ESPERIENZE ALLA PROVA. INCONTRO CON CLARA GAYMARD

Press Meeting

“Da sempre è volontà del Meeting proporre la testimonianza di uomini e donne che hanno avuto una storia eccezionale” dice Letizia Bardazzi, della Fondazione per la Sussidiarietà, introducendo tra gli applausi Clara Gaymard, presidente della fondazione Jérôme Lejeune, vice-presidente Government Strategy and Sales alla General Electric International, presidente e amministratore delegato di General Electric France, madre di nove figli, considerata tra le cinquanta donne più potenti del mondo nel 2007.
La storia eccezionale non è quella della sua carriera, della quale non parla affatto, ma quella di suo padre, il servo di Dio Jérôme Lejeune, uno dei protagonisti della medicina del Novecento, la cui causa di beatificazione è stata avviata nel 2007. “Raccontaci la tua esperienza di vita con tuo padre – ha chiesto Bardazzi – Quale certezza ti ha trasmesso? Come ha cambiato la tua vita?”
Gaymard comincia a raccontare del padre partendo dai suoi ultimi giorni. L’ultima conversazione con lui l’ebbe il venerdì santo del 1994: “Clara mia, se c’è un messaggio che vi posso lasciare, che ho potuto verificare in tante occasioni della mia vita, è questo: siamo nelle mani di Dio”. Due giorni dopo, la mattina di Pasqua (“nel momento in cui le donne stavano scoprendo il sepolcro vuoto”) arriva la telefonata che comunica la morte del padre. “Non sono una storica, né un medico, né ho una fede grande come quella di mio padre – dice Gaymard – ma ho avuto la grazia di essere stata sua figlia e sento vivo il compito di raccontare chi era”. Da questo compito nasce il suo libro La vita è felicità, titolo che riassume quanto testimoniato dalla vita di Lejeune.
Clara prosegue raccontando della giovinezza di Jérôme, del fatto che per distrazione (un treno sbagliato) non riuscì ad avviarsi alla chirurgia ripiegando su altri campi. Nel 1959, ricorda, arrivò a fare una prima grande scoperta, cioè che il mongolismo, come veniva chiamata allora la sindrome di Down, era collegato alla presenza di tre cromosomi 21, scoperta che lo fece giungere ai vertici della medicina mondiale (nel 1964 diviene professore di genetica all’Università di Parigi, cattedra creata ad hoc per lui).
Non solo dalla fede, ma soprattutto dall’osservazione della straordinarietà di ciò che con stupore scopriva nei suoi studi sulla genetica e sulla formazione del feto, era giunto alla piena consapevolezza che ogni essere umano è gia tale fin dal momento del concepimento, in tutta la sua unicità. Questa posizione lo portò a ricevere aspre critiche all’interno della comunità scientifica internazionale, che tuttavia non scalfirono la sua certezza. Nel 1978 Giovanni Paolo II gli chiese di fare parte della Pontificia accademia delle scienze e nel 1994 fu il primo presidente della neonata Pontificia accademia per la vita.
Nel raccontare la vita del padre, Gaymard non perde l’occasione per citare alcuni episodi significativi: dal pranzo con papa Giovanni Paolo II, di cui era molto amico, il 13 maggio 1981, poche ore prima dell’attentato, al caso di due genitori di un bambino down che vengono da lui per farlo curare. “Vedevano solo la malattia del figlio” racconta Gaymard. Il medico prese il bimbo, lo mise sulle ginocchia della madre e cominciò a chiamarlo per nome. E “in quel momento la madre capì che quello era il suo bambino, che era affidato a lei”. Da tutta la testimonianza traspare la grande attenzione che Lejeune aveva per ciascuno dei suoi numerosissimi pazienti, dei quali ricordava quasi sempre il nome, e lo sguardo profondamente umano con cui li guardava.
Concludendo l’incontro la relatrice legge alcune parole che il pontefice scrisse ricordando l’amico Jérôme: “Oggi noi desideriamo ringraziare il creatore per il carisma particolare del defunto. Dobbiamo parlare di carisma perché Lejeune ha sempre saputo usare la sua profonda conoscenza della vita e i suoi segreti per il vero bene dell’uomo e dell’umanità. Si è fatto uno degli ardenti difensori della vita”.
Che certezza ha lasciato il padre nella vita della figlia? L’importanza di essere umili e semplici, perché – ripeteva sempre – “non sappiamo molto, ma sappiamo che la vita è felicità”.

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