IO E TU: UN BINOMIO INSCINDIBILE

Io e tu: un binomio inscindibile

Partecipano: Giancarlo Cesana, Docente di Igiene all’Università degli Studi di Milano Bicocca; Giacomo Rizzolatti, Docente di Fisiologia Umana e Direttore del Dipartimento di Neuroscienze all’Università degli Studi di Parma. Introduce Giorgio Bordin, Medico Internista e Direttore Sanitario Ospedale Piccole Figlie di Parma.

 

GIORGIO BORDIN:
Buongiorno a tutti. Oggi siamo qui con Giacomo Rizzolatti, Professore di Fisiologia Umana e Direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Parma e Giancarlo Cesana, Professore di Igiene all’Università degli Studi Milano Bicocca e Presidente dell’Ospedale Policlinico Ca’ Granda di Milano. L’incontro di oggi ha le sue ragioni che lo legano a filo doppio con il titolo del Meeting dell’anno scorso, La conoscenza è sempre un avvenimento, e con il titolo di quest’anno, in cui si parla del cuore come immagine dell’autocoscienza dell’io colto nei suoi bisogni e desideri originali. Per rendere evidenti queste ragioni, racconto un aneddoto, ma questo aneddoto è ciò da cui è nato in me l’interesse ad approfondire un percorso che, tra l’altro, ha portato anche alla conoscenza del professor Giacomo Rizzolatti, che oggi è con noi a raccontarci dei suoi studi. E l’aneddoto è questo: quando nel 2004 io e Laura, storica dell’arte, stavamo preparando una mostra, Curare e guarire, occhio artistico, occhio clinico, in mezzo a molti quadri eravamo intenzionati a pubblicarne uno di Christian Krogh, di cui avevamo solo riproduzioni a bassa risoluzione. Il quadro è questo, il titolo è La bambina malata e ritrae sua sorella Sofie, che era malata di tubercolosi, di cui sarebbe morta poco dopo. Ce l’avevamo a bassa risoluzione e quando ricevetti il fotocolor e poi il file ad alta definizione, lo visionammo insieme e feci uno zoom sul volto, quasi casualmente. Come ora per voi, lo schermo si animò con questo volto stupefacente e pervaso di uno sguardo particolarmente intenso. Per me, l’esperienza si fermava qua, però per Laura ci fu come un sussulto. Dovete sapere che, alcuni mesi prima, il suo ultimo figlio piccolino, di pochissimi anni, era stato sottoposto a un trapianto di cuore. Il trapianto era avvenuto in condizioni critiche, il bambino era rimasto in terapia intensiva per molti mesi e poi ancora per altri mesi era rimasto sveglio ma intubato, quindi incapace di parlare, e poteva praticamente comunicare con lei soltanto con lo sguardo.
Al momento dell’episodio, il bambino stava bene, adesso sta benissimo, ma sicuramente nei mesi prima c’erano stati momenti veramente drammatici e critici. La cosa di cui rimase stupita, era che lo sguardo di quella bambina fosse il medesimo che lei aveva visto sul volto di suo figlio, uno sguardo che non aveva mai percepito prima. Quelli che la andavano a trovare in ospedale, le dicevano che questo bambino sembrava triste, ma lei era convinta ed era certa del fatto che lì non ci fosse tristezza ma come una volontà di affermazione di qualche cosa, insieme alla serenità del fatto che era con lei. Ancora di più, lo stesso sguardo l’aveva un altro bambino nello stesso reparto, in condizioni analoghe. Lei parlava con la madre di questo, commentavano questo fatto, di cui era diventata in qualche modo esperta, perché ne aveva fatto esperienza, e poteva capire e conoscere cose che gli altri, per distrazione o per un minor coinvolgimento affettivo, non potevano conoscere della dimensione di quel volto.
Ecco, mi colpì che un pittore norvegese, duecento anni prima, avesse potuto vedere la stessa cosa sul volto di sua sorella e, grazie alla sua capacità di artista, rappresentarlo. Rappresentare vuole dire rendere presente, al punto che qualche cosa di non descrivibile a parole, non analizzabile nel registro concettuale ma conoscibile nell’esperienza, poteva essere riconosciuto da qualcuno che aveva fatto un’esperienza analoga. E lei poteva indicarlo a me, introducendomi anche qui ad un’esperienza. Ci sono cose nella vita che non possono essere dimostrate, non possono essere analizzate ma possono essere conosciute: spesso sono proprio le cose che più premono. La stessa coscienza di sé non potrebbero emergere senza relazione, nel vuoto assoluto.
Allora, la neurofisiologia moderna – e Giacomo Rizzolatti ha fatto, in questo, conoscenze e scoperte molto importanti, che appunto ci racconterà – ci dice che questa dinamica riassumibile nello sguardo non è un fatto psicologico, etico o sociologico, ma è in qualche modo la legge dell’essere umano, il meccanismo con cui la nostra mente prende coscienza del mondo e di se stessa. Termino con questa frase del Gius che parla della conoscenza affettiva, dicendo che può essere più potente e immediata di quella puramente intellettiva. Scriveva così: “La conoscenza è tale solo se passa attraverso un’affezione, un’evidenza che ci commuove”. Due cose potentissime, senza evidenza non saremmo commossi, senza commozione non ci sarebbe evidenza. E allora, passo la parola a Giacomo Rizzolatti.

GIACOMO RIZZOLATTI:
Dalle parole dell’amico Bordin, avete già capito che io sono un neuro scienziato. E forse il primo quesito che vi viene in mente è: cosa ci fa un neurofisiologo a parlare su un argomento come io e tu? In fondo, l’idea è che noi studiamo meccanismi completamente diversi e questo argomento dovrebbe essere trattato da un sociologo, da uno psicologo. In realtà, le cose sono molto cambiate in questi anni e io sono qui per due motivi: uno, perché certe metodologie ci permettono di affrontare da un punto di vista nuovo i rapporti tra le persone, secondo – il messaggio che poi sarà la fine della mia conversazione -, che quello che noi scopriamo come meccanismo neurofisiologico dà forza a tutta una serie di concezioni che vedevano non nell’io, nell’egoismo, nell’individualismo la base dell’individuo, ma nel rapporto tra le persone. Questo sarà poi il discorso finale, il risultato finale. Ma cominciamo da qualcosa che tutti avete in mente. Per anni e anni, dagli anni ’50 in poi, si è pensato al cervello come se fosse un computer. La metafora del computer è entrata nel linguaggio comune, vi ricordate quando a un certo punto un computer batté il campione del mondo degli scacchi? Vi ricordate Odissea 2001? Cioè, l’idea che basta aumentare le capacità di processare l’informazione, e a un certo punto da una macchina viene fuori l’uomo. La psicologia cognitiva e gran parte delle neuroscienze ne furono fortemente influenzate: in quegli anni si pensava che effettivamente il cervello fosse un elaboratore.
Dopo, le cose sono cambiate, un po’ per critiche interne. Ci sono tutta una serie di critiche tecniche che non vi sto a dire, ma basta pensare un momento: ma il computer ha un corpo? Il computer ha dei sentimenti, il computer agisce? Noi esseri umani non siamo solo elaboratori di informazione, siamo molto di più, abbiamo un corpo che ha un ruolo importantissimo nella nostra vita. Quando leggono della resurrezione del corpo, tutti restano un po’ stupiti: perché anche il corpo, cosa c’entra? Ma in realtà il corpo è una parte essenziale del nostro essere e lo stesso vale per i sentimenti. Quindi, l’idea che noi siamo un qualcosa di astratto, una monade che sta lì e in qualche maniera elabora l’informazione, è profondamente sbagliata, sbagliata scientificamente, sbagliata socialmente. Però è ancora un’idea molto forte, e vedremo che è un’idea che pervade la vita di molte persone.
Ecco, con questa premessa adesso vediamo un momentino i dati. Prima di farvi vedere i filmati, che vi dimostreranno bene che cosa voglio dire, due parole tecniche ma semplicissime: qual è il linguaggio del sistema nervoso. Il sistema nervoso, che è fatto di neuroni che parlano l’uno con l’altro, manda l’informazione, ed è molto facile leggerla, perché si tratta di potenziali d’azione. Io ai miei studenti dicevo: noi mettiamo in contatto il sistema di registrazione con l’altoparlante, poi sentiamo tac, tac, tatatac, tac, tac, e riusciamo a capire cosa dice la cellula. Perché se metto un ago in un nervo e tocco la pelle, sentirò il tac tac ogni volta. Se metto un elettrodo nella corteccia visiva e faccio vedere degli stimoli visivi, il tac tac verrà fuori da qui. Se invece muovo la mia mano, saranno le aree che controllano il movimento che usano lo stesso linguaggio, e questo linguaggio è comune. Quindi, cosa fa il neuro-scienziato che si interessa di questi problemi? Mette degli elettrodi Nel cervello dell’uomo, degli animali, quello che è, e cerca di capire che cosa dice una cellula all’altra cellula. E facendo questo, si riesce a vedere che ad esempio le cellule visive nelle stazioni precedenti rispondono a stimoli molto semplici, poi a stimoli più complessi. Forse adesso vi faccio vedere una prima diapositiva, un primo filmato che vi rende l’idea di cosa sto parlando. Voi sentirete semplicemente questi tac tac che vi ho detto prima, e vedrete una scimmia che afferra degli oggetti. Il primo filmato dovrebbe arrivare subito, eccolo qua.

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Questo è un comando motorio che dice alla scimmia: piglia. Questa è una scimmia molto intellettuale, sa usare anche degli strumenti, in questo caso afferra in questa maniera. Non vi racconto l’esperimento, ma vedete che ogni volta che afferra, spara: il neurone si attiva. Bene, adesso avete visto cosa vediamo noi: quello che deve fare lo scienziato è capire a che cosa corrisponde questa scarica che avete sentito. E Diesel, Premio Nobel, ha dimostrato come funziona l’area visiva: qui avete visto un’area motoria, ogni volta che la scimmia vuole afferrare, scatta questo.
Ora, noi studiavamo essenzialmente quella che qui vedete, indicato come area F5, un’area motoria. La sorpresa fu che quest’area, non solo rispondeva quando la scimmia afferrava, ma rispondeva anche agli stimoli visivi. Questo andava un po’ contro la tradizione. Diceva: le aree visive stanno dietro, le aree motorie stanno davanti, in qualche maniera comunicano, ma insomma, questo è un po’ misterioso, forse ci sono aree in mezzo, più complesse. E qui abbiamo trovato neuroni che sparavano, sia quando la scimmia afferrava che quando vedeva oggetti, e fino a qui eravamo ancora nelle concezioni tradizionali. Ma poi comparvero neuroni che abbiamo chiamato neuroni mirror, neuroni specchio, di cui vedete un esempio: è la stessa cellula, lo stesso neurone che spara quando la scimmia afferra. Cioè, lei vede, e nello stesso si attiva il neurone che determina il movimento. Vedrete molto meglio tutto questo, illustrato nel filmato successivo.

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La logica è la stessa: adesso l’afferrare è di un altro. Chi è che agisce, io o tu? E’ questo, il fenomeno, avete visto che non c’è statistica, non ci sono istogrammi: se uno mette l’elettrodo in quella regione particolare, vede questi effetti. La prossima diapositiva dimostra un piccolo controllo per quelli più critici, non è opera di condizionamento, è così. Da quando nasce, la scimmia incomincia ad agire e questo meccanismo compare. Questa diapositiva vi mostra un’altra scimmia, è un estraneo, la scimmia è una che non c’entra niente, sta lì seduta e mangia; eppure, nel cervello dell’altra scimmia ogni volta c’è una scarica. Quindi, quando io vedo una persona che afferra, senza aspettare che mi dia il cibo, questi neuroni segnalano l’afferrare, il prendere, il rompere, il lanciare: c’è tutto un vocabolario di azioni che sono lì nel cervello, sono mie ma risuonano anche quando voi fate qualcosa di simile. A questo punto, ci sono stati dei problemi: come interpretare questo? Uno dice, vabbè, state parlando di scimmie, può darsi che le scimmie scimmiottino, quindi in realtà dovrebbe essere una forma di imitazione. Ora, stiamo parlando di macachi, qui, e i macachi non sanno imitare. Quando parlate con gli etologi, vi dicono che possono imitare magari una smorfia, uno fa così e la scimmia risponde. Insomma, c’è questa possibilità di comunicazione gestuale, ma non con le braccia. Quindi, non hanno nessun meccanismo che faccia loro imparare per imitazione: è una cosa nostra, dell’essere umano, l’imparare per imitazione.
Allora, avevamo un’altra possibilità: può darsi che invece serva per capire, cioè, capire vuol dire non solo ragionare su qualcosa ma avere qualcosa dentro di noi. Vi faccio un esempio filosofico, fatto da un australiano che parla di Mary. Mary è una scienziata bravissima che sa tutto sul colore, sa la fisica, sa la fisiologia, è la più grande esperta mondiale del colore rosso, lei sul rosso sa tutto. Poi un mago cattivo, per qualche motivo, fin dall’infanzia le impedisce di vedere il colore rosso. E un giorno questo maleficio sparisce e lei vede il rosso: capisce cosa ha visto? La risposta è no. Lei aveva una capacità intellettuale di conoscere tutto ma non aveva nessuna esperienza. Questo è il tipo di conoscenza che noi proponiamo porti questo neurone. Cioè, una conoscenza che ti permette di percepire, avendo tu l’esperienza dell’afferrare, cosa vuol dire l’afferrare per l’altro. C’è questo dialogo tra io e tu, portato da questi neuroni. Questa diapositiva lo dimostra. Direte: va bene, serve per capire, ma com’è?
Ora, se guardate, questa è una nostra studentessa che afferra degli oggetti, afferra un arancio. La scimmia sta seduta come state seduti voi e vedrà il gesto di afferrare oppure quello schermo nero bloccherà la visione, per cui non vedrà afferrare, però sa che c’è un oggetto. Se si tratta di capire, dovrebbe sparare, perché la scimmia capisce come capirebbe chiunque di noi. Se io faccio questo movimento e là c’è una mela, non lo faccio per caso. Questo che vedete è un effetto mirror: ha capito, c’è stata nel suo cervello una rappresentazione di quello che avviene, quindi lo capisce anche se non lo vede. Questi neuroni sono stati scelti appositamente, sparavano solo quando la scimmia vedeva. Salto molti passaggi per arrivare alla prima conclusione. Cito Merleau-Ponty perché credo sia un filosofo che ha intuito questi concetti, come d’altronde Husserl. Diceva: il senso del gesto non è capito, non è dato, ma capito e ricatturato dallo spettatore. C’è una reciprocità delle mie intenzioni nei gesti degli altri, è come se le intenzioni delle altre persone abitassero nel mio corpo e le mie nel loro. C’è questo collegamento di tipo empatico, non un collegamento logico: questo fenomeno esiste tra noi, e quello che qui è detto con parole poetiche, è in realtà un dato provato.
Questi sono alcuni miei collaboratori, soprattutto quelli a destra, Leonardo Fogazzi, Luciano Fadiga e Vittorio Gallese, che erano col mio team fin dall’inizio. Adesso vorrei fare un piccolo passo avanti. Immaginate che io abbia qui un bicchiere: lo prendo e tutti voi capite che io ho preso un bicchiere. Però, in genere, non prendo un bicchiere senza motivo, dietro ci deve essere qualcosa di più. Se prendo un bicchiere, lo faccio, ad esempio, perché voglio bere o perché lo voglio dare a un amico o perché lo voglio buttare via. Quelle che finora ho descritto sono azioni, ma c’è qualcosa di più: per vivere in un mondo con gli altri, devo capire anche le loro intenzioni. Ora, queste intenzioni le capisco ancora mediante il meccanismo mirror. Con Fogazzi abbiamo fatto degli esperimenti in cui la scimmia doveva afferrare un oggetto, per metterlo in bocca o per metterlo in un contenitore. Ad esempio, c’era del cibo che doveva mettere in bocca o mettere via. Senza farvi vedere i dati, che sono molto convincenti, abbiamo trovato che i neuroni sparano già predisposti per una certa azione. Quando io afferro un pezzettino di pane e lo voglio mettere in bocca, ho già pronto tutto il programma motorio per mangiare.
Cos’è interessante? E’ che molti di questi sono neuroni specchio, sono neuroni mirror: quando vedete che io afferro un pezzettino di pane, già immediatamente avete la comprensione immediata, neurofisiologica, della mia intenzione. Certo, se poi vedete che il pane è sporco, che ho la testa girata, avete altri criteri per dire di no, ma questo è il secondo punto. Quindi, i neuroni specchio hanno permesso di chiarire, uno, che esiste un meccanismo di comprensione empatica e non intenzionale, due, che questo meccanismo è in grado di risolvere un problema in parte filosofico, cioè come io capisco le intenzioni degli altri a un livello basso, a un livello di intenzione motoria. Io direi che gli aspetti tecnici li trascuriamo e andiamo direttamente all’uomo.
Ieri a cena mi hanno chiesto: ma tu facevi sempre esperimenti sulle scimmie? No, in realtà io ho fatto moltissimi esperimenti sull’uomo: anzi, quando abbiamo scoperto questo meccanismo, abbiamo subito cercato di vedere se esisteva nell’uomo. Una delle collaborazioni più fruttuose è stato col San Raffaele, dove lavoravano dei neuropsicologi come Perani, e c’era un ottimo organizzatore: mi fa piacere ricordare, che è l’attuale ministro Fazio. Allora dirigeva quel Centro, l’unico Centro in Europa che permettesse di fare questi esperimenti. Quello che vi faccio vedere adesso però non è un nostro esperimento, ma ciò che gli americani definirebbero un cartoon, cioè una specie di sintesi di tantissimi esperimenti che mettono in evidenza quale sia l’area del cervello umano che risponde, quando osservo una persona afferrare. Vedete quanto tessuto c’è dentro? E’ una grossa parte del cervello: perché così tanto? Un motivo è dato da ciò che in neurofisiologia viene chiamata la somatotopia: c’è una zona del cervello per la mano, una zona per la bocca, una zona per il piede. Quando osservo qualcuno che calcia una palla, uso dei neuroni che sono diversi da quelli che uso quando vedo uno mangiare. E questo è indicato qui, c’è una regione per la bocca, per la mano, per il piede.
Poi c’è un altro motivo e qui vorrei raccontarvi un mezzo aneddoto molto bello. Uno scienziato inglese, a un certo punto, stava per diventare professore ad Oxford: ebbe una crisi sentimentale e decise, vado via. E andò nel Rwanda a studiare i gorilla. Studiava i gorilla da un punto di vista scientifico, guardava cosa facevano, e la sua grande sorpresa era vedere che questi gorilla non facevano niente di intelligente. Non c’era alcun segno ovvio che i gorilla usassero la loro intelligenza per un vantaggio pratico. Per quanto guardasse, non vedeva nulla che lo colpisse come intelligente, lasciando perdere ogni segno che potessero risolvere difficili problemi concettuali. Ma allora, questo gorilla che ha un cervello enorme, cosa ne fa? Perché ha un cervello cosi grande? L’evoluzione è improvvisamente impazzita?
Il cervello costa, in termini di metabolismo, di equilibrio di peso: è un organo molto costoso. E il gorilla? Penso che abbiate già capito la risposta: quello che conta non è risolvere un problema matematico ma risolvere problemi sociali. Il gorilla, apparentemente, fa la vita più beata di questo mondo, perché non ha nemici. Lui si sveglia la mattina, gironzola, mangia, va su un albero, poi dorme ancora, gironzola ancora: insomma, è una vita apparentemente beata. In realtà, c’è tutto un gioco sociale di alleanze, di chi e con chi, chi è contro chi, e il cervello si è sviluppato, non per risolvere il teorema di Pitagora, ma per risolvere questi problemi che continuano ad essere una parte molto importante della nostra vita. E qui è la risposta del gorilla: vorrei sapere perché ho questo cervello.
Qui rinforzo un tema che vi ho già detto: quali sono le azioni che riconosciamo? Perché, ovviamente, noi riconosciamo un uccello che vola, un cane che abbaia. Abbiamo fatto un esperimento, qualche anno fa, un esperimento di risonanza. I colleghi qui mi hanno chiesto se avevamo fatto esperimenti in Italia: quasi tutti sono stati fatti qui, l’inizio è tutto italiano. Lo dico perché ogni tanto c’è questo scoramento: “In questo Paese non si può fare niente, è tutto uno schifo”. Ma non è vero! Se uno ha voglia, fa tante cose, certo, non avevamo la PET, a Parma non avevamo i sistemi di registrazione nell’uomo, però è bastato andare a Milano, parlare con Fazio e abbiamo fatto gli esperimenti. Se stavo a Parma, potevo dire: “Oh mamma mia, in America ogni laboratorio ce l’ha e noi no, poveretti!”. Ma basta darsi da fare, eh!
Comunque, torniamo alla diapositiva, questo è un esperimento che abbiamo fatto in Italia. Abbiamo presentato, attraverso filmati, tre azioni che può fare sia un uomo che un cane che una scimmia. Tutti noi mordiamo. Poi abbiamo presentato una seconda serie di azioni in cui c’erano dei gesti comunicativi: lo studente leggeva il giornale, si vedeva il labiale, come dicono i giornalisti; il cane abbaiava ma non si sentiva il suono; e per quanto riguarda la scimmia, faceva quello che vi ho già detto, il gesto che fanno le scimmie quando vogliono fare amicizia. Bene, abbiamo fatto l’esperimento, qui vedete i risultati. Guardate la parte destra, le macchie sono praticamente uguali, l’emisfero di sinistra, che è rappresentato a destra, ha le macchie identiche. Quindi, quando un cane morde, risuona nel nostro cervello la capacità di mordere: morde lui, mordiamo anche noi. Qui, invece, il cane abbaia e la scimmia fa libs-making, ma il nostro cervello non lo segnala. Segnala quando lo studente legge ma non il resto. Quando il cane abbaia, quello, sì, lo capiamo, non con la nostra empatia, lo capiamo perché sappiamo come abbaia il cane.
D’altronde, c’è un altro esempio un po’ curioso, uno di quei giochi filosofici. Immaginate che arrivi un marziano il quale, quando è contento, è verde, quando è scontento è rosso. Voi cosa capite? Capite quando è contento o scontento, ma non avete nessun aspetto empatetico con lui, non è che capiate cosa vuole dire se arrossisce. Lo stesso è qui. Il cane abbaia, lo capiamo ma non sappiamo cosa prova il cane che abbaia.
Andiamo avanti. Questo è l’altro aspetto che riguarda noi stessi, cioè, noi, oltre a quello che gli psicologi chiamano gli aspetti freddi del nostro comportamento, abbiamo gli aspetti caldi, abbiamo le emozioni. E questo è un altro esperimento che abbiamo fatto, provocando emozioni con stimoli naturali, ad esempio cattivi odori: le uova marce sono tremende per tutti, evocano una smorfia di disgusto. Guardando persone che sono nelle condizioni di disgusto – di nuovo elimino un po’ di aspetti tecnici – si attiva l’insula, una regione legata alle emozioni. Vi faccio vedere il risultato. Ecco, quando uno sente odori spiacevoli, gli si attivano quelle regioni in cui vedete le macchiette rosse, soprattutto l’insula. Le macchie rosse sono quando una persona vede, le bianche quando l’emozione coincide esattamente, l’emozione mia e l’emozione tua. Cioè, noi abbiamo una parte del cervello che si emoziona sia quando sente il cattivo odore, sia quando vede un altro che lo sente.
Un gruppo inglese che ha fatto simili esperimenti sul dolore, ha trovato la stessa cosa. Se io ho uno stimolo che fa male a me, e vedo un mio caro che ha un dolore, provo dolore dentro il cervello, pari pari. Non è che dico: “Oh, mamma mia, quello ha male”, ma lo sento come mio. C’è questo legame empatico che non è solo per le azioni fredde ma anche per le emozioni, soprattutto per quelle negative, per le positive c’è qualche dubbio su come vadano le cose. Se ci pensate, questo ha una sua logica, perché se uno sta male è importante intervenire, aiutare, fare qualcosa. Se uno sta bene, beh, siamo contenti tutti, ma non è che ci sia da fare molto. Quindi, credo che, dal punto di vista della storia dell’uomo, il fatto che le emozioni negative siano molto più forti e più coinvolgenti sia giusto.
Questa è una frase di Adam Smith, famoso economista, quello che ha scritto La ricchezza delle nazioni e che tutti considerano un cattivissimo individualista. In realtà, non è così, si può anche interpretarlo così ma se voi leggete questa frase vi ricredete: “Per quanto egoista possa essere una persona, ci sono evidentemente alcuni principi nella sua natura che lo fanno compartecipe del destino, delle fortune degli altri e rendono la loro felicità a lui necessaria, anche se non ne ricava niente, eccetto il piacere di vederla”. Secondo me è una frase fortissima, ed è esattamente quello che noi troviamo.
Per concludere, vi avevo detto che questi dati hanno un interesse scientifico ma anche sociale. Perché hanno un interesse sociale? Perché vi indicano che per essere felici, bisogna essere in un rapporto empatetico con gli altri. Se uno non ha questo rapporto è infelice. Voi mi direte: son parole. Beh, purtroppo c’è una malattia che mi dà ragione. Questa malattia è l’autismo. L’autismo è una sindrome molto complessa, essenzialmente su base genetica, e porta in alcuni casi ad una distruzione del sistema nervoso gravissima, con anche attacchi epilettici, eccetera. Nello spettro più alto, i disturbi maggiori spariscono e invece manca la capacità di capire gli altri. Il cuore della malattia è questa incapacità. Ora, queste persone con l’autismo sono profondamente infelici. Alcuni diventano famosi fisici, matematici, spesso hanno queste capacità di altro tipo, però non si integrano nella vita, non riescono. La cosa grave, gravissima, è che, mentre l’autismo sino a 20, 30 anni fa, era qualcosa da libro di testo, attualmente sta aumentando. Perché? C’è una grossa discussione in atto, il forte dubbio che stia aumentando perché i rapporti sociali sono diversi, soprattutto la famiglia. La mancanza di una famiglia solida, di rapporti e di legami familiari, non provoca l’autismo in tutti ma in chi è già predisposto.
E qui c’è un altro esempio piuttosto brutto, i cosiddetti orfani di Ceausescu. In Romania c’erano dei grandi orfanotrofi, dove il regime comunista dava una buona assistenza, dal punto di vista del cibo, c’erano anche persone che stavano con loro, però moltissimi di questi bambini, comprese le ragazze, che dal punto di vista ereditario sono molto meno suscettibili all’autismo, diventavano autistici. Sono stati portati in Inghilterra, sono stati adottati da famiglie e molti si sono ripresi. Ora, non dico che la causa sia stata necessariamente quella, ma è molto probabile che sia così.
Vorrei farvi vedere ancora un frase, perché è molto importante, una frase di Hume che per molti scienziati è considerata vangelo: “E’ logicamente impossibile passare dall’essere al dover essere, dedurre prescrizioni da descrizioni, valori da fatti”. Dice che lo scienziato descrive, io vi ho detto che ci sono i neuroni specchio, punto e basta, tutto il resto è praticamente illecito. Questo porta ad un completo relativismo, io non sono convinto che sia giusto. Faccio l’esempio dei valori biologici. Noi abbiamo una glicemia che è intorno a 1, se supera 1 andiamo male, se diventa molto bassa abbiamo un collasso, se è troppo alta avremo un coma. Quindi, un dato descritto, anche se scientifico, ci dice che quello è il valore. Ora, i dati biologici che vi presento non hanno minore validità scientifica degli altri, ma vi dicono che, se non ci sono quei valori, la vita non è felice.
Secondo me, il concetto di Hume è sbagliato. E per concludere, questa frase molto triste è presa da uno scrittore che ha scritto il miglior libro sul futuro. E’ il famoso The Brave New World, questo splendido Il mondo nuovo. Ecco una sintesi scritta da Huxley, quello che succede alla società del futuro: “L’idea di famiglia è pornografia, l’amore, le relazioni romantiche sono desuete, non hanno necessità. Il matrimonio, la nascita, il rapporto genitori-figli, l’essere incinta, sono cose oscene da non essere neanche menzionate in una conversazione casuale. La società si deve sviluppare con un idea di proseguimento della specie completamente diversa”. Se leggete il libro, non è che siano molto felici le persone che hanno raggiunto questo livello, sono profondamente infelici. E io temo questo, voi che siete giovani dovete fare qualcosa perché questo non avvenga! Grazie.

GIANCARLO CESANA:
Dal professor Rizzolatti abbiamo imparato che la corrispondenza che c’è tra noi e la realtà non riguarda solo il fatto che i nostri organi di ricezione e di percezione sono costituiti in modo tale da farci avvertire ciò che succede, ma che noi impariamo proprio ripetendo ciò che succede, ripetendo le azioni. Cioè, impariamo riproducendo l’esperienza, proprio attraverso una ripetizione. Tra l’altro, la parola ripetere viene dal latino ri-peto, che vuol dire ri-domandare, attraverso una domanda continua. Da questo viene il titolo che è stato proposto da Rizzolati, e cioè: Io e tu: un binomio inscindibile. Ecco, sono anch’io un ricercatore ma non parlo come ricercatore e nemmeno come medico, parlo come uomo generico che tra l’altro, ho capito, è la cosa che mi viene meglio.
L’osservazione di Rizzolatti sottolinea che noi viviamo di altro. San Tommaso d’Aquino diceva che c’è una voluntas ut natura, cioè una costituzione naturale che in qualche modo precede la voluntas, cioè la volontà, l’affronto della realtà secondo la ragione. Noi siamo fatti in modo tale per cui, quando ci rendiamo conto di ciò che avviene, ripetiamo il modo in cui siamo fatti. San Tommaso non conosceva certamente i neuroni a specchio, però in qualche modo ne aveva intuito l’esito, non solo affermando che noi viviamo di altro, come dice anche don Giussani in un passaggio centrale del Senso Religioso: “Per il fatto stesso che noi respiriamo, noi affermiamo di dipendere da altro”, dall’aria, per esempio. Non solo noi viviamo di altro, ma noi viviamo anche per altro: “La vita dell’uomo consiste principalmente nell’affetto che la sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione”. San Tommaso parla di attaccamento, perché l’affezione è l’attaccamento. Affezione viene dal latino afficio, che vuole dire sia essere colpiti che colpire, cioè si realizza un attaccamento, una dipendenza reciproca. L’uomo dipende nella sua vita da questo, e in ciò trova la sua più grande soddisfazione. L’uomo vive dell’altro, noi viviamo dell’altro e la scienza, il fascino della scienza, è che in fondo dimostra quello si sa già, dimostra l’ipotesi.
Cioè, non sempre la dimostra, ma la grande soddisfazione del lavoro scientifico è quando l’ipotesi, cioè quello che si percepisce come possibilità vera, viene provata. L’essere fatti da questo sistema neuronale così complesso – secondo me, e mi sembra che anche Rizzolatti tenda a pensare questo -, più che sottolineare un determinismo genetico nei nostri atti, nelle nostre azioni, nei nostri pensieri, cioè che noi non siamo effettivamente liberi ma siamo determinati dagli antecedenti, cioè dai geni, più che sottolineare questo, sottolinea che questi meccanismi che sono alla base delle emozioni, dei valori e dei pensieri, sono fatti per introdurci ai rapporti intersoggettivi, per introdurci a qualcosa di più, a qualcosa di più che la scintilla dei neuroni. Ci urgono ai rapporti, a riconoscere l’essere come rapporto.
Voi sapete che Dio, secondo la fede cristiana, è trinitario, cioè Dio è uno ma è tre persone. Dio vive di rapporto perché Dio è Trinità vuol dire semplicemente che noi, che siamo fatti a immagine di Lui, siamo fatti per il rapporto. Così, ascoltando quello che ho sentito prima, mi viene da chiedere: a che cosa servirebbero i neuroni, le cellule cerebrali, senza l’oggetto, senza il gusto, senza il dramma della presenza dell’altro? Ma a questo livello interviene qualcosa di misterioso. La parola mistero non indica quello che non si vede, e da un certo punto nemmeno quello che non si conosce. È la parola ignoto che indica questo, come ci fece capire il titolo del Meeting di un po’ di anni fa. La parola mistero indica quello che si sente, si vede, si percepisce ma non si possiede. Il mistero più grande al quale noi siamo di fronte è la nostra vita. Il mistero più grande a cui sono di fronte sei tu, perché non sei mio, perché non ti ho fatto io.
Nel rapporto, interviene qualcosa di misteriose che nessuna biologia finora è riuscita a spiegare. Ed è quello che noi chiamiamo comunemente anima o libertà, fede. Cioè quel legame invisibile che si stabilisce, per cui l’altro può diventare la cosa più importante per me. Questo qualcosa di misterioso riguarda l’atto d’amore. Che cosa vuol dire amare? Significa vivere per un altro, cioè a dire che la mia vita senza di te non sussisterebbe. E infatti l’amore certamente è fatto di sentimenti, ma è soprattutto un giudizio di valore. Infatti, che si ama si capisce dalla fedeltà e dal fatto che non si tradisce, o che, se si tradisce, si riprende. Ci si perdona a vicenda.
Questo è misterioso, come diceva sant’Anselmo da Aosta. Diceva che noi, con la ragione, comprendiamo che c’è qualcosa di incomprensibile. C’è qualcosa che razionalmente comprendiamo, che ultimamente ci sfugge e questo mistero è la nota dominante della vita. La nota dominante della vita, secondo me, per quello che ho imparato dalla vita, è la misteriosità della vita stessa, la misteriosità del rapporto, di questo vivere di altro e vivere per altro, la misteriosità da cui nasce l’affezione, la misteriosità della libertà per cui da un sì o da un no può dipendere tutto. Puoi cercare di tirare grande tuo figlio con il massimo dell’impegno, ti può dire di no. Senza considerare la nota dominante del mistero, senza tenere conto di questo, la vita potrebbe lasciarci muti o disarmati o anche peggio, come dice Oriana Fallaci in Un uomo, l’amara scoperta che Dio è il nome del mistero, Dio è il nome generico del mistero, Dio è il nome del grande punto interrogativo a cui tutto è sospeso: “L’amara scoperta che Dio non esiste ha ucciso la parola destino ma negare il destino è arroganza”. Il destino è quello per cui siamo fatti. Se Dio non esiste, noi siamo fatti per niente. Si vive per niente, ma negare il destino è arroganza. Affermare che noi siamo gli unici artefici della nostra esistenza è follia, è follia perché non è vero. Noi siamo stati chiamati alla vita, non ci siamo dati la vita. Se neghi il destino, se neghi lo scopo, la vita diventa una serie di occasioni perdute, un rimpianto di ciò che non è stato e avrebbe potuto essere, un rimorso di ciò che non si è fatto e che avemmo potuto fare. Si spreca il presente, rendendolo un’altra occasione perduta.
A questa considerazione amara, direi, lei si dichiarava atea, può rispondere questa frase di Benedetto XVI: “Non è la scienza, che redime l’uomo”, redime vuol dire che lo salva, lo rialza quando cade, perché una caratteristica fondamentale dell’uomo è quella di cadere, non è la scienza che redime l’uomo, “l’uomo viene redento mediante l’amore”. Quando uno nella vita fa esperienza di un grande amore, quello è un momento di redenzione. Nel momento in cui uno si sente valorizzato, si sente amato, capisce che esiste per qualcuno, capisce che è voluto, che non è più un caso. Come quando uno riesce, perché si ama così tanto il successo, perché tutti gli altri ti guardano e ti stimano e quindi tu dici: “io esisto”. E c’è una ragione. Perché il successo è un atto che riconosce, in cui il valore di una persona viene riconosciuto. Certo, può essere vanagloria, ma può essere anche il principio di amore. Quando uno fa l’esperienza di un grande amore – dice Benedetto XVI – quello è un momento di redenzione. Guardate che l’amore vuol dire che la nostra vita dipende totalmente dall’essere voluto da un altro.
Io mi ricordo che, quando nel ’68 occupavo, con quelli del Movimento Studentesco, ed ero innamorato di una che non ci stava, la domanda che mi facevo sempre era questa: “Io lotto per la liberazione e per la giustizia, ma non posso avere quello che voglio perché non dipende da me, e quindi sono l’oggetto della più grande ingiustizia”. Quello è un momento di redenzione che dà un senso nuovo alla sua vita, ma ben presto egli si renderà conto che l’amore a lui donato non risolve da solo il problema della sua vita. È un amore che resta fragile. Infatti, il dramma della vita è la fragilità dell’amore, la fragilità di me e la fragilità dell’altro, perché tutto muore, e a volte sembra che il fine della vita sia la sua fine. Può essere distrutto dalla morte.
L’essere amati ha bisogno di un amore incondizionato. Se c’è un Dio, l’esperienza che si può fare di lui è quella di un amore incondizionato, perché se Dio non è un amore incondizionato, a cosa serve? È solo il più grande fattore della più grande ingiustizia. E così vorrei fare anch’io, vedere una diapositiva per sottolineare quello che secondo me è il significato esistenziale della parola cuore che sta come titolo del Meeting. Come si fa a far vedere la diapositiva? Ecco, questo è l’Icaro di Matisse, questo uomo sghembo con il cuore acceso, rosso. Lo commento attraverso don Giussani, in un passaggio del libro che verrà presentato oggi pomeriggio, L’io rinasce in un incontro, appunto, l’indispensabilità dell’altro. Faccio solo notare l’osservazione che fece don Giussani, guardando i giovani d’oggi e vedendo la mancanza di un’energia affettiva, domandandosi come si può farli ripartire, come si può introdurre all’affezione, cioè al riconoscimento intenso, appassionato della presenza dall’altro. Noi non siamo un computer, non siamo un sistema di registrazione della realtà. Noi agiamo sulla realtà. Dicevo, appunto, quello che è necessario è un incontro, perché in un incontro si rifà tutto.
Allora, Giussani dice, commentando appunto l’Icaro: “Ciò che ci deve muovere è quel presentimento di felicità che è la letizia del vivere”. Noi siamo mossi dalla letizia del vivere. Per sperare – come disse Peguy – ci vuole una grande grazia, bisogna aver incontrato qualcosa di veramente grande che dà la letizia del vivere. “di Matisse cosa significa e simboleggia? È per quel cuore che l’uomo, la figura dell’uomo si libra negli spazi e il tempo e lo spazio non sono solo tomba, ma anche spunto per uno slancio. Quel cuore simboleggia che la figura
di Icaro è legata, aspira, cioè dipende da qualcosa d’altro, dipende. Dipende da qualcosa d’altro. Se non ci fosse qualcosa d’altro, anche evanescentissimo, quella figura cadrebbe su se stessa, cadrebbe giù, si spiaccicherebbe, come, infatti, è il destino di questa fiaba nella mentalità pagana”.
Pensate a cos’è stato il Cristianesimo alla sua origine, che ha introdotto l’amicizia, ha introdotto l’amore in un mondo dove questo non c’era, se non come principio estetico, come passione ma non come dipendenza, come sicurezza, come certezza, come appoggio, come essere fatti, come essere voluti, come diventare protagonisti. Questo non c’era. Il Cristianesimo ha introdotto nel mondo questo. Nella mentalità pagana, cioè nella mentalità mondana, l’Icaro è destinato a distruggersi a terra perché il cuore non tiene, le ali non tengono. Invece quel cuore è simbolo del rapporto con qualcosa, ci vuole il rapporto con qualcosa per fare cose grandi, ci vuole il rapporto con qualcosa, con l’essere. Allora sì, ci vuole il rapporto. Un ragazzo cresce di fronte a un grande maestro. E’ la dipendenza che non ci fa cadere, perché il mito di Icaro è la ricerca del sole con le ali di cera, cioè con i mezzi che l’uomo ha.
L’uomo ha dentro questo desiderio infinito che percorre con i propri mezzi, è come la storia dell’Ulisse, che ha voluto andare oltre le colonne d’Ercole con la sua piccola barca. Ti spiaccichi al suolo. Se dipendi, se dipendi da ciò che ti da la felicità, se dipendi dall’essere, allora puoi volare. Questo è il cuore. Una foglia lontana dal proprio ramo non è più una foglia. Che sia ancora foglia, è la sopravvivenza di un’apparenza, perché incomincia a marcire. Allora vuole dire che per essere foglia deve essere legata al ramo come il ramo al tronco, vale a dire bisogna che appartenga. Noi siamo foglie. Questo è l’Icaro di Matisse, esile quanto volete – guardate la figura sghemba -, ma è la percezione di appartenere a qualcosa d’altro. Poi guardate le stelle, ricordate quello che ha detto Scola, che il desiderio viene da de-sidera, dalle stelle. Che l’aveva detto anche don Giussani: pensate se non ci fosse don Giussani, quanti pensieri in meno avremmo! Ciò che definisce l’identità, la forza e la letizia di un soggetto o di una realtà è la sua appartenenza, ciò a cui appartiene.
Così, appunto, concludendo, il binomio Io-tu non è banale o superficiale come spesso si vive, dove vale tutto e il contrario di tutto. Non sono semplicemente 4 milioni di neuroni che fanno scintille, ma ci sono i neuroni, c’è la biologia, ci sono le circostanze, c’è il mondo, poi c’è la libertà, cioè la decisione, l’imperfezione della scelta, il rischio della scelta, perché la vita è continuamente una scelta e la libertà è scelta nelle imperfezioni, come nella nebbia: vedi una massa nera, non sai se è un toro o casa tua. Devi scegliere. È scelta e affidamento, cioè fede, affidamento all’altro. Perché quando tu ti affidi a colui che ami e che ti ama, sei libero. Io faccio sempre l’esempio del ragazzo che ho visto, che faceva un lavoro terribile – selezionava praticamente la pattumiera su un nastro trasportatore, a 15 anni facendo i turni, lavorando la notte, di giorno, eccetera – e mi sono detto: pensa se questo qui la sera prima, la domenica, il giorno prima del lunedì, va dalla ragazza che sta corteggiando da due anni e lei improvvisamente gli dice sì. Il giorno dopo, il lunedì, lui è ancora al nastro trasportatore a scegliere la pattumiera, ma è un altro uomo. È cambiato il mondo. È voluto. C’è la possibilità del destino. Appunto, è più libero, è libero, é la libertà come esperienza. In una parola unica, secondo me, quello a cui sono stato richiamato da quanto ha detto il professor Rizzolatti, ripensando appunto a quello che vivo, é che l’aspetto decisivo della vita, della grandezza della vita, è l’esperienza dell’affetto, dell’affezione, dell’attaccamento. È questo che fa l’uomo e la donna veramente grandi e appassionati, appassionati e grandi. Ed è questo quello che purtroppo manca di più.

GIORGIO BORDIN:
Bene, io penso che non ci siano tante altre cose da dire, perché ne abbiamo sentite a sufficienza. Leggo una frase di Flannery O’Connor che mi ha colpito nella mostra che c’è qua. Dice: “I racconti dovrebbero rappresentare la vita, lo scrittore non dichiara, piuttosto mostra, rende”. Questo diventerà anche la nostra responsabilità e il nostro compito. Si apprende e si diventa felici soltanto così. Grazie.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

28 Agosto 2010

Ora

11:15

Edizione

2010

Luogo

Salone B7
Categoria
Incontri