La preghiera nella vita degli ebrei e dei cristiani

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“La grazia dell’incontro con Cristo, per noi, non toglie la radice comune di quella storia iniziata nel tempo con Abramo, nostro padre nella fede”. Con queste parole don Stefano Alberto, docente di Introduzione alla teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ha aperto un dialogo sulla preghiera dei cristiani e degli ebrei con Alon Goshen-Gottstein, rabbino di Gerusalemme e direttore dell’Elijah Interfaith Institute.
Se per don Stefano Alberto la preghiera è essenzialmente “dipendenza nei confronti di un Altro che mi fa”, per cui “è importante dare spazi, pezzi di tempo a Dio”, per il rabbino Goshen-Gottstein la preghiera non è soltanto l’espressione di tale dipendenza, ma anche un segno del suo essere in Lui: “Tutto il mondo ha bisogno della preghiera, che è un processo dinamico per generare la vita stessa”. Anche per il cristiano certamente la preghiera, essendo incontro tra due libertà, quella del Creatore e quella della creatura, “è sempre preghiera di comunione, anche quella del singolo nel segreto della sua coscienza”, ha aggiunto don Stefano Alberto.
A questo punto Goshen-Gottstein propone un simpatico aneddoto sulla ripetitività della preghiera ebraica. Si racconta che un ebreo, minacciato di morte, avrebbe dovuto insegnare a un orso a pregare, se avesse voluto aver salva la vita. Riuscì a salvarsi sfruttando semplicemente il movimento della testa dell’orso e cospargendo di miele le sue zampe, cosicché potesse sfogliare le pagine della Torah. “Ci sono ebrei che pregano come gli orsi, – ammette sorridendo il rabbino di Gerusalemme – anche se le loro parole dovrebbero essere ugualmente dolci come il miele”. Anche i cristiani non sono da meno, allorquando ripetono formule a memoria senza considerarne il significato profondo. Per scongiurare tale rischio occorre allora, per dirla con una bella immagine richiamata da don Stefano Alberto, che “l’anfora vuota della mia vita attinga alla sorgente, che è Dio, l’acqua della sua grazia”.
La preghiera quotidiana dell’ebreo è l’amidah. Essa risulta inferiore allo studio della Torah, se fatta in modo superficiale e frettoloso, mentre le è superiore, se riesce ad andare al di là dei bisogni personali, guardando a quelli dell’intera comunità, chiamata a pregare innanzitutto per la redenzione. “Un ebreo osservante, ricorda Goshen-Gottstein, prega durante la giornata un’ora al mattino e quarantacinque minuti al pomeriggio e alla sera, ma senza pregare per l’altro, in quanto alla preghiera del singolo supplisce quella della comunità”.
Di qui il rabbino di Gerusalemme guarda con ammirazione quegli aspetti della preghiera cristiana, del tutto estranei al modo di pregare del suo popolo, quali l’ora et labora, il trasformare il lavoro in preghiera, la preghiera incessante e continua della Chiesa, il silenzio e la capacità di mettersi alla presenza di Dio. D’altra parte, conclude don Stefano Alberto, “ogni volta che incontro un ebreo osservante mi colpisce questa radicalità di memoria dell’Alleanza, che equivale a dire in ogni istante: ‘Tu sei fedele sempre a me, o Dio, io sono fedele a te adesso’”. Il dialogo interreligioso sul tema della preghiera, finora soltanto teorico, diviene infine segno tangibile di unità nella comune preghiera del Salmo 131, recitato da don Stefano Alberto e cantato da Goshen-Gottstein.

(F.Pi.)

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