LA NATURA DELL’UOMO È RAPPORTO CON L’INFINITO

Press Meeting

“L’eterna dissociazione tra realtà e desiderio da sempre tribola e fa penare l’uomo. Ognuno di noi deve accettare che la vita che l’aspetta è troppo limitata perché ci possano albergare tutti quei desideri che ci portiamo dentro”. È una frase dello scrittore spagnolo Gustavo Martín Garzo quella che apre la relazione di Javier Prades Lopez in Auditorium B7, alle 17.
Siamo all’incontro centrale del Meeting, quello che vuole andare a fondo del tema di quest’anno, “La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito”. Sala al completo in tutti i suoi diecimila posti e anche tanta gente in ogni angolo della Fiera dove ci sia un monitor collegato. Emilia Guarnieri, presidente della Fondazione Meeting, in precedenza aveva fatto capire che non si parte da zero. “Già in questi giorni abbiamo visto che il tema di quest’anno comporta un modo diverso di guardare il mondo, penso ad esempio alle mostre sul rock o su Dostoevskij, alle danze del Caracalla Dance Theatre o alla presenza di personalità come Habukawa”. Ma perché la natura dell’uomo si contraddistingue proprio per il rapporto con l’infinito?
Al rettore dell’Università San Dámaso di Madrid il compito di rispondere. E, allo scrittore suo connazionale, Prades aggiunge tante altre voci che descrivono la percezione del rapporto con l’infinito nella cultura attuale. “La sproporzione tra realtà e desiderio, che ci spinge alla ricerca di qualcosa d’altro, continua in qualche modo a dirsi attraverso molte espressioni del nostro tempo”. La panoramica proposta dal sacerdote spagnolo spazia a 360 gradi: dal giornalismo alle differenti arti, dai testi pop-rock degli anni Ottanta agli U2, dalla scultura dell’artista di San Sebastian Eduardo Chillida alla letteratura di Ernesto Sábato. “Le parole di quest’ultimo (‘la nostalgia è per me uno struggimento mai soddisfatto’) sono di nuovo il tentativo di raccontare ad altri la natura del desiderio che ci identifica come esseri umani”.
Prades riconosce che tutte queste voci rimandano “all’esperienza elementare, a quel complesso di esigenze ed evidenze che muovono la vita e senza sosta la lanciano oltre, verso un mistero il cui vero volto non riusciamo a scoprire, ma che non possiamo smettere di cercare”. Tuttavia nella “cultura plurale” dell’Occidente di oggi si può anche ascoltare una voce di altro segno, “il racconto dell’esperienza di un rapporto singolare con l’infinito: la storia dei primi che hanno incontrato Gesù e l’hanno riconosciuto come Cristo, il figlio di Dio”. Parliamo di uomini che hanno fatto “un’esperienza singolare di rapporto con l’infinito, perché quell’uomo portava l’infinito, lo faceva sentire, vedere e udire. In tal modo avvertivano che la loro vita trovava compimento in quel rapporto”. Gesù arriva al cuore degli affetti più personali, lascia a bocca aperta chi l’ascolta, ha potere sui demoni, la gente dice: “Costui opera con una autorità mai vista”.
Ma la cosa più sensazionale è che convivendo con quest’uomo ciascuno, come Giussani dice con parole ineguagliabili, scopre la statura infinita del proprio io. “Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?”, ricordava don Giussani in piazza San Pietro il 30 maggio 1998. “Nessuna domanda mi ha mai colpito, nella vita, così come questa. C’è stato solo un Uomo al mondo che mi poteva rispondere, ponendo una nuova domanda: ‘Qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero e poi perderà se stesso?’” E così nell’incontro con Gesù emerge la nostra vera statura, la statura dell’uomo e del suo desiderio. Ed emerge soprattutto nella sua resurrezione. Non una teoria o una gnosi, ma un fatto. Un fatto storico che “si può raccontare con semplicità e insieme con eccezionalità assoluta” e che sbaraglia la malinconia degli apostoli per introdurre definitivamente nella storia “Dio fatto uomo che entra nella tua esperienza”.
Non un fatto di duemila anni fa, ma qualcosa che ha rilevanti conseguenze nell’oggi. “Per fare un esempio molto semplice – spiega Prades – basta evocare quelle situazioni in cui uno si sente dire da un compagno di lavoro: ‘Però, tu sei diverso, perché?’. Questo tipo di episodi, apparentemente irrilevanti, è il seme dell’esperienza del mondo nuovo, del cambiamento del mondo che nasce dalla risurrezione di Cristo”. E che nel tempo fa maturare una nuova autocoscienza, il cui vertice supremo è l’offerta di sé secondo la formula geniale: “Io sono Tu che mi fai”. Questa autocoscienza si esplicita in una compagnia umana non spiegabile a partire dai fattori puramente naturali della convivenza e in “un’esperienza dell’Infinito come misericordia presente”, anche di fronte ai propri errori. Un “punto di fuga” nuovo, non segnato dalla nostalgia, ma dallo stupore di fronte a una bellezza non più enigmatica, e che pure non sopprime nessuna delle domande della nostra umanità.
Prades è passato poi a tracciare alcune implicazioni culturali dell’esperienza nuova dell’uomo come rapporto con l’infinito. Anche qui, poche speculazioni astratte e una domanda molto diretta: “Questa storia particolare, che si racconta anche con entusiasmo, è realmente universale, conviene realmente a tutti gli uomini e a ognuno degli uomini? Ha la forza e la dignità culturale per paragonarsi con le conquiste delle scienze naturali e sociali, che sembrano ridurla a un puro sentimento soggettivo che si limita all’ambito del privato?” E qui il teologo si è misurato senza mediazioni con le tesi del materialismo contemporaneo che contestano radicalmente tre affermazioni dell’antropologia cristiana: l’uomo uno in corpo ed anima, la sua intrinseca costituzione sessuale come uomo e donna e in terzo luogo il suo trovare pienezza nella socialità naturale. Obiezioni apparentemente fortissime ma che, appena si scava sotto l’apparenza, si rivelano zoppicanti perché frutto di una concezione razionalistica. E, come spiega il filosofo tedesco Jürgen Habermas, citato da don Javier: “La fede scientista in una scienza che un giorno potrà non solo completare la autocoscienza personale mediante una descrizione oggettivante, ma dissolverla in essa, non è scienza, ma cattiva filosofia”. Guarda caso, proprio dall’ambito scientifico, in particolare dalle neuroscienze, emergono spiragli di una coscienza ben diversa dell’essere umano, che mettono in crisi “una spiegazione dell’uomo puramente immanente, di tipo materiale, incapace di dar conto dell’enigma dell’uomo”.
Ci si avvia verso la conclusione e Prades ritorna al punto sorgivo dell’“uomo nuovo” cristiano: la resurrezione di Gesù. La novità più grande che il cristianesimo introduce nel mondo è proprio l’esperienza dell’incontro con Cristo, morto e risorto, che converte il mistero che si percepisce oltre – l’esperienza di un punto di fuga – nel contenuto di un rapporto umano, dentro il tempo e lo spazio”. Per effetto della risurrezione è possibile fare esperienza di Lui nel “nuovo Popolo di Dio, la compagnia umana che è la grande opera della risurrezione”. Così, sottolinea don Javier, il riconoscimento di Cristo “domina la vita e rende capaci di dargli tutto con letizia”.
Non con presunzione. Anzi, più poveri e mendicanti di prima. Perché “la forma sorprendente ed eterna del rapporto esistenziale con l’Infinito è la mendicanza, che permane nel tempo grazie all’iniziativa con cui l’Infinito stesso, da sempre, ci precede: ‘L’esistenza si esprime, come ultimo ideale, nella mendicanza. Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo’”.
(D.O., E.A.)
Rimini, 21 agosto 2012

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