Ciò che sostiene la vita

Redazione Web

STORIE DI DOLORE TRA SCIENZA E PRESENZA

 

Rimini, 23 agosto – Incontro di scienza e umanità questa mattina al Meeting nel Salone Intesa Sanpaolo B3, ma soprattutto una lezione di vita, di quelle che quando esci non sei uguale a come eri entrato. Si è parlato stamattina di dolore innocente, di infanzia inguaribile e di tragiche e infauste diagnosi che giovani genitori ricevono nel momento che dovrebbe essere il più bello della loro vita. Eppure non è stata la tragicità quella che ha dominato nei racconti commossi delle cinque donne che hanno riportato la loro esperienza di madri, sorelle e medico: Franca Benini, del Centro Regionale Veneto di Terapia del Dolore e Cure Palliative Pediatriche di Padova, Chiara Locatelli, neonatologa del Policlinico Sant’Orsola di Bologna, Simona Amore, mamma di Arianna; Elena Borin, sorella di Matteo e Messicana, Elena Olivi, mamma di Ester. Un incontro tutto al femminile introdotto con sapienza dal dottor Marco Maltoni, dell’Unità Cure Palliative di Forlì.

La prima a prendere la parola è stata la dottoressa Benini, primo medico in Italia ad occuparsi di cure palliative: «Il dolore non ha pregiudizi né colore. Quando si presenta ci rende coscienti di come è difficile guardare questa realtà: un bambino che soffre o che muore. Solo nell’ottobre del 2018 i ministri della salute si sono trovati per affrontare questo problema riconoscendo la necessità continua di riflettere di fronte ad uno dei momenti più critici della vita. Nel 1967 a Londra è nato il primo hospice per l’adulto, per i bambini dobbiamo attendere gli anni Ottanta, sempre in Inghilterra, voluto da una famiglia che aveva avuto un bambino gravemente malato». Il concetto di cure palliative pediatriche si sta sviluppando in italia nell’ultimo ventennio, poiché con l’ampliarsi della ricerca scientifica si riesce a garantire la vita di molti più bambini. Il problema attuale è che i bambini che sopravvivono a patologie gravi hanno necessità importanti: problemi respiratori, cardiaci, neurologici, cognitivi. La Benini ha affermato: «In queste situazioni non si può garantire la guarigione, ma è necessario dare una cura, favorendo il massimo possibile della qualità della vita. Occorre permettere al bambino di essere bambino: tali strategie funzionano e riportano le famiglie a recuperare il loro ruolo. Le famiglie possono stare a casa, possono andare in vacanza, possono uscire e nei casi migliori i bambini vanno a scuola».

In Italia ci sono 30 mila bambini in queste condizioni e si stima che circa trecento persone per ogni bambino siano coinvolte con l’inguaribilità. Un importante studio ha dimostrato che una famiglia che gestisce questi bambini ha nove ore al giorno impiegate per la cura, se non è supportata diventa una famiglia che non ha una prospettiva. Non sono numeri da poco. La dottoressa Benini ha concluso con un’interessante sottolineatura: «Occorre non dimenticare che l’attore principale è il bambino, dobbiamo comunicare con lui, conoscere il suo pensiero, spiegargli quello che succede e andare incontro ai suoi desideri e alle sue aspettative, senza di questo la qualità della vita diventa fumo. Occorrerà fare delle scelte nel miglior interesse del bambino, e ciò non sempre corrisponde a ciò che la scienza ci dice di fare. È indispensabile avere sempre presente il superiore interesse del bambino con l’obbligo assoluto dell’ascolto del minore. Al medico e ai genitori tocca il gravoso ma necessario compito della mediazione».

Chiara Locatelli è la neonatologa che ha iniziato al Sant’Orsola di Bologna l’esperienza delle cure palliative, il percorso Giacomo, dopo averne incontrato i genitori. Giacomo ha vissuto diciannove ore, al terzo mese di vita intrauterina gli è stata diagnosticata l’anencefalia, gravissima patologia incompatibile con la vita extrauterina. La dottoressa Locatelli lo ha curato nelle ore successive alla sua nascita, lo ha tenuto al caldo, si è assicurata che non soffrisse, gli ha dato da mangiare e soprattutto – con l’aiuto dei suoi responsabili e del ginecologo Patrizio Calderoni – ha fatto in modo che Giacomo potesse stare per tutto il tempo in una stanza con la mamma, il papà e i fratellini. Da quella esperienza unica che ha commosso non solo i principali attori, ma anche numerosi colleghi tra medici e infermieri, è nata la possibilità che il percorso Giacomo fosse riconosciuto come servizio sanitario all’interno della neonatologia del Sant’Orsola. Lo ha raccontato, attraverso una presentazione ricca di storie, volti e minuscoli bambini, la dottoressa bolognese, suscitando ammirazione e commozione.

Sono intervenute successivamente Elena Borin, che ha raccontato la storia di Matteo e Messicana, bambini affidati alla sua famiglia, e la sua esperienza di sorella; Elena Olivi, mamma di Ester, che ha avuto lo stesso percorso di Giacomo; e Simona Amore, mamma di Arianna, una bellissima bambina affetta dalla sindrome di Angelman. Tutte e tre le storie nella loro singolarità hanno evidenziato un lungo e duro percorso di riconoscimento di un bene possibile anche e, soprattutto, attraverso le storie dei piccoli bambini sofferenti. Uno strazio che diventa speranza. Non elude lo sconforto, le domande e la ribellione ma può essere accolto e diventare strumento di un cammino felice. La mamma di Arianna ha infatti concluso: «Ho iniziato il mio racconto dicendo che quando è nata Arianna eravamo felicissimi. Ora posso dire che lo siamo ancora, forse in modo diverso. O addirittura di più. Perché più consapevoli del dono che ci è stato fatto».

 

(M.G.D.A.)

 

Responsabile Comunicazione Eugenio Andreatta tel. 329 9540695 eugenio.andreatta@meetingrimini.org

Scarica