LAVORO: FORMAZIONE E INNOVAZIONE

Lavoro: formazione e innovazione

Partecipano: Maximo Ibarra, Manager; Matteo Marzotto, Imprenditore e Vice Presidente Esecutivo di Italian Exhibition Group Spa; Mario Mezzanzanica, Professore di Sistemi Informativi all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Introduce Tommaso Agasisti, Professore nel Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano.

 

TOMMASO AGASISTI:
Buongiorno a tutti. Direi che possiamo cominciare. L’incontro di oggi si intitola “Lavoro: formazione e innovazione” e quindi discuteremo di questo, in particolare dimuteremo partendo da alcune osservazioni sul funzionamento del mercato del lavoro, ma più in generale del lavoro come attitudine dell’uomo oggi, le crisi che sta attraversando, i problemi che sta vivendo, e cercheremo di capire come la propensione all’innovazione e i processi formativi possono aiutare nel miglioramento dell’attitudine al lavoro cos’ intesa. Partiamo da una considerazione generale, che è quello che tanti osservano, come oggi vi sia una generazione di giovani che sperimentano un senso di precarietà, di incertezza, di poca chiarezza sui propri bisogni e spesso anche sui propri desideri appena si affacciano al modo della professione e del lavoro. Ci piacerebbe domandarci se questo sentimento, se questa sensazione, se questa problematica è colpa solamente di come evolve il mercato dl lavoro, delle forze che oggi contribuiscono a forgiarlo, dalla precarietà alla globalizzazione, o se invece vi siano altri fattori su cui si possa in qualche modo costruire, un’attitudine positiva all’entrata nel mercato del lavoro. Da questo punto di vista ci sono esempi di paesi, verso cui per altro tanti nostri giovani emigrano, che sembrano0 far emergere elementi positivi invece, di possibile rilancio, di protagonismo. Da questo punto di vista ci pare di poter dire che questa precarietà, questo senso di precarietà, non ha solo a che fare con la professione in senso stretto, ma a che fare con il modo con cui si vive, con la propria personalità a tutto tondo. In questo quadro forse si tratta più di un’emergenza educativa che non di un’emergenza del mercato del lavoro. Secondo fatto: l’istruzione, l’educazione in quanto tale incide in modo positivo sulla capacità dei giovani di ottenere un destino più favorevole in termini di professione e di stato sociale. Su questo oggi ci sono dati incontrovertibili; tutti gli economisti e i sociologi del mondo tendo ad essere d’accordo sul fatto che all’aumentare dell’investimento personale e collettivo in istruzione e in educazione si generino dei ritorni positivi. Eppure il nostro paese è uno in cui talvolta ci si domanda se i nostri ragazzi, i nostri giovani non stiano studiando troppo, se non sia bene tornare a professioni e ad attitudini che richiedano meno istruzione formale e più pratica. I dati ci dicono che la percentuale di giovani che si laureano nel nostro paese è ancora sensibilmente inferiore alla percentuale di giovani che si laureano in giro per l’Europa e nel mondo. Da questo punto di vista, osservando questi dati, pare difficile sostenere che ci sia un eccesso di skill formali nel nostro paese, almeno dal punto di vista dell’istruzione terziaria. Terzo elemento: il dibattito su quali skill e quali competenze vadano formate all’interno dei processi educativi oggi nel nostro paese ha preso dei contorni particolari. In particolare si discute del ruolo che hanno le cosiddette scuole soft skill, e cioè di come i giovani che entrano all’interno del mercato del lavoro debbano avere non solo quelle competenze di base su cui per fortuna oggi nessuno più discute vi sia necessità. La capacità del leggere e comprendere i testi, interrogare le informazioni, capire se una notizia è vera o falsa, sapere fare di conto in modo corretto, possibilmente con qualche rudimento di statistica: tutte queste cose sono abbastanza chiaramente necessarie, come hard skill all’interno del mercato del lavoro, della professione, della vita sociale, vorrei dire. Ma oggi una gran parte del dibattito si concentra sull’opportunità di sviluppare insieme a queste anche quelle competenze più trasversali, più soft, più informali, che pure caratterizzano la capacità di successo all’interno dei contesti professionali, siano queste la capacità di lavorare in gruppo, siano queste la capacità di interagire con gli altri, di parlare in pubblico, di sapere capire il contesto in cui ci si muove, e così via. Una domanda ovviamente per chi si occupa di istruzione è se queste competenze si possano formare o sono invece innate; la scuola si dovrebbe occupare di formare anche queste competenze o queste competenze invece si formano esclusivamente prima, in famiglia o in parallelo, in contesti sociali diversi rispetto all’istruzione formale dell’individuo. Questo elemento è molto importante perché chi si trova a dover offrire lavoro a chi finisce i propri percorsi educativi sempre più spesso osserva queste dinamiche, queste competenze e cerca di capire quali siano le persone giuste da assumere e da indirizzare verso le professioni più qualificate. Ultimo elemento: pare che l’istruzione, che ha tra i suoi obiettivi quello di favorire quello che si può definire un ascensore sociale, cioè di offrire opportunità per tutti , sempre più fallisca in questo obiettivo e che in realtà la capacità di ottenere buoni risultati professionali e sociali derivi anche e sempre più in modo determinato dal proprio back ground di origini. Questa è una sfida che l’istruzione deve affrontare e in qualche modo potenzialmente vincere e cioè capire quali siano quei fattori che consentono al percorso educativo di ciascuno di migliorare la propria condizione professionale, di vita rispetto a quella della generazione precedente questo è un tema che rimane anche nel contesto del mercato del lavoro attuale molto importante. Noi discuteremo di questi temi con tre illustri relatori, che sono veramente grato abbiano accettato l’invito del Meeting a partecipare. Il primo è Maximo Ibarra ed è un importante manager nel nostro paese; da diversi anni partecipa al Meeting di Rimini e quindi gli siamo grati di essere tornato ancora e tra le sue attività è stato… la fortuna di questi relatori è che possiamo… tante delle vostre attività sono già note e quindi possiamo sintetizzarle. Nell’ultimo periodo è stato, fino a pochi mesi fa, amministratore delegato di Wind e da diversi anni insegna alla LUISS Business School. Ti ringraziamo di essere qua. Il secondo relatore è Matteo Marzotto. Matteo Marzotto ha fatto e fa tante cose tra quali oggi la principale è quella di essere vicepresidente esecutivo di Italian Exhibition Group, che è la società che ha la fiera di Vicenza e questa fiera di Rimini. Partecipa a tanti consigli di amministrazione di diverse realtà imprenditoriali italiano e non solo e quindi ti ringraziamo molto di essere qua a discutere con noi di questa cosa. Infine Mario Mezzanzanica è un professore all’Università di Milano-Bicocca, dove insegna sistemi informativi; si occupa dell’uso di dati per supportare decisioni strategiche di polis in diversi campi; è direttore da alcuni anni del master in big data fatto nell’Università di Milano-Bicocca e quindi anche a lui chiederemo di reagire rispetto a questi temi. Grazie di avere accettato l’invito. Allora mi piacerebbe lanciare e lasciare poi libere per una vostra reazione, nel contesto che ho cercato di descrivere, quattro domande e poi scegliete voi su cosa di queste, su quali aspetti reagire ed approfondire. La prima è questa: voi avete un osservatorio molto privilegiato per vedere la realtà di questa generazione di giovani che entra nel mercato del lavoro. Quali sono i principali elementi di insicurezza che osservate in questi ragazzi? Come suggerite loro di affrontarli e di superarli? Quali sono invece i punti di forza principali che osservate in queste generazioni e come costruire su questi? Seconda domanda: qual è, per dirla sinteticamente, il ruolo delle istituzioni educative nella formazione di questi ragazzi. Cioè come vi pare che le scuole, le Università stiano lavorando per formare quelle hard skill e quelle soft skill che abbiamo descritto? Quali cose fanno bene, quali invece potrebbero essere migliorate. Se poi vi va di fare qualche commento su alcune delle novità del dibattito rispetto a queste istituzioni educative, penso all’alternanza scuola-lavoro, penso all’idea di accorciare la durata del liceo di un anno, sono benvenute. Terzo: le vostre esperienze professionali sono tutte caratterizzate da questa propensione all’innovazione; la propensione all’innovazione, l’attitudine a cambiare è una di quelle soft skill che abbiamo cercato di descrivere: si forma, si impara, è innata, cosa possono fare le organizzazioni educative e le imprese per stimolare la crescita di queste competenze. Infine una domanda diciamo tra virgolette personale per ciascuno di voi: il nostro titolo del Meeting suggerisce che per riguadagnare, per possedere ciò che ci hanno trasmesso i nostri padri, occorra riguadagnarlo. Cosa significa questo come attitudine rispetto al lavoro, riaspetto al fatto che ciascuno prenda responsabilità del proprio destino professionale, cosa vuol dire riguadagnare ciò che abbiamo avuto come tradizione? Abbiamo0 organizzato l’incontro pensando che ciascuno rispetto a questi temi possa raccontarci qualcosa, suggerirci qualche strada di discussione per dieci minuti, un quarto d’ora e poi faremo magari un secondo giro di discussione. Cominciamo da Maximo Ibarra, grazie ancora.

MAXIMO IBARRA:
Buongiorno a tutti. Per me è ovviamente un piacere immenso essere qui. Come giustamente dicevi tu è il mio sesto anno e il quinto in qualità di relatore, per ciò ovviamente è sempre un grandissimo piacere. Allora provo a dare o a fare dei commenti che sono un po’un mix delle domande che tu hai posto, perché ovviamente focalizzarsi su questi aspetti cruciali comporterebbe molto più dei dieci quindici minuti che ci hai dato a disposizione. Direi che nella mia esperienza, la mia esperienza è un’esperienza mista, perché come tu ricordavi nell’introduzione ovviamente ho lavorato per grandi aziende, ho guidato grandi aziende fino a pochissimo tempo fa, e ho cercato anche di conciliare questa attività con un’attività di formazione all’Università. Quindi ho avuto dal mio osservatorio la possibilità di poter guardare la stessa realtà da due punti di vista diversi, per cui sono stato anche molto fortunato, in particolare quando si tratta dei giovani che entrano nel mercato del lavoro qual è il gap, qual è la distanza tra quelle che sono le esigenze formative e poi alla fine le esigenze vere delle aziende, perché poi le aziende hanno bisogno di persone che abbiano delle skill, che abbiano delle caratteristiche tali per cui poter svolgere il proprio lavoro. Per cui questo è l’osservatorio, però faccio anche un altro commento che riguarda un po’ il mondo di oggi. A me piace fare questo commento qui: oggi il cambiamento i termini di unità di tempo è molto più critico rispetto a quello che poteva essere dieci quindi ci anni fa, nel senso che oggi il cambiamento in un giorno e equivaleva al cambiamento che magari si verificava tanto tempo fa in un anno. Sto esagerando, ma giusto per rendervi u attimino l’idea del concetto che voglio spiegare, per cui questo cambiamento rendo il tutto molto più difficile, quindi capire quali sono le skill, capire che tipo di formazione è richiesta è molto complesso. Perché? Perché la tecnologia avanza e non solo la tecnologia avanza come singola tecnologia, ossia come la tecnologia che consideriamo, ma anche dal punto di vista di come tutte queste tecnologie interagiscono tra di loro e quindi crescono esponenzialmente, per cui non permette di poter osservare una realtà con tranquillità, ma bisogna osservarla dinamicamente e questo dinamismo ovviamente è molto veloce. Quindi se questo è il contesto è chiaro che bisogna muoversi no soltanto per quanto riguarda le hard skill che tu citavi, ma soprattutto le soft skill, perché per poter governare il cambiamento e la velocità di questo cambiamento ecco che la persona torna ad essere protagonista, la persona come sue caratteristiche, il suo carattere, il suo dna, quello che sa fare e quello che non sa fare dal punto di vista dell’empatia, del sapersi interfacciare con altre persone, del saper guardare il mondo nella sua interezza, del saper collegare i singoli punti, del poter entrare subito in sintonia con la realtà che lo circonda, questa è una caratteristica molto importante. Quindi se partiamo da questo presupposto nella mia esperienza ho fatto, ho messo in piedi alcune situazioni che mi hanno sempre permesso di poter liberare un po’questo potenziale. Ve ne cito qualcuna, che può essere magari interessante per voi. La prima: come scegliere una persona che entra o esce dall’università o esce dalla scuola ed entra in una grande azienda. È chiaro che l’azienda ha delle esigenze enormi, gigantesche sotto ogni punto di vista, le aziende sono fatte di tante funzioni, per cui molto spesso si ricerca una persona che possa andare bene in ambito commerciale o in ambito finanziario, piuttosto che nel mondo delle chart; ci sono tutte queste diverse competenze che vengono richieste dalle imprese, piccole, medie o grandi che siano, e che sono fondamentali per poter continuare a svolgere il lavoro. Poi magari vi do un piccolo cenno anche su questo tipo di organizzazione aziendale che comincia ad essere estremamente obsoleta. Torniamo al tema del cambiamento che citavo inizialmente. Quindi se si cerca una persona che possa entrare in una di queste funzioni la prima domanda che viene in mente è quella di “bene, ma quali sono le skill di cui si ha bisogno? Che esperienza ha?”. Ma molto spesso queste persone l’esperienza non ce l’hanno, perché sono uscite appunto dalla scuola o dall’università. Quindi quello che ho provato a fare io negli ultimi anni in particolare è quella di concentrarmi soprattutto sulle caratteristiche della persona, perché parto dal presupposto che quelle skill di base sono skill che sono già state acquisite da ragazzo o la ragazza nella facoltà di economia piuttosto che di giurisprudenza o ingegneria, ma la capacità di poter lavorare insieme ad altri in un contesto che cambia molto velocemente. Prima vi dicevo che le organizzazioni cominciano ad essere obsolete ed è vero. Questo invece è lo sforzo che devono fare le aziende per conto loro. Se noi pensiamo a un’organizzazione fatta a silos, quindi ogni singola funzione è come se fosse fondamentalmente un’unità a sé stante, ecco che stiamo sbagliando completamente il tipo di approccio, perché il cambiamento impone che tutte queste funzioni comincino a lavorare insieme in un modo radicalmente diverso rispetto a prima. Quindi pensare che soltanto un gruppo di persone, un gruppo di ragazzi possano occuparsi del marketing è assolutamente qualcosa che ci porta fuori lotta; pensare che le competenza del marketing possano essere soltanto ascrivibili ad un gruppo ristretto di persone è un errore incredibile. Quindi questo va rivisto in modo tale che poi le organizzazioni possano diventare meno verticali e più trasversali. Se sono meno verticali e più trasversali abbiamo bisogno di persone che sappiano lavorare nell’ambito di questa trasversalità, per cui riuscire ad entrare in contatto con altre competenze mettendole assieme per trovare soluzioni che non sono quelle tradizionali, quelle classiche, ma sono le soluzioni che vengono richieste per affrontare questo grande cambiamento, la cui velocità è impressionante. Potrei farvi mille esempi di quello che sta succedendo e nessuno di noi oggi sarebbe capace di poter fare una predizione o una previsione a tre, quattro anni, perché la velocità è gigantesca e il modo in cui tutte queste tecnologie, scienze e saperi si interfacciano tra di loro è difficile da comprendere. Non sappiamo esattamente qual è il destino, sappiamo semplicemente che la velocità sarà molto elevata. Quindi questo è i primo aspetto, cercare di concentrarsi molto di più su quelle che sono le caratteristiche della persona. Anche qui, un ragazzo o una ragazza che entrano nel mondo del lavoro in una grande azienda, la capacità di poter entrare in sintonia con le diverse funzioni aziendali senza tirarsi mai indietro è un aspetto importantissimo; se qualcuno pensa che invece deve svolgere un lavoro che è sempre uguale a se stesso nel tempo, ecco che questo sicuramente diventa un impedimento, una barriera. Un altro aspetto che invece riguarda non necessariamente le persone che sono nell’università ed entrano nelle grandi aziende, ma sono le persone che lavorano già all’interno delle grandi aziende o comunque in qualsiasi realtà imprenditoriale o comunque aziendale. Bisogna gestire anche qui quello che viene definito, chiamato reskilling o formazione delle persone che svolgono un certo tipo di lavoro. Di esperienze ne ho fatte tante, a me piace raccontare sempre quella di persone che si sono occupate per tantissimi anni costumers care, di servizio clienti, quindi le persone che rispondono al telefono e dopo un processo di formazione di circa sei mesi invece hanno cominciato a lavorare in una funzione che è l’information technology. Quindi qualcuno potrebbe pensare: come fa una persona che si occupa di servizio clienti occuparsi poi successivamente di information technology che sono due cose diametralmente opposte? In realtà non lo sono, perché per fare l’information technology hai bisogno della conoscenza del cliente; molto spesso chi si occupa di tecnologia non conosce il cliente, ma uno che conosce il cliente può apprendere la tecnologia e la tecnologia non è che devi saper fare il coding e quindi la programmazione del software necessaria per far funzionare alcune piattaforme, ma semplicemente capire come funzionano per poter offrire migliori servizi al cliente. Ed è stato un esperimento che ha dato dei risultati molto positivi perché molto spesso chi si occupava solo di tecnologia vedeva il problema in ottica verticale, invece in questa logica lo vedeva dal punto di vista trasversale, riusciva ad impiantare nel mondo della tecnologia il cuore del cliente, quindi con tutte le sue preoccupazioni, le sue lamentele, i suoi problemi eccetera eccetera. Quindi questo è stato un esperimento molto interessante. Un altro esperimento che invece richiama il concetto di open innovation, quando si pensa all’open innovation si pensa al fatto che le aziende non debbano necessariamente fare tutte le innovazioni all’interno, ma debbano rivolgersi anche all’esterno perché si parla tantissimo di start-up, incubatori, chi più ne ha più ne metta, quindi di venture capital, però una realtà con la quale dobbiamo confrontarci perché ci sono una miriade di ragazzi che decidono sostanzialmente di far partire nuove iniziative imprenditoriali, partendo magari da qualche curiosità più dal punto di vista istintivo e fan nascere delle nuove realtà molto interessanti che possono essere utili all’azienda per poter svolgere anche il suo lavoro, inutile perdere molto tempo, fare le crewing di persone che hanno quel tipo di competenze quando irrealtà tu questa innovazione ce l’ahi già disponibile fuori sul mercato. E’ quindi una forma di collaborazione tra chi è dentro e chi è fuori che permette a chi è dentro di poter innovare e a chi è fuori di poter avere subito il cliente con il quale poter cominciare a fare un po’ di business, quindi questo è un aspetto anche molto interessante. La opening innovation che invece a me piace di più è quello interno, perché tornando al punto di prima della trasversalità e del fatto che non debbono esistere più le organizzazioni verticali se si riesce a mettere assieme persone che lavorano in funzioni diverse, che magari si sono occupate sempre dello stesso identico lavoro, le si libera da quel tipo di contesto e si decide di mettere queste persone a lavorare insieme in un contesto dove devono portare più innovazione ecco che i risultati sono sorprendenti. L’ho fatto anche nella mia carriera più volte, un’iniziativa che in Wind si chiamava Wind factory, si prendevano persone, ragazzi, che appunto o quelli magari più giovani, che erano entrati in azienda da meno tempo, più talentuosi, magari più bravi dal punto di vista delle competenze, anche in termini di soft skill, o addirittura persone che non necessariamente erano le più giovani, ma persone esperte delle diverse funzioni nelle quali lavoravano; ecco, i risultati sono stati sorprendenti in entrambi i casi, perché quello dei giovani talentuosi dove ovviamente c’è più energia, più attitudine al rischio, c’era molta più innovazione dal punto di vista di nuove idee; invece le persone più esperte che lavoravano da più anni in azienda erano stati estremamente innovativi più dal punto di vista del processo, quindi come poter servire meglio alcuni clienti perché, cercando di mettere insieme le informazioni di altri colleghi si riuscivano a fare delle cose veramente interessanti. Queste esperienze mi hanno permesso anche in passato di poter liberare risorse di budget, quindi risorse economiche, per poter implementare quello che veniva creato da persone che uscivano completamente dall’ambito nel quale lavoravano, entravano in ambiti diversi e potevano innovare liberamente, senza che ci fosse necessariamente un compito specifico, un task specifico. Questa è la opening innovation interna, che le aziende devono fare sempre di più in modo tale da preparare queste aziende ad affrontare questo dinamismo, sempre maggior dinamismo, che chiaramente metterà in alcuni casi le aziende sotto forte pressione e in altri casi l’azienda nelle necessità di poter trovare delle soluzioni ai problemi nuovi che verranno. Ecco, questo è un altro esperimento che ritengo si debba fare sempre di più per riuscire in qualche maniera a portare avanti il business –perché chiaramente il business è la cosa più importante per le aziende-, ma anche per poter creare quell’ecosistema intelligente che poi libera risorse, libera il potenziale etc… Ecco, l’ultimo commento che vorrei fare è che per riuscire anche a colmare il gap tra la domanda e l’offerta -quindi in questo caso tra le aziende che richiedono certe skill, le università e le scuole- non c’è altra soluzione che incrementare il dialogo. Non è possibile per una università o una scuola capire quello di cui c’è bisogno se non c’è un dialogo sempre più forte, sempre più continuo, sempre più intenso con le aziende, che sono poi alla fine quelle che hanno una domanda specifica di skill, non soltanto dal punto di vista del know-how, ma anche dal punto di vista delle cose che devono essere fatte. Oggi questo c’è, ma potrebbe essere fatto molto meglio, perché molto spesso le università e le scuole riescono a dare delle idee molto interessanti alle aziende, e le aziende di converso possono dare dei suggerimenti molto interessanti alla scuola, in modo tale che possano tutti e due lavorare come se fosse una forma di collaborazione, che fino ad oggi c’è stata solamente in piccolissime entità. Questo è qualcosa che sicuramente bisogna fare sempre di più, perché da soli non si va avanti. Ultimissimo commento, che riguarda quello che ci siamo detti nel salottino prima di venire qui: quando si parla di formazione, quando si parla anche di innovazione, di giovani, nel modo del lavoro e non, bisogna sempre e comunque avere in mente che è la persona al centro di tutto. La persona, il ragazzo, la ragazza, nella scuola. Quindi un invito a chi fa formazione soprattutto nelle scuole e nelle università, è quello di non misurare i ragazzi e le ragazze come se ci fosse una standardizzazione di massa: le persone sono diverse, hanno dei talenti, hanno delle caratteristiche che rendono queste persone uniche. Se si è nella condizione di capire qual è questo talento, quali sono queste caratteristiche uniche, si riuscirà ovviamente a portare questi ragazzi ad appassionarsi molto e sempre di più su alcune materie specifiche e ambiti specifici, che poi ovviamente possono facilitare questo ecosistema tra domanda ed offerta tra aziende e ragazzi e ragazze che sono a scuola e in università. Questo è fondamentale, e se non si parte da questo e non si ha questo ben in mente, si rischia di trovarsi sostanzialmente in una sorta di discrasia tra quello che le aziende richiedono e le persone riescono a dare. I ragazzi danno il meglio quando si trovano ben indirizzati rispetto al proprio talento e le proprie attitudini. Grazie mille!

TOMMASO AGASISTI:
Grazie mille! Sono spunti per ridiscuterne e andarci più a fondo.

MATTEO MARZOTTO:
Non è facile parlare dopo aver ascoltato qualche minuto di lucida visione, come abbiamo fatto. Anch’io sono molto s’accordo con praticamente tutto quello che ha detto Max Ibarra. Però partirei con una premessa. Intanto grazie di avermi qui con voi. Sono stato invitato altre volte e ogni volta succedeva qualcosa per cui non venivo, e questa volta adesso sono qui anche da contributo a questo nuovo soggetto che si chiama Italian Exhibition Group, e mi fa piacere raccontarvi in questa sala -in cui ho parlato soltanto una volta da Presidente dell’Agenzia Nazionale del Turismo, quindi diversi anni fa- che IEG è il primo soggetto in Europa ad aver fatto un’operazione del genere: Rimini e Vicenza insieme, due territori, tutta la storia dei territori e dei campanili in Italia -ma non soltanto in Italia, anche in Germania è così: le grandi fiere sono sempre più, sono bravi, sono i leader, ma non si mettono mai insieme. Quindi una volta tanto siete testimoni che fare sistema l’hanno fatto gli Italiani, cosa che non gli riesce quasi mai, e quindi è già una notizia buona. Vorrei alzarmi di qui avendovi lasciato qualche segno di speranza di una bella Italia, e non soltanto qualche preoccupazione. Ma dobbiamo passare per forza dalle preoccupazioni. Innanzitutto la premessa è verso me stesso: io sono un quinto figlio. Secondo me a questo punto i genitori un po’ distratti, molto indulgenti, e quindi un asino assoluto. Non sto pescando i complimenti. Dal punto di vista dello studio sono stato un disastro. Per un fatto diverso e non pianificabile -e anche non immaginato dai miei genitori- mi sono talmente appassionato della storia della mia famiglia, segnatamente di mio nonno, Gaetano, che la motivazione per elevarmi un po’ dalla mia condizione di asino è stata assolutamente autonoma, quindi generata autonomamente già da grandicello. Quindi non sono dottore, anche se dottore si chiamano tutti in Italia –presidenti e dottori ci sono…- un giorno diventerò dottore, ma non ho ancora capito quando e neanche come, però intanto faccio quello che posso. La motivazione l’ho trovata, la cerco tutti i giorni. Non è necessariamente una motivazione economica –sono fortunato in tutti i sensi-. Ho anche fatto dei massacri assoluti, cioè io per le aziende nelle quali ho lavorato ho quasi sempre creato valore. Quando dovevo occuparmi di me magari ho anche fatto degli errori, mi sono distratto, non ho sempre fatto tutto giusto, e questa è una cosa che –e vengo alle piccole critiche- l’università e la scuola non insegnano mai: questa è una società che insegna a vincere e basta, dove ci sono soltanto dei campioni, soltanto dei punti di riferimento. È vero, io mi son trovato il mio punto di riferimento in un uomo straordinario che è stato mio nonno Gaetano: è stato uno dei grandi uomini del secondo dopoguerra. Ma questo mi è servito soltanto come stimolo, come spunto. Ho saputo abbastanza presto di non avere quella stoffa lì. Invece oggi questa società iperveloce, tutto quello che la alimenta continua, secondo me, a proporre dei modelli che non sempre, ma in larga parte confondono. E di nuovo su questo tema dei punti di cui trattiamo, anzi di cui tratta il Meeting in tutti questi giorni con straordinaria dedizione e con straordinario acume, perché non è facile al Meeting di Comunione e Liberazione ispirarsi a una frase del Faust in fondo. Eppure la nostra vita è così sul limite di quello che è eventualmente Dio, se posso permettermi, e di quello che è invece l’io, io sbagliato. E quindi dei quattro punti io parto dal “riguadagno”. Ho detto che bisogna passare secondo me –qui parla Matteo, non è che io abbia particolari… mi son presentato da asino, quindi non voglio essere sopravvalutato. Però ho girato il mondo, sto cercando di capirlo. Ho compiuto i cinquant’anni, quindi non sono più un giovane –ma in Italia si è giovani fino agli ottanta-novanta a seconda di che tipo di mestiere si fa e come ci si pone… scherzo, non fino a ottanta-novanta, ma a cinquant’anni sono ancora ragazzino -per il mercato del non-so-cosa, ma sono ancora ragazzino-. Ho cercato di guardare gli altri, di farmi un’idea degli altri Paesi e della formazione degli altri Paesi, di come sono i giovani anche dei Paesi confinanti -mica tanto lontano. Ho un’idea precisissima delle virtù degli Italiani. Ho una fondazione che ricerca una malattia genetica, me ne occupo da vent’anni adesso, e ho perso una sorella di questo. Posso assicurare –lo dico sempre- che è un popolo di straordinaria generosità. Noi negli anni della cosiddetta crisi, o del risconto economico, abbiamo triplicato la raccolta. In paese ha perso dodici punti di ricchezza, di GNP, e alcune aree molto di più. Quindi posso affermare che dalla Sicilia fino al confine, fino all’Alto Adige, il Paese è estremamente cosciente: quando gli viene proposto un prodotto buono lo capisce. In questi anni l’Italia è diventata uno dei Brand più straordinari del mondo per un certo saper vivere. Noi ce ne rendiamo poco conto, però il mondo ci vede così. Esiste un mercato possibile. Noi siamo degli individualisti che confondono individualismo e individualità, ma comunque degli individualisti seriali; facciamo fatica a far riuscire le cose insieme –però io ho qualche esperienza positiva contraria- e parliamo male di noi stessi. Questi sono dei vizi brutti: la stampa racconta solo cose tristi. Io farei un accordo: per legge direi ce a una notizia cattiva se ne deve dare una buona, così magari riusciamo a capire perché in certi momenti guardare un telegiornale o leggere le news –ed è scientifico, viene insegnato così. Non è che io ne faccia una colpa a chi lo fa di mestiere, però è pazzesco secondo me-. Ecco io semplicemente dico “riguadagnare”. Il titolo, il riguadagno. Io, con tutti i miei limiti, però ci sto provando. Sto provando a meritarmi un nome che, diciamo –è l’avventura della vita poi-, ha reso reputabile qualcun altro. E ho pensato che si possa fare. Guardate che per questo ho anche molto litigato in famiglia e me ne sono anche andato, e quindi ho segnato anche una sconfitta in questo. Credo che in questi anni si possa fare la propria corsa, la propria avventura la si possa fare senza falsi miti, e però come diceva Vittorio Alfieri: “volli, sempre volli, fortissimamente volli”. Io non sono convinto –qui dico una cosa brutta, spero di sbagliarmi- che –e dopo mi interesserà sentire il Professore sul mercato del lavoro- in Italia questa generazione –quella che scegliete voi, la prossima diciamo- abbia una motivazione così forte come in altri momenti storici. Sto cercando di misurare le parole, perché poi le orecchie mi si tirano, mi verranno tirate in lungo e in largo. Quindi mi sto chiedendo, da un altro osservatorio che vi propongo: il Premio Gaetano Marzotto, l’ha fatto la mia famiglia. È un premio sull’innovazione, anzi il premio sull’innovazione. In Italia, forse in Europa eroghiamo quasi tre milioni di euro all’anno di premi, quindi ritengo che, se non altro numericamente, non è una statuetta. È un sistema complesso, al sesto anno, sta iniziando il settimo anno. Riceviamo circa 650 domande di adesione, viene fatto tutto ovviamente attraverso la rete; il sistema ha molte decine di acceleratori, incubatori. Abbiamo le università, siamo partiti dal giorno uno con le università. Le banche –Unicredit segnatamente-, le grandi istituzioni. Facciamo ogni tipo di formazione, premiamo anche formando. Ho avuto esperienza da Presidente di una Business School quindi diciamo che sono un appassionato –come vedete, tutte cose in cui si fanno pochi soldi… corro come un matto, però a me piace così per il momento: cerco di fare quello che riesco-. Questi punti di osservazione mi fanno dire che esiste la famosa clessidra –allora poi invece voglio ascoltare se è veramente così o se io ho questa sensazione sul terreno- per la quale c’è una parte alta estremamente motivata e competitiva, che affronta gli studi e investe su se stessa, con le famiglie che investono risorse importanti per dare gli strumenti ai figli, e i figli accettano questa sfida con grande determinazione. Poi addirittura nella parte più alta di questa clessidra ci sono gli startuppers, che spesso hanno il loro professore, e tre di loro che sono invece gli operativi. Al Premio Marzotto non prendiamo in considerazione l’idea, ma l’oggetto giuridico già formato -magari da tre mesi, ma deve essere già un’azienda- con tre logiche: sostenibilità –sennò non si va avanti-, innovazione –sono i tre driver che mio nonno ha sempre avuto nella sua vita- e ricaduta sociale sul territorio. È un vecchio adagio dei Marzotto. Ecco, io ho visto –poi non so se è la migliore Italia, però vi assicuro che è un’Italia competitiva- un’Italia su questi due livelli che abbiamo detto, che entra nella grandi aziende, che deve essere valorizzata da Manager del calibro di Max Ibarra, deve essere e può essere valorizzata. Anch’io sono d’accordo che bisogna essere più trasversali, ma è nella vita che bisogna essere così. Certo, poi si finisce per essere tuttologi, ma, se ci fosse un tuttologo veramente bravo in azienda, probabilmente sarebbe il manager più pagato del mondo, perché si può sempre imparare a fare qualcosa a qualsiasi età. Io ho delle esperienze, posso dire, per la breve esperienza di IEG, che all’interno siamo quasi trecento, e stiamo ragionando in questi tempi, in questi ultimi mesi, sulla vera integrazione delle due organizzazioni, stiamo ragionando su una quotazione in borsa, quindi dovremo comunicare un nuovo assetto organizzativo, e tutte queste riflessioni sono oggetto di quotidianità, e credo che Vicenza più Rimini è un “più più”, non è uno che compra l’altro, non è stata un’operazione di architettura finanziaria; è un’operazione industriale, e quando c’è un’operazione industriale bisogna far funzionare le persone. Le persone funzionano: il valore aggiunto si crea mediando, creando valore aggiunto sul lavoro delle persone, la trasformazione di merci o servizi. Noi trasformiamo servizi, naturalmente. Sessantadue prodotti fieristici, di cui cinquantanove di nostra proprietà. Quindi la fabbrica c’è, l’abbiamo noi, dobbiamo saperla far funzionare noi stessi. La parte negativa di quello che voglio dirvi è che poi, per sua forma fisica, la clessidra si stringe. È quello che c’è sotto non è neanche l’Italia del posto fisso. Non so, è aumentata di molto la disoccupazione, abbiamo perso questo 12%… io ho letto un po’ le cifre quando ero all’ENIT, ho cercato di rendermi conto dei numeri per avere un approccio da imprenditore insomma, perchè i numeri erano abbastanza complessi: si parla del turismo –adesso capite perché disordinatamente sono partito dall’ENIT, ma siamo arrivati al punto-. Il turismo in Italia vale il 10% del GNP. Sono 2.5 milioni di persone di popolazione attiva nel turismo direttamente coinvolta più quella che chiamano footprint, che è tutto quello che c’è intorno, che funziona intorno al turista, in particolare al turista straniero, che viene e spende e compra, passa del tempo e magari passa una notte in più etc… c’è una confusione che non sto a dirvi. Abbiamo cercato allora di mettere con l’allora Ministero di mettere un po’ di ordine e abbiamo chiesto all’ISTAT, alla Banca d’Italia e a Unioncamere di fare un osservatorio unico: sono venuti furi dei dati molto interessanti. Perché dico questo? Perché ogni volta si parla di quel che in Italia è del tutto evidente, del 10% del PIL. Secondo me, e anche da qualche altra informazione che si legge tra le righe in giro, secondo me il turismo in Italia vale ben più del 10%, per una serie di motivi che non stiamo a dire qui, ma che penso che ognuno di voi possa immaginare. Non è neanche molto facile dirlo. Per lo stesso motivo io credo che l’Italia si sia impoverita di più in questo riscontro economico, ma non è stata una crisi, e non era neanche inevitabile: io nel 2008 ho scritto un libricino che non aveva nessuna velleità, però, siccome era per beneficenza, e l’editore era un grande editore che mi ha detto: “guarda che vale la pena di farlo”, io l’ho fatto perché il po’ di ricavato l’abbiamo dato alla Fondazione evidentemente, alla mia fondazione per la ricerca sulla fibrosi cistica. E ho scritto una roba secondo quello che pensavo io, sette otto, nove anni fa, quello che è. In tempi non sospetti. Secondo me gli anni che hanno succeduto diciamo la Dot economy, non so come la chiami diciamo dal ’96 in poi –vi ricordate il famoso Tiscali che capitalizzava tre volte la Fiat, “bla bla bast”, ste solite robe qui…- secondo me non erano sostenibili. Io allora ero al vertice di una organizzazione nel fashion importante, strutturata in tanti brand. Poi sono finito a gestire un brand meraviglioso, che è Valentino. E io mi ricordo che –da quotati-, se tu ti sedevi ogni tre mesi davanti a trenta o quaranta di questi ragazzi –perché l’analista c’ha trent’anni, trentadue-trentacinque- e allora non avevi una doppia cifra alta di crescita, ti mettevano buy o hold e il titolo andava giù. Era una corsa: se non facevi il 20% di crescita ogni trimestre sembrava che tu fossi scappato di casa. Non poteva durare assolutamente. La Mary Linch ha inventato il paniere dei beni di lusso nel 1998 secondo me, forse dove te lo ricordi, dove ha ficcato le aziende che fanno servizi o beni di lusso, dagli aeroplani privati, ai cantieri navali, a questo a quello, naturalmente il fashion per primo, i gioielli, una storia e l’altra… quello lì è diventato una specie di punto di riferimento. Naturalmente poi ci si sono ficcati dentro tutti, quindi non è neanche troppo affidabile leggerlo quell’indice, però diciamo a suo tempo il sistema valeva 120 miliardi di euro, adesso il sistema vale 250 miliardi di euro. Quindi mi vien da dire che ci siamo impoveriti soltanto noi, perché esiste sempre un’altra parte del mondo che è cresciuta. Quando io ero ragazzino c’erano 800 milioni di persone che erano il nostro mercato di riferimento, l’Occidente. Oggi probabilmente ci sono 4.8 o 5.5 –dipende da come si leggano questi dati- miliardi di persone che possono accedere a un tipo di vita simile alla nostra, e che quindi richiedono servizi di questo tipo. Allora per chiudere io dico: bisogna avere voglia, bisogna farsela venire, non si può non imparare le lingue perché non c’è un motivo logico per cui il sistema non insegni una lingua, ma specialmente il recipient non la impari la lingua. La si può imparare anche con le app gratuite, se si vuole, la si può imparare perché si è appassionati di movida, di musica, quello che volete, di sport, però bisogna volerlo fare e bisogna farlo. Il problema più grave che leggo oggi sono persone attaccate alla loro vita, al loro tran tran, sempre scontente –perché sono scontente comunque. Sono molto più attente a guardare non sto dicendo quella parte della piramide che secondo me non va bene-. Però quasi neanche l’inglese, o neanche l’inglese. Ma non è pensabile: tutto il resto del mondo, anche al di là del mare –questo mare-, parlano perfettamente una lingua, probabilmente due. Si dice: “sono meno quindi…” cos’è? L’unione fa la forza, sono meno, vuol dir che son più deboli. Qualcuno di voi è mai stato in Scandinavia? Non so se immaginate. O in Germania, in Germania uno di noi si può traferire domani mattina, in Germania urbana, ma anche forse nei piccoli centri, si può trasferire domani mattina andando a vivere lì con l’inglese essendo perfettamente integrato, almeno nelle funzioni di base. Voi immaginate uno che viene qui nella provincia italiana e parla l’inglese, voi ditemi dove va. Ecco, su queste cose qui desidero lasciare un po’ lo stimolo, con tutta la positività che io vedo, con tutte le cose belle che io vedo, bisogna che però qualcosa, io non sto a discutere, io ho le mie idee sul ’68, ho le mie idee sulla funzione della famiglia di oggi massacrata, ahimè, come nucleo centrale. Potremmo parlare a lungo, ma come si diceva prima non c’è tempo. Però anche non far passare il concetto che “Poveretti, non studiano, non cercano lavoro, non lavorano – o perlomeno non è evidente che una di queste tre cose è fatta, quindi non va bene neanche quello – ma sono una generazione disillusa, ci hanno rubato il futuro”. Come ci hanno rubato il futuro? E chi? Come? Gli errori di chi? Ma allora come funziona? Io non credo che sia giusto pensare una cosa così.

TOMMASO AGASISTI:
Anche da questa relazione un paio di elementi che mi permetterò poi di chiedere di sviluppare un po’ di più. Professor Mezzanzanica

MARIO MEZZANZANICA:
Buongiorno a tutti e ringrazio anch’io per l’invito. Parto anch’io dall’ultima domanda che ha fatto Tommaso. E parto anch’io da un fatto personale, vi chiedo scusa per questo. Quando mio papà faceva l’operaio e quando io divenni professore universitario, passai da lui quella sera, lui stava cenando e dissi “Papà sono diventato professore universitario”. E lui alzò la testa, mi guardò e disse “Bene, quando cominci a lavorare?” E questa frase mi gelò un attimino. Di cosa si tratta quando parliamo dei nostri padri? Ho cercato, ho voluto fare questo esempio perché occupandomi poi di analizzare i dati del mercato del lavoro ho sempre in mente mio padre che mi dice “Quando cominci a lavorare?” Ma di cosa si tratta quando parliamo dei nostri padri? La cosa che credo la esprima di più era un “fare”, per mio papà era “fare”, fare le scarpe in quel caso. Mi è venuta in mente una frase che vi cito, dice così: “Un tempo gli operai non erano servi, lavoravano, coltivavano un onore assoluto, come si addice a un onore. La gamba della sedia doveva essere ben fatta, era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta in sé nella sua stessa natura”. Questa è una frase di Peguy del 1914, che credo possa esprimere con chiarezza e anche in modo sintetico la posizione dei nostri padri. Un onore assoluto, come si addice a un onore ed è questa la posizione che ha caratterizzato certamente il dopoguerra e la crescita che il nostro paese ha avuto. “Tanti io – ha scritto recentemente il mio amico e collega Giorgio Vittadini sul Sussidiario – che hanno contributo per i primi decenni della storia repubblicana a fare dell’Italia uno dei paesi più sviluppati del mondo e più ricchi di innovazione creatrice e produttrice. Per tutti, dai lavoratori più semplici a quelli più qualificati, da quelli in patria agli immigrati. Qualunque credo professassero il lavoro è stato un punto unificante e qualificante il nostro paese.” È un’epoca in cui sostanzialmente i padri lavoravano e al termine del loro percorso professionale lasciavano il posto ai figli. Oggi non è più così, questa è una prima considerazione. E com’è? Perché, per parlare di lavoro e di innovazione credo che sia importane capire di cosa stiamo parlando, alcune cose sono state ben accennate da chi mi ha preceduto. Il primo fattore di diversità rispetto ad allora è stato accennato prima anche da Max Ibarra, è che il lavoro cambia molto rapidamente. Forse mi sentirei di dire che la velocità del cambiamento è una delle caratteristiche principali del mercato del lavoro di oggi. In una situazione non semplice per il nostro paese. Solo per ricordare qualche dato, noi siamo un paese che nel 2003 aveva il 56,1% di tasso di occupazione, cioè di partecipazione di chi è in età lavorativa al mercato del lavoro, 56%. nel 2016 questo dato è diventato il 57,3%, quindi è cresciuto di 1,2 punti percentuali. Molto, molto poco. Siamo praticamente il terzultimo paese in Europa come partecipazione al mercato del lavoro. Dall’altro punto di vista se guardiamo la disoccupazione, noi invece abbiamo dei punti molto più alti perché siamo il quinto paese come tasso di disoccupazione più alto, quindi in questo caso raggiungiamo dei primati. Abbiamo un tasso di disoccupazione in cui dopo di noi ci sono la Germania, la Spagna, Croazia e Cipro, che nel 2016 è pari all’11,9% e la media dell’Unione Europea è all’8,7%. La cosa che mi ha colpito, faccio solo degli accenni, la cosa che mi ha molto colpito è mettere in fila questi quattordici anni. In questi quattordici anni si sono succeduti governi di centro-destra, centro-sinistra, tecnici e, direi, non saprei come definirli, dei governi che mischiavano centro-destra e centro-sinistra. E sono state fatte diverse riforme nel mercato del lavoro. Se andiamo a guardare l’attuazione di queste riforme vediamo subito dopo, nell’anno dopo, quasi sempre, non in tutte, non vi dico qual è, vi mando a scoprirla quella che non ha creato nessun avanzamento, troviamo un avanzamento degli indicatori del tasso di occupazione, della partecipazione, per un anno e poi scende. Infatti guardate che in quattordici anni passare dal 56,1 al 57,3 è veramente poco. Cioè, io posso dirlo così, in modo un po’ sgarbato: tutte queste riforme, che sono state fatte sostanzialmente non hanno cambiato la struttura del nostro mercato del lavoro. Hanno dato dei contributi, certamente positivi in certi momenti, ma se non ci fossero state sarebbe disceso, non ci troveremmo nemmeno a questo livello, però non hanno cambiato la struttura in modo significativo, e questo è un grosso problema per il nostro paese. In particolare coloro che hanno i maggiori problemi nel nostro paese, sotto il profilo della popolazione sono i giovani e le donne che hanno tassi molto elevati di disoccupazione e poi la differenza territoriale, il Sud del nostro paese versa in una situazione decisamente molto più critica che non il Nord del nostro paese. Quindi ci sono forti differenze generazionali, forti differenze territoriali. Ma per cercare di capire come fare, cioè dove siamo arrivati, che cosa può succedere, credo che uno dei fattori fondamentali è cercare di capire come è cambiato. Prima ho detto la velocità del cambiamento è forse una delle caratteristiche più importanti del mercato del lavoro, ma il lavoro come è cambiato in questi anni? Perché il lavoro non è più quello dei nostri padri. Il lavoro è cambiato, provo a darvi degli spunti. Il primo aspetto di cambiamento credo che si possa definire come la mobilità. La mobilità, che per i nostri padri non esisteva perché la carriera si svolgeva per trentacinque anni nella stessa impresa e poi si lasciava il posto ai figli, oggi invece la mobilità è una delle caratteristiche del lavoro della persona; cioè le persone cambiano lavoro, cambiano contratti, cambiano settori economici, si spostano nei territori, cioè la mobilità diventa un fattore fondamentale dell’esperienza lavorativa. Mobilità, cioè cambiamento, significa essere pronti per le persone a capire, diversamente da prima, quali sono i fattori che mi aiutano a cogliere la sfida della mobilità. In secondo luogo, l’altra questione che credo sia molto importante, scusate, questa mobilità, noi spesso nel nostro paese, solo nel nostro paese, la leghiamo al concetto di contratti flessibili, ma non è così. Noi abbiamo analizzato milioni di contratti a tempo indeterminato, fatti negli ultimi anni, e la cosa che più mi ha stupito è che il 56% dei contratti tra il 2009 e il 2016 a tempo indeterminato, quindi quelli che dovrebbero durare una vita, si è chiuso entro tre anni. Più della metà. Entro tre anni. Oggi stimiamo che il ciclo di vita medio nelle aziende private è al massimo di 10 anni. Ma c’è una mobilità fortissima, capite? Il 56% delle persone cambiano, ma queste se cambiano è perché hanno opportunità anche di cambiare. A volte sono costrette a cambiare, le aziende cambiano, il ciclo di vita dei prodotti e dei servizi delle imprese è molto più breve, è più veloce. Questo favorisce questo concetto di mobilità. Il secondo aspetto è che cambiano le professioni, quello che si fa nel mestiere. E uno dei fattori più evidenti di cambiamento nelle professioni si chiama competenze digitali. Oggi le competenze digitali stanno diventando sempre più rilevanti nello svolgere mestieri non solo legati alla ST, quindi alla parte di informatica o di innovazione tecnologica, ma legati alle professioni tradizionali. Abbiamo analizzato in questi anni e stiamo analizzando oltre due milioni di annunci di lavoro che le aziende mettono sul web per cercare le persone. E abbiamo cercato di capire quali sono nei diversi mestieri le competenze che vengono richieste. Mi ha molto colpito che le skill digitali diventano rilevanti per gli addetti allo spostamento merci. Cioè quando si cerca un addetto di spostamento merci si chiede, fate cento le skill, le competenze richieste, che il 20% delle competenze sia legato a skill digitali, deve conoscere alcune cose dell’informatica, alcune applicazioni, usare degli strumenti. Questa cosa sale molto di più, un contabile oggi ha un’incidenza, dalle stime che abbiamo fatto, di oltre il 30%, per una persona del marketing si arriva al 40%. Quindi lo svolgere una professione oggi sta cambiando perché alcuni aspetti, dei cambiamenti come vedremo tra poco, del mercato, diventa più rilevante. L’altro aspetto è la polarizzazione delle professioni. Ciò che sta emergendo nel mercato è che esistono sempre più richieste di figure specializzate, di figure di cosiddette low-level skill, e le figure intermedie sono sempre più sostituite invece dall’automazione e dalla robotica. E quindi c’è una polarizzazione tra le alte competenze richieste, altre specializzazioni e le basse competenze. Noi abbiamo costruito tutto un sistema di mercato del lavoro sulle competenze medie e questo è un problema nel nostro sistema. L’ultimo aspetto è la continua nascita di nuove professioni, cioè l’innovazione tecnologica, soprattutto oggi nell’area dei big data, dell’analitycs, dell’industria 4.0, dei nuovi servizi, pensate alla telefonia e quant’altro, com’è stato detto prima, ecco in queste aree nascono continuamente nuove professioni. Quindi questo ha un impatto molto forte sul fatto di essere pronti. In questi casi c’è un fortissimo gap tra domanda e offerta, cioè c’è molta più domanda da parte delle imprese di professioni nuove che non trova risposta, perché non ci sono ancora persone preparate a questo. E qui il nostro problema della capacità dell’istruzione di adeguarsi a rispondere alle nuove esigenze del mercato diventa fondamentale. Ma questi cambiamenti a cosa sono dovuti? Questi cambiamenti son dovuti a prevalentemente cambiamenti dell’economia e della società in generale che sono avvenuti in questi anni. In un recente libro Enrico Moretti, che è un economista italiano che si è trasferito a Berkley negli Stati Uniti a lavorare analizzando l’economia americana degli ultimi 50 anni dice così: identifica come fattore del cambiamento il passaggio da una economia fondata sulla produzione di beni materiali a un’economia basata sulla conoscenza e l’innovazione. Parla di un nuovo scenario, in cui sostanzialmente l’ingrediente chiave per l’occupazione è rappresentato dal capitale umano. Uno scenario in cui il fattore produttivo essenziale sono le persone, perché sono loro a sfornare nuove idee. E dice ancora “per la prima volta nella storia, il fattore economico più prezioso non è il capitale fisico o qualche materia prima, ma il capitale umano e la sua capacità creativa”. Quindi i cambiamenti che incidono sulla vita lavorativa derivano da cambiamenti più grandi del mercato, dell’economia e dei sistemi produttivi. E il famoso fattore primario, una volta erano i beni materiali o le risorse finanziare, oggi, quasi tutti i grandi economisti sono concordi nel fatto di dire che è la persona il fattore primario su cui investire. Un premio Nobel per l’economia, Heckman, uno studioso molto autorevole, sostiene che per il lavoro odierno ci vuole un uomo dotato di una personalità completa, non e mi rifaccio a qualche considerazione fatta prima da chi mi ha preceduto, non un uomo divorato solo dall’ansia di riuscita o distaccato dalla realtà. Quindi in questi cambiamenti l’io è colui che fa la differenza per affrontare le sfide che abbiamo davanti. Mi ha molto colpito da questo punto di vista, e arrivo sul tema dei giovani, lavorare con il collega Giorgio e altri amici, con una trentina di giovani nella preparazione della mostra, che è qui esposta al Meeting, “Ognuno al suo lavoro”, che invito tutti anche a andare a vedere perché è veramente una bellissima occasione. Cos’è successo trovandosi con questi trenta giovani circa, ai primi anni dell’esperienza lavorativa, tra i 26 e i 33 anni e ai primi anni della costruzione della propria famiglia? Cos’è successo dialogando con loro sul tema del lavoro? Sono emerse un sacco di domande, molte molte domande, un fiume di domande, domande del tipo “Quando un lavoro piò essere veramente utile per sé e per gli altri?”, “Quali sono i criteri per scegliere un lavoro?”, “Si può accettare un lavoro che non piace?”, “Cosa fare quando il lavoro è così oberante da non lasciare alcuno spazio al resto?”, piuttosto che “Come fare a conciliare l’essere mamma e la carriera?”, molte giovani madri escluse dalla carriera professionale perché diventano madri. “Che cosa è più importante da tener conto nei primi anni dell’esperienza lavorativa?”, “Lo stipendio o la soddisfazione?” Domande che oggi sono proprio dentro la vita delle persone e che dicono proprio che oggi per il lavoro, queste domande, queste persone hanno bisogno di esistere, innanzitutto, perché esistono e non possono trovare delle risposte teoriche. Infatti dialogando con loro qual è stato il modo per rispondere a queste domande? Non da professori, dirgli come doveva essere, ma provare a incontrare persone che lavoravano alle quali sono state poste queste domande. E questo è il cuore, tra l’altro, della mostra, cioè porre queste domande a persone che stanno lavorando e vedere qual è l’esperienza, quindi ripartire dall’esperienza. Perché questo incontro con l’esperienza è stato ciò che ha cominciato a far capire di più che queste domande fanno parte dell’esperienza di tutti: impiegati, dirigenti, imprenditori, operai… e stare di fronte a queste domande significa fare i conti fino in fondo con l’idea che uno ha di sé e quindi è un problema di concezione. O, come diceva Tommaso Agasisti nell’introduzione, è un problema di educazione. Diventa un problema di educazione, credo innanzitutto la capacità di rifondare il mercato del lavoro oggi. C’è bisogno che queste personalità, che questi io vadano al fondo di ciò che gli sta a cuore. E questo fatto nasce proprio nell’educazione della persona. Il ruolo fondamentale del percorso di istruzione, formale, di formazione nel mercato del lavoro, di relazione nella capacità di relazionarsi con gli altri, questo diventa fondamentale nella crescita di questi io. E chiudo con quella che credo possa essere una delle caratteristiche primarie della questione educativa, anche qui con una citazione di Saint Exupery, diceva: “Se vuoi costruire una nave, non radunare uomini solo per raccogliere il legno e distribuire loro i compiti, ma insegna loro la nostalgia del mare ampio e infinito.” Questa è credo la posizione che ci serva oggi per cambiare il mercato del lavoro. Grazie.

TOMMASO AGASISTI:
Grazie Professor Mezzanzanica. Io non so voi cosa ne pensiate, io sono molto grato a tutti e tre per le cose che ci avete raccontato e per gli spunti che ci avete dato, ho imparato molto dalle cose che ci avete descritto. Vi vorrei provare a coinvolgere in una “mission impossible”. Io mi sono segnato un paio di spunti su ciascuno dei vostri interventi e vi chiederei di provare a reagire rispetto a questi, tenendo insomma la tempistica, sappiamo che dobbiamo chiudere entro le 13, quindi reagendo con un breve intervento di 5 minuti ciascuno alle cose che vi chiederei. Comincerei da Max Ibarra. C’è un aspetto di quello che hai raccontato che mi ha molto colpito, quando hai detto “Io cerco sempre di capire le caratteristiche delle persone che ho di fronte per decidere se assumerle o no e per fare cosa”. Come fai a fare questo? Cioè mi piacerebbe capire, se adesso io venissi da te e tu dovessi decidere se assumermi o meno, cosa mi chiederesti per fare questo?

MAXIMO IBARRA:
Bè intanto ti assumerei, subito

TOMMASO AGASISTI:
E poi c’è un altro aspetto forse legato a questo e che è: tu hai parlato molto di trasversalità e poi hai chiuso con un appello agli insegnanti delle nostre scuole di coltivare i talenti. E le due cose a volte possono sembrare opposte: cioè da un lato coltivare il mio talento significa specializzarmi, mentre essere trasversali richiede un’attitudine diversa. Mi piacerebbe se su queste due cose potessi reagire

MAXIMO IBARRA:
Si, magari parto dalla seconda. Per me trasversalità non significa il fatto che sappia tutto. Ma è una trasversalità di pensiero, è quel concetto di vista d’insieme, saper collegare quelli che si chiamano i punticini. E molto spesso le aziende americane le chiamano helicopter view, tendono a dare sempre queste definizioni molto molto materiali. Cioè l’helicopter view è praticamente vedere il campo dall’alto per riuscire a capire bene dove sono le montagne, le valli, i fiumi, quindi rendersi conto un po’ della topografia in maniera molto più completa. E questo ti permette di avere una lettura ampia di quella che è la realtà che si sta affrontando e permette anche altresì di comprendere come il proprio talento, le proprie competenze, le proprie passioni possano mettersi al servizio di questa realtà che tra l’altro è in continua evoluzione. Quindi per me “trasversalità” significa avere la visione d’insieme e poi ha un secondo significato molto importante che è quello di collaborare con le altre persone, con gli altri gruppi, che è uno dei compiti in assoluto più complicati che esista, perché superare quell’individualismo, mettersi al servizio di altre persone e ascoltare quello che le altre persone hanno da dire – perché le altre persone hanno chiaramente la possibilità di darti un valore aggiunto su quello che fanno – è un compito molto complesso. Quindi non sono due concetti antitetici ma sono sostanzialmente complementari, perché l’uno permette e crea, prepara il terreno per far si che il proprio talento possa avere una maggiore profondità. Per quanto riguarda invece il primo concetto, del come capire cosa fanno le persone, che caratteristiche hanno, che caratteristiche non hanno, non credo che ci sia una ricetta specifica anzi, non c’è una ricetta specifica. Penso che sia piuttosto un’attitudine che comunque non deve essere sostanzialmente qualcosa con la quale si nasce e poi basta, la si può sicuramente alimentare, e ha come alimento principale l’osservazione: bisogna osservare e cercare di capire quando una persona ha, come dicevamo poc’anzi, un’attitudine di un certo tipo piuttosto che un’attitudine di un altro, e questo lo puoi fare anche con molta esperienza, non è soltanto un tema che tu hai innato, ma anche un tema che puoi tranquillamente alimentare nel tempo attraverso l’esperienza e nasce dalla semplice considerazione che molto spesso nelle aziende le persone non fanno il mestiere che si confà di più alle proprie caratteristiche, creando anche un senso di frustrazione molto grande e poi con tutte le conseguenze che questo comporta. Per cui bisogna sempre cercare di mettere le persone in un contesto nel quale possano liberare quella creatività di cui parlavamo prima. Non è facile, è un lavoro molto complesso, richiede tanta osservazione; richiede anche quell’esercizio di mettersi un po’ nei panni dell’altra persona, che è un concetto di empatia. L’empatia significa esattamente questo: comprendere quello che l’altra persona di fronte a te sta provando, quello che la persona di fronte a te ambisce da un punto di vista delle proprie agende personali. Quest’empatia è qualcosa che si riesce a coltivare ed è molto importante perché si capiscono non solo le ambizioni, ma le caratteristiche e a quel punto uno riesce a fare una valutazione molto più completa di come quella persona possa dare un contributo importante alla realtà. Poi esiste un altro aspetto che è più mio, di mia esperienza, che p qualcosa che chiaramente riguarda più me e la scelta delle persone che faccio. Potrei fare moltissimi esempi, però a me colpiscono in particolar modo le persone che sono molto positive, ottimiste. Non l’ottimismo fine a se stesso che rischia di essere sostanzialmente qualcosa di molto falso, di costruito, ma l’ottimismo legato al fatto dell’energia che tu, Matteo, dicevi prima: “ho voglia di fare, mi metto in discussione e anche se non ho tutte le skills, non ho tutte le armi, non ho tutto quello che mi serve per poter portare avanti quel mestiere, però mi metto in discussione”. Ecco, questo mettersi in discussione con positività è un elemento fondamentale, l’ho sempre trovato nei ragazzi e ragazze che alla fine hanno fatto dei percorsi di carriera incredibili. Vi racconto anche quest’ultima cosa, poi mi taccio: nella mia attività di insegnamento – io insegno Digital marketing, l’ho detto prima – ho la possibilità di poter osservare questi ragazzi durante tutto il percorso, non dico di laurea perché sarebbe eccessivo, però nell’ambito del corso che insegno io, dall’inizio fino alla fine, e alla fine faccio sempre un ragionamento dicendo: “bene, di questi, che ne so, 100, per fare un esempio, ragazzi, secondo me questi 20, questi 30 riusciranno a fare una carriera strepitosa. E in effetti la correlazione è praticamente uno. Perché? Perché hanno quella voglia di fare, una fame pazzesca, lo leggi negli occhi, è proprio qualcosa che ti brilla e non c’entra nulla con il fatto che è più intelligente o meno intelligente; spesso non sono neanche quelli che si laureano con 110 e questo è un altro punto di attenzione. Le aziende devono dare tantissima attenzione anche a questo concetto del voto di laurea: non è l’unico elemento da considerare. Mi è capitato di assumere persone che non hanno un voto di quelli prestigiosissimi però, osservandoli, hanno quella capacità di poter fare e di mettersi in discussione e di lavorare con gli altri e di lavorare, di collaborare, che poi li ha portati molto molto un alto. Ecco, bisogna prestare attenzione a tutti questi aspetti per poter farsi un quadro molto chiaro di qual è la persona e di come poterla inserire affinché possa liberare quella passione e creatività.

TOMMASO AGASISTI:
Grazie. Ti ringrazio per questa risposta e a proposito dell’offerta di prima io ho preso 105, quindi tienilo a mente.

MAXIMO IBARRA:
Rientri perfettamente nel range.

TOMMASO AGASISTI:
Un paio di domande per Matteo Marzotto.

MATTEO MARZOTTO:
Io ho preso 36 alla Maturità quindi…

TOMMASO AGASISTI:
Sei perfetto!

MATTEO MARZOTTO:
Io sono il numero uno qua. Girando la cosa, sono il numero uno!

TOMMASO AGASISTI:
Una frase mi ha molto colpito di quello che hai raccontato, ed è anche perché non me l’aspettavo che avresti esordito così, quando hai detto: “io non ho sempre fatto tutto giusto”. Questo è, secondo me, un elemento che, rispetto al tema che abbiamo discusso oggi, molto importante, cioè: cosa salva dall’errore? C’è una capacità diciamo, se c’è una preoccupazione che tanti ragazzi che entrano per la prima volta nel lavoro, ma anche andando avanti mantengono, è questa paura di sbagliare, che forse fa il paio con quella fame, con quell’energia che raccontate voi. Più si ha paura di sbagliare, più è difficile avere fame, di avere coraggio di rischiare. Cos’è che salva su questo? Perché mi pare che abbia a che fare non solo con il lavoro ma con la scelta di cosa fare nella vita e il secondo elemento che è legato a questo: quando tu hai parlato di cosa significa riguadagnare quello che hai “ereditato” e tu hai citato molto quest’aspetto dell’impegno, che si capisce. Però mi pare poi che nel racconto che hai fatto della tua esperienza insieme all’impegno personale c’è anche l’aver seguito una traccia lasciata, un suggerimento lasciato: in particolare hai raccontato di tuo nonno. Allora mi pare che questo sia uno di quegli elementi che può aiutare in quell’impegno.

MATTEO MARZOTTO:
La domanda numero 1 non lo so… è una domanda che mi pongo… appunto è una domanda che, come ho detto, essendo ancora giovane mi continuo a porre. Mi sono scottato e devo dire di essere un po’ meno spavaldo di prima di essermi scottato, dopodiché è una questione di coscienza e credo che intanto la scottatura serve a crearsi un’esperienza: è molto improbabile che tu ricada, specialmente se è fresco, sull’errore che hai già fatto. Sono tiepido di fronte a quell’adagio famoso per cui l’America, questo melting pot così di culture che continua a cambiare… in America se fallisci… e allora c’è quello famoso che ha fallito 7 volte e poi all’ottava volta è diventato trilliardario e va beh, va beh. Io su quelle cose lì… siamo a Rimini, stiamo parlando tra italiani e per quanto ci sforziamo di diventare multiculturali, diciamo, questo è quello che in questo momento… il terreno di riferimento. Credo che però qualche scottata, qualche bastonata sia utile. Ho parlato di coscienza, ma forse potrei anche parlare di un po’ di umiltà; in fondo le persone intelligenti sono, non tutte, ma insomma… però ecco è un po’ di autocritica e forse un po’ di autoironia e anche un po’ di umiltà credo che… mio nonno Gaetano diceva in Veneto i famosi “dò schei de mona in tasca”, cioè “sentirsi un po’ stupidi”, qualche volta e mettersi in gioco, come abbiamo sentito. Io credo che, la risposta piena non ce l’ho, però credo che se le cose nella vita si guardano facendo tesoro dei propri errori, poi quello, almeno quello non lo rifai, tanto… io sono totalmente in accordo con quello che ha detto Mazza adesso: secondo me tutti gli elementi in fila in quel certo momento, per affrontare quella certa situazione, non li avremo mai nella vita, è per definizione così. Se no dovremmo avere l’esperienza di chi ha 70 anni con l’energia di chi ne ha 20… è un po’ improbabile, no? A proposito di Faust e quindi facciamo finta che intanto ci siamo levati un problema. Non avremo mai tutti gli strumenti, però senz’altro abbiamo acquisito un po’ di punto di vista, un po’ di cautela, un po’ di desiderio di ascoltare gli altri, un po’ di ammettere anche forse di essere stati avventati. Penso che siano tutti elementi che poi formano una personalità abbastanza equilibrata. Qualche mese fa sono stato invitato da una grande università italiana, grande grande, a parlare di fashion e c’erano altre 4 persone vicino a me, formidabili dal punto di vista della loro storia e quindi anche evidentemente diciamo molto più formidabili di me… io sono stato fortunato, ero al posto giusto al momento giusto e mi sono fatto una reputazione in almeno 2 occasioni di un certo tipo. Dopodiché salutando il Preside gli ho detto: “ma professore, perché non proviamo una volta, senza stampa, in una sala come questa – c’erano 400, 500 persone – perché non proviamo a raccontare i fallimenti invece di raccontare i…” “Ah, interessantissimo! Sarebbe fantastico”… io però non l’ho mai più sentito, ci siamo scambiati il biglietto e non l’ho mai più sentito. Perché il tema è un po’ quello che dicevo: questi altri 3 bravissimi hanno raccontato le loro storie… che quelle di successo è l’ultima, ma io mi ricordo perchè – ormai ho qualche anno -… quando loro faticavano, quando li ho anche visti piangere, almeno 2 di quegli altri 3, perché immaginate il 2008, vi immaginate cosa è successo, non venivano i clienti, perché avevano sbagliato qualcosa… ma secondo me è un po’ questo che terrei, terrei quei famosi “dò schei de mona in tasca” e cercherei di andare avanti secondo coscienza. Io sono convinto che dagli errori si fa buon tesoro. Poi 7 fallimenti è meglio non viverli perché se no uno arriva che è schiacciato dai 7 fallimenti, però uno o due si possono sopportare e poi crescere, saltare fuori meglio di prima.

TOMMASO AGASISTI:
Grazie. Infine, un paio di cose per Mario. Quando descrivevi la velocità del cambiamento del mercato del lavoro mi è venuta in mente la faccia che avrebbero fatto persone che si affacciano sul mercato del lavoro, o che avrebbero fatto almeno fino a pochi anni fa, in cui questa mobilità era vista con grande paura. Come raccontare questo cambiamento che stai descrivendo a un ragazzo che oggi si affaccia sul mondo del lavoro, senza mettergli paura, ma dicendogli che questa è un’opportunità per lui? Quali sono le caratteristiche che ti pare oggi il mercato del lavoro possa avere e che possa avere domani per favorire questa energia anziché lo scoraggiarsi? E, legato a questo, cioè come cercare di capire, cosa suggeriresti a questi ragazzi per capire prima le tendenze del mercato del lavoro? Voi, nel vostro centro di ricerca, ascoltate il mondo attraverso i dati, attraverso i social media, attraverso tutte le opportunità cioè informative che avete. E chi lo fa, diciamo, personalmente, si mette a guardare cosa succederà, che indizi può osservare all’interno del mondo del lavoro per capire come sta cambiando?

MARIO MEZZANZANICA:
Beh, sulla prima io ho, per evidenti ragioni, per il mestiere che faccio, l’occasione e la fortuna di dialogare continuamente tutti i giorni con dei ragazzi che fanno l’università e oggi è una domanda molto forte da parte loro, nei corsi, di imparare ance delle cose concrete. E quindi, che esperienza ho dei giovani che chiedono, con i quali dialogo, ragazzi con cui ho a che fare tutti i giorni, che mi chiedono “cosa devo scegliere”? Che esperienza c’è, come si fa a capire che la mobilità è un fattore che può non diventare negativo, ma può essere anche un’opportunità? Beh innanzitutto bisogna riflettere sul concetto che… se questo è un dato dell’esperienza oggi che fa parte della vita di oggi, il problema è aiutare i ragazzi a essere realisti: se la realtà è così bisogna cercare di capire che la realtà va affrontata e va attraversata. Non c’è storia. E che quindi uno si deve prendere le sue… cercare di capire che cosa gli consente di affrontarla. E mi ha molto colpito, vi faccio un esempio, a lezione facevo vedere, appunto, questi dati e inizio a discutere con i ragazzi di questi fattori dicendo: “cosa vi aiuta ad accettare la sfida del cambiamento?” Non facciamolo ancora sul lavoro perché stanno studiando, ma voi, nella vostra vita, cosa vi aiuta ad accettare la sfida? Il dibattito con i ragazzi è stato stupendo, perché son venuti fuori dicendo: “beh, una sfida molto semplice è che quando io sono arrivata qui come matricola”, una ragazza dice, “ogni corso mi sembrava nuovo e io mi sentivo una incapace. Di fronte a questa incapacità potevo scoraggiarmi o mettermi insieme ad altri, che si sentivano incapaci, per cercare di affrontare la novità”. Nel tempo questo diventa un metodo. Quindi, una delle questioni fondamentali è il metodo con il quale affrontare la sfida. Da dove parto? Da questo punto di vista l’andare a fondo dello scopo per cui si sta facendo una cosa, l’aiutare i ragazzi a cercare di capire di cosa c’è in gioco, cioè non cancellare quel desiderio di costruzione positiva per sé e mettersi insieme per costruire questo diventa un fattore fondamentale. In questo il rapporto, ve lo assicuro, tra giovani e adulti diventa fondamentale. Come si fa a capire le tendenze? Le tendenze, se posso dirlo così, un po’ bisognerebbe che siano rese più… c’è qualcuno che dovrebbe aiutare di più a renderle evidenti, e questo è un ruolo, secondo me, fondamentale del sistema, che manca molto nel nostro sistema pubblico di informazione. Siamo nella società dell’informazione e ci manca l’informazione o manca una sistematicità dell’informazione, questo è veramente un grande problema. Il secondo è credo quello che… io, anche qui, vi racconto un fatto che mi è capitato: due ragazze bravissime, laureate con 110 e lode alla specialistica in statistica, che quindi non hanno nessun problema a trovare un lavoro, sono venute a trovarmi e mi dicono: “prof., possiamo parlarle? Non troviamo lavoro”. E io ho detto, tra me e me: “impossibile! Cosa è successo?” e allora queste ragazze mi hanno raccontato il loro colloquio, i loro colloqui che avevano fatto. E a un certo punto, nel raccontarmi i loro colloqui, alla domanda “cosa ti piacerebbe fare? In quale mansione vuoi essere coinvolto?” loro mi dicevano, lì nel racconto che facevamo insieme nel mio studio, “gli abbiamo detto: ‘noi qualsiasi cosa.’” Perché? Perché non conosciamo cosa vuol dire lavorare. E io le ho fermate e gli ho detto: “e quindi non vi hanno assunto” “no.” “Ma tu assumeresti uno che non ha nessuna idea su di sé?” E loro mi hanno detto: “ma noi non conosciamo come è fatto il lavoro” “benissimo” allora gli ho detto, “come facciamo?” la cosa che ho proposto a loro è “andate a incontrare i vostri colleghi che si sono laureati prima, i vostri amici, e chiedetegli cosa fanno nel lavoro. Ci rivediamo tra 15 giorni”. Sono andate, hanno dialogato con i loro colleghi che erano entrati nel mercato del lavoro, gli hanno raccontato che esperienza stavano facendo, cosa stavano facendo, come erano implicati… e loro sono tornate da me e mi hanno detto: “a me piacerebbe di più fare questo”, “e a me piacerebbe di più fare quest’altro”. Gli ho detto: “scrivetelo nel curriculum, la prima frase del curriculum. Scrivete cosa vi piacerebbe fare. È vero che vi piacerebbe fare questo?” “Si”. L’hanno scritto nel curriculum, hanno rimandato il curriculum, le hanno chiamate, le hanno assunte tutte e due immediatamente. La questione è più profonda ancora che capire quali sono le professioni: ma cosa voglio? Come mi metto in gioco? Per questo la questione educativa diventa fondamentale. Grazie.

TOMMASO AGASISTI:
Io vi ringrazio tutti e 3, credo a nome del Meeting ma sicuramente a nome anche mio personale perché, non so voi cosa ne pensiate, ma io vengo al Meeting per incontrare storie, persone come voi. Quindi grazie davvero di essere venuti. Ricordo a tutti che il Meeting è un evento che si fa anche grazie a chi contribuisce e anche quest’anno è possibile contribuire al Meeting con delle donazioni. Trovate all’interno dei padiglioni delle postazioni con scritto “Dona ora”, all’interno dei desk ci sono volontari con la maglietta verde che raccolgono donazioni. Vi ringraziamo sin d’ora per la vostra generosità. Ciao a tutti e buon pranzo.

Data

23 Agosto 2017

Ora

11:15

Edizione

2017
Categoria
Incontri