LA DIGNITÀ DEL LAVORO

La dignità del lavoro

In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Luca Ferrarini, Presidente Gruppo Ferrarini-Vismara; Alberto Daprà, Vice Presidente di Lombardia Informatica; Giampaolo Russo, Direttore Affari Istituzionali e Regolamentari di Edison Spa; Vincenzo Tassinari, Presidente Coop Italia; Tiziano Treu, Vice Presidente Commissione Lavoro e Previdenza Sociale del Senato. Introduce Monica Poletto, Presidente CdO–Opere Sociali.

 

MONICA POLETTO:
Buonasera, iniziamo questo incontro che ha per tema La dignità del lavoro. Qual è l’espressione dell’uomo? Il lavoro. Il lavoro è espressione dell’uomo in quanto rappresenta il rapporto attivo che c’è tra me che vivo, immagino, penso, sento, faccio, e la realtà, per cui l’uomo usa la realtà, usa il tempo e lo spazio e crea la sua vita: questo ci ricordava don Giussani in un testo che è caro a molti di noi. E proprio perché il lavoro è espressione dell’uomo in una società, il disoccupato è un uomo che soffre un attentato grave alla coscienza di se stesso, e in condizioni tali per cui la percezione dei suoi valori personali risulta sempre più annebbiata. Il tema del lavoro, dunque, ci è caro e per questo abbiamo deciso di affrontarlo secondo il metodo che caratterizza il Meeting, cioè imparare dall’esperienza, e abbiamo invitato dei testimoni che ringrazio e che presto andrò a presentare, testimoni importanti, con esperienze di lavoro decisamente significative, che ci racconteranno l’esperienza del lavoro e della sua dignità. Poi abbiamo invitato un lavoratore atipico, che è anche un importante studioso del tema, oltre che politico e soprattutto amico, il Senatore Tiziano Treu, al quale chiederemo una lettura dell’attuale scenario, anche normativo, del mondo del lavoro, e di cogliere le provocazioni e le sollecitazioni che verranno dagli interventi. Iniziamo questo incontro: do la parola, in ordine rigorosamente alfabetico, ad Alberto Daprà, Vice Presidente del Consiglio di Gestione di Lombardia Informatica.

ALBERTO DAPRÀ:
Grazie Monica e grazie al Meeting per questo invito. Debbo dire che mi sento un tantino imbarazzato, nel senso che trovo il tema di questo incontro molto impegnativo. Forse sarebbe un incontro che richiederebbe più tempo e, per quanto riguarda me, personaggi più in grado di approfondire. Quindi mi limiterò ad alcune osservazioni, alcune riflessioni che non vogliono assolutamente essere complete, fatte sulla base della mia esperienza, per aderire all’invito che faceva la dottoressa Poletto. Esperienza di lavoro che ho fatto, da oltre 35 anni – sono uno abbastanza monotono, da questo punto di vista – esclusivamente nel settore dell’informatica. Quindi, ho un punto di vista abbastanza particolare e vi chiederei di tenerne conto, perché alcune osservazioni che farò sono probabilmente applicabili a questo contesto.
Ho vissuto 35 anni di lavoro insieme a persone che un grande economista dell’ultimo secolo, un po’ trascurato, secondo me, Peter Drake, chiamava “i lavoratori della conoscenza”, Knowledge Worker, coniando tra l’altro questo termine nel lontano 1955, quando indubbiamente i lavoratori della conoscenza erano ancora una prospettiva lontana. Adesso si possono identificare i lavoratori della conoscenza, non soltanto in tutti coloro che si occupano di servizi professionali, e non soltanto, quindi, di informatica. Drake diceva che questi lavoratori della conoscenza hanno caratteristiche particolari, che effettivamente io ho verificato nella mia esperienza. Dice che i lavoratori della conoscenza possiedono il mezzo di produzione, nel senso che il mezzo di produzione è la conoscenza che uno si porta dietro, tanto è vero che, se uno va via dall’azienda, si porta via, diciamo, questa conoscenza.
E questa è una prima caratteristica che rende secondo me particolare l’aspetto del lavoro. Una seconda caratteristica è il fatto che questi lavoratori sono chiamati a pensare più all’efficacia che all’efficienza: durante la loro giornata lavorativa, devono scegliere quali cose fare, non soltanto fare le cose bene ma fare le cose giuste. E questo è l’altro punto che ho verificato nella mia esperienza. Questo tipo di lavoratore, normalmente, non è motivato tanto dalla retribuzione: io ho fatto tantissimi colloqui di lavoro, nella mia vita. A tutti i più o meno giovani che arrivavano, chiedevo quali fossero i tre aspetti fondamentali che li interessavano nel mondo del lavoro, cosa cercassero nel mondo del lavoro. Vi assicuro che la stragrande maggioranza delle risposte – non ho una statistica, mi spiace non averla fatta – erano, in questo ordine: un lavoro interessante, che voleva dire qualche cosa in cui trovo un interesse per realizzare un compito, uno scopo; un ambiente stimolante; e, ultimo, il tema della retribuzione.
E’ una caratteristica importante di questo tipo di lavoro: effettivamente la motivazione fondamentale nasce dall’idea di realizzare una cosa importante, di realizzare una cosa bella, di svolgere un compito e di raggiungere un obiettivo. Da questo punto di vista, ho trovato molto interessante un’osservazione che fa sempre Peter Drake dove, tra le altre cose, dice che, per ottenere i risultati migliori da questo tipo di persone, bisogna trattarli come volontari, dove si riferisce al volontario che lavora per un’opera non profit, cioè a quello che presta la propria attività gratuitamente, facendo anche tante fatiche e tanti sacrifici per uno scopo ideale, perché è tutto preso, è tutto convinto, è legato a quello scopo. Drake sostiene che, per ottenere il meglio da questo tipo di lavoratori, bisogna metterli nelle condizioni di lavorare come volontari.
E’ un’osservazione che trovo molto interessante, perché secondo me introduce un aspetto che a noi sta molto caro, a me sta molto caro, ma che in questo modo viene verificato. Per sintetizzare quello che a mio avviso costituisce l’origine e la fonte della dignità del lavoro, qualsiasi lavoro, quindi, non soltanto quello del Knowledge Worker, è la percezione di contribuire al raggiungimento di uno scopo grande, qualcosa che migliora, che rende più umana la realtà. In questo desiderio grande, in questo obiettivo grande, veramente la persona tira fuori il meglio di sé: un fattore che per un cristiano diventa ancora più forte, perché il lavoro, come tante volte ci ha detto don Giussani, può essere vissuto come la partecipazione alla trasformazione della realtà operata dal mistero di Cristo. Ma anche per un non cristiano, l’obiettivo grande, lo scopo grande, ci avvicina al volontario che passa le notti a lavorare gratis.
Sono stato commosso dalle testimonianze del Meeting, in particolare quelle su Haiti, di persone che hanno lavorato giorno e notte perché erano determinate dalla grandezza dello scopo, certamente non per raggiungere una retribuzione o per fare carriera. Con questo, non sto sostenendo una posizione per cui in azienda siamo tutti fratelli: ci sono un sacco di problemi, nell’azienda, c’è un problema di valutazione, di merito. Ma siccome il tema qui è la dignità del lavoro, mi concentro su questa osservazione: poi, i tanti altri problemi che ci sono vanno affrontati, le persone che non lavorano, i lavativi, c’è di tutto. Ma nella mia esperienza, rimane vero il fattore che motiva veramente, che rende la persona capace di arrivare a fare più di quello che viene chiesto. Oggi la Marcegaglia diceva che per uscire dalla crisi dovremmo lavorare tutti di più, fare più straordinari. Io sono d’accordo, nel senso che ritengo che per uscire dalla crisi occorra lavorare di più.
Nel momento in cui si riesce ad ottenere questo tipo di ambiente, le persone lavorano di più, si assumono più responsabilità, perché sanno che devono raggiungere l’obiettivo che è stato dato loro. E’ possibile, non è semplice da costruire ma è possibile. Fanno parte di questa concezione di lavoro due questioni: l’autonomia e la responsabilità, il desiderio che il proprio lavoro abbia uno spazio di autonomia e, dall’altra parte, il senso di responsabilità, cioè il fatto che tu debba rispondere a qualcuno dei risultati. Queste due cose insieme sono caratteristiche fondamentali danno veramente la possibilità di ottenere risultati eccezionali.
Tornando a quello che diceva oggi la Marcegaglia, il tema della produttività è uno dei problema su cui l’Italia si scontra. Per quanto riguarda i lavoratori della conoscenza, è dimostrato da tantissime esperienze che la produttività può variare da un fattore 1 a un fattore 10, c’è un abisso di possibilità di produttività. Che cosa cambia, qual è l’elemento che fa si che uno dia 1 e l’altro dia 10? A me pare che questo elemento sia esattamente quello che dicevo prima: oltre la competenza, la conoscenza e tutti quegli strumenti che possono essere dati, quello che cambia, che fa sì che persone normali ottengano risultati eccezionali – e questa poi è l’essenza dell’azienda, perché in azienda la maggioranza delle persone non sono geni, quindi il problema vero è far sì che persone normali ottengano risultati eccezionali -, sono quelle due parole: autonomia, responsabilità, e un grande senso dell’obiettivo da raggiungere.
L’ultima osservazione riguarda la mia esperienza degli ultimi tre anni, che invece è in una società, Lombardia Informatica, che fa parte della Pubblica Amministrazione, una Società controllata al 100% da Regione Lombardia, che realizza i sistemi informativi per la Regione. Solo uno spunto, anche un po’ provocatorio: lavorare nella Pubblica Amministrazione, per certi aspetti, dovrebbe rendere lo scopo ancora più chiaro. Faccio un esempio: una delle attività fondamentali di Lombarda Informatica è realizzare il sistema informativo socio sanitario. Il sistema informativo socio sanitario ha lo scopo di aiutare a curare meglio, a migliorare la qualità della cura, migliorare il controllo della spesa: lo scopo del bene comune è evidente, in questo caso. Tra l’altro, essendo che c’è meno il problema del profitto e dei costi, di cui oggi non ho parlato perché non si può parlare di tutto, lo scopo dovrebbe essere ancora più evidente.
Qual è allora il problema che fa sì che talvolta, nella Pubblica Amministrazione, questo scopo si perda, o comunque non sia così evidente da generare questi livelli eccezionali di produttività? Secondo me, talvolta mancano le due cose che dicevo prima: il tema dell’autonomia e della responsabilità. A causa di vincoli burocratici, e anche di modalità di gestione vecchie, di idee antiche, questi due aspetti non vengono sufficientemente valorizzati e quindi la persona si perde. E questa grande possibilità che c’è nella persona, non viene valorizzata in modo adeguato.
Volevo concludere, citando un esempio famosissimo, che molti conoscono. Voi tutti conoscete Google, la grande azienda che ha in un certo modo reso regola queste cose che ho cercato di dire. In particolare, mi ha sempre incuriosito il fatto che in Google ci sia una regola che viene chiamata 70/20/10. Tutte le persone, a cominciare dal management, sono invitate a dedicare il 70% del proprio tempo ai progetti fondamentali dell’azienda, il 20% ai progetti correlati, e il 10% a progetti che decidono loro liberamente. Si tratta di una cosa un po’ estrema, che però ha prodotti in questi anni dei risultati eccezionali, in termini di produttività, di nuovi prodotti e di innovazione. Lancerei questa provocazione: perché non adottare la regola del 70/20/10 anche nelle nostre aziende, o addirittura nella Pubblica Amministrazione? Grazie.

MONICA POLETTO:
Grazie mille. Adesso do la parola, saltando l’ordine alfabetico, a Giampaolo Russo, Responsabile della Direzione Affari Istituzionali e Regolamentari di Edison, con esperienza lavorativa importante e recente esperienza ad Haiti, in occasione del terremoto, di cui spero ci racconti qualcosa. Grazie.

GIAMPAOLO RUSSO:
Grazie a tutti, buonasera. Consentitemi di ringraziare dell’invito a condividere con voi alcuni elementi esperienziali su un tema che sento molto, come persona e, ancora prima, come dirigente della Edison. Per la mia storia professionale, avendo vissuto per tanti anni in Bankitalia, quando devo affrontare un convegno, una condivisione di temi, parto dai numeri. I numeri, che cosa ci dicono del lavoro? Quante persone lo cercano, quante persone l’hanno perso, quanti giovani cercano lavoro, quante donne cercano lavoro, in quale settore, in quale area del Paese? Ma improvvisamente, mentre ragionavo sui numeri, mi sono detto: parlare dell’idea del lavoro mi impone di andare al di là del numero, per diventare qualcosa di molto più grande, di molto più pieno del numero.
I numeri mi lasciavano un senso di aridità che non volevo condividere con voi: porre il tema centrale della dignità mi fa dire che la dignità significa, intanto avere, un lavoro. Avere un lavoro significa pensare a quante persone in questa crisi lo abbiano perso, il lavoro, e quanto la perdita di lavoro, per tante persone, rappresenti un elemento di forte umiliazione. L’umiliazione è il contrario della dignità, l’umiliazione è un annientamento della dignità, per coloro che hanno responsabilità familiari e si trovano a non sapere come dire ai figli che non hanno più un lavoro e non sanno come portare avanti la vita familiare, la spesa.
Abbiamo visto in questi anni quante volte la televisione ci ha esposto casi di persone che si sono tolte anche la vita per l’umiliazione, per non riuscire a trovare una risposta ai loro figli, alla loro famiglia. E’ un tema che ci dobbiamo porre, io lo vedo centrale. Ovviamente, la Chiesa tante volte si è occupata di ridare centralità al valore dell’uomo nel mondo del lavoro: ho trovato citazioni bellissime, da Bagnasco a varie Encicliche. Ma, rimanendo all’approccio laicale, mi sono trovato a capire che noi siamo uno dei pochi Paesi al mondo che trova, nell’articolo 1 della Costituzione, un riferimento alla Repubblica Democratica fondata sul lavoro: gli altri, non l’hanno. Mi sono chiesto perché noi l’abbiamo, e sono andato a riprendere il dibattito sulla Costituente, senza nulla togliere al professor Treu, che sicuramente è maestro. Nel dibattito dell’epoca fra Aldo Moro, Ruini, Fanfani, Togliatti, si è costruito questo equilibrio tra chi voleva mettere “fondata sul lavoro”, chi “fondata sui lavoratori”, chi “fondata sul lavoro e sulla libertà”, un equilibrio che in quel momento aveva un senso profondo.
Non voglio cadere nelle trappole del dibattito Costituzione formale o sostanziale, ma sono aspetti che mi hanno colpito e che rappresentano un elemento caratteristico del nostro Paese: se vado a vedere la Costituzione francese, tedesca, degli Stati Uniti, nessuno dà un ruolo così centrale al valore del lavoro e della persona, relegano alle parti finali il diritto al lavoro. E parliamo di una Costituzione che ha un certo numero di anni. Quando parliamo della dignità di avere un lavoro, mi viene in mente anche il dibattito sul welfare. Come possiamo affrontare le regole della flessibilità del mercato del lavoro e della condizione dei giovani, senza porci l’obiettivo di rivedere i meccanismi del welfare che, secondo me hanno privilegiato una categoria di lavoratori, senza pensare a tutte le fasce giovanili che vivevano un disagio enorme?
In un convegno, a chi lo provocava dicendo che la crisi è un momento centrale che ci consente di lavorare insieme per rivedere le regole del welfare, un Ministro dell’attuale Governo mi ha lasciato basito perché ha risposto: non abbiamo bisogno di rivedere il welfare, perché l’Italia ha il miglior welfare del mondo: la famiglia. Questo è un alibi, a mio avviso, che ci impedisce di vedere a fondo quali siano i meccanismi fondanti del welfare, dal momento che abbiamo l’esigenza di vedere i meccanismi delle relazioni tra il mondo dell’impresa e il mondo del lavoro. Non possiamo proteggere solo coloro che sono entrati un certo numero di anni fa sul mercato del lavoro, dobbiamo capire le esigenze nuove. Abbiamo parlato di motivazione dei giovani, dobbiamo capire anche questo. E poi abbiamo una seconda cosa che gli altri non hanno, ed è un grosso vantaggio: noi abbiamo tantissime false pensioni sociali. Sono circa 8 miliardi di euro all’anno che vengono dati, non su criteri di esigenze economiche ma come esito di collusione, tendenzialmente concentrati in alcune aree del Paese.
Ho spesso fatto start up, ho assunto tanti giovani, e mi trovo perfettamente d’accordo con il collega Daprà sui giovani alla ricerca di un posto di lavoro, il tema della raccomandazione, il padrino e il figlioccio: il giovane cerca la motivazione, l’ambiente che lo stimoli, cerca di essere valorizzato per quello che può portare, cerca il coinvolgimento in un percorso, in un processo. Quindi, sapere che a questo giovane si può offrire, tra un lavoro e l’altro, un sistema che gli consenta di farsi una famiglia, di chiedere un mutuo, ecc., secondo me è un impegno importante di cui coloro che vogliono contribuire al cambiamento del Paese devono in qualche modo farsi carico.
Dignità per me vuol dire anche offrire la sicurezza sul posto di lavoro. Quindi, mi sono addentrato ancora nei numeri, tra Inail e Anmil: ho dati un po’ diversi, ma mi pare di vedere che, dal primo gennaio al 3 agosto, sono morte 280 persone: abbiamo 650.000 infortuni sul lavoro e 30.000 invalidi. Sono tantissimi, credo che una riflessione sulle regole e sulla sicurezza, la si debba porre come Paese. Noi come Edison ce la siamo posta: siamo un operatore che copre varie filiere nel settore dell’energia, fin dall’esplorazione in Paesi come Egitto, Nigeria, Costa d’Avorio e altri. Ci siamo posti delle regole per offrire, in tutti i Paesi in cui operiamo, standard di sicurezza pari a quelli che abbiamo in Italia.
Come regola, come sforzo, non è banalissimo, ma in realtà abbiamo anche portato sulle funzioni che tipicamente non hanno rischi, funzioni di staff, la responsabilità di avere zero incidenti di qualsiasi natura, proprio per avere una cultura dell’attenzione a uno degli aspetti che dà dignità: non bisogna lavorare con lo stress che uno mi cada dall’impalcatura, che non abbia il casco o sistemi adeguati. E quando parlo di dignità, emergono l’accordo, la flessibilità, la globalizzazione, e mi dico: ma noi, quanti concetti di dignità del lavoro abbiamo, nel mondo globalizzato? Il paradigma della dignità, si declina nelle economie occidentali come nelle economie emergenti? Posso parlare di dignità del lavoro ad Haiti, dove non ho la dignità alla vita, la dignità all’infanzia? E’ una priorità pari alla nostra? Forse no, anzi, direi di no, a giudicare da alcuni esempi che questa estate abbiamo visto in alcune economie emergenti: gli scioperi alla Honda, le rivendicazioni in Cina, non solo rivendicazione salariale, attenzione, ma proprio rivendicazione di una qualità del rapporto di lavoro, dell’alloggio, che viene dato a centinaia di migliaia di lavoratori che sono nelle fabbriche di silicio o che fanno componentistica per l’auto, in una economia che sappiamo crescere a livello mondiale.
E quindi, dove non ci sono economie emergenti, ma economie che forse non emergeranno, se non fra qualche decennio, non c’è l’ideale della vita, non c’è l’ideale dell’infanzia, del sorriso: parlare di dignità del lavoro diventa veramente una missione culturalmente intraducibile. E nella globalizzazione, quando diciamo che decliniamo le varie dignità, dobbiamo recuperare un messaggio del Meeting dell’anno scorso, che il modello della partecipazione dei lavoratori deve essere una chiave per uscire dalla crisi. Ed è di nuovo il tema delle relazioni industriali in Italia, ma un tema che abbiamo visto anche negli Stati Uniti. Oggi Il Sole 24Ore citava il sindacato delle Union Hot Workers, che parlava di come per i giovani possa essere rivisto sensibilmente il trattamento contrattuale, non solo economico, con l’idea di dare spazio e partecipazione al progetto aziendale.
Sono quindi da rivedere un po’ le regole del lavoro, anche in un Paese come gli Stati Uniti, che ha sicuramente un tasso di sviluppo diverso da quello delle economie emergenti. E chiudendo questo secondo capitolo della globalizzazione e del modello partecipativo, mi viene in mente che noi quest’anno abbiamo ricordato i 50 anni della morte di Adriano Olivetti. All’epoca era considerato un utopista, in realtà aveva cercato una ricetta per coniugare lo sviluppo industriale con i diritti dei lavoratori: l’assistenza ai figli, alla scuola, alla sanità, una democrazia partecipativa. Invito a riprendere qualche documento di Adriano Olivetti su Communitas, per alcuni aspetti ancora molto attuali, nonostante siano passati sessant’anni dal lancio del progetto che incominciò subito dopo la guerra.
Per rispettare l’agenda: che cosa facciamo in Edison? Cerchiamo di fare in modo che la persona trovi nell’ambiente di lavoro, un luogo dove passa più ore che con sua moglie, una situazione che la renda felice e serena con i suoi collaboratori, dove possa trovare delle motivazioni. Tra l’altro, l’anno scorso Edison ha ricevuto da Regione Lombardia e Altis il Premio Famiglialavoro, per un programma dedicato a comprendere i bisogni delle persone, offrendo loro servizi che allevino lo stress di coniugare la famiglia e il lavoro: dalla flessibilità dell’orario di lavoro fino a servizi sanitari, consulenza pediatrica e disbrigo di pratiche burocratiche. Per cogliere l’invito di Monica, dico anche che all’estero noi abbiamo due grandi progetti: uno, quello dell’Egitto, l’ho vissuto personalmente. In Egitto siamo presenti con più di 1.000 persone, è un progetto di esplorazione e produzione, col quale abbiamo voluto dare anche un segnale. Il progetto si chiama: It’s my Right, “è un mio diritto”: va a sostenere i bambini portatori di handicap che spesso, in queste economie marginalizzate – pensiamo ad Haiti – vengono rifiutati, buttati nelle strade, perché non è concepito un diritto alla vita per le persone normali, pensiamo a che cosa possa voler dire una cosa del genere per una persona disabile. E coltiva anche processi di crescita delle donne che, in questi Paesi, non hanno nessun ruolo. E’ un progetto importante di alfabetizzazione delle donne. Ricordo che l’Egitto, come il Sudan, ha il 96% delle donne vittime di analfebitizzazione. Il progetto riguarda cultura e l’apprendimento, offre loro la conoscenza dei propri diritti e la scolarizzazione, senza scioccare l’Autorità egiziana, è uno strumento di crescita per la donna ed il suo ruolo, favorisce il suo accesso nel mercato del lavoro.
Chiunque sia andato in vacanza in Egitto, sul Mar Rosso, sul Nilo, non penso abbia mai visto una donna lavorare a contatto con i turisti: almeno, a me non è mai capitato. Sono andato quattro volte in Egitto e, sia sulle motonavi che nei villaggi, ho sempre e solo visto uomini. Le donne non hanno nessuna dignità e la dignità del lavoro arriva anche attraverso la conoscenza dei propri diritti, la capacità di avere un figlio da accompagnare alla scolarizzazione, la possibilità, nel caso di un figlio disabile, di trovare una struttura che l’accoglie. Chiudo gli ultimi tre minuti con Haiti, un progetto molto particolare. Edison è stata la prima, e forse è ancora l’unica, azienda ad avere sviluppato un progetto ad Haiti che vada al di là del modulo donazione-adozione a distanza, ad avere in qualche modo spinto, coordinato, incentivato i dipendenti a recarsi a fare volontariato nelle strutture presenti ad Haiti, ovviamente tramite accordi con una onlus che, in questo caso, si chiama Anpil, è di Milano.
E’ ovvio che quello che ho vissuto sia di un’intensità emotiva straordinaria. So bene che in 15 giorni non ho cambiato il destino di Haiti, ma al mio rientro porto un seme di partecipazione, di conoscenza di quella realtà, che vengo a piantare nel cuore delle persone che incontro, con la volontà di portare avanti questa esperienza dei progetti che consento ad Haiti di recuperare. Sono più di 20 anni che Haiti ha aiuti internazionali. Haiti oggi non ha strade, non ha energia, non ha fogne, non ha acqua, quindi, il modello di partecipazione e di aiuto delle Nazioni Unite, dove fluiscono miliardi di dollari su base annuale e su base mondiale, ha forse dato poche risposte, rispetto a quelle che danno il mondo Avsi, il mondo Anpil, il mondo delle realtà che cercano la collaborazione con la popolazione, cercano di far crescere le persone con progetti piccoli, da microcredito, che danno alle persone la consapevolezza che c’è un futuro migliore.
Facendo i compiti con i bambini di Haiti, vedevo i libri di geografica e mi rendevo conto che, quando parlano di sistema economico, trasmettono la rassegnazione: il paese fa schifo oggi e farà schifo anche domani. Io parlavo con il loro professore e dicevo: “Perché un libro scolastico, che in qualche modo ha anche un progetto di approvazione dalle Autorità Governative, non trasmette al bambino la possibilità di recuperare dignità e sviluppo?”. “Perché non c’è questa possibilità” mi rispondeva il professore. E’ una cosa che dobbiamo poter cambiare: nemmeno riesco a trasmettervi la sensazione davanti a bambini che, mentre fanno i compiti, dicono: “Non ho futuro, perché il mio Paese non ha futuro”. In un Paese che ha una disoccupazione straordinaria e non attrae turismo, dignità significa anche aiutare queste persone a capire che, lavorando con piccoli progetti, il loro destino può essere frutto del loro impegno, della loro capacità di migliorarsi. Edison ad Haiti ha più di 100 dipendenti, una struttura per 115 bambini che sono stati accolti dopo il terremoto: non avevano mai visto un letto, una doccia, un water, prima di entrare in quella struttura. Questo vi dà l’idea che il terremoto, probabilmente, sia stato un amplificatore di visibilità, ma che Haiti aveva un problema enorme, anche prima, un tasso di sofferenza che per noi è inimmaginabile, non c’è nessun tipo di paragone, anche nelle nostre periferie più degradate.
La dignità è una struttura che offre, quantomeno, il diritto all’infanzia e al gioco, ai bambini accompagnati dai nostri volontari, da queste suore straordinarie che sono eroi del nostro tempo, dai missionari. C’è suor Marcella, nello stand qui vicino, che ha un dispensario in una discarica dove ci sono più di 50mila persone: e quando parliamo di discarica e di tendopoli, non sono le tende della protezione civile, sono teloni di plastica, che separano alla bell’ e meglio i gruppi di familiari, senza acqua e senza nulla. E a cinque mesi dal terremoto, i detriti sono esattamente dove stavano a gennaio. Non si vede un caterpillar in funzione. Non voglio fare un dibattito, perché la dignità del lavoro ti porta lontano: né Edison né il progetto porteranno centinaia di caterpillar. Però, i 10, 11miliardi di dollari donati ad Haiti, dove stanno? Perché non si muovono? Haiti è stata un’esperienza dove abbiamo tentato di ridare, almeno a un piccolo gruppo, speranza e dignità su base continuativa, con percorsi che portano ad una formazione e ad un orientamento al lavoro di questi giovani. Credo sia un progetto importante, perché è una goccia in un mare, ma anche la goccia aiuta a riempire il bicchiere. Grazie molte.

MONICA POLETTO:
Grazie, veramente. A questo punto passo la parola a Luca Ferrarini, Presidente di Ferrarini Spa, i cui prodotti buona parte di noi probabilmente ha avuto modo di assaggiare.

LUCA FERRARINI:
Grazie. Quando, qualche mese fa, la dottoressa Poletto mi mandò una mail invitandomi a questo convegno, oltre al grande piacere di venire, già da anni, a scambiare qualche idea e qualche impressione con gli amici del Meeting, mi ha colpito il tema: la dignità del lavoro. Volevo rispondere alla mail, chiedendo: quanti mesi dura il convegno? La dignità del lavoro è un tema enorme, su cui si basa la vita di ognuno di noi, la nostra coscienza, il nostro io, la nostra onestà, il nostro futuro, il nostro passato, la nostra esistenza: non so quanti termini potremmo usare. Nella mia semplicità, vi posso raccontare brevemente quale sia stata e quale sia la nostra esperienza, che cosa facciamo, sapendo di non riuscire a fare tutto quello che vorremo. La nostra è una realtà nata in Italia alla fine degli ’50, un’attività artigianale emiliana. Negli anni ha avuto fortuna, oggi è un Gruppo che ha 1600 dipendenti, 1300 in Italia, 300 fuori, in dieci filiali ben strane: siamo negli USA, in Giappone, a Hong Kong, in Ungheria, Polonia, Svizzera, Spagna.
In questi 50 anni, l’uomo è stato naturalmente per noi alla base delle cose, sarà perché facciamo cose che si mangiano, e le cose che si mangiano devono avere un qualcosa di più, rispetto ad un bullone. Non me ne voglia chi fa bulloni, ma è un qualcosa che apre ai rischi, alle responsabilità verso gli altri. Un popolo che si nutre meglio, è un popolo che vive anche meglio, che sta meglio, oltre a deliziarsi ovviamente nel consumare i prodotti. Noi crediamo che non esista un Governo, un’istituzione, un ente che possa far crescere la dignità dell’uomo, se non esiste nell’uomo la convinzione di farcela. La nostra convinzione è che ognuno ce la può fare, tutti possono fare qualcosa di più, non è vero che qualcuno possa dire che non è possibile, no! C’è chi è più capace, perché il buon Dio gli ha dato più fortuna, e può, deve dare di più. C’è chi è meno capace perché è meno predisposto, e darà tutto quello che può dare. E c’è chi potrà fare quasi niente, chi purtroppo non potrà fare niente!
Ma noi siamo chiamati a fare questo lavoro, in un momento di grande confusione, dove certe forme di garantismo sono esagerate. Si è passato dagli anni ’50, quando non avevamo niente, a oggi, che probabilmente abbiamo troppo: cerchiamo di tornare a mettere le persone al centro della situazione, al centro dello sviluppo, al centro di un motore che porti avanti le cose attraverso questa idea, che ognuno può e deve fare qualcosa, cerchiamo di tirar fuori dalle persone la loro paura, di togliere la loro insicurezza e anche la loro pigrizia. Quante persone sono pigre, quante persone sono quasi fataliste, e dicono: qualcuno penserà per me o ci sarà qualcosa – lo Stato, il Governo, le associazioni, il sindacato, la Croce Rossa, il volontariato -, tanti che faranno al posto mio! Sì, qualcuno può fare per te, ma anche tu devi darti da fare. C’è una bellissima frase, che ho copiato – e me ne scuso, non posso pagare il copywright perché sarebbe troppo caro – a JFK, il Presidente Kennedy, che diceva: “Non chiedere che cosa l’America può fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per l’America”.
Allora, invece di ascoltare o guardare le storie – perdonatemi – della signora Tulliani, che ha comprato l’appartamento oppure lo ha comprato suo fratello che ha la Ferrari, e non ci importa niente, né dell’una né dell’altro, poniamoci il vero problema di che cosa noi possiamo fare, oggi, per portare avanti il nostro Paese. Ecco, una sveglia che suoni dentro di noi e tocchi quella piccola virgola, quel qualcosina in più, basta poco, ma il poco moltiplicato per tanti dà tantissimo, diceva prima l’amico Russo: piccole gocce riempiono i bicchieri. Abbiamo un filmato prodotto in azienda, in modo anche molto semplice, che racchiude quella che è la nostra filosofia, per cui noi siamo cresciuti. Noi siamo una famiglia, il capitale è tutto nostro, siamo riusciti a scollinare quella famosa dimensione delle banche, dei Fondi di Investimento, ecc. Ce l’abbiamo fatta, abbiamo scollinato anche il problema della Borsa, non ne abbiamo bisogno. Andiamo avanti per la nostra strada e per il famoso discorso di prima: uno dopo l’altro, siamo passati tutti, tutti 1600. Questo filmato dura tre minuti e 26 secondi, quindi starò assolutamente nel mio tempo: lo guardiamo, è simpatico, ci sono contenuti importanti, poi due o tre minuti ancora, lo commentiamo e ci salutiamo.

Video

Nel 1936 c’era Jesse Owens alle Olimpiadi di Berlino, in piena epoca nazista: non esisteva la libertà, non esisteva niente, e ci fu lo scandalo incredibile di questo atleta di colore che fece i 100 metri in 10,36”. Hitler andò via dalla tribuna. Nel 2009, Bolt, questo uomo figlio del vento, chissà come potremmo definirlo, li fece in 9,58”. Io facevo i conti: 10.36 e 9.58 – chi mi aiuta a fare la somma? – sono circa 75 decimi di secondo: c’è voluto dal 1936 al 2009, ci sono voluti quasi 70 anni, un decimo ogni anno per riuscire a fare sempre meglio. Vuole dire che una piccola cosa si può sempre fare e si può fare meglio. Ecco, questo è ciò che noi raccontiamo alle persone, quello di cui siamo convinti: abbiamo fondato tutto su questo, sui rapporti, sulla stima, sulla certezza, con poche storie, con pochi lavaggi di automobile visti in televisione, non ci interessano le discussioni, ci interessano i fatti, e ognuno può fare. Concludo, dicendovi che questi sono stati i nostri 50 anni e il nostro sogno: e siccome noi amiamo più sognare che ricordare, allora il nostro sogno prossimo sia continuare così, come nei 50 anni passati. Grazie e auguri a tutti.

MONICA POLETTO:
Grazie, Luca. Il Senatore Treu è entusiasta della musica degli U2 (anche per quella, ci sono voluti molti anni). Passo la parola a Vincenzo Tassinari, Presidente di Coop Italia, che non ha bisogno di presentazioni ulteriori.

VINCENZO TASSINARI:
Forse anche perché credo ormai di essere un punto fisso della vostra iniziativa, del Meeting dell’Amicizia, da tanti anni. Vengo volentieri perché credo che sia molto importante riuscire a trasmettere quello che pensiamo e facciamo nel concreto. Visti i tempi e l’argomento così gigantesco, provo a sintetizzare al massimo in tre punti che credo fondamentali. Il primo è su me stesso, per spiegare l’esperienza, come ci diceva la dott.ssa Poletto: bisogna che spieghiate da dove venite, che cosa avete fatto. Poi spiego in modo sintetico cosa fa la Coop, cosa ho fatto dentro la Coop e, terza questione, cosa fa la Coop per gli altri. Perché credo che sia un aspetto molto importante, soprattutto per le imprese protagoniste, leader, eccellenti, il non fare solo per se stesse ma il provare anche a trasmettere questo concetto della unità del lavoro a comunità molto più ampie. E proverò a darvi qualche testimonianza concreta.
Io sono, credo, un cooperatore doc, perché appena laureato a Bologna, in Economia e Commercio, ho incominciato a lavorare alla Cassa di Risparmio del mio paese. Affascinato da questo discorso della cooperazione, dopo pochi mesi di esperienza in banca, andai a lavorare alla Camst, una cooperativa storica. Ricordo che, quando dissi ai miei genitori che mi licenziavo dalla banca per andare a Bologna alla Camst, si misero a piangere, perché allora la banca era sicuramente il posto sicuro che garantiva. Cos’è la Camst? Cooperativa, albergo, mensa, spettacolo, turismo. Ho cominciato questa esperienza come Caposervizio, perché allora il termine Direttore era considerato un po’ capitalistico, non andava molto di moda. E’ stata un esperienza, quella della Camst, di enorme valore: mi trovai a lavorare a stretto contatto con i fondatori della cooperativa. Nel 1945 nove camerieri avevano fondato questa cooperativa e io mi trovai, dopo 30 anni circa, a contatto con loro. Erano tutti ex-capi partigiani, e capivo che il concetto di coinvolgimento e partecipazione del quale in tanti ci riempiamo la bocca era per loro un’idea molto semplice: trasmettere agli altri quello che si ha ma anche quello che si è, quello che si sa, quello che si è fatto.
Da questi fondatori, vecchi cooperatori che dopo anni andarono in pensione, capii il valore del lavorare in termini cooperativi. Pensate che parlo della Coop dove sono entrato nel 1979, quindi più di 30 anni fa. Oggi la Coop è un’organizzazione che ha 56mila dipendenti, 7 milioni e mezzo di soci: per noi la persona è il patrimonio fondamentale, l’elemento fondante. Se non siamo capaci di trasmettere relazioni di coinvolgimento, di partecipazione, di formazione delle giovani generazioni di cooperatori, essendo noi per definizione imprese trans generazionali, abbiamo fallito il nostro compito. Come Presidente di Coop Italia, ho capito che cominciavano ad emergere elementi per cui non era più sufficiente dire di essere cooperatori, con me stesso, con i colleghi e i lavoratori: sono eticamente corretto nei confronti dei lavoratori. Cominciavo a sentire che questa roba la dicevano in tanti, in troppi, c’era un accomunamento di queste cose che, rispetto ai dati concreti, era poi molto discordante.
Allora io mi sono fatto certificare – prima azienda in Europa nel 1998 – da SA 8000, un grande istituto americano che certifica se effettivamente il lavoro dentro l’impresa rispetti la persona, il lavoro minorile, le discriminazioni, tutte le cose che sono dettate con grandissimo rigore. Il presidente di SA 8000 è Alice Tepper Marlin, una donna formidabile ma di grande rigore perché, se si sgarra rispetto ai parametri che vengono dati, anche Coop Italia viene segnata in rosso. Eticamente corretti nei confronti dei lavoratori: però smettiamo di dircelo, facciamocelo dire da qualcuno che esternamente giudica e valuta se effettivamente il nostro modo di comportarci, anche da dirigenti, da padroni o da titolari, sia veramente corretto. L’ultimo passo che voglio fare: se sono certificato SA 8000, quindi sono corretto nel rispetto delle relazioni con i miei lavoratori, è sufficiente? In una fase economica come questa, ad altissimo rischio, in tutti i sensi, è sufficiente che un’impresa eccellente e protagonista conclami quello che fa per se stessa? O c’è un ruolo specifico che la distribuzione moderna può avere in questa fase economica, culturale e di lavoro?
Io credo che le grandi imprese possano fare qualche cosa. Io ho chiesto ai miei fornitori, ai produttori del mio prodotto, con il mio marchio – il marchio Coop è la IV industria alimentare italiana, siamo i primi distributori ma siamo anche la IV industria alimentare italiana – di rispettare i criteri ed i principi. Uno si può certificare con SA 8000 o meno, però se tu produci per me un prodotto che poi io vendo, se il consumatore riconosce, prima di tutto, da chi comprare, se c’è il rispetto dei valori, allora è chiaro che il prodotto che vendo deve essere coerente con questi valori da parte di chi lo produce. Fu una bella battaglia! Perché andare ad imporre ai fornitori determinate condizioni, non è stato facile. La chiave di volta è stata valutare tutto questo insieme a loro, in termini collaborativi e non coercitivi, non come una minaccia: perché, comunque, il fatto che non lavori con grandi imprese è indubbiamente un problema. Però, non è la minaccia che ha vinto, è l’avere convinto e condiviso che alla fine rispettare certi valori sicuramente – perché il giudice finale è il cittadino, il consumatore – ci avrebbe premiato.
Questa è stata la chiave per cui tutti i nostri fornitori di prodotto, col nostro marchio, sono coerenti al rispetto dei diritti del lavoro, dei diritti umani, dei diritti minorili, ecc. Questa è la chiave di volta: vedete, io cito fatti sempre concreti, con Coop faccio le autocitazioni però sono fatti concreti. Lo scandalo di Rosarno non è avvenuto e non avviene. Ricordate, vero, gli extracomunitari trattati come animali, letteralmente animali, per la raccolta degli agrumi? Io sono il primo venditore di agrumi in Italia, fuori di dubbio, però i nostri agrumi sono raccolti nel rispetto dei diritti umani. L’ho fatto con la minaccia o come opportunità per quel produttore, comunque lavorare nel rispetto di terminati valori, nel rispetto dei diritti, nel rispetto dell’ambiente, soprattutto per il nuovo cittadino, il giovane cittadino, il nuovo consumatore, il giovane consumatore, sono punti fondamentali che valorizzano sicuramente il successo di un impresa.
Non lo abbiamo fatto solo per l’Italia, dove comunque c’è bisogno, ma l’Italia è un Paese civile, ci siamo sempre detti, non c’è sfruttamento del lavoro, dei diritti: e invece abbiamo visto invece che i problemi esistono. Noi proviamo a fare qualche cosa di bello anche nel mondo: il commercio equo e solidale è un discorso assolutamente importante che facciamo con i Paesi poveri. Non ci limitiamo ad andare a vedere se hanno delle produzioni che ci servono, banane, caffè, thè, ecc., e a comprarle se sono buone e convenienti: cerchiamo di costruire con queste popolazioni un concetto di coinvolgimento e partecipazione che è ciò che serve per un consumatore occidentale.
Abbiamo progetti molto importanti, ve ne cito tre: nel primo, in Burkina Faso, 2000 famiglie africane hanno imparato a produrre i fagiolini fuori stagione e li vendono attraverso i supermercati Coop, che così aiutano anche queste 2000 famiglie ad emanciparsi. Secondo: le camicie fatte in una fabbrica promossa da Suore fiorentine in India, dove ci sono 400 ragazze che lavorano per le nostre maglie, camicie, con un cotone ecologico. Perché il cotone è uno dei prodotti più trattati chimicamente, la causa numero uno di morte dei coltivatori stessi. Quindi, cotone ecologico prodotto in una fabbrica dove lavorano 400 ragazze indiane. L’ultimo progetto – ne potrei elencare tanti -, è quello dei pescatori del Senegal: è bastato dotare questi pescatori di un telefonino, perché non si perdessero più nel mare in tempesta, e dare degli elementi di refrigerazione alle donne africane che cuocevano nella sabbia, in ginocchio, il pesce pescato e si rompevano le gambe.
Sono bastati piccoli interventi per creare un rapporto sicuramente positivo dal punto di vista economico. Ma credo sia importante soprattutto l’avere promosso dei progetti che hanno educato e formato delle persone ad un modo di produrre nel rispetto dei diritti del lavoro e umani. Dopo oltre 35 anni di esperienza, io non penso di essere in declino e sono fortemente orgoglioso della mia vita ed esperienza cooperativa. Ma viviamo in una situazione economica di globalizzazione, dove il cosiddetto sistema perfetto del fare impresa ha rischiato di far saltare il mondo, speculativo, ingordo. Io credo che i principi cooperativi del fare impresa, soprattutto supportati non da conclamazioni e basta, ma da azioni concrete come quelle che ho cercato molto sinteticamente di illustrarvi, dicano che il nostro modo di fare impresa cooperativa non solo non è in declino ma è giovane, e può essere la soluzione di tante economie, compresa la nostra, che possono emanciparsi di più.

MONICA POLETTO:
Grazie, anche della passione. Passo la parola al Senatore Treu, Vicepresidente dell’XI Commissione Permanente Lavoro e Previdenza Sociale, e grande amico. Ci tengo a fare una piccola premessa: abbiamo conosciuto il Senatore perché collabora e partecipa attivamente, anzi, è uno degli animatori dell’Intergruppo per la Sussidiarietà. Si stava riflettendo, nell’ambito della CdO e delle opere sociali sulle difficoltà a inserire lavorativamente persone disabili. Gli abbiamo chiesto una mano. Poi c’è stato anche il coinvolgimento di Confcooperative e Lega: questo ha portato alla presentazione di un Disegno di Legge e a un lavoro comune bello e appassionante. Da lì, ci siamo allargati e abbiamo detto: “Però, anche sul lavoro carcerario ci sarebbe qualcosa da fare, perché noi ci teniamo”. Allora, abbiamo chiesto al Senatore di visitare l’esperienza della Cooperativa Giotto nel carcere di Padova – perché, secondo il nostro metodo, una legge, per non essere giacobina e ingiusta, deve inchinarsi all’esperienza, deve obbedirle -, l’abbiamo portato a vedere che esperienza avevamo negli occhi. E anche in questo caso, è nato un lavoro bello che ha portato alla presentazione di un Disegno di Legge che ha coinvolto lui e altri parlamentari dell’Intergruppo. Dico questo perché mi ha colpito che comandassero i fatti: lo dico perché è stata un’esperienza estremamente positiva, di cui sono molto grata, e perché ne è nata anche un’amicizia. A questo punto, dato che innanzitutto, oltre che politico, sei anche un lavoratore atipico, ti chiedo di reagire a quello hai sentito rispetto alla tua esperienza di lavoro.

TIZIANO TREU:
Grazie per l’invito, non è il primo ma mi fa molto piacere, anche per quello che hai detto nella presentazione. Voglio chiederti quanto ci avete pensato, per mettere insieme queste persone. Perché – non so se vi ha colpito – qui parliamo di dignità del lavoro: e sono cinque esempi di persone che hanno lavorato con passione, con orgoglio, con soddisfazione, e hanno detto tutti cose molto belle. E’ un po’ di anni che studio questi problemi ma ho sentito, al di là dei dettagli, proprio questo spirito di grande entusiasmo, non stupido ma basato sui fatti. Io sono uno dei cinque, e anch’io sono un lavoratore atipico. Mentre, di solito, i lavoratori atipici sono un po’ sfortunati, io mi considero un lavoratore atipico che ha avuto la fortuna di sfruttare le cose belle dell’atipicità: poter cambiare lavoro spesso, essere molto autonomo. Sono un professore, il mio lavoro non è la politica, anche se mi sono impegnato molto perché anche la politica è un lavoro difficilissimo. E, insomma, ho avuto un’esperienza che adesso non vi racconto più di tanto, ma una cosa la voglio dire, perché credo che in questo momento sia particolarmente importante: anch’io sono un lavoratore della conoscenza, noi siamo una società della conoscenza, notate che non si dice solo “economia della conoscenza”, ma anche “società della conoscenza”. Le potenzialità della conoscenza sono talmente tante, potenzialmente pervasive, che sono veramente la sigla di questo tempo: e allora, potere studiare tutta la vita e insegnare alla gente a studiare è una cosa bellissima.
Ovviamente, non è che tutti debbano fare questo mestiere: è un momento in cui noi, nelle nostre società in fondo ricche, abbiamo questa grande potenzialità, quindi mi sento un privilegiato. Qui abbiamo parlato di due esempi, molto belli e positivi, pensando appunto a queste nostre società sviluppate che, pure, sono così in difficoltà. Io non mai visto una crisi così, e sono quarant’anni che studio i problemi del lavoro: gente in zone sviluppatissime del nostro Paese, che hanno sempre lavorato (non fannulloni), che si mettono a piangere perché i loro figli non trovano lavoro, dal Veneto all’Emilia, mai visto. Immaginatevi, a questo punto, la società di Haiti: non possiamo neanche paragonarci, ovviamente, però anche da noi queste belle esperienze ci devono far riflettere, perché le possibilità aiutano ad andare avanti, però poi bisogna passare alle vie di fatto.
Abbiamo fatto bellissime esperienze, l’unica cosa è che vorrei vedere che poi si traducessero in fatti: siamo persino riusciti a fare due Disegni di Legge, anche con qualcun altro, bipartisan. Speriamo che succeda qualcosa. Ma questa era la premessa. Le cose che mi sono venute in mente sono tantissime. La prima cosa che voglio dire per cercare di farci coraggio è che le opportunità sono enormi. Guardate che non c’è mai stata un’epoca in cui le possibilità delle tecnologie, della globalizzazione, l’allargamento dei confini, i rapporti che si moltiplicano, abbiano dato queste possibilità incredibili di arricchimento. Mi ricordo Keynes: negli anni ’30 diceva che, con le possibilità che vedeva, avremmo potuto lavorare tutti bene, anzi, fare un lavoro che sconfina addirittura nell’ otium, cioè nel lavoro creativo. E invece, purtroppo, abbiamo ancora le catene di montaggio, anche in Italia.
Qui le possibilità ci sono, però la possibilità di avere un lavoro, e avere un buon lavoro, nonostante ci siano queste risorse, è cambiata, è diventata molto più complicata, perché in fondo negli anni passati l’abbiamo data un po’ per acquisita. Era come la crescita, ogni anno si cresceva di più. Perché è stata la prima volta nella storia che si è fermato il meccanismo in modo così evidente: noi avevamo dato per acquisita la crescita, e anche il lavoro. Certo, non tutti lavoravano, poi sempre di più, sempre di più. Ma non è più così, non si può più dare per acquisito tutto, bisogna lavorarci sopra. La grande fabbrica era quasi più semplice, anche se non dobbiamo mitizzare, perché ci sono centinaia di tipi di lavoro diversi, ognuno diverso dall’altro, e diverse, poi, sono le persone. A proposito dei numeri, guardate che dietro quei numeri ci sono centinaia e migliaia di persone concrete: quando uno vede i numeri, è sempre bene che ci pensi. Questa è la prima osservazione.
Bisogna che, quando tu lavori nella tua fabbrica, nel tuo ufficio, il politico che fa le leggi, l’impresa che investe, tutti pensino anche a che cosa significhi questo in termini di lavoro. Già vuole dire una cosa completamente diversa dall’idea convenzionale che “la fabbrica è fatta per produrre profitto”. Il profitto è uno strumento per fare cose possibilmente utili, ma questo non è ovvio, è esattamente il contrario di quello che si fa. Bisogna lavorarci, e anche la responsabilità sociale delle imprese, di cui si parla tanto e di cui ho scritto anch’io, come hai detto tu, giustamente non basta.
Il minimo è rispettare le leggi, e già noi abbiamo un tasso di evasione delle leggi fiscali sul lavoro, sulla sicurezza, tragico. Però poi bisognerebbe fare qualcosa in più, se si vuole che il lavoro sia svolto non solo correttamente ma che anche ti arricchisca: bisogna lavorarci sopra. Seconda cosa, bisogna appunto motivare e crederci. Per esempio, una cosa mi colpisce sempre: noi abbiamo in Italia pochi laureati, dovremmo averne di più e possibilmente anche meglio “prodotti”. Le imprese italiane tendono a chiedere meno competenze di quelle che sono disponibili, insomma si auto-riducono le aspettative perché non ci credono. Molte piccole e medie imprese non sono abituate, ma non ci crediamo, che si può avere lavoro e avere lavoro migliore. Non è che la faccio facile, perché è difficilissima, però questo servirebbe anche alla competizione, perché non pensiamo di competere con i manovali. Lo dicono tutti, che avremmo bisogno di lavoro più qualificato appunto perché siamo nella società della conoscenza. Però bisogna crederci. Credere ai lavoratori, naturalmente, a se stessi e alle aziende.
E adesso vi dico una mia esperienza, e poi anche due cose un po’ più politiche su cosa si può fare. Oltre a fare il professore – un tipo di lavoro un po’ strano, perché individuale: una delle cose che mi è sempre dispiaciuta è che in Italia non si riesca a fare lavoro di gruppo neanche nella ricerca, perché ognuno inventa l’acqua calda per i fatti suoi -, ho però avuto anche tre esperienze di Amministratore piuttosto grosse. Sono stato Assessore di un grosso Comune, con migliaia di persone nell’Assessorato, e sono stato a capo di due Ministeri, grossi anche dal punto di vista umano, Lavoro e Trasporti. Beh, insomma, questo è il mondo del Pubblico Impiego, difficilissimo: fannulloni, assenteismo, vero, purtroppo. Però, per la mia esperienza, si può fare: perché, lo voglio dire, tra l’altro il Pubblico Impiego è dove l’obbiettivo del servire, del servizio pubblico, dovrebbe valere persino più del produrre alimentari.
A proposito, sono stato a Melfi, recentemente, e mi hanno fatto lo stesso discorso quelli che producono per la Barilla: “Da noi è facile avere un clima buono, perché quelli producono auto e noi produciamo Pan di Stelle”. Fantastico, il Pan di Stelle! Beh, c’è anche dietro un’ idea diversa di azienda, ma adesso non voglio far polemica con la Fiat. Il Pubblico Impiego è difficilissimo, io ho trovato decine e decine di dirigenti bravissimi. Ma la cosa che ho imparato è che bisogna starci dietro, come dicono dalle mie parti, bisogna crederci, lavorarci. Non so se bisogna fare 70, 20 o 10, ma forse bisogna fare 50 e 50: 50 a fare le cose e 50 a parlare, coinvolgere in relazioni. Io ricordo che, quando ho cominciato a fare le riunioni con i dirigenti – non potevo farle con tutti, perché erano 10000, ma i dirigenti erano già 200, 300 -, questi mi guardavano chiedendosi: “Ma che fa, questo?”. “Niente, sono qui, bisogna che ci troviamo ogni quindici giorni per discutere”. Non ero un grande esperto di strategia, ma insomma, questo era decisivo per motivare e ho trovato delle reazioni molto positive. Ho trovato anche il fannullone, però ci vuole più persuasione che bastone. Prima la carota, poi, se necessario, il bastone. Quindi, bisogna lavorarci.
Ancora due cose finali, perché le opportunità ci sono però bisogna lavorarci personalmente. Bisognerebbe che le imprese pensassero sempre a questo e non solo al profitto, anzi, all’ingordigia: su Wall Street stava scritto: Greed is good, “l’ingordigia è un bene”. È esattamente il contrario. Ecco, a me fa piacere questa idea che “tutto è possibile”: purtroppo non è vero, però quasi tutto è possibile, e la gente ci deve provare. Io mi sento in dovere, come professore e come politico, di dire che bisogna dare le opportunità alle persone, perché le opportunità non le hanno tutti, bisogna darle: e qui discutiamo di che cosa siano le opportunità. La prima, è una formazione all’altezza dei tempi. Quando sento che metà della nostra forza lavoro ha ancora la scuola media, oggi: ma questo andava bene 35, 40 anni fa, adesso i Paesi, non solo la Finlandia ma Singapore, la Cina, hanno l’idea che la metà della popolazione dovrà arrivare ai livelli di educazione superiore. Questa opportunità, la dà la collettività. Certo, poi uno deve studiare, e se non studia bacchettiamolo subito.
Secondo, bisogna aiutare la gente per la strada quando inciampa: un welfare attivo, diciamo, non l’assistenza a vita, è un cambiamento istituzionale ma anche mentale. Però, insisto, bisogna dare l’opportunità e coltivarla, perché anche l’autonomia è una cosa bellissima e la maggior parte dei lavoratori è ancora dipendente, con poca autonomia: si può migliorare, bisogna dare le opportunità. L’ultima cosa che voglio dire è che qui si possono fare delle leggi, migliorare il welfare, meno assistenza, più formazione e più stimoli. Ma il welfare non è un materasso, un ammortizzatore sociale, è e dovrebbe essere un trampolino.
Non possiamo uscire da questa crisi come cinquanta anni fa, con la ricostruzione, di cui pure eravamo entusiasti. Certo, dobbiamo essere entusiasti come allora, ma i tempi sono cambiati e occorre un paradigma, sia mentale che economico, diverso: allora dovevamo ricostruire l’Italia, la crescita quantitativa, il PIL, adesso la cosa è più complicata, dobbiamo immaginare che si deve competere con gli altri Paesi molto di più sulla qualità, usando le intelligenze. E non per niente qualche Primo Ministro vicino a noi ha messo in piedi un gruppo di esperti e Premi Nobel per dire quali sono i parametri dello sviluppo. Non solo PIL, ma benessere, educazione, aspettativa di vita: ma queste non sono storie, perché se pensiamo che basta produrre più tonnellate di acciaio o più hamburger fatti male, va cambiato proprio il punto di riferimento della crescita e quindi anche del lavoro. Perché il lavoro è legato all’impresa – anche qui dobbiamo cambiare la nostra idea, avete detto bene -, ma la cooperazione è un modello niente affatto in declino, dovrebbe essere un modello che ispira tutte le imprese.
Certo, poi ci sarà anche qualcuno che comanda, non è che la partecipazione vuol dire che tutti fanno tutto e viene fuori solo la confusione. Però guardate adesso il modello della Germania, che in questi giorni viene tanto indicato perché hanno avuto una visione più lunga, hanno investito: la Merkel, oltre a fare i tagli, fa anche investimenti nella ricerca, cioè guarda a un futuro che sia basato su un parametro più qualitativo, poi c’è la partecipazione. Questo è proprio un cambiamento, e noi abbiamo sempre pensato, non solo che l’ingordigia sia l’obbiettivo e non lo sviluppo delle persone o la qualità, ma che più concorrenza e pugnalate, di fronte o alle spalle a seconda della lealtà della concorrenza, c’erano, meglio era. Questo è sbagliato, perché la società non progredisce come i giochi a somma zero: “io vinco perché tu perdi e speriamo che tu perda”, ma perché si fanno giochi a somma positiva, cioè si cerca insieme, sapendo che abbiamo posizioni diverse. Non la voglio fare facile, ma è questo il parametro fondamentale che va cambiato. L’obiettivo va cambiato e lo strumento: meno concorrenza spietata, più regole e più collaborazione. Per questo, il modello cooperativo può andare bene. E poi, più coerenza, stavo quasi per scordamene: non basta predicare queste cose, purtroppo noi predichiamo molto e razzoliamo male. Grazie.

MONICA POLETTO:
Chiudo velocemente perché sono le nove meno venti e avrete fame. Ringrazio per l’eroismo, ma evidentemente siamo stati affascinati da quanto veniva detto. Mi sembra che il filo conduttore – è difficilissimo fare la sintesi di interventi così ricchi – sia un’idea di centralità della persona, non come assistito ma come libertà e responsabilità. E un’idea di impresa come luogo di rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità, come dice quel manifesto del realismo che è l’Enciclica del Papa. Però, mi permetto di chiudere con una citazione di Primo Levi dal libro La chiave a stella, che è il secondo che dovete leggere, dopo quello del senatore Treu che s’intitola Organizzare l’altruismo: editore Laterza, lo consiglio a tutti. Mi è venuta in mente questa frase di Primo Levi, che è bellissima e che racchiude in modo poetico un’idea di lavoro che fa da filo conduttore a tutto quello che avete espresso. Per cui, innanzitutto ve la dedico: “Il lavoro ti insegna a fare e nel contempo ad essere. Forma il carattere e l’attitudine a una giusta e sana morale. Felicità e libertà – valori fondanti dell’universo umano – sarebbero pure astrazioni senza il lavoro che terrenamente le realizza, se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare. L’amare il proprio lavoro è la migliore approssimazione possibile alla felicità sulla terra”. Grazie.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

25 Agosto 2010

Ora

19:00

Edizione

2010

Luogo

Sala Tiglio A6
Categoria
Focus