Il profitto di valore

Redazione Web

Il profitto di valore
L’impresa sociale ha un ruolo fondamentale nel garantire le condizioni per un lavoro dignitoso ed una crescita economica. Oggi è una grande azienda di oltre 25mila persone.

Rimini, 23 agosto 2022 – Quando un lavoro può definirsi “degno”? Se ne è parlato nell’incontro “Un lavoro degno per una vita buona”, introdotto e guidato da Stefano Gheno, presidente Cdo Opere Sociali.
«Nel nostro paese c’è una grande tradizione di inclusione nella vita lavorativa, soprattutto nelle cooperative sociali, che offre numerosi esempi di successo», commenta Gheno nel pre-sentare i relatori e ricordando Marco Biagi, il giuslavorista ucciso venti anni fa dalle Brigate Rosse.
Se è vero quello che dice l’Agenda 2030 e cioè che il lavoro dignitoso non è solo un obiettivo, ma anche “un motore per lo sviluppo sostenibile”, perché più persone hanno un lavoro dignitoso più la crescita economica sarà inclusiva, allora Alejandro Marius, Trabajo y Persona, Ve-nezuela, ne è la testimonianza pregnante.
Sul palco del Meeting per l’amicizia fra i popoli, Marius racconta l’esperienza della sua Cooperativa sociale, per la quale «il lavoro ha un valore immenso, è uno strumento privilegiato per scoprire i nostri talenti ed entrare in relazione con la realtà, favorendo il bene comune. Una persona senza lavoro è una persona condannata ad essere infelice. Rimini è l’esempio di per-sone che pagano per lavorare gratis, questa è una impressione forte che mi porterò nel cuore». Enrico Novara, invece, è a capo della Cooperativa L’Iride e per lui la “dignità” nel lavoro sta tutta nella differenza tra “mettersi al lavoro” e “offrire un lavoro”: «Il povero è una persona che non può mettere in gioco i talenti che Dio gli ha dato, quindi noi dobbiamo fare scattare qualcosa perché questo talento possa “mettersi” al lavoro, cioè possa provare il gusto del lavoro, la gioia, il desiderio di fare una reale esperienza di lavoro». E conclude che «L’uomo deve impegnarsi nella vita fino ad essere consumato, è il destino ontologico dell’uomo: la risposta a quello che chiede la vita “è” il lavoro, perché il lavoro che uno fa è una parte del tentativo di ricerca del destino. La fragilità non è la “mancanza di qualcosa”, ma un “lavoro per mettere in gioco” e dare “significato” alla persona».
Per Stefano Granata, cooperatore sociale, presidente Federsolidarietà e Aiccon, «l’impresa sociale è una grande azienda di oltre 25mila persone e le imprese devono stare in piedi, quindi dobbiamo affrontare due problemi: una questione culturale, perché dobbiamo finalmente renderci conto che abbiamo e siamo una ricchezza di cui non siamo ancora consapevoli; una istituzionale, perché la politica non valorizza l’impresa sociale, anzi spesso arriva anche a penalizzarla, perché non comprende che abilitare le persone è sì ridare senso alle loro vite, ma anche generare ricchezza collettiva, perché si abbattono i costi sanitari e assistenziali».

Eleonora Vanni, cooperatrice sociale, presidente Legacoopsociali, rilancia che «abbiamo trasversalmente un problema di lavoro e di dignità del lavoro. Abbiamo giovani che vanno all’estero a fare il cameriere, non solo fuga di cervelli: abbiamo avuto per lungo tempo l’idea che le persone svantaggiate dovessero fare lavori “meno normali”. Occorre una riflessione sul mondo del lavoro: per noi c’è il senso e la centralità della persona nel nostro “fare”, è qui che la persona passa la maggior parte del proprio tempo di vita, qui trova la possibilità di espri-mere i suoi talenti e di dignità di cittadino che porta in sé il diritto di autodeterminazione delle persone».
Michele Tiraboschi, professore di diritto del lavoro, allievo di Marco Biagi rivela che oggi un’impresa su due non adempie agli obblighi di legge sulle riserve ai lavoratori con disabilità e con la pandemia la situazione è ulteriormente peggiorata: «C’è ancora molto l’idea che la coope-razione non sia un vero datore di lavoro e che il disabile non abbia diritto andare da un datore di lavoro “vero”, ma da una “impresa di serie B o di serie C”».
Proprio la pandemia, però, per Tiraboschi, ci ha fatto capire un’altra cosa: «Che il lavoro non è “un posto di lavoro”, ma è fare qualcosa in funzione di competenza. L’impresa sociale sa capire quello che una persona può dare, quindi si muove in un campo non “di obblighi”, ma di “lavoro insieme”, dove anche le relazioni di lavoro concorrono a rendere il lavoro degno e dove ogni persona è messa nelle condizioni di dare quello che può dare e di essere misurato sugli obiettivi che raggiunge».
(G.D.G.)

Scarica