SANTA MESSA

Celebra S.Ecc. Mons. Francesco Lambiasi, Vescovo di Rimini.

 

SANTA MESSA
Ore: 11.15 Auditorium B7

EMILIA GUARNIERI:
Benvenuti a tutti. Sta per iniziare la Santa Messa con cui diamo il via a questa XXXIII edizione del Meeting. La Santa Messa sarà presieduta da S. Ecc. Mons. Francesco Lambiasi, Vescovo di Rimini. Concelebrano: S. Ecc. Mons. Piergiacomo Grampa, Vescovo di Lugano; S. Ecc. Mons. Gjergji, Vescovo del Kosovo, don Javier Prades-López, Rettore dell’Università San Dámaso di Madrid, don Stefano Alberto, don Roberto Battaglia.
Vi do due avvisi. Subito dopo la celebrazione della Santa Messa, alle ore 12:30 – il che significa quasi in continuità con la Santa Messa -, ci sarà l’incontro testimonianza di S. Ecc. Mons. Ignatius Kaigama, Arcivesco di Jos e Presidente della Conferenza Episcopale della Nigeria, che speriamo di essere riusciti ad avere qui con noi, e che abbiamo messo in questo orario proprio per l’eccezionalità della sua testimonianza.
L’ultimo avviso è che i ciliaci riceveranno la comunione qui in auditorium, presso il megaschermo di sinistra a metà del salone.
Ed ora, con grandissima gioia e con immensa gratitudine, vi do lettura del messaggio autografo inviato da Sua Santità Benedetto XVI:

Al Venerato Fratello
Monsignor Francesco Lambiasi
Vescovo di Rimini

Desidero rivolgere il mio cordiale saluto a Lei, agli organizzatori e a tutti i partecipanti al Meeting per l’amicizia fra i popoli, giunto ormai alla XXXIII edizione. Il tema scelto quest’anno – «La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito» – risulta particolarmente significativo in vista dell’ormai imminente inizio dell’«Anno della fede», che ho voluto indire in occasione del Cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II.
Parlare dell’uomo e del suo anelito all’infinito significa innanzitutto riconoscere il suo rapporto costitutivo con il Creatore. L’uomo è una creatura di Dio. Oggi questa parola – creatura – sembra quasi passata di moda: si preferisce pensare all’uomo come ad un essere compiuto in se stesso e artefice assoluto del proprio destino. La considerazione dell’uomo come creatura appare «scomoda» poiché implica un riferimento essenziale a qualcosa d’altro o meglio, a Qualcun altro – non gestibile dall’uomo – che entra a definire in modo essenziale la sua identità; un’identità relazionale, il cui primo dato è la dipendenza originaria e ontologica da Colui che ci ha voluti e ci ha creati. Eppure questa dipendenza, da cui l’uomo moderno e contemporaneo tenta di affrancarsi, non solo non nasconde o diminuisce, ma rivela in modo luminoso la grandezza e la dignità suprema dell’uomo, chiamato alla vita per entrare in rapporto con la Vita stessa, con Dio.
Dire che «la natura dell’uomo è rapporto con l’infinito» significa allora dire che ogni persona è stata creata perché possa entrare in dialogo con Dio, con l’Infinito. All’inizio della storia del mondo, Adamo ed Eva sono frutto di un atto di amore di Dio, fatti a sua immagine e somiglianza, e la loro vita e il loro rapporto con il Creatore coincidevano: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gen, 1,27). E il peccato originale ha la sua radice ultima proprio nel sottrarsi dei nostri progenitori a questo rapporto costitutivo, nel voler mettersi al posto di Dio, nel credere di poter fare senza di Lui. Anche dopo il peccato, però, rimane nell’uomo il desiderio struggente di questo dialogo, quasi una firma impressa col fuoco nella sua anima e nella sua carne dal Creatore stesso. Il Salmo 63 [62] ci aiuta a entrare nel cuore di questo discorso: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne, in terra arida, assetata, senz’acqua» (v. 2). Non solo la mia anima, ma ogni fibra della mia carne è fatta per trovare la sua pace, la sua realizzazione in Dio. E questa tensione è incancellabile nel cuore dell’uomo: anche quando si rifiuta o si nega Dio, non scompare la sete di infinito che abita l’uomo. Inizia invece una ricerca affannosa e sterile, di «falsi infiniti» che possano soddisfare almeno per un momento. La sete dell’anima e l’anelito della carne di cui parla il Salmista non si possono eliminare, così l’uomo, senza saperlo, si protende alla ricerca dell’Infinito, ma in direzioni sbagliate: nella droga, in una sessualità vissuta in modo disordinato, nelle tecnologie totalizzanti, nel successo ad ogni costo, persino in forme ingannatrici di religiosità. Anche le cose buone, che Dio ha creato come strade che conducono a Lui, non di rado corrono il rischio di essere assolutizzate e divenire così idoli che si sostituiscono al Creatore.
Riconoscere di essere fatti per l’infinito significa percorrere un cammino di purificazione da quelli che abbiamo chiamato «falsi infiniti», un cammino di conversione del cuore e della mente. Occorre sradicare tutte le false promesse di infinito che seducono l’uomo e lo rendono schiavo. Per ritrovare veramente se stesso e la propria identità, per vivere all’altezza del proprio essere, l’uomo deve tornare a riconoscersi creatura, dipendente da Dio. Al riconoscimento di questa dipendenza – che nel profondo è la gioiosa scoperta di essere figli di Dio – è legata la possibilità di una vita veramente libera e piena. È interessante notare come san Paolo, nella Lettera ai Romani, veda il contrario della schiavitù non tanto nella libertà, ma nella figliolanza, nell’aver ricevuto lo Spirito Santo che rende figli adottivi e che ci permette di gridare a Dio: «Abbà! Padre!» (cfr 8,15). L’Apostolo delle genti parla di una schiavitù «cattiva»: quella del peccato, della legge, delle passioni della carne. A questa, però, non contrappone l’autonomia, ma la «schiavitù di Cristo» (cfr 6,16-22), anzi egli stesso si definisce: «Paolo, servo di Cristo Gesù» (1,1). Il punto fondamentale, quindi, non è eliminare la dipendenza, che è costitutiva dell’uomo, ma indirizzarla verso Colui che solo può rendere veramente liberi.
A questo punto però sorge una domanda. Non è forse strutturalmente impossibile all’uomo vivere all’altezza della propria natura? E non è forse una condanna questo anelito verso l’infinito che egli avverte senza mai poterlo soddisfare totalmente? Questo interrogativo ci porta direttamente al cuore del cristianesimo. L’Infinito stesso, infatti, per farsi risposta che l’uomo possa sperimentare, ha assunto una forma finita. Dall’Incarnazione, dal momento in cui il Verbo si è fatto carne, è cancellata l’incolmabile distanza tra finito e infinito: il Dio eterno e infinito ha lasciato il suo Cielo ed è entrato nel tempo, si è immerso nella finitezza umana. Nulla allora è banale o insignificante nel cammino della vita e del mondo. L’uomo è fatto per un Dio infinito che è diventato carne, che ha assunto la nostra umanità per attirarla alle altezze del suo essere divino.
Scopriamo così la dimensione più vera dell’esistenza umana, quella a cui il Servo di Dio Luigi Giussani continuamente richiamava: la vita come vocazione. Ogni cosa, ogni rapporto, ogni gioia, come anche ogni difficoltà, trova la sua ragione ultima nell’essere occasione di rapporto con l’Infinito, voce di Dio che continuamente ci chiama e ci invita ad alzare lo sguardo, a scoprire nell’adesione a Lui la realizzazione piena della nostra umanità. «Ci hai fatti per te – scriveva Agostino – e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (Confessioni I, 1,1). Non dobbiamo avere paura di quello che Dio ci chiede attraverso le circostanze della vita, fosse anche la dedizione di tutto noi stessi in una forma particolare di seguire e imitare Cristo nel sacerdozio o nella vita religiosa. Il Signore, chiamando alcuni a vivere totalmente di Lui, richiama tutti a riconoscere l’essenza della propria natura di essere umani: fatti per l’infinito. E Dio ha a cuore la nostra felicità, la nostra piena realizzazione umana. Chiediamo, allora, di entrare e rimanere nello sguardo della fede che ha caratterizzato i Santi, per poter scoprire i semi di bene che il Signore sparge lungo il cammino della nostra vita e aderire con gioia alla nostra vocazione.
Nell’auspicare che questi brevi pensieri possano essere di aiuto per coloro che prendono parte al Meeting, assicuro la mia vicinanza nella preghiera ed auguro che la riflessione di questi giorni possa introdurre tutti nella certezza e nella gioia della fede.
A Lei, Venerato Fratello, ai responsabili e agli organizzatori della manifestazione, come pure a tutti i presenti, ben volentieri imparto una particolare Benedizione Apostolica.

Da Castel Gandolfo,

Benedetto XVI

CELEBRAZIONE DELLA SANTA MESSA

OMELIA

S.ECC. MONS. FRANCESCO LAMBIASI:
Siamo mendicanti. Nella Pentecoste 1998 Don Giussani in una piazza san Pietro stracolma di fedeli di tutti i vari movimenti ecclesiali, affermava: "Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo".
Siamo mendicanti, non siamo vagabondi, anche se spesso ci smarriamo erranti e confusi. Ci è assegnata una meta, ci è stata tracciata una strada. La meta è la santa casa del Padre, il santuario della santa Trinità. La strada non è una astratta ideologia, una formula vaga, un valore pur nobile, ma impalpabile. E’ l’umanità reale e tangibile – che cioè si può vedere, odorare, abbracciare – di Colui che ha detto: "Io sono la via".
Non siamo vagabondi condannati a girovagare a vuoto. Siamo chiamati a diventare pellegrini, ma restiamo mendicanti affamati e insoddisfatti. Abbiamo fame – una fame assillante, struggente – di vita, di infinito. Abbiamo fame di una vita infinita: infinitamente felice, sconfinata, immortale. Questa, che ci è data, ci pare troppo corta, troppo dura, troppo sofferta: la vita dei nostri affetti e dei nostri bisogni, del nostro lavoro e di qualche festa, del nostro riso e del nostro pianto.
Oggi, in un solo versetto, il vangelo ci consegna la chiave della vita, quella eterna, sovrumana, e perciò pienamente umana: "Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo". In appena due righe ci viene fornita la grammatica di base del vivere da umani, con un sostantivo: la vita, appunto, intesa nella sua accezione più alta, più larga e profonda: la "vita del mondo" (v. 51); con un aggettivo (il pane "vivo"); con un verbo: "vivrà in eterno" (v. 51). Da evidenziare anche una preposizione: "per". "Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo". Il pane disceso dal cielo, come tale, preesiste alla nostra fame e ha come unico scopo quello della vita dell’umanità di tutti i luoghi, di tutti i tempi. La pre-esistenza della Parola (il Verbo del Padre) si fa pro-esistenza: la Parola si è fatta carne per noi, per la vita del mondo. Il pane che tiene in vita il mondo è lo stesso che mantiene in via il pellegrino: è il suo viatico.
Sono varie domeniche che ascoltiamo Cristo martellare con ostinata insistenza su questo tema del pane vivo. Ma oggi il brano comincia con lo stesso versetto che chiudeva il vangelo di domenica scorsa: "Io sono il pane vivo disceso dal cielo". Questo versetto registra la "svolta eucaristica", che fa da spartiacque tra la storia precedente di Gesù e quella successiva: la sua incarnazione, anzitutto. L’espressione si trova già nel prologo del quarto vangelo: "E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1,14). Dio diventa "pane" per noi facendosi uno di noi, entrando nella nostra storia, fatta di spazio e di tempo, di orizzonti sterminati e di piccoli passi, fatta di polvere di Infinito impastata di argilla. Così l’uomo può entrare nella sfera di Dio, nella comunione con lui, attraverso la carne del Signore; e ciò contro ogni interpretazione spiritualista della sua incarnazione.
Ma nel contempo il "pane" rimanda alla sua passione futura: al suo sacrificio "per" la vita del mondo. Ora il pane non è più soltanto da accogliere nella fede; ma nella fede, è carne da mangiare, è sangue da bere. Qui il linguaggio si fa crudo e scandaloso, il tono ardito, destabilizzante: "Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita". La condizione è tassativa, senza appello: "Se non mangiate… non avete". E’ questione di vita o di morte.
L’uomo è un animale che assimila a sé le cose che mangia, ma quando mangia la carne di Cristo, è Cristo che assimila l’uomo a sé. "Partecipare al corpo e al sangue di Cristo non tende ad altro che a trasformarci in quello che riceviamo" (Leone Magno). Qualcuno aveva detto: "L’uomo è ciò che mangia", ma ha sbagliato il primo verbo della proposizione: non "è", ma "diventa". Se mangia Cristo, diventa un altro Cristo. Con san Paolo posso dire: "Non vivo più io, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20). Il Figlio di Dio ci ha amati fino a farsi divorare dal suo amore per noi; noi, amando e mangiando lui, diventiamo figli di Dio.
Questo è Gesù: un Dio che non dice: "Datemi, sacrificatevi per la mia causa toglietevi il pane di bocca per me", ma dice: "Prendetemi, mangiatemi, bevetemi". Soeren Kierkegaard vi scorgeva la prova suprema della più bella storia d’amore: "Ogni altro modo di rivelarsi sarebbe, per l’amore, un inganno".
La vita eterna consiste nel vivere da figli, amando il Padre e i fratelli, con un amore più forte della morte. Questo amore è pegno di risurrezione nell’ultimo giorno: "Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli" (1Gv 3,14a). Infatti, se è vero che "chi non ama rimane nella morte" (1Gv 3,14b), è altrettanto vero che chi ama non rimane nella morte, perché dimora in Gesù e Gesù in lui.
Ma "si può vivere così?", si chiedeva con stupore intriso di intensa commozione Don Giussani.
Siamo mendicanti di cielo, affamati di Cristo, assetati di Dio. Non siamo noi i fornitori del pane che ci sazia la fame del cuore né i produttori del vino che ci estingue la sete bruciante di Infinito. Siamo pellegrini, invitati a mangiare il pane disceso dal cielo per diventare a nostra volta pane per la vita dei fratelli.
Siamo mendicanti, sfamati e mandati a dire ad altri mendicanti, dove insieme possiamo trovare da mangiare.
Questa è vita vera ed eterna. Questa è perfetta letizia.

Trascrizione non rivista dai relatori

Data

19 Agosto 2012

Ora

11:15

Edizione

2012

Luogo

Auditorium B7
Categoria
Incontri