DEMOCRAZIA A UNA SVOLTA

Sabino Cassese, Giudice emerito della Corte Costituzionale e Professore di Global Governance alla School of Government della LUISS Guido Carli; Luís Miguel Poiares Maduro, Global Governance Programme Director e Professor of Law all’Istituto Universitario Europeo (EUI); Antonio Polito, Vice Direttore de Il Corriere della Sera e scrittore. Introduce Andrea Simoncini, Professore Ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Firenze.

Democrazia a una svolta

Sabino Cassese, Giudice emerito della Corte Costituzionale e Professore di Global Governance alla School of Government della LUISS Guido Carli; Luís Miguel Poiares Maduro, Global Governance Programme Director e Professor of Law all’Istituto Universitario Europeo (EUI); Antonio Polito, Vice Direttore de Il Corriere della Sera e scrittore. Introduce Andrea Simoncini, Professore Ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Firenze.

 

ANDREA SIMONCINI:

Buonasera, siamo qui sul tema “Democrazia ad una svolta”. Quando abbiamo pensato a questo incontro circa sei, otto mesi fa non avremmo mai immaginato di trovarci proprio dentro a una svolta, alla crisi di Governo dell’esecutivo italiano. Certo, i tempi legittimavano l’affronto di questo tema con l’ambizione, la pretesa di provare a suggerire qualche punto di riferimento, qualche criterio per orientarsi. Proprio di recente, un paio di giorni fa, Antonio Polito in un suo editoriale sul Corriere diceva: “Dalle elezioni europee ad oggi abbiamo vissuto nel frastuono e nella confusione più assoluti; momenti alla Ionesco in cui non si capiva più chi era al Governo e chi all’opposizione, chi si sentiva in Europa, chi andava in Russia, chi puntava alla crescita, chi alla decrescita”. Lo ha scritto poco prima che le situazioni prendessero ancora più chiaramente i caratteri che hanno oggi. Insomma, un grande flusso di notizie. Ed è in un momento come questo che appaiono ancora più profetiche le parole del grande poeta Eliot, che è caro a molti qui, quando diceva: “Tutta la nostra conoscenza ci porta sempre più vicini alla nostra ignoranza. Dov’è la sapienza che abbiamo perso nelle informazioni?”. Mai come in questo momento abbiamo avuto bisogno di sapienza, abbiamo bisogno di criteri, di orientamenti, di punti per formare un giudizio consapevole e oggi orientarsi non è semplice anche perché le democrazie funzionano sempre più come dei mercati, in cui gli attori politici vendono i loro prodotti. Oggi tutto sembra marketing, e nel marketing il punto non è se il prodotto è buono o cattivo, ma se vendi bene e, soprattutto, se riesci a creare nel pubblico il bisogno del tuo prodotto, ovvero se sai convincere che quella certa lavatrice o quello shampoo è decisivo perché tu sia felice nella vita. In questo senso, è interessante soffermarsi su quali sono considerati oggi i bisogni politici principali, le preoccupazioni, le priorità. Se prendiamo ad esempio “Eurobarometro”, istituto che registra sistematicamente l’opinione pubblica in Europa, emerge un dato abbastanza curioso che mi ha colpito: c’è una profonda simmetria tra la domanda politica, ciò di cui sono preoccupati i giovani adolescenti, ovvero gli adulti e gli anziani. Per gli adolescenti e i giovani la classifica della preoccupazione politica, la classifica delle priorità vede al numero uno la preoccupazione per l’ambiente e il cambiamento del clima, al numero due il miglioramento della scuola, al numero tre la lotta contro la povertà e le disuguaglianze. Se invece prendiamo il mondo adulti e anziani, il numero uno è l’immigrazione, il numero due la disoccupazione e al terzo posto l’ambiente. Ora, se è la domanda a creare l’offerta in qualche modo, bisogna prendere atto che le proposte politiche sembrano molto più dettate, orientate dall’elettorato adulto anziano che da quello giovanile. Ma, soprattutto, non può non far riflettere che in Europa, in un momento di crisi economica assolutamente non risolta e a maggior ragione in Italia ancor di più, per il mondo adulto anziano la preoccupazione prioritaria oggi è l’immigrazione e la sicurezza e non la disoccupazione e la crescita. Quanto queste preoccupazioni sono reali? Quanto sono indotte dal marketing politico che oggi sembra dominare il dibattito democratico? Se ha ragione Sean Peter, la democrazia non ha a che vedere o non avrebbe a che vedere con i valori, il bene comune, ma sarebbe una pura e semplice competizione tra leader che si contendono il voto popolare per ottenere il potere. Questo, però, non è l’unico modo di intendere la democrazia. Vi sono state e vi sono nella nostra storia teorie e prassi della democrazia molto diverse e soprattutto gli istituti democratici non sono dei manufatti artificiali uguali a se stessi, vivono, dipendono, cambiano rispetto alle società cui si adattano, hanno momenti di fioritura e momenti di difficoltà, e come afferma il titolo dell’incontro, hanno momenti di svolta. Noi ci troviamo in uno di questi momenti in cui qualcosa deve cambiare, in cui la tradizione dell’istituzione democratica se vuole permanere deve accettare la sfida del cambiamento. Allora, capite, provare ad orientarci in questo momento è un obiettivo ambizioso, e l’obiettivo dell’incontro di questa sera è sicuramente ambizioso, ma proprio per questo abbiamo invitato degli ospiti che sono sicuramente all’altezza di questa nostra ambizione. Sarò estremamente rapido nel presentarli, non per scortesia, ma solo perché sono tutti ben noti, sia al pubblico del Meeting sia al pubblico italiano e non solo. Innanzitutto, e lo ringrazio davvero tantissimo, è un amico stabile del Meeting ma questa volta proprio ha fatto una puntata, il professor Sabino Cassese, uno dei pochissimi giuristi italiani realmente di fama mondiale oggi e giudice emerito della Corte Costituzionale. L’altro ospite graditissimo è il professor Miguel Poiares Maduro, che è stato avvocato generale presso la Corte di Giustizia dell’Unione europea, è stato ministro nel Governo portoghese e attualmente professore all’Istituto universitario europeo. Infine, ringrazio moltissimo Antonio Polito, che è giornalista, saggista, attualmente editorialista del Corriere della Sera, con trascorso anche di senatore della Repubblica e io li ringrazierei tutti di cuore per aver accettato l’invito di questo dialogo. Allora, per avviare questa conversazione, io vorrei innanzitutto chiedere ai nostri tre relatori come vedono i caratteri di questa svolta democratica che sta vivendo l’Italia oggi, in particolare dopo questa prima svolta delle elezioni del 2018, svolta che ci ha condotti poi a questa ulteriore svolta, che è la crisi di Governo in cui ci troviamo adesso. Quali sono i fattori decisivi per capire il funzionamento o il mal funzionamento delle istituzioni democratiche? E inizierei questo primo round girando la domanda al professor Sabino Cassese, visto che il tema del nostro incontro evoca esplicitamente il titolo di un suo saggio recente, che si intitola La Svolta e in cui è affrontato direttamente l’argomento.

 

SABINO CASSESE:

La domanda, come avete sentito, è dove e come cambia la democrazia in Italia? Provo a riassumere in cinque punti il cambiamento a cui stiamo assistendo. Il primo punto riguarda la partecipazione politica attiva e passiva degli italiani. Ora, noi nella storia repubblicana siamo usciti da un trentennio in cui la partecipazione elettorale arrivava a punte intorno al 93%, siamo poi scesi stabilmente al 73% e, come sapete, nelle ultime elezioni per il  Parlamento europeo siamo intorno al 53 – 54%; in più, un’indagine dell’Istat dimostra che una partecipazione politica attiva, non quella alle elezioni ma più in generale la partecipazione politica attiva delle persone con più di quattordici anni, non va più dell’ 8%; mentre la partecipazione sociale è tre volte tanto e quella politica passiva coinvolge il 70% degli italiani. Questo vuol dire che noi siamo interessati alla politica da lontano, ma non amiamo metterci mano, partecipare attivamente. C’è un fenomeno, che fu già segnalato subito dopo l’unità in Italia da quel grandissimo studioso di storia della letteratura italiana che si chiamava Francesco De Sanctis, che è stato ministro dell’Istruzione nei primi governi dopo l’unità, che in un discorso del 1877 parlava di apatia politica e aggiungeva: “impotente a fare, attivissima a demolire”. E questa apatia politica, io credo dipenda in parte da noi, in parte dalla scarsità dell’offerta politica. Abbiamo un’offerta politica, cioè delle proposte che fanno i partiti all’elettorato, che non soddisfa i bisogni dell’elettorato che sono fondamentalmente i bisogni che riguardano il futuro. Questo secondo me è il primo dei cinque fattori di crisi. Il secondo fattore di crisi riguarda i partiti come organizzazione sociale. Attenzione, i partiti hanno due facce: sono un’organizzazione sociale, ma sono anche delle istituzioni statali, lavorano all’interno dello stato, c’è qualcuno che dice siano addirittura organi dello stato. Ora, se noi consideriamo gli iscritti ai partiti politici di oggi e li compariamo agli iscritti e ai partiti politici dell’epoca in cui la Repubblica è nata, cioè il ’46-’48, noi vediamo che la partecipazione, l’iscrizione ai partiti politici è passata da otto a uno. Badate bene che questo è accaduto in un’Italia che allora aveva circa cinquanta milioni di abitanti e che quindi aveva dieci milioni di abitanti in meno dell’Italia di oggi. Quindi, gli iscritti ai partiti che sono la prova della natura del partito come organizzazione sociale, come organizzazione della comunità in cui viviamo, questo numero di iscritti ai partiti è fortemente diminuito e quindi è diminuito il radicamento sociale dei partiti. Perché questo è importante? Vi leggo una frase scritta da un grandissimo storico tedesco: “I partiti sono un primo centro di raccolta e di filtraggio delle confuse aspirazioni popolari, una prima sintesi degli interessi contrastanti fondata sul terreno di comuni ideali”. Questa funzione dei partiti, per così dire di interprete tra la società e lo stato, è fortemente diminuita. Io ho qui la citazione di un brano di una dichiarazione fatta due giorni fa da un personaggio illustre, che è stato qui e che era al Governo, che ha detto: “Nella Lega non c’è dibattito, non c’è democrazia, decide un capo”. Questa affermazione vi dà conto del fatto che noi siamo in presenza di un’importante forza politica che si chiama partito, che secondo la Costituzione è un’associazione, in cui tuttavia decide una persona sola. Ora, l’importanza dei partiti si riesce a capire soltanto se si tiene conto di quanti voti ha bisogno un parlamentare per essere eletto in  Parlamento. Vi do dei numeri perché sono molto significativi: Tocqueville che era un parlamentare della prima metà dell’’800 in Francia fu eletto più volte nel  Parlamento francese con un numero di voti che oscillava tra 100 e 150, Francesco De Sanctis, che fu eletto diverse volte nel  Parlamento italiano del Regno di Italia, ebbe un numero di voti che oscillava intorno a 100/150. Quando l’allargamento del suffragio avvenne intorno agli anni ’80 dell’Ottocento, bastarono mille voti per eleggere un parlamentare. Oggi, per eleggere un parlamentare, c’è bisogno di un numero di voti che oscilla, a seconda dei collegi, tra 60mila e 300mila. Che cosa voglio dire con questo? Voglio dire che i partiti sono diventati con il tempo un intermediario necessario, perché da un lato c’è uno stato con i suoi sessantamila abitanti e dall’altro ci sono i suoi sessanta milioni di abitanti. Se non c’è un interprete, se non c’è un legame e cioè se non ci sono forme associative che costituiscono corpi intermedi come quelli dei partiti, tra lo stato, tra il paese reale e il paese legale, come si diceva una volta, non c’è la possibilità di formare una vera e propria rappresentanza. Il terzo motivo di crisi della democrazia oggi in Italia è quello derivante dalla scarsa comunicazione tra i due modi prevalenti di formazione dell’opinione pubblica. Oggi abbiamo una forma di creazione dell’opinione pubblica che è divisa in due: da un lato vi sono coloro che partecipano alla formazione dell’opinione pubblica nel modo tradizionale, si formano delle idee nelle classi dirigenti, queste si diffondo nella popolazione, ottengono un consenso, questo consenso attribuisce ai portatori di quelle idee un appoggio che dà ad essi la possibilità di essere eletti. Dall’altra parte esistono degli strumenti di formazione dell’opinione pubblica che sono completamente diversi e che si valgono fondamentalmente del web, di internet, della comunicazione come oggi si dice many to many, da molti a molti, ma se ne valgono in modo da creare una influenza continua sull’opinione pubblica, con delle formazioni di quelle che vengono chiamate bolle di seguaci, in cui chi lancia i messaggi dice alla popolazione quello che la popolazione vuole sentirsi dire, ma allargando continuamente il cerchio secondo una tecnica che nell’economia si potrebbe chiamare dell’interesse composto, cioè di qualcosa che nasce passo dopo passo. Voi vedete nel dibattito pubblico che non c’è nessuna comunicazione tra questi due mondi. Il primo mondo è governato dalle tecniche tradizionale di formazione dell’opinione pubblica, il secondo mondo è governato, per far dei nomi, da Casaleggio e da Luca Morisi. Il quarto motivo di crisi della democrazia è quello costituito dalla diminuzione del carattere dibattimentale delle decisioni, per cui prevale il decisionismo sulla deliberazione ragionata, motivata e discussa. Ho portato con me una citazione da un autore del 1500 (ma l’autore si chiamava Tommaso Moro e penso che sia noto a questo pubblico). Nel famoso libro Utopia, si legge che nel Consiglio vige l’abitudine di non discutere alcun argomento il giorno stesso in cui viene esposto, ma di rimandare alla seduta successiva. Questo affinché nessuno, dopo avere dato un giudizio affrettato, si ingegni per trovare argomenti che supportino una sua frase stupida, invece che per il bene della Repubblica. Ecco, io penso che questa riflessione su il tempo della proposta, il tempo della discussione e il tempo della decisione, sia una riflessione che noi oggi stiamo dimenticando, perché noi sentiamo sempre di più politici che dichiarano, propongono, affermano, non discutono, non dibattono, non ascoltano e quindi questo costituisce il quarto fattore di crisi della democrazia, perché la democrazia si nutre di discussione, di dibattito, di ascolto e quindi di quello che gli inglesi chiamano deliberation. L’ultimo (e con questo termino) è costituito dall’inquinamento del sistema parlamentare con elementi propri di quello presidenziale. Ora penso che quasi tutti abbiano visto il dibattito che c’è stato in  Parlamento sulle dichiarazioni del presidente del Consiglio dei ministri Conte, uscente. Se voi avete ascoltato il leader della Lega, voi avete l’impressione che abbia parlato per il  Parlamento o che abbia parlato solo in  Parlamento? In altre parole, quando parlava, lui argomentava per contraddire ciò che gli era stato imputato o invece per affermare qualcosa che era diretta al pubblico che lo ascoltava in televisione? Voi vedete: lì c’erano slogan, semplificazioni, evocazione di emozioni, non ragioni, non contro-argomentazioni e c’era principalmente soggiacente a quelle affermazioni, un’idea che aveva espresso qualche giorno prima in un discorso pubblico a Marina di Pietrasanta, in cui aveva esposto due idee. Primo: mi vogliono mettere sotto processo per la questione della nave di Open Arms, conto su di voi. Se un Governo che non risponde alla maggioranza attuale viene costituito, questo non risponde al volere del popolo e ci sarà da scendere in piazza per salvare la libertà e la democrazia. Che cosa c’è dietro queste affermazioni? Dietro a queste affermazioni c’è un disegno anti-costituzionale. Perché? Perché nel nostro ordinamento, la nostra democrazia è basata due livelli: un popolo che elegge un  Parlamento e un  Parlamento che supporta, che dà la fiducia a un Governo. Quindi la democrazia si svolge in Italia in due tappe. Il popolo non sceglie il Governo, sceglie un  Parlamento e poi il  Parlamento sceglie un Governo. Ma se si afferma invece che è il popolo che deve scegliere il Governo, voi capite bene che siamo in ambito concettuale completamente diverso e si confrontano tra di loro due concezioni interamente diverse della democrazia. La prima è una democrazia parlamentare, rappresentativa, in cui noi scegliamo non degli ambasciatori, noi scegliamo delle persone perché pensiamo che per le loro qualità e per la capacità del loro dibattito (il  Parlamento si chiama  Parlamento, perché si parla nel  Parlamento e si parla perché si cerca di convincere gli altri), per la loro qualità, riescono a raggiungere delle decisioni migliori di quelle che noi potremmo raggiungere in un numero così vasto, come sessanta milioni di abitanti in cui circa 51 milioni hanno diritto di partecipazione politica attiva alla collettività. Ecco, questa idea che viene a sovrapporsi all’idea costituzionale di democrazia, io la trovo pericolosa, perché fa nascere delle aspettative che non possono essere soddisfatte, perché non si è visto neppure nell’antica Atene un’agorà così ampia da poter contenere 51 milioni di votanti e quindi ritengo che la tensione che si viene a creare tra questi due concetti faccia sorgere dei conflitti che si potrebbero evitare se si accettasse l’idea che fu scelta dai costituenti di una democrazia basata sul  Parlamento e quindi su decisioni che il  Parlamento deve prendere, nello scegliere il Governo e quindi l’indirizzo politico del Paese. Queste le mie considerazioni.

 

ANDREA SIMONCINI:

Lucidissimo come sempre. Cinque linee per comprendere questa crisi. Io chiedo innanzitutto al professor Maduro e poi ad Antonio Polito: rispetto a questa analisi, c’è da aggiungere qualcosa e qual è il vostro punto di vista su questa crisi della democrazia italiana?

 

LUÍS MIGUEL POIARES MADURO:

La crisi politica italiana è anche legata a una crisi della democrazia, che è un problema comune in Europa. Delle cinque linee, delle cinque ragioni che il professore Cassese ci ha presentato, quattro sono legate a una trasformazione nella forma della politica, che ci porta a una politica dell’emozione e non della ragione, dove l’emozione prevale sulla ragione. Questa trasformazione della politica ha alla base due aspetti fondamentali. Il primo aspetto fondamentale è la perdita di fiducia nelle fonti di autorità, che è un problema non soltanto della politica, ma che nella politica è ancora più forte. In realtà lo vediamo anche in altri aspetti della vita e ha un rapporto con la trasformazione tecnologica, perché questa trasformazione tecnologica ci ha reso accessibile molta più informazione e spesso noi confondiamo l’avere accesso all’informazione con l’avere conoscenza. Sono cose diverse. Possiamo essere informati e avere informazioni su molte cose, non vuol dire che abbiamo la capacità di conoscerle anche con questa informazione. Il fatto che abbiamo questo accesso molto più ampio alle informazioni, va insieme con fattori anche congiunturali, quali l’insicurezza di cui parlava il professore Cassese, che è comune agli adulti e ai più giovani; è una insicurezza di natura diversa perché anche i più giovani, quando parli di disoccupazione, quando parli di decrescita economica, temono riguardo al futuro della loro vita. Questa insicurezza, questa idea di perdita di giustizia relativa, ha portato le persone ad avere meno fiducia nelle istituzioni tradizionale. Questo è un elemento un po’ congiunturale. Ma allo stesso tempo l’accesso a molti più meccanismi di informazione, ci rende artificialmente credenti che possiamo essere capaci noi di decidere, di pensare a tutto. Considerate questo esempio: qualche anno fa, se noi fossimo andati da un medico, il medico ci avrebbe fatto la diagnosi, ci avrebbe prescritto delle medicine e noi andando a casa saremmo passati in farmacia a prendere queste medicine. Oggi tutte le persone vanno dal medico, il medico fa la diagnosi e poi vanno a casa su Google a cercare per farsi una diagnosi alternativa. Questo che abbiamo nella vita quotidiana, avviene ancora di più nella politica, e testimonia questa perdita di valore delle autorità tradizionali. La democrazia per funzionare, per essere deliberativa, ha bisogno di mediatori, quelli che ci rendono informazione con credibilità, ma che sono anche fonti di autorità su quello che è vero, su quello che è una menzogna. Noi stiamo perdendo questi intermediari, che erano gli editori tradizionali della democrazia e allo stesso tempo stiamo diventando una democrazia che è molto più diretta, molto meno intermediata. Ma gli stessi meccanismi che contribuiscono a questa perdita di fiducia in questi mediatori tradizionali della democrazia, nella mia opinione, rendono ancora meno capace di funzionare una democrazia senza intermediari. Secondo fattore, che è anche quello che spiega anche questo decisionismo di cui parlava il professore Cassese, per esempio. Questa trasformazione tecnologica sta cambiando la dimensione cognitiva e deliberativa della democrazia, perché? Per diversi fatti, vi do alcuni esempi. Primo: noi oggi ci informiamo, ci organizziamo politicamente anche e in forme alternative ai partiti tradizionali o anche ai sindacati tradizionali, spesso usando le reti sociali. Le forme di organizzazione nelle reti sociali creano quelle che si chiamano bubbles, ossia spazi dove io, se vedo quelli che scrivono nella mia pagina di Facebook, penso che quasi tutti pensino come me. Sono perciò portato a rafforzare i miei pregiudizi, non a confrontare i miei pregiudizi, a dovere ascoltare opinioni contrarie. Ascoltando quelli che pensano come me, mi rinchiudo in comunità spesso molto più facili da organizzare, spesso anche con dimensione più grandi, ma meno plurali, con meno diversità. E questo rende la nostra società e la nostra forma di comunicazione e deliberazione politica, più polarizzata, più difficile da conciliare queste diverse preferenze. Il secondo aspetto è che una interazione che è fatta unicamente sulle reti sociali, su internet, è una interazione umana astratta. Una delle cose che sicuramente tutti quelli che usano la rete sociale sanno, è che il discorso nelle reti sociali è molto più violento che il discorso in un’assemblea come questa. Poiché stai comunicando con qualcuno che è un’astrazione, è più facile fare un discorso violento, duro, di quando ti confronti direttamente, umanamente con qualcuno. Anche questo contribuisce a questa radicalizzazione. Il terzo aspetto è la velocità. Noi oggi sappiamo con la scienza del comportamento che uno dei problemi della decisione è l’esempio di Moro e dell’Utopia, la velocità ci porta ad essere irrazionali, a decidere in base ai nostri pregiudizi e non secondo una forma deliberativa. Anche questo, questa rete sociale, contribuiscono. Questo naturalmente non è soltanto un problema italiano, è un problema in tutta l’Europa e in tutto il mondo. E questo cambiamento nella forma politica che ha luogo oggi, ci sta portando a una politica che è molto più dominata dalla dimensione emotiva che razionale.

 

ANDREA SIMONCINI:

Grazie Miguel. Tra l’altro, mentre parlavi, mi veniva in mente che sul tema delle bubbles, delle bolle, c’è una mostra dedicata qui al Meeting. Antonio Polito.

 

ANTONIO POLITO:

Grazie innanzitutto. Voglio dire che l’editore del libro di Sabino Cassese è stato furbissimo, perché chiamare un libro sulla vicenda politica italiana “La svolta”, ti va bene sempre per i prossimi vent’anni, perché siamo già alla ri-svolta, rispetto al libro…

 

SABINO CASSESE:

Antonio, il merito è tutto mio, perché sono io che ho fatto il titolo.

 

ANTONIO POLITO:

Ah, l’hai fatto tu il titolo! Si vede che scrivi sul Corriere della Sera, ha preso una tua abitudine a saper fare i titoli. Volevo anche dire che poi in realtà, la svolta (Cassese mi corregga se sbaglio) è in qualche modo anche metafora di crisi, perché crisi nel senso etimologico del termine è un cambiamento, una grande trasformazione, una separazione, tra le cose che finiscono e le cose che nascono. Democrazia in sé è una parola ambigua, nel senso che oggi noi facciamo del populismo l’opposto della democrazia, ma se ci pensate la radice etimologica di democrazia è demos e quella di populismo è populus, cioè praticamente la stessa cosa. L’appello al popolo, la voglia, l’intenzione di dare il potere al popolo può essere declinato in molti modi e quella di cui noi parliamo in genere, quando definiamo la democrazia, è la democrazia liberale, la democrazia rappresentativa. Ma il pensiero liberale in origine non era democratico, o almeno, era elitario, aveva il voto per censo. Prima giustamente Cassese ricordava quanti voti ci volevano per essere eletto in un  Parlamento liberale. La democrazia diventa quella che conosciamo, cioè sistema di Governo delle società di massa, più di recente, con la irruzione delle masse nella vita politica, attraverso i partiti di massa e questa forma di democrazia vive, conosce una grande crisi, una evidente crisi. Ai molti motivi che sono stati addotti, vorrei aggiungerne un altro o un complesso di altri motivi che sono questi: una formidabile migrazione di poteri dalle democrazie rappresentative degli stati-nazione verso altri centri di potere, che è avvenuto nel secondo dopoguerra in poi. Emigrazione di poteri verso l’alto, cioè verso organizzazioni internazionali, multinazionali (pensate non soltanto all’Unione europea, ma pensate anche al Wto, per il commercio, oppure pensate alle alleanze militari per l’uso delle forze armate). Ci sono cose che non si possono più decidere nel  Parlamento com’era nella forma classica della democrazia rappresentativa. O emigrazione di potere verso l’esterno (pensate ai mercati, pensate alle multinazionali, che sono organizzazioni economiche che non dipendono se non in minima parte dalla legislazione nazionale, o che addirittura la evadono, come è il caso delle Big Tech, delle grandi aziende del Tech, della rete, le quali pagano le tasse dove vogliono loro, cioè praticamente non le pagano). Oppure emigrazione verso il basso, il fenomeno del decentramento del potere. Io penso che un giorno andrà fatta una riflessione seria su che cosa ha cambiato, per la vita politica italiana e per la democrazia italiana, l’istituzione delle Regioni, l’istituto regionale. Secondo me è stato un punto di svolta da molti punti di vista, anche negativi. Quindi questa emigrazione di poteri ha dato l’impressione, devo dire la verità, giustificata, ai cittadini di aver perso potere, cioè che il sistema rappresentativo si è inceppato. Ora questo è avvenuto in molte democrazie, in molti Stati e l’Italia ha tentato di affrontare questo problema fin dagli anni Ottanta, perché non dimentichiamo che dagli anni Ottanta sono in corso tentativi di aggiustamenti istituzionali, cioè abbiamo tentato di affrontare questo problema attraverso un adeguamento delle istituzioni della democrazia rappresentativa. Nel nostro sistema, infatti, ci sono dei problemi che oggettivamente vanno risolti, come la forza dell’esecutivo, la democrazia decidente, come si chiama il bicameralismo che è perfetto e che certamente è un sistema che rallenta e altri problemi. Abbiamo tentato fin dalla commissione Bozzi del 1983, di affrontare questi problemi. Dal 1983 non so quanti anni sono passati, e questi tentativi non hanno dato esiti. Allora questa crisi si è trasformata in una crisi dei partiti, cioè si è riversata sullo strumento fondamentale della democrazia rappresentativa, cioè i partiti. Quello che è successo in Italia, da questo punto di vista, è senza paragoni in Europa: la distruzione di partiti politici e la rapidità con cui muoiono e nascono. Ed è una cosa che continua, non è che è finita, se pensate che finché si chiamava Lega Nord, la Lega era il partito più antico d’Italia, adesso neanche loro lo sono più perché hanno cambiato nome. Probabilmente la cosa più antica, più resistente e duratura che esiste è il Meeting, perché ha quarant’ anni. Partiti quarantenni non ce ne sono più. E poi la preoccupantissima, a mio modo di vedere, ossessione del cambiamento delle leggi elettorali: nel giro di vent’anni, “Mattarellum”, “Porcellum”, “Rosatellum” ecc. ecc. tutte cucite sul corpo di questi partiti in crisi che cambiavano nome. Prima abbiamo bruciato il partito del leader fondato sulla televisione, adesso siamo al partito del capo, fondato sulla rete, sul twitter, e il prossimo passaggio che ci viene proposto è direttamente il bonapartismo, cioè una soluzione da pieni poteri. Napoleone III era un presidente della Repubblica, che a un certo punto disse: «Scusate, ho pochi poteri datemeli tutti, datemi i pieni poteri» e fece un appello al popolo, ottenne il plebiscito e divenne Imperatore. Questo è il bonapartismo, non è una soluzione così originale, insomma così moderna, è una cosa che si è già vista. Quindi, di fronte a questa crisi, si può considerare il rischio che la democrazia sia reversibile? Perché questo secondo me è un grande tema del momento, che è giustificato discutere in ragione della crisi della democrazia che stiamo vivendo. Ora che sia reversibile la democrazia, è storicamente più che possibile, perché la democrazia è stato un sistema scelto dagli esseri umani per il Governo per periodi molto brevi della storia. Si è preferito per periodi molto più lunghi altri sistemi: la tirannia, la dittatura, l’oligarchia, il Governo degli ottimati, l’aristocrazia. Tutti sistemi che hanno avuto più successo storico. Quindi non è che tendenzialmente gli uomini preferiscano autogovernarsi, anzi, molto spesso preferiscono delegare la propria libertà. L’esercizio della libertà è un esercizio molto faticoso, molto impegnativo e il rischio, il ritornello, la sirena di chi ti dice «rinuncia a un pezzo della tua libertà e starai meglio, la vita ti sarà più semplice, guadagnerai di più potrai avere meno legami, essere legato meno dalle leggi, dai regolamenti e così via», è una cosa che funziona, funziona sempre. In più c’è una novità nella nostra epoca: i sistemi autoritari, non democratici, cioè basati sulla decisione dell’uomo solo a cui faceva riferimento prima Cassese, sono stati particolarmente inefficienti nel periodo di storia che va dalla fine della seconda guerra mondiale all’inizio del nostro secolo. Questo periodo è stato invece caratterizzato in Europa da una formidabile estensione di sistemi sociali, di welfare, di assistenza pubblica e di intervento pubblico nell’economia per trent’anni con risultati straordinari. Nelle varie forme in cui questo è avvenuto, si parla dei trenta gloriosi anni per giudicare quest’epoca che dopo la guerra ha consentito intanto la rinascita e la ricostruzione di grandi Paesi come la Germania e l’Italia, ma poi un’eccezionale successo economico dell’Europa. Ora in questo periodo di cui sto parlando, l’organizzazione del capitalismo e la tecnologia dell’epoca erano incompatibili con i sistemi autoritari, perché la centralizzazione non rendeva efficienti l’esercizio delle funzioni del capitalismo, della comunicazione ecc. L’URSS è crollata perché non era in grado di gestire dal centro tutti i dati di cui doveva disporre per gestire una società e una economia così complessa. Invece le società decentrate, cioè fondato sul pluralismo e dunque sulla democrazia, si sono mostrate più efficienti. Quella americana innanzitutto, quella statunitense, una società in cui la decisione è decentrata. Ci sono vari livelli di decisione e non è tutto centralizzato. Ora nell’epoca della tecnologia, dei dati, questo fatto non è più vero. Oggi un sistema autoritario può essere più efficiente di un sistema a democrazia, a decisione decentrata. Il caso ce l’abbiamo davanti agli occhi: la Cina. La Cina è un sistema autoritario, centralizzato, che è anche estremamente moderno. Una delle ragioni per cui si diceva l’URSS prima o poi non reggerà la competizione col capitalismo occidentale era questa: non regge la sfida della modernità, non riesce a diventare moderna perché è un sistema centralizzato. Oggi abbiamo davanti agli occhi l’esempio di un sistema centralizzato che regge la sfida della modernità e anzi la può addirittura guidare. Tanto per dare un’idea, se noi vogliamo gestire un’emergenza sanitaria, avere una centralizzazione estrema dei dati, è più efficiente che non avere una centralizzazione estrema dei dati. Quindi noi oggi abbiamo una tecnologia che è congruente, potenzialmente favorevole all’autoritarismo. Quindi secondo me, oltre che per le ragioni che diceva Maduro, su cui poi magari voglio tornare, questa è la grande ombra dietro la democrazia e il grande rischio che ci deve quanto meno spingere a fare molti dibattiti come questo, per discutere la crisi della democrazia e capirne le cause. Grazie.

 

ANDREA SIMONCINI:

Estremamente interessante. Tre punti di vista e tre affondi sul tema della crisi della democrazia uno più interessante dell’altro e io mi aggancerei a questa domanda implicita nella parte finale dell’intervento di Antonio Polito. Sulla reversibilità dell’esperimento democratico. Interessantissima questa idea che una certa evoluzione tecnologica possa in qualche maniera rendere più agevole questa nuova forma di totalitarismo. Allora in questo secondo giro, vorrei provare a cambiare un po’ la messa a fuoco, l’ottica. Siamo stati un po’ più sulla vicenda italiana, ma noi oggi siamo dentro un sistema, che è quello europeo, in cui si è tematizzata per la prima volta la crisi della democrazia e la necessità di cambiarla. Noi siamo dentro questo sistema. Non penso che una certa sconfitta delle forze cosiddette antieuropeiste alle ultime elezioni del Parlamento europeo possa far star tranquilli sul fatto che il sistema europeo, l’Unione europea non sia uno di quei casi di reversibilità dell’esperimento. Allora io qui vorrei partire invece da Miguel Maduro, vista la sua grande esperienza del sistema europeo. Questa crisi vista, dal punto di vista del sistema europeo, del grande progetto democratico europeo, cosa ha da dirci?

 

LUÍS MIGUEL POIARES MADURO:

Credo che la questione che preoccupa molti di noi è sapere in primo luogo se l’Unione europea debba essere vista come parte della sfida alla democrazia o come parte della risposta alle sfide che la democrazia ha oggi. E per cercare di dare una risposta a questo, voglio riprendere qualcosa che entrambi degli interventi hanno detto: che sussiste oggi una contrapposizione fra democrazia liberale o costituzionale e volontà popolare, perché credo che parte delle difficoltà dell’Unione europea possono essere comprese come parte di questa sfida alla democrazia liberale e alla democrazia costituzionale. Anche questo spiega il carattere reversibile della democrazia. La democrazia liberale o la democrazia costituzionale come l’ha definita Sabino, è una forma di protezione della sostanza della democrazia. Perché, spesso, al totalitarismo si arriva con la strada della democrazia, con quel tipo di argomenti che entrambi hanno presentato. Quelli che dicono «io rappresento la volontà popolare» presumono in primo luogo che la volontà popolare non sia prodotto di un pluralismo politico, che la volontà popolare sia qualcosa di fissato e che ci sia qualcuno che rappresenta e che ha il monopolio su questa volontà popolare. In un secondo momento essa viene poi confrontata con quelli che sono strumenti della democrazia costituzionale, liberale, che sono invece presentati come dei limiti alla democrazia: il potere giudiziario, i giornalisti, il potere parlamentare. Ed è questo che poi fa sì che questo argomento, essendo presentato come un argomento democratico, ci porti ad eliminare questi contropoteri che sono fondamentali per preservare la democrazia. L’Unione europea è in parte vittima dello stesso procedimento, perché l’Unione europea, all’origine, è anche un progetto razionale per limitare i rischi delle democrazie nel nazionalismo, delle democrazie che abbiamo conosciuto nell’Europa. Parte dell’opposizione all’Unione europea è anche parte di questo progetto di contrapposizione a tutto quello che è presentato come una limitazione alla volontà popolare nazionale, essendo presupposto di questo che la volontà popolare possa essere soltanto definita a livello nazionale, a livello di uno Stato. Questo non è più vero in un contesto dove esiste l’interdipendenza oltre i nostri singoli Stati. E questo per me è il secondo grande cambiamento della democrazia e della politica, che è un cambiamento nello spazio della politica. La politica segue normalmente l’interdipendenza, la politica è la forma di regolazione delle conseguenze sociali della nostra indipendenza. Tradizionalmente nel contesto di uno Stato, definito in un territorio, quella interdipendenza, che risulta dal fatto che tutti siamo parte di un certo territorio, è regolata dalla politica e dentro la politica, la democrazia è la forma più legittima di regolazione di questa interdipendenza. Quello che abbiamo oggi è che in un numero crescente di questioni, Polito ha parlato di questo, siamo interdipendenti oltre il nostro Stato. L’idea di autogoverno, che è l’idea base della democrazia, non è più efficacemente concretizzabile soltanto dentro uno Stato, perché noi non siamo più suscettibili di autogoverno. Quello che succede in Italia, come quello che succede in Portogallo, dipende da decisioni che sono prese in altri Stati, in altri comunità politiche, in altre democrazie. Quando siamo così interdipendenti socialmente e economicamente in tante materie, necessariamente, questa interdipendenza deve essere regolata e l’unica forma legittima di farla è la democrazia; ma la democrazia nazionale è una finzione come forma di regolazione di questa interdipendenza e questa è la difficoltà che abbiamo. L’Unione europea, da un lato contribuendo a questa interdipendenza, è parte di questa sfida alla democrazia, compresa in un senso nazionale, ma da un altro lato è l’esperimento con più probabilità di successo per sviluppare forme democratiche di regolazione di questa interdipendenza oltre il nostro Stato. Queste esternalità fra comunità politiche dipende dal il fatto che in un numero crescente di materie, gli agenti che determinano quello che succede, sono gli agenti economici e sociali che non sono più gli agenti controllabili, scrutinabili da parte di uno Stato: l’esempio delle grandi imprese tecnologiche che facevamo prima. Apple. Google scelgono dove pagare le loro imposte, ma anche scelgono la forma di regolazione di internet e solo loro in pratica, perché se uno Stato individuale cerca di regolare Google o Apple, possono perfettamente dire che va fuori dalla sua giurisdizione. La questione su cui l’Unione europea deve allora concentrare gli sforzi, è come sviluppare una forma politica oltre lo Stato che, senza eliminare le democrazie nazionali, riesca a rispondere a questo bisogno di politica oltre lo Stato. L’altra alternativa è una finzione, è dire alle persone: siete pronti ad abdicare di tutti i vantaggi che vengono dall’interdipendenza? Perché è possibile, anche oggi è possibile cercare di avere, difficile, ma possibile, di cercare di avere comunità nazionali totalmente isolate, non interdipendenti, ma questo vuol dire abdicare a tutto quello che abbiamo con l’interdipendenza. Kant diceva che questa interdipendenza produce un interesse comune che garantisce la pace. Allora se noi non siamo pronti a ritornare ad uno stato senza interdipendenza, se vogliamo i vantaggi di questa interdipendenza, l’unica domanda seria politicamente è come sviluppare delle forme politiche corrispondenti a questi livelli di interdipendenza oltre il nostro Stato. Non fare questo, che è quello che fanno alcuni populisti, l’unica cosa che offrirà alle persone è l’individuazione di un colpevole, mai una soluzione.

 

ANDREA SIMONCINI:

Grazie, lucidissimo. Molto interessante l’analisi che ci offre Miguel su questa inevitabile interdipendenza. Antonio Polito.

 

ANTONIO POLITO:

Si, ha perfettamente colto l’essenza della difficoltà dell’Unione europea, l’evidente difficoltà dell’Unione europea. Tra l’altro mi piace ricordare, a proposito di quello che diceva su quali sono i poteri che disturbano coloro che ambiscono a decidere da soli, che Orban e Kaczyński fanno leggi contro i giudici, contro i giornali, conto i media e contro le Ong, che è l’ultimo arrivato tra le vittime di questa pressione delle democrazie illiberali, come sono state definite. Io sono europeista, lo dichiaro subito perché sarò così critico sull’Europa che non vorrei che qualcuno capisse fischi per fiaschi. Io sono europeista per la ragione che ha detto Maduro, perché penso che davanti a questa dimensione, quella che abbiamo di fronte, soltanto una democrazia sopranazionale possa fronteggiarla. Quindi io sono un europeista, però dico anche che noi europeisti italiani, per pigrizia e per convenienza, abbiamo spazzato la polvere sotto il tappeto troppo a lungo. Nel 2011 Enzensberger, che è un europeista quanto noi, persona non tacciabile di euroscetticismo o peggio di populismo, fece un libretto secondo me aureo che si chiamava Il mostro buono, in cui segnalava con estrema lucidità il rischio che il cosiddetto deficit democratico stesse accumulando nelle opinioni pubbliche europee, cioè la sensazione dei cittadini di essere stati messi sotto tutela, perché quel livello di democrazia sovranazionale che Maduro chiedeva per reggere la sfida, l’Unione europea non era mai riuscito a produrlo. E perché? Perché quando è nata, è nata su un sistema, su una base di ideali, ma anche per rispondere a un bisogno molto più concreto che, a proposito di un’altra organizzazione internazionale la Nato, era stato definito brutalmente così: tenere gli americani dentro, i russi fuori e i tedeschi sotto. Nel momento in cui i tedeschi non stanno più sotto perché cade il muro di Berlino, non c’è più il comunismo, la Germania si unifica, la questione tedesca ripropone al centro dell’Europa il problema secolare del suo rapporto con l’Europa e l’Europa sceglie una strada. Sceglie una strada che, secondo me, si è rivelata inadatta e cioè quella di far pagare alla Germania l’unificazione con l’euro, cioè di sostituire, di imbrigliare la potenza tedesca mettendo in comune la moneta, la moneta tedesca. È una strada dettata dalla Francia, che segue il passo dell’integrazione europea e anche l’indirizzo verso cui l’integrazione europea va: più che la politica, cioè la democrazia, la moneta. Questa è stata la scelta che è stata fatta e più volte la Francia ha segnato questo punto di esistenza sulla costruzione di una democrazia soprannazionale. Pensiamo al vertice di Nizza, dove non si riesce a risolvere il problema del peso del voto a maggioranza, come si vota ad ogni democrazia, perché la Francia non vuole perdere la sua parità di potere con la Germania; al referendum del 2005: la Costituzione europea non c’è perché i francesi l’hanno bocciata nel referendum del 2005, aprendo una crisi nelle istituzioni che, secondo me, non si è ne ancora conclusa; alla questione sulle radici giudaico-cristiane nella Costituzione: è la Francia che pone il problema, e ferma quel tentativo di dare un sistema di valori, una base culturale alla costruzione europea. È rimasta la moneta, molto sola, per fortuna negli ultimi anni splendidamente gestita da un italiano. In più si è aggiunto quello che io reputo essere stato un insuccesso funzionale, perché l’Europa, anche quando non riusciva a funzionare, neanche prima, come democrazia sovranazionale, però risolveva dei problemi, come il problema del mezzogiorno italiano. A lungo l’Europa è stata fondamentale nella convergenza delle economie periferiche del continente, quindi anche del mezzogiorno italiano presso, quelle centrali. Invece nel caso della crisi del debito, nel caso delle crisi bancarie, nel caso della disoccupazione di massa, nel caso della sicurezza, per esempio la lotta al terrorismo, l’Unione europea non si è dimostrata, a mio parere, all’altezza di dare quella convenienza ai cittadini. Stiamo tutti insieme, perché? Perché combattiamo meglio il terrorismo. Stiamo tutti insieme, perché? Perché abbiamo un sussidio di disoccupazione europeo. E questo è stato avvertito, ed è giusto secondo me. Noi europeisti italiani che, per fortuna, siamo ancora in maggioranza, perché era sembrato in un cero momento che i cosiddetti sovranisti potessero anche in Italia, come in Inghilterra, determinare una maggioranza dei cittadini italiani per l’uscita dell’Europa, che invece non solo non si manifesta nei sondaggi ma anzi nel tempo si sta affievolendo e infatti i sovranisti, cosiddetti, hanno smesso di chiedere l’uscita dall’Europa, il che vuol dire che i sondaggi consigliano di non farlo, ma noi europeisti italiani abbiamo vissuto a lungo chiedendo aiuto all’Europa, cioè utilizzando l’Europa come un vincolo esterno per curare l’Italia dei suoi mali, della politica fondamentalmente, tradizionali: sperpero, spesa pubblica eccessiva, clientelismo etc. Attenzione: c’è l’Europa dicevamo noi, e ci è andata bene qualche volta, per esempio durante il periodo del Governo Ciampi, quando abbiamo raggiunto l’euro, quando ci siamo inseriti fin dall’inizio nell’euro; oggi probabilmente bisognerebbe invertire le parti e dovremmo essere noi europeisti a dare una mano all’Europa, perché l’Europa, secondo me, ne ha bisogno. Il progetto europeo è in grave difficoltà e crisi e io non credo affatto che l’evidente insuccesso dei sovranisti alle elezioni corrisponda a un successo degli europeisti, perché i due partiti maggiori che hanno costruito fin qui l’Europa, popolari e socialisti, sono stati tutti e due pesantemente puniti dal voto.

 

ANDREA SIMONCINI:

Grazie. Professor Cassese ci sono state due stimolanti ricostruzioni dell’Europa attuale. Il tuo punto di vista.

 

SABINO CASSESE:

La domanda chiave è quella che ci ha posto Antonio Polito poc’anzi: la democrazia è reversibile, cioè, messa in altri termini, è una crisi mortale o una crisi di crescita? Io ho molte speranze, penso che sia una crisi di crescita e i motivi sono due, sono già stati accennati da Miguel Poiares Maduro e vorrei tornarci sopra. Primo: noi stiamo parlando di una democrazia, ma noi non viviamo in una democrazia, noi viviamo in molte democrazie. In Italia abbiamo ottomila comuni e noi votiamo per i consigli comunali, venti Regioni e noi votiamo per i Consigli regionali, uno Stato e votiamo per il Parlamento nazionale, l’Unione europea e noi votiamo per il Parlamento europeo. Quindi in realtà il potere pubblico, oltre ad essere separato al centro, secondo il modello tradizionale di Montesquieu è anche distribuito a livelli diversi in modo tale, e qui viene il tema toccato da Miguel Poiares Maduro, che vi siano delle interdipendenze. Una Regione non può darsi certi ordinamenti perché lo Stato interviene e corregge, lo Stato non può fare certe leggi perché altrimenti interviene l’Unione europea che corregge lo Stato. Cito soltanto il caso della Polonia e dell’Ungheria, che sono notissimi perché sono stati menzionati anche dai giornali, quindi il sistema delle interdipendenze è un sistema che si basa su questa pluralità di democrazie dietro alle quali ci sono pluralità di volontà espresse dal popolo. Badate bene, dietro a questo c’è anche la tentazione di tanti politici di far valere i risultati di una consultazione popolare ai fini di un altro tipo di Governo come, per esempio, dati i risultati della consultazione del Parlamento europeo, qualche forza politica ha cercato di fare passando all’incasso, capitalizzando, ha scritto il presidente del Consiglio dei ministri, capitalizzando un capitale che lui aveva ottenuto non per il Parlamento nazionale ma per il Parlamento europeo e che quindi potrebbe non corrispondere al capitale che potrebbe ottenere nel Parlamento nazionale con elezioni politiche nazionali. Questo è il primo punto che mi fa essere ottimista: noi abbiamo un sistema di interdipendenza che consente delle forme di correzione, per ora insufficienti, ma delle forme di correzione. Il secondo motivo per cui io sono ottimista è che la maggior parte delle democrazie nel mondo nasce dopo la seconda guerra mondiale, e nasce su una base chiara, che qualche grande studioso ha chiamato “orrore per le ecatombi”. Ricordiamocelo, i morti per la prima e la seconda guerra mondiale sono stati sessanta milioni. È scomparsa, sul solo territorio europeo per non calcolare i morti fuori dal territorio europeo, è scomparsa una nazione grande quanto l’Italia o quanto la Francia. L’orrore per le ecatombi, che erano state prodotte dall’affermazione di semi autoritari, vedi l’impero austro-ungarico, vedi Hitler, vedi Mussolini, ha prodotto uno sviluppo della democrazia che in qualche modo noi uniamo con altri due elementi che sono sviluppo economico e pace. Quindi, questa alleanza strategica nel mondo tra democrazia, pace e benessere economico, secondo me, è un elemento fondamentale di forza della democrazia.

 

ANDREA SIMONCINI:

Grazie, e allora io proprio sull’onda di questa osservazione di Sabino Cassese cioè crisi mortale ovvero crisi di crescita della democrazia, vorrei innescare un ultimo round tra i nostri ospiti. La domanda è: qual è il punto di ripartenza di questa crescita, di questa svolta di democrazia come crescita? C’è un nesso tra questa crisi della democrazia in senso di crescita, di svolta positiva e la questione educativa? È possibile sciogliersi dall’interdipendenza tecnologica? Qui c’è un grande problema che è la questione dell’educazione cioè di come si costruiscono questi soggetti allora io volevo partire in quest’ultimo round proprio da Antonio Polito. Di recente è stato approvato un disegno di legge per cui l’educazione civica è stata reintrodotta come obbligatoria, assieme all’educazione alla sostenibilità ambientale e alla cittadinanza digitale. Basta questo? C’è un nesso tra questo sviluppo, questo tema della coscienza e dell’educazione e questa crisi che viviamo, in modo tale che possa diventare una crescita per il nostro sistema democratico?

 

ANTONIO POLITO:

Ovviamente un nesso c’è. Agli inizi degli anni Duemila, quando uscirono una serie di libri sulla crisi della democrazia e uno abbastanza celebre che si chiamava La post-democrazia di Colin Crouch, proposi a Dahrendorf, sociologo anti tedesco, di fare un libro intervista sullo stesso tema e la frase che più mi colpì delle cose che lui mi diceva, che si adatta molto bene a quello di cui stiamo discutendo questa sera è: «Non può esistere una democrazia senza i democratici». Un futuro della democrazia senza cittadini informati, liberi e desiderosi di esercitare il loro potere, cioè senza dei democratici, non i democratici di Zingaretti, non può esistere. Quindi il tema della crisi educativa è cruciale anche nella vicenda della democrazia, perché io credo, ma credo che lo pensiamo tutti, che il Paese non lo fanno i politici, non lo fanno nemmeno i governi, lo fanno le famiglie, lo fanno le comunità, lo fanno i figli, lo fanno come vengono fuori gli italiani, come ragionano, come pensano, come si comportano gli italiani. Il fondamento della crisi educativa che noi viviamo, l’esigenza educativa che noi viviamo da un po’ di tempo, è quello dell’interruzione della trasmissione di sapere e di valori da una generazione a un’altra che, mi spingerei a definire tradizione, perché tradizione letteralmente vuol dire “tradere”, appunto, trasmettere. È una crisi di tradizione, è una crisi di trasmissione di valori che ha interrotto la comunicazione tra generazioni, da qui anche un certo rifiuto dei vecchi che vediamo in giro, un giovanilismo che tende a disprezzare i vecchi. Questo che cosa ha prodotto? Ha prodotto un indebolimento molto forte della comunità, cioè dell’idea che i nostri destini sono interconnessi, che noi condividiamo il nostro destino personale con quello degli altri. È esattamente questo il messaggio che noi oggi vediamo diffondersi e avere successo, l’idea che il mio bene non può comportare anche il bene di qualcun altro, che la vita pubblica, la vita sociale sia un gioco a somma zero, in cui c’è una certa torta da dividersi e la politica consiste nel tagliarsi la fetta più grossa per me, per i miei amici o per il mio stato sociale. Il tema di quota cento, da questo punto di vista, è straordinario, perché dice moltissimo di questa idea. Questo è il disvalore che oggi abbiamo di fronte, che riguarda molti ambiti, dalla questione dei migranti a quella del reddito di cittadinanza, l’idea che non esista un bene comune, che il mio bene derivi dal successo che può avere nei confronti del bene degli altri. Questo produce anche quel senso di rancore di cui ha parlato il Censis. Chiunque di noi frequenti un social sulla rete, sa di che cosa parlo, qual è il livello di rancore, certe volte di odio, che si manifesta nei confronti delle opinioni diverse. Esso nasce appunto da questa esplosione del senso di comunità. Questo secondo me è l’essenza della questione educativa, poi è educazione civica, educazione ambientale, educazione religiosa, ma la crisi educativa che abbiamo di fronte, è questa: l’illusione che l’egoismo sociale possa risolvere i problemi. Da questo punto di vista, quindi, ho letto che Vittadini qualche giorno fa ha detto: «Nessuna maggioranza da sola ce la fa». Secondo me è perfettamente vero, non è una questione politica, la politica è una gestione del possibile, è un’arte del possibile, è una gestione della cosa pubblica che dovrebbe ottenere il risultato massimo di non creare danni, molto di più di questo non può fare. Pensate alla ricostruzione dopo la guerra, ecco un caso in cui si era affermata l’idea del bene comune, della condivisione dei destini, del fatto che la crescita complessiva del Paese era futuro, progresso, miglioramento delle condizioni materiali e morali di ognuno di noi. Se non si riaccende un sentimento non dico pari a quello, perché quello derivava da una tragedia nazionale, ma analogo a quello, se non c’è qualcuno che si impegna, che si batte per questo tipo di concessione della comunità, della vita comune, non ci sarà comunità, e di conseguenza anche la politica sarà soltanto una lotta tra bande.

 

ANDREA SIMONCINI:

Grazie. Professor Maduro.

 

LUÍS MIGUEL POIARES MADURO:

La questione se è possibile educare qualcuno per la democrazia, è una questione molto difficile e molto sensibile anche. Perché da un lato è fondamentale che tutti noi, tutti i cittadini debbano, essere educati, avere le competenze necessarie per l’esercizio della democrazia, dall’altro lato, quando parliamo dell’educazione alla cittadinanza, ci ricordiamo che molti regimi totalitari usano questi strumenti per imporre una certa ideologia. Credo che sia fondamentale pensare che tipo di competenze possiamo offrire alle persone e io direi che la prima è sollevare la questione dell’importanza della dimensione morale dell’essere umano, perché la democrazia, essendo luogo di scelte, è luogo di moralità per definizione. Allora il primo punto sarà questo: discutendo l’importanza della dimensione morale dell’esercizio della democrazia, naturalmente avremo migliori cittadini, poi ciascuno discuterà, scoprirà con libertà la sua moralità, ma è importantissimo questo dibattito. Secondo, quando Sabino raccontava il suo ottimismo, allo stesso tempo io mi ricordavo di una ragione per essere un po’ pessimista. Pochi giorni fa ho rivisto un’opera prima di Jean Renoir che è La grande illusione, che è basata sull’opera di un britannico che diceva come la guerra era diventata negli anni Trenta inconcepibile. E questo mi ricordava un’altra cosa di un grande intellettuale portoghese, scritta nel 1930, l’anno di apertura dell’Accademia della scienza a Lisbona, che finiva dicendo che le cose in Europa non stavano andando bene, ma che non ci sarebbe stato il pericolo di una nuova guerra, dopo gli orrori della prima guerra mondiale. E La grande illusione, il film di Jean Renoir, due anni prima della seconda guerra mondiale, era basata sullo stesso presupposto: dopo quello che abbiamo vissuto in Europa, sicuramente non avremo più una guerra mondiale e due anni dopo abbiamo avuto una guerra ancora peggiore. E allora l’importanza cella storia mi sembra ancora più evidente, perché dobbiamo avere presente questo: io oggi, quando parlo con persone di altre generazioni, ma anche della mia generazione, mi fa un’impressione positiva comprendere quanto per loro sia inconcepibile l’idea di una guerra, ma allo stesso tempo mi preoccupa, perché questa idea che la guerra sia impossibile, a volte dà l’abbrivio per fare dei passi in una dimensione che è quella dimensione che ci ha portato alle altre guerre in Europa. Non dobbiamo dare per totalmente garantita l’idea che non ci sarà più una guerra in Europa, perché è questo che ci ha portato anche a fare degli sbagli nel passato. Allora l’importanza della storia è un altro aspetto che mi sembra fondamentale. Un terzo punto riguarda le competenze, la competenza del cittadino. Noi non dobbiamo confondere la politica soltanto con l’intrigo politico. Quando sono stato al Governo in Portogallo ho visto che i commenti politici per il 90 per cento riguardano l’intrigo politico e si disinteressano delle politiche pubbliche, di quello che veramente è importante per le persone, per la società, per la qualità delle nostre politiche pubbliche.

 

ANDREA SIMONCINI:

Ma questo in Portogallo, però…

 

LUÍS MIGUEL POIARES MADURO:

Mi sa che Portogallo e Italia hanno qualche problema in comune. Il quarto punto è l’importanza del rendere visibile questa interdipendenza, basta rendere visibile questa interdipendenza per rendere le perone coscienti e competenti per capire, comprendere, la necessità di queste forme politiche oltre il nostro Stato. E l’ultimo punto ha a che vedere con le nove forme di costruzione della verità, perché uno degli aspetti interessanti nella democrazia è che non esiste democrazia che non sia basata nella verità, ma la democrazia è anche un sistema pluralistico di scoperta della verità. E allora il segreto è trovare dei meccanismi che siano consensuali, credibili, di costruzione comune di questa verità che diventa la verità pubblica. E in rapporto a quello che ho detto prima, questo mi sembra fondamentale: aumentare le competenze delle persone in questo mondo digitale per riuscire a stabilire di nuovo forme credibili di costruzione della verità.

 

ANDREA SIMONCINI:

Grazie, grazie Miguel. Sabino Cassese a chiusura.

 

SABINO CASSESE:

Partiamo dai dati. Siamo sessanta milioni, ma la somma di analfabeti, di analfabeti di ritorno e di analfabeti funzionali in Italia è di trenta milioni. L’Italia è al penultimo posto per la conoscenza delle lingue straniere in Europa, siamo battuti solo dall’Ungheria; l’Italia, come numero di laureati in percentuale della popolazione, è tra le cifre più basse, nei punti più bassi della classifica dei Paesi europei. Il problema dell’istruzione è quindi un problema capitale. Perché è un problema capitale? Perché l’istruzione e oggi la scolarità sono diventate la nuova discriminazione sociale sia a livello individuale sia a livello di comunità. Uno studioso italiano, che lavora in America, ha scritto un libro nel quale ha dimostrato che nel mondo le aree con maggiori percentuali di abitanti laureati hanno maggiore occupazione, stipendi più alti, minore criminalità, minori divorzi, vita culturale più intensa e migliore qualità della vita. Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che l’istruzione non deve essere declinata, come facciamo noi in Italia, come un fatto della scuola. Non riguarda solo la scuola, riguarda quello che gli americani chiamano “people empowerment”, cioè dare potere al popolo, vuol dire coltivare il popolo in modo che il popolo abbia delle competenze e quindi possa partecipare con competenza, con conoscenza alla vita collettiva. Voglio finire con un episodio che riguarda la storia italiana: quando intorno al 1880 si cominciò ad allargare il suffragio, cioè il numero delle persone che potevano partecipare al voto, fu lanciata la seguente idea, che avendo introdotto l’istruzione scolastica obbligatoria fino al livello delle elementari, se si agganciava il diritto di voto alle capacità ottenute attraverso l’istruzione elementare, si sarebbe automaticamente raggiunto il suffragio universale, perché a quel punto tutti col livello di istruzione potevano arrivare al voto. Giovanni Giolitti, cioè il principale presidente del Consiglio dei ministri dell’inizio del Novecento, nelle sue memorie racconta che questo fu un fallimento, fu un fallimento perché si scoprì che in realtà la scuola, la scolarità non era stata portata al livello di tutti, cioè tutti non erano stati portati fino al livello della scuola elementare e che quindi non si era raggiunto il suffragio universale. Ma questo è un elemento significativo per capire qual è il significato che si attribuisce all’istruzione. L’istruzione è un modo per partecipare alla vita collettiva, l’istruzione è un modo con il quale si raggiunge l’elettorato, l’istruzione è vista come lo strumento attraverso il quale le persone vivono consapevolmente nella comunità. Quindi non la scuola, non gli insegnanti che sono i temi con i quali si affronta oggi il tema dell’istruzione, ma invece l’istruzione come un diritto del popolo per liberarsi, lo diceva Beveridge nel 1942, per assicurare la libertà dal bisogno, perché la salute, il lavoro, l’istruzione e la pensione sono gli strumenti con i quali ci si libera dal bisogno.

 

ANDREA SIMONCINI:

Grazie, allora io davvero ringrazio i nostri ospiti. Mi sembra abbiamo mantenuto un po’ la promessa, il tema era complesso, ambiziosa l’idea di poterci aiutare ad avere qualche linea di orientamento in un momento così confuso, eppure io penso che almeno un contributo, per come posso valutare io, estremamente utile, brillante e acuto lo abbiamo avuto dai nostri tre ospiti, che ancora una volta ringrazio tantissimo per la presenza che hanno avuto e per l’aiuto che ci hanno dato. Io penso, spero che questo incontro qui al Meeting, possa essere stato un piccolo spunto per ciascuno, per questo impegno personale, non semplicemente per irrobustire o aumentare le proprie conoscenze, ma anche per fare quel passo verso quell’educazione di sé, che è un po’ il grande scopo per cui il Meeting esiste. Un ringraziamento ancora caloroso ai nostri ospiti e buon Meeting a tutti.

Trascrizione non rivista dai relatori

Data

23 Agosto 2019

Ora

17:00

Edizione

2019

Luogo

Salone Intesa Sanpaolo B3
Categoria
Incontri