Cancellare culture o costruire cultura?

Redazione Web

Cancellare culture o costruire cultura?

Il paradosso della “cancel culture”: cancellare per educare

Rimini, 20 agosto 2023 – “Cancel culture”: è così che viene definito un fenomeno che ha avuto origine negli Stati Uniti e nelle sue prestigiose università ma che ormai ha raggiunto anche l’Europa, diffondendosi in settori e mondi sempre più eterogenei e variegati. L’obiettivo che si prefiggono i suoi sostenitori è quello di “cancellare” ogni elemento che possa risultare discriminatorio nei confronti di una specifica parte della società. Ecco allora che assistiamo a modifiche dei programmi scolastici, alla soppressione di certi modi di dire e di aneddoti propri della tradizione popolare ma che racchiudono messaggi impliciti di natura discriminante, fino ad arrivare alla rimozione di statue o monumenti: elementi decorativi volti ad abbellire le città e a custodirne una chiara identità storica, ma che rischiano di portare alla luce antiche o recenti ferite che una parte della popolazione vorrebbe dimenticare.

Il fine di tale processo è senz’altro nobile: rendere l’Occidente un luogo sempre più inclusivo e aperto al diverso. Il rischio, però, è quello di parzializzare la realtà, dando vita a una narrativa incapace di accogliere ogni sorta di particolarità. È su questo paradosso che si è inserito l’incontro “Cancellare culture o costruire cultura?”, svoltosi in occasione dell’edizione 2023 del Meeting per l’amicizia fra i popoli di Rimini.

Un evento moderato da Andrea Simoncini, vicepresidente della Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli ETS e docente di Diritto Costituzionale presso l’Università di Firenze; Sergio Belardinelli, professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università di Bologna; François-Xavier Bellamy, europarlamentare, filosofo e intellettuale francese; Joseph H. H. Weiler, university professor presso la NYU Law School e senior fellow presso il Center for European studies di Harvard.

Simoncini ha fin da subito evidenziato come la “cancel culture” sia «nata sulla rete ma ormai ha invaso numerosi spazi pubblici; per questo, occorre indagare questo fenomeno e capire come tornare a impostare una cultura del dialogo».

Il professor Belardinelli ha ripreso ciò affermando che «la “cancel culture” nasce negli anni ’50 nel momento in cui la Sinistra distoglie l’attenzione dalle grandi questioni sociali e si concentra sulle fasce maggiormente discriminate; una battaglia che non avrebbe riscosso tanto successo se la comunicazione non fosse totalmente cambiata in questi ultimi anni».

Anche l’intervento dell’europarlamentare Bellamy è partito dall’evidenza di quanto ormai questo fenomeno sia riscontrabile in ogni settore: «Secondo un recente sondaggio, in Francia circa il 52% dei docenti si autocensura per non rischiare di cadere vittima della “cancel culture”. Il risultato è che si continua a eliminare parti di realtà con l’obiettivo di renderla unidimensionale, dando vita a quella “dittatura del relativismo” di cui parlava il cardinal Ratzinger; uno scenario che rende impossibile ogni forma di conoscenza o di dialogo».

Per ultimo, il professor Weiler ha ripreso le precedenti riflessioni provando a darne un quadro maggiormente approfondito: «Occorre certamente resistere a questa “cultura della cancellazione”. Allo stesso tempo, però, è importante non riservare alla “cancel culture” lo stesso trattamento: occorre mantenere una certa sensibilità, senza dimenticare cosa può offendere l’altro. Il rischio è, appunto, quello di cadere nella dittatura del relativismo di cui parlava Ratzinger».

Le conclusioni sono lasciate a Simoncini, il quale ha evidenziato che «la “cancel culture” ha nasce dall’idea che chi non è d’accordo col nostro modello di verità sbaglia. Da questo punto di vista, l’incontro cristiano ha un vantaggio in più, perché parte dal presupposto che la verità non sia una teoria ma una persona. Questo cambia totalmente la posta in gioco e permette quella cultura dell’incontro su cui si basa una manifestazione come il Meeting di Rimini».

(A.P.)

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