di Stefano Dambruoso, Magistrato ed esperto di terrorismo islamico, di Alfredo Mantovano, Sottosegretario al Ministero dell’Interno.
Più analiticamente. Il Generale Mori ammette che l’Intelligence, le Forze di Polizia, la stessa Magistratura hanno visto crescere un estremismo islamico, ma hanno pensato che non riguardasse il nostro Paese. Dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti e quello dell’11 marzo di quest’anno in Spagna, il terribile risveglio. Con conseguente nuovo atteggiamento.
Ma l’Italia si trova in una situazione pre-spagnola? La risposta è “no”. La situazione è diversa, e il Direttore del Sisde la spiega. La Spagna non pensava ad un attentato. Lo si capisce anche dall’insistente attribuzione delle responsabilità all’Eta. L’Italia invece è consapevole che possa accadere anche nel suo territorio, e si è attrezzata con reperimento di fonti, con maggiori conoscenze, con una forte attività d’indagine preventiva. Oggi l’efficienza delle forze di polizia è superiore a quella delle altre polizie europee.
L’Italia è consapevole, ad esempio, che ci possono essere cellule infiltrate da anni nel Paese, formate da persone dalle occupazioni più normali, ma pronte però a colpire al primo ordine di attacco. La speranza è che si possa intervenire in tempo: quel lasso di tempo determinato dalla mancanza di supporti tecnici ai terroristi islamici.
La maggiore efficienza deriva anche da un’esperienza maturata prima nei confronti del terrorismo interno, poi della criminalità organizzata, infine sul campo del terrorismo internazionale. Un’efficienza che “non difetta neppure all’ultimo commissariato di città o alla stazione dei carabinieri del più sperduto paese”.
Dambruoso concorda: negli ultimi tre anni i risultati della prevenzione, pur non pubblicizzati, sono stati numerosi. Segno di un’accresciuta qualità investigativa.
La lotta internazionale al terrorismo islamico, scatenata dopo gli attentati statunitensi, ha portato alla distruzione dei campi base per guerriglieri in Afghanistan e alla distruzione dell’organizzazione unitaria di Al Quaeda. Se da un lato non esiste più una struttura unitaria, la sua frantumazione ha però determinato il ritorno “a casa” di molti terroristi e il loro operare localmente in maniera singola o per cellule ridotte e senza collegamenti, che usano però il marchio d’origine. Nel contempo si è affinato anche l’impegno delle forze di polizia nei confronti dei “supporti logistici”: senza il sostegno di chi trova i documenti falsi, reperisce strumenti (tra cui le armi) e fornisce luoghi sicuri, i terroristi non potrebbero operare.
Il sottosegretario Mantovano è ricorso ad un paragone calcistico. “Che cosa stiamo facendo? Non giochiamo più in difesa, giochiamo in attacco. Non attendiamo le iniziative degli altri”. Dunque: oltre al doveroso controllo degli obiettivi sensibili, è stata avviata una vasta strategia preventiva, che tiene conto della diversità del terrorismo islamico da quello di natura brigatista. Il terrorismo odierno non ha struttura verticistica. È invece un network i cui soggetti tengono ben conto dei “costi e benefici” determinati dalle loro azioni, come tengono conto di alcuni simboli. L’Iraq è per il terrorismo ciò che la Spagna della guerra civile ‘36-’39 fu per il comunismo: un simbolo e una frontiera. Tra le mire del terrorismo islamico anche la riproposizione del Califfato. Di fronte alle correnti estremiste esistono però quelle moderate, tra l’altro maggioritarie.
Vincere la battaglia terroristica irakena significa, allora, dar consistenza a possibili svolte in alcuni Paesi come la Siria o la Libia. Mantovano ha precisato inoltre che non ci troviamo di fronte ad una guerra all’Occidente ma ad un conflitto interno al mondo islamico. Si colpisce l’Occidente per danneggiare chi aiuta i paesi islamici moderati (la Spagna nei confronti del Marocco, l’Italia nei confronti di un Iraq democratico). Insomma, un terribile gioco di sponda.
E per il futuro? Per l’immigrazione? Il generale Mori parla di dialogo possibile con i paesi islamici, e di un modus vivendi con gli immigrati in Italia, che al 36% sono di quella religione. Le loro moschee sono passate da 110 nel ’96 alle attuali 530. I frequentatori però sono il 5-10 per cento della comunità islamica. Un modus vivendi da realizzare trovando interlocutori giusti, dunque, pur nella consapevolezza che “le regole del gioco sono le nostre”.
Dal canto suo, Dambruoso tocca il tema dello sfruttamento degli immigrati, come le locazioni a prezzi esosi o la cessione (dagli effetti pericolosissimi) di auto intestate ad italiani. Anche il magistrato è certo che la maggioranza degli immigrati islamici sia moderata così come la maggioranza delle moschee italiane. A costoro però bisogna dare certezza e fiducia nelle istituzioni, a partire dai processi penali giusti e rapidi. Altrimenti, la sensazione è quella della persecuzione.
Mantovano ha poi difeso la legge Bossi-Fini e la normativa sulle espulsioni, chiedendo a tutte le istituzioni – non ultima la Corte Costituzionale – di dare un aiuto vero. Sulle fissazione di quote d’ingresso è scettico. “Se il permesso di soggiorno viene concesso in base ad un contratto di lavoro, sarà il mercato a regolare i flussi”.
Il vice ministro cambia registro e conclude, inserendo il valore dell’identità. Racconta della sua gente, umile gente di Otranto, che nel 1400 si oppose alla flotta turca che puntava sull’Italia. Agli ottocento uomini sopravvissuti, che rifiutarono l’abiura, furono tagliate le teste. “!Sapremo noi resistere e non abiurare come fece con naturalezza quella comunità?”
È il problema dell’identità, spiega Intiglietta: essere accoglienti e capaci di dialogo richiede sapere chi noi siamo. Ma lo sappiamo?

A.L.
Rimini, 26 agosto 2004