I CHIEFTAINS ALL’ARENA D3

Press Meeting

John Waters, vicedirettore di The Irish Times, sale sul vasto palco dell’arena D3, prevedibilmente gremita all’inverosimile e presenta la grande band irlandese (sopravvissuta a un gran numero di mode musicali) con parole che nulla concedono al sensazionalismo o alla spettacolarità del gruppo. “La musica irlandese – afferma – è il ricordo di un posto in cui si può tornare, è una musica che parte dal cuore. La storia dell’Irlanda è scritta nella sua musica”. Cita poi don Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, a proposito di tradizione e tradizionalismo. Quest’ultimo “fa perdere la libertà, mentre noi abbiamo bisogno di tradizione nella libertà”. È proprio ciò che la gloriosa band esprime: “Per cinquant’anni ha esportato la musica irlandese in tutto il mondo e ne ha raccolto le mutazioni al fine di reintegrarne le parti mancanti”. A questa posizione culturale, per Waters, si devono le numerose e felici collaborazioni con grandi artisti (tra cui Van Morrison, Mick Jagger, Sting, fino al recente cd, San Patricio, prodotto insieme a Ry Cooder).
Ed eccoli sul palco, tra gli applausi, al seguito dell’inossidabile Paddy Moloney. Il nucleo centrale della formazione è quello classico con Paddy alla uillean pipe e al whistle, Matt Molloy al flauto, Kevin Conneff al bodhràn, Jon Pilatzke al violino, a cui si aggiungono – a conferma della presentazione di Waters – Triona Marshall, prima arpa dell’Orchestra sinfonica di Dublino, il chitarrista di Nashville Jeff White, ed una violinista e mandolinista bluegrass, mentre nel corso dello spettacolo si integreranno la cantante scozzese Alyth Mc Cormack e quattro cornamuse scozzesi con grancassa e rullante. Nel corso dei brani la rutilante coreografia è affidata a Jon e Nathan Pilatzke, stepdance e Ottawa Valley dancers, insieme alla star della Irish dance Cara Butler.
Lo spettacolo si avvia. Gradualmente il pubblico è trascinato con sempre maggiore emozione nell’itinerario musicale proposto dalla band, che spazia dal melodico (mirabile The foggy dew) ai canti di taverna ed a vorticosi reels, ma si estende al bluegrass e alla Pipers’ march, passa per il Messico (Guadalupe) e per il concerto classico (arpa e mandolino in primis), propone brani originali (già diventati tradizionali) e brani frutto delle collaborazioni storiche con altri artisti.
I Chieftains non sono gelosi del palcoscenico. Lasciano che il pubblico si affezioni a tutte le divagazioni musicali che essi stessi hanno proposto, lo disorientano con scambi di ruoli, lo riconducono bonariamente all’origine, coscienti che tutto ritorna nel verde grembo irlandese. Tra l’arguzia sorniona di Maloney e dei musicisti che si prendono in giro, ballerini che cantano, violinisti che danzano, cascate di note e gambe che sfidano in velocità le dita dei musicisti, il pubblico è condotto nel viaggio musicale che Waters aveva preannunciato e che i Chieftains hanno magistralmente condotto.
Come già era accaduto nei finali di molti brani, tutta la sala è in piedi e in festa a battere il tempo con le mani, ma ai bis Cara Butler prende per mano ballerini, scatenatissimi volontari e comuni spettatori, e li guida in serpentoni che salgono e scendono dal palco attraversando la sala.
Musica, popolo, festa. In una parola, Meeting.

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