Rimini, 25 agosto 2017 – Adil Azzab, regista di “My name is Adil”, è l’ospite dell’appuntamento “Un caffè con…” delle 18.30, nell’Arena “Nuove generazioni” A1.
Adil Azzab è nato nel 1988 a Beni Amir Ouest, un piccolo villaggio nella campagna marocchina. Casablanca e Marrakech sono lontani. È il primogenito di una famiglia numerosa e aiuta zio e nonno nel lavoro dei pascoli. Il padre di Adil è partito, 23enne, per l’Italia, quando il figlio maggiore ancora non camminava. L’infanzia di Adil sono le pecore dello zio, da accompagnare ogni giorno lungo distese di terra arida, e un sogno impossibile: studiare. Quando la violenza e la durezza dello zio diventano insostenibili, il padre lo porta a Milano, dove inizia a studiare con l’obiettivo di diventare elettricista: «Anni difficili: parlavo male l’italiano, lavoravo nei fine settimana, mi sentivo spaesato, il mito dell’Italia come paradiso era svanito».
Nel 2011 Adil ha una crisi di identità: «Mi vergognavo delle mie origini, di provenire da una zona così povera. Avevo un forte desiderio di poter essere pienamente italiano e pienamente marocchino, ma non mi sentivo né l’uno né l’altro». Poi, la svolta. «Iniziai a frequentare un centro di aggregazione giovanile e lì per la prima volta ho cominciato a confidarmi con chi mi era più vicino. Nacque così in me il desiderio di riscoprire le mie origini, che prese forma quando il centro indisse un bando per girare un lungometraggio». Girato fra la campagna marocchina e il capoluogo lombardo, “My Name is Adil”, di cui è stato proiettato un breve estratto, è la storia della sua vita: il bambino-pastore affamato di istruzione; l’adolescente che scopre che il volto dell’Italia non coincide con quello del suo immaginario infantile; l’adulto che torna al paese d’origine quasi come un turista.
Il rapporto con la tradizione? «A volte è duro. Mio padre per molto tempo non ha accettato l’idea che io girassi un film. Quando, assieme a mia madre, ha assistito alla prima di “My name is Adil”, si è chiuso in sé stesso e per un po’ non ne ha parlato: aveva visto con gli occhi di suo figlio tutto quello che aveva vissuto laggiù».
Oggi Adil lavora come educatore in una comunità per minori non accompagnati e in un centro di aggregazione giovanile. Aiuta altri ragazzi come lui nel percorso di crescita. «Capisco che cosa prova una persona che vende tutto, rischia la vita affrontando il mare, e poi si ritrova in un paese lontano geograficamente e culturalmente dal suo. La rabbia che porti dentro, il senso di ingiustizia, l’abbandono, la percezione di essere visti come diversi. Io sono stato molto fortunato, ho avuto opportunità».
(E.P.)