Guerra nel Nagorno Karabakh dove gli armeni difendono la propria terra

Press Meeting

Victoria Bagdassarian, ambasciatore dell’Armenia: “L’Azerbaigian stava per annientare la popolazione in una notte”.

Un fazzoletto di terra grande poco più delle Marche incastrato da Stalin dentro l’Azerbaigian, unito all’Armenia da un corridoio che è una strada tortuosa tra le montagne, unica via di collegamento all’esterno. Questo è il territorio del Nagorno Karabakh, la repubblica autoproclamatasi indipendente nel ’92, con una popolazione di appena 150mila abitanti, tutti armeni e perciò cristiani, perché separare il volto di armeno da quello cristiano è impossibile, sarebbe come cancellarne i lineamenti del viso. È il reportage ‘Nagorno Karabakh, ritorno alla guerra’ del Giornalista e Regista Gian Micalessin, per il ciclo ‘Storie dal mondo’ curato da Roberto Fontolan, Direttore del Centro internazionale di Cl. Mostra il ritorno del conflitto tra l’esercito dell’Azerbaigian che ne pretende il dominio e la popolazione che resiste agli assalti: il 2 aprile di quest’anno l’esercito azero ha sferrato un attacco violento tale che “stava per annientare la popolazione in una notte” come testimonia Victoria Bagdassarian, Ambasciatore della Repubblica d’Armenia in Italia. Bagdassarian è colpita dall’aria che si respira al Meeting, ringrazia per l’invito Emilia Guarnieri, Presidente della Fondazione Meeting, e Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la sussidiarietà. “E grazie a Fontolan – aggiunge – che mostra al mondo storie trascurate. E a Micalessin che ha raccontato il dramma del Nagorno Karabakh in modo completo: ci sono le speranze e le paure, i desideri di pace degli uomini. Mi ha colpita la sua attenzione al corridoio di Lachin, unica via di collegamento con noi. Sarebbe tragico se l’esercito azero riuscisse a interrompere quella strada. Il reportage è un appello a non chiudere gli occhi”.

Micalessin viene a conoscenza del dramma che si consuma in Nagorno Karabakh mentre si trova in Siria, a documentare un’altra guerra, come racconta lui stesso: “Ho scoperto un’enclave armena assediata ad Aleppo, e che i luoghi del genocidio armeno di cent’anni fa sono gli stessi di oggi. Ho capito quanto avessimo dimenticato la nostra storia”. Il documentario che vediamo dura mezz’ora: trenta minuti di case sventrate dai missili, auto crivellate da colpi, terra arata dalle trincee: un conflitto aspro dimenticato dalla comunità internazionale che non ha riconosciuto, per ora, queste montagne inospitali come repubblica indipendente. E dire che indipendente questo territorio già lo era, dal quarto secolo era abitato dal popolo armeno, fino a quando Stalin lo volle in Azerbaigian. Oggi solo l’Armenia lo riconosce come autonomo.

“Per conoscere questa civiltà – commenta nel reportage il suo autore – bisogna visitare le sue chiese” e le immagini le mostrano piene di gente commossa, che prega, una tenda viola chiude l’altare e nasconde alla vista il sacerdote, come in un palco. “Non puoi separare gli armeni dalla cristianità” commenta un reverendo. È arrivato dal Libano il vescovo armeno cattolico per sostenere la popolazione sfinita. Un uomo afferma: “O conquistiamo l’indipendenza o ci uniamo all’Armenia”. Talish è il nome del villaggio distrutto la notte del due aprile, settanta gli armeni morti: “Non so cosa sarà di me e della mia famiglia” dice un abitante che si prepara ad andare via portando con sé il vino fatto da lui: come tutti i contadini là lo conserva sottoterra, scava ed estrae le bottiglie. “Spariamo solo per difenderci – spiega un soldato -per primi non attacchiamo. Da qui non passeranno mai”.

Intanto nei villaggi si continua a piangere i morti. Intorno alla bara coperta da una bandiera ci sono le donne che fanno il lamento, unico uomo il sacerdote. Il corteo funebre arriva al cimitero, scortato dalla banda. Il picchetto d’onore saluta il commilitone caduto. Il padre dell’ucciso racconta che il figlio aveva finito le munizioni: “Non si aspettavano un attacco così massiccio e prolungato. Ci hanno restituito il cadavere dopo 13 giorni. Gli avevano cavato gli occhi e mozzato le orecchie”. Questa mutilazione fa il paio con l’accusa rivolta all’esercito azero di accanirsi sui cadaveri: a Talish tre anziani sono stati uccisi nella propria abitazione, i corpi avevano le orecchie mozzate. La Croce Rossa indaga. Sono modalità da guerra di religione e proprio su questo Micalessin avverte: “Non bisogna cadere nella trappola, non è un problema religioso. Il caos nasce dalla decomposizione dell’Unione Sovietica”.

La popolazione armena resiste con una mobilitazione generale: i veterani tornano al fronte a combattere a fianco dei figli. “Laveremo il sangue con il sangue”, esclama uno di loro. Una frase già sentita troppe volte. A meno di un intervento internazionale, questa guerra non finirà.

Al termine dell’incontro Micalessin commenta: “L’Azerbaigian ha il petrolio, si è armato, vuole diventare una potenza nel Caucaso”. E Bagdassaran aggiunge: “Questo popolo combatte per la sua sopravvivenza, è a rischio di genocidio: davvero la notte di Talish poteva scomparire. Il presidente dell’Azerbaigian è un dittatore, ha premiato il soldato che ha mozzato ed esposto la testa di un soldato armeno. La comunità internazionale non può chiudere gli occhi. C’è un processo negoziale che sta andando avanti”.

Fontolan in chiusura chiede alla diplomatica: “Il Papa è venuto da poco in Armenia: cosa ha rappresentato per voi?”. “Un’esperienza forte – è la risposta – un grande risveglio spirituale”.

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