Cosa significa fare il giudice della corte costituzionale?

Press Meeting

Rimini, 25 agosto 2015 – “Cosa significa fare il giudice costituzionale?”. Oggi alle 15 in sala Eni B1 la domanda è stata posta dal presidente dell’European University Institute Joseph Weiler a Marta Cartabia, vicepresidente della Corte Costituzionale e a Sabino Cassese, giudice emerito della medesima corte. Una domanda che non è né vuota né accademica. Sono tre infatti i seggi della Corte costituzionale vacanti, uno per l’elezione a capo dello Stato di Sergio Mattarella, gli altri due per un colpevole ritardo del Parlamento, chiamato da più di un anno a prendere una decisione in merito.
Definito da Weiler storico, filosofo, giurista, amministrativista che faceva il giudice costituzionale (“ha scritto più libri lui di quanti articoli abbia scritto io”), Cassese giudica con severità questo ritardo (“atto suicida”) e anche Cartabia trova anomalo che non si sia provveduto, tanto più che parliamo di un organismo in cui devono essere rappresentate tutte le componenti della società civile per esprimere il meglio del pensiero giuridico e delle sensibilità del nostro Paese. Parliamo peraltro di un organo – anche in questo i due giuristi concordano – considerato nel suo impianto tra i migliori del mondo, certamente tra i più rappresentativi, laddove ad esempio negli Usa i giudici della corte sono espressione diretta del solo presidente.
Si entra quindi nel merito del tema. Essere giudice della Corte costituzionale, e qui Cassese parla della propria esperienza personale, significa “essere stato nominato dal presidente Ciampi perché serviva un impavido per una corte timorosa”. Non certamente nel senso dell’”uomo forte”, perché si tratta pur sempre di un organo collegiale, in cui le decisioni non possono essere prese con maggioranze risicate. Si guarda sempre con attenzione al modo con cui le altre Corti decidono, spiega il giurista “perché c’è un dialogo continuo e il rispetto reciproco è fondamentale”. Detto questo, però, è anche vero che “ giudici valutano le leggi, che sono pur sempre un prodotto politico, ma non fanno la politica dei partiti. Essi debbono far rispettare un contratto di lunga durata, la Costituzione, a maggioranze di passaggio”. E quindi l’indipendenza è richiesta come virtù necessaria.
“Una delle principali ragioni per cui nasce una Corte costituzionale”, ribadisce il concetto Cartabia, “è la difesa delle libertà, questo fa parte della sua stessa natura. Dobbiamo sempre ricordarcene, anche quando abbiamo a che fare anche con problematiche di natura economico-finanziaria”. Il lavoro giuridico infatti, spiega la vicepresidente della Corte, ha un’altissima componente tecnica ma nei principi c’è uno spazio interpretativo che richiede risorse non solo tecniche. “Serve mettere in campo un giudizio che non è puramente logico giuridico ma anche esperienziale. Penso a casi come Stamina, le pensioni, l’ambiente. Serve una conoscenza della realtà complessa in cui tutta la personalità del singolo è coinvolta”.
Tutt’altro che restare astrattamente super partes. “L’idea di un giudice politicizzato – spiega la giurista – ci terrorizza perché ci pare faziosa. Ma l’antidoto non è la freddezza, è saper ascoltare, avere una forte passione per ciò che è giusto”. E interrogata da Weiler sulle virtù richieste ai componenti della Corte risponde: “Io sto scoprendo il significato della prudenza, che non significa essere cauti ma guardare in tutte le direzioni. Uno strumento per guardare in tutte le direzioni è anche l’ordinanza istruttoria”. Come dire che non bisogna aver paura di “sporcarsi le mani con l’esperienza reale”.
“Avrei avuto altre domande – conclude Weiler – sarebbe stato interessante ad esempio approfondire il paragone tra la Corte italiana in paragone con altre corti europee, ma mi limito a una considerazione finale: se tutti i giudici delle corti costituzionali sono della qualità di Sabino Cassese e di Marta Cartabia possiamo avere totale fiducia in questa istituzione”.

(E.A.)

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