UN CAFFÈ CON…UN INSEGNANTE

Partecipa Franco Nembrini, Insegnante. Introduce Francesco Liuzzi, Docente Scuola di Impresa della Fondazione per la Sussidiarietà.

 

MODERATORE:
Buon giorno a tutti, cominciamo con l’incontro di oggi questo ciclo del “Caffè con …”, che è dedicato all’esperienza del lavoro, a tutte le domande che l’esperienza del lavoro suscita e a tutte le emergenze che muove in chi fa questa esperienza.
In particolare di chi al lavoro si sta approcciando inizialmente, quindi chi lo sta scegliendo, chi sta facendo i primi passi, ma più in generale di tutti coloro che hanno voglia di paragonarsi con l’esperienza di altri sull’urgenza e sulle domande che l’esperienza del lavoro suscita. Domande che nel contesto culturale in cui viviamo presentano una particolare difficoltà, dovuta al fatto che oggi l’esperienza del lavoro è una esperienza fortemente assolutizzata, in cui più che essere il lavoro un luogo dove uno esprime il valore di sé di cui è già certo, il lavoro può essere vissuto come il luogo in cui uno deve costruire il valore della propria persona.
Come disse qualche anno fa Cesana, la grande alternativa è tra: andare a lavorare perché si è amati o andare a lavorare per essere amati. Questo grande dilemma rende tutte le domande che ciascuno di noi si fa sul proprio lavoro, sul lavoro che vuole nel futuro, sul percorso che vuole costruire, particolarmente difficili in termini di criteri, di scopi, di ideali e di direzione. Allora è su questo che in questo ciclo che comincia oggi vogliamo lavorare. Come vogliamo lavorare? Interrogando l’esperienza di persone che prima ancora che con successo, possiamo dire che lavorano con soddisfazione. Questo interessa tutti, perché il successo potrebbe ancora non interessare, ma qualcuno che lavora con soddisfazione non può non essere un punto di provocazione per tutti. Il fatto che questo ciclo si chiami “Caffè con…” vuol anche indicare un metodo in qualche modo conviviale. Certo l’affluenza di oggi non rende la convivialità immediata, però faremo del nostro meglio in questo senso e quindi ci sarà, dopo quello che Franco Nembrini avrà voglia di raccontarci, ci sarà lo spazio per porre domande e per dialogare.
Bene, passo la parola senz’altro a Franco Nembrini

FRANCO NEMBRINI:
Buon giorno, ciao a tutti. Se il tema deve essere la presentazione di una lavoro, di una professione, io ho pensato, parlandone prima anche con lui. che forse la cosa più semplice da fare è raccontarvi come sono diventato insegnante e poi da lì, magari con le vostre domande, proviamo ad entrare un po’ di più nel merito. Faccio subito però una precisazione che mi sembra importante: educare, cioè l’educazione, non è propriamente un lavoro. L’educazione è il lavoro e non è il lavoro dell’insegnante, è il lavoro dell’uomo, cioè l’educazione compete all’uomo in quanto tale ed è quello che lo fa diverso dal suo cane e dal suo gatto. L’uomo in quanto uomo è uomo che educa. Ci stiamo educando adesso, educano gli imprenditori sul posto di lavoro, educano i genitori, figuratevi la famiglia. Il rapporto tra gli uomini è un rapporto, è un rapporto umano perché è educativo. Se gli togliete l’educazione, cioè l’accompagnarsi verso il destino, non è più un rapporto tra uomini, non è più un rapporto al livello delle attese, dei desideri, dell’intelligenza, del cuore dell’uomo.
Quindi tutti educhiamo, tutti abbiamo come compito nella vita l’educazione. Dico sempre che Gesù, se è venuto sulla terra, è venuto per far cosa? È venuto per fare educazione. Si è fatto una classettina non troppo numerosa, dodici, ha inventato un triennio, dai 30 ai 33; è andata come è andata, non ha avuto successo con tutti, con uno in particolare è andata proprio male, però ha fatto educazione, cioè è venuto ad accompagnare gli uomini verso il loro destino, verso il compimento di sé.
Ecco, l’insegnamento che ha invece come oggetto suo proprio l’istruzione, cioè insegnare a leggere e scrivere, insegnare la filosofia, insegnare italiano, insegnare le cose, offrire la possibilità di una crescita intellettuale ed umana, è il mestiere privilegiato, anche dal punto di vista dell’educazione, perché è un rapporto per ore ed ore, per giorni, per mattine, per anni che Dio ti affida con un gruppo di ragazzi.
In questo senso, così anticipo la risposta, anticipo la cosa più importante di oggi, quello dell’insegnante – lo dico subito – quello dell’insegnante è il lavoro più bello del mondo, perché è quello che si avvicina di più, rende più esplicito quel compito che è proprio dell’uomo. Io non so se, quando ho deciso di insegnare, l’avevo chiara come idea, ma evidentemente l’avevo presentita, perché, da questo punto di vista, la mia vocazione per l’insegnamento è assolutamente lineare. Ho deciso che sarei diventato insegnante in terza media e non ho più cambiato idea, quindi non ho gran che da raccontarvi, è quasi una “fissa” la mia che mi ha accompagnato in modo assolutamente naturale, in modo assolutamente semplice. Mi è andata proprio bene, è un po’ come con la morosa, ne ho avuta una, l’ho sposata e non c’è stato gran che di difficoltà. Nelle medie, forse molti di voi lo sanno già, ho avuto una grande, grandissima insegnante di italiano. Era una ragazza di vent’anni, stava ancora facendo l’Università, tra l’altro bellissima e anche questo forse ha facilitato la vocazione. Questa ragazza meravigliosa amava quello che insegnava in modo straordinario ed io anche la passione per Dante l’ho imparata da lei e ricordo come fosse oggi che abbiamo fatto l’esame di terza media e alla fine l’ho salutata stringendole la mano, dicendole: “professoressa le giuro che diventerò insegnante di italiano”. Lì è nata la mia vocazione e poi il resto è stato solo il cercare di arrivarci. Non è stato semplicissimo, perché per ragioni famigliari, quarto di dieci figli col papà ammalato, ho dovuto andare a lavorare. Ho dovuto andare a lavorare, però la passione per lo studio l’avevo dentro. La passione, quella grande passione che don Giussani mi comunicò due anni dopo, alla fine anche di un periodo di una certa crisi, quando a diciassette anni ho incontrato don Giussani, per me ha voluto dire la rinascita, la risurrezione letterale di una grande passione. La passione di incontrare nei testi, nelle poesie, nella letteratura tutto ciò che parlava di me. Ero approdato a quell’incontro scettico, in crisi appunto, sulla possibilità che gli uomini potessero comunicare tra loro, potessero amarsi e dirsi qualcosa di vero. Questa era la questione che struggeva. Incontrando don Giussani è rifiorita, è rinata, risorta, letteralmente, questa passione, questo struggimento. Avevo capito da lui quello che avevo intuito dalla mia insegnante delle medie, che cosa fosse l’interesse, l’interesse e la scoperta che l’altro, l’opera che hai davanti, parla di te, che ci sei dentro te. Mi piace ricordare sempre ai miei studenti perché si studia e lo faccio – adesso cito a memoria – leggendo un pezzettino di Machiavelli, la lettera a Francesco Vettori di Machiavelli. Quando lui è in esilio e durante la giornata fa un vita che non lo soddisfa gran che, dice che questa vita lo ingaglioffisce, lo abbassa, lo umilia, non vive insomma all’altezza del suo cuore. Ma dice poi: alla sera mi ritiro nel mio scrittoio, cioè nel mio studio, e vestito con panni regali e curiali, cioè tirato su, eretto, con tutto il mio cuore in mano e con tutta la mia intelligenza in mano, io entro nel mio scrittoio e parlo con gli antichi uomini e domando loro la ragione delle loro azioni ed essi, per la loro umanità, mi rispondono ed io mi intrattengo con loro e per quattro ore non conosco alcuna noia, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte, tutto mi trasferisco in loro. Ecco, questa idea la ho imparata da quella professoressa alle medie, che studiare potesse essere interloquire, ragionare, domandare ai grandi che mi hanno preceduto della loro vita e perciò della mia e in questo dialogo poter crescere e diventar grande. Certamente, quando ho deciso di diventare insegnante. l’ho deciso per questo, volevo che la mia vita fosse utile, ho sempre temuto, scrive don Giussani l’inutilità della giornata, volevo che la mia vita fosse utile e la suprema utilità mi pareva questa, in tempi di grave, gravissima emergenza educativa. In una cultura ed in una civiltà come la nostra che manca solo fondamentalmente di questo, di maestri, di padri e di madri, di testimoni, mi pareva che l’utilità suprema fosse l’educazione, fosse poter raccontare a dei ragazzi, allora di pochi anni più giovani di me, poter raccontare a dei ragazzi che lo studio, la vita quindi era questa avventura meravigliosa. Questa possibilità di parlare con i maestri, con i grandi della nostra tradizione e quindi consegnare loro il patrimonio di tremila anni di civiltà, di tentativi dell’uomo di diventar grande ed accompagnarli in questa scommessa, in questa sfida a 14, 15, 16, 17 anni.
Ho cominciato ad insegnare per questo. Non è stato semplicissimo, avrei voluto fare il liceo classico – adesso qui devo stare attento, non deve girare troppo la voce, è così, non ho studiato molto nella vita, o meglio ho studiato molto in modo un po’ strano – avrei voluto fare il liceo classico, ma non ho potuto iscrivermi perché la mia famiglia aveva bisogno in quel momento, e ho dovuto andare a lavorare e così piangendo e con grave rincrescimento non sono andato a scuola. Però la passione per leggere mi è rimasta e leggevo di notte, di domenica. Don Eugenio dice sempre che sono stato il fratello più infermo, da questo punto di vista. Lui giocava al pallone insieme agli altri fratelli e io ai margini del campo leggevo Leopardi. Due vocazioni diverse, evidentemente, fatto sta che ho studiato da solo, poi quando è stato il momento ho tentato la maturità da privatista. Mi sono licenziato il 28 febbraio, mi ricordo ancora, sono andato dal mio padrone, lavoravo allora come operaio di notte in uno stabilimento di materie plastiche, sono andato e gli ho detto : “Senta, io rischio sta’ cosa perché l’ho nel sangue e mi preme troppo, se va bene vado, se non va bene torno, te tienimi da parte il posto di lavoro”, mi disse di sì.
Ho comperato un camion di libri, sono andato esule per tre mesi da amici a Pavia che mi hanno aiutato preparare l’esame e ho fatto l’esame che ritenevo un po’ più semplice da sostenere in quelle condizioni, la maturità magistrale e ce l’ho fatta.
38! Neanche 36 ragazzi, 38, cioè non un calcio nel sedere, poverino, cioè 6+, sono uscito con un 6+ clamoroso e sono stato naturalmente contentissimo. Sono diventato maestro. Voi sapete che la vocazione all’insegnamento non è mai una vocazione generica. Quando uno pensa di insegnare, pensa anche ad una certa classe, se c’è la vocazione del maestro gli vengono in mente i bambini, se c’è la vocazione del professore alle superiori, che è un altro mestiere, ha in mente una classe delle superiori. Io avevo in mente una classe delle superiori, mai avrei fatto il maestro, e ancora adesso non capisco l’eroismo dei maestri, cioè non capisco come facciano a tollerare trenta bambini che non capiscono un accidente di niente per una mattina intera. Per me è un mistero, ma grazie a Dio c’è anche questa vocazione. Fatto sta che col mio diploma in mano cosa ci faccio, non ci faccio proprio niente, perché tanto devo lavorare.
Allora vado avanti a lavorare. Però c’è un problema, mi arriva la cartolina, bisogna andare a militare. Allora per evitare il militare mi iscrivo all’Università. Avrei voluto fare lettere, niente da fare, col diploma delle magistrali si può fare solo magistero. C’era un anno integrativo da fare con frequenza obbligatoria, niente lavoro e quindi non si fa. Mi iscrivo a magistero perché mi serve solo per rimandare il militare, preparo un piano di studi dignitoso e però so che dopo un anno dovrò smettere, nel senso che una volta finiti i primi due anni ed evitato il militare, prima o poi bisognerà partire. E invece Dio che mi ha sempre spianato la strada – la mia vita è una serie di botte di culo inenarrabili, una collezione, credo di essere stato veramente accompagnato da una Provvidenza straordinaria – fa sì che da una parte riesco ad evitare il militare, meglio non vi racconti come, dall’altra, dopo due che anni sto frequentando, per modo di dire, l’università, – io non ho mai fatto un’ora di lezione in università, dovendo lavorare – il Vescovo di Bergamo, essendo di CL avevo dei rapporti con la curia, mi chiede se mi piace insegnare perché avrebbe un posto come insegnante di religione.
Io non credo alle mie orecchie, ci salto addosso subito e divento il primo insegnante laico della diocesi di Bergamo nel 1976. Avevo 21 anni e mi manda subito come richiesto alle superiori. Mi ritrovo con alunni di 18-19 anni, qualche ripetente di 20, io ne ho 21 ed è una festa: ero a casa, ero coi miei amici, coi miei coetanei quasi, e per otto anni ho insegnato religione, ho insegnato religione però pian pianino, sudandomelo, però via via portavo a casa gli esami. Ho impiegato otto anni anziché quattro e sono riuscito a laurearmi. Sono riuscito a laurearmi che avevo già un figlio, c’era la moglie col figlio in carrozzina, c’era Stefano in carrozzina che sentiva la mia tesi di laurea. Mi sono laureato e anche lì una serie di coincidenze strepitose: un mese dopo chiudono le iscrizioni per il corso-concorso; lo vinco subito e divento insegnante di italiano e storia, di lettere, negli istituti tecnici. Quindi nel 1984 comincio la mia carriera di insegnante di italiano. Se era stato bello insegnare religione, che insegnavo peraltro seguendo don Giussani, leggendo Leopardi, leggendo Dante eccetera, figuratevi cosa ha voluto dire insegnare italiano e storia. E’ stata la grande cosa che ha segnato la mia vita, con dietro un patrimonio di testimonianze dei miei genitori, che molti tra voi conoscono, hanno conosciuto e conoscono, con davanti quello che vedevo vivere a don Gussani e ai miei amici insegnanti. Io ho amato questo lavoro più di ogni altra cosa, non l’ho mai lasciato se non quando nel 1999, e così finisco, alcuni amici mi hanno detto dell’opportunità di aiutare la vita della Compagnia delle Opere diventandone il responsabile per il settore scuola. Io dico sempre che finora è l’unico vero sacrificio che mi è stato chiesto nella vita e l’ho vissuto veramente con dolore, come un sacrificio vero, per me lasciare le classi è stato veramente faticoso. D’altra parte se tornassi indietro lo rifarei, perché la vita è anche sacrificio e ti può essere richiesto, a volte, qualcosa che non avevi messo in preventivo, ma se c’è una ragione sufficiente puoi dire di sì anche ad un sacrificio grande, come chiunque tra voi sa. La vita è costellata di sacrifici, ma se sono sostenuti da una ragione adeguata diventano l’occasione di una bellezza e di una profondità della vita prima impensabile. Allora ho detto di sì, perché ho pensato fra me, se quel che farò, potrà servire ad aiutare tutti gli insegnanti del movimento ad essere presenti così nella scuola, quel che io vivo coi miei alunni lo moltiplico per 100, per 1000, per 10000, è un servizio grande che posso fare e così ho lasciato l’insegnamento e ho fatto il lavoro, in questi ultimi dieci anni, di aiutare le Federazione delle Opere Educative, la Compagnia delle Opere, la politica eccetera, scoprendo una cosa che ritengo assolutamente vera anche oggi: di essere stato per dieci anni la persona sbagliata, nel posto sbagliato, nel momento sbagliato. Cioè è un lavoro che secondo me non ho saputo fare. Il bilancio dal punto di vista del successo è zero, è pessimo, io mi sono anche divertito. Ogni tanto, circa ogni sei mesi chiedevo ai capi: ma siete sicuri che vado bene, guardate che secondo me non vado mica tanto bene, loro dicevano: ma va che vai bene così; sono passati dieci anni: ma va che vai bene così.
Dopo di che finalmente si presenta l’anno scorso la possibilità di tornare ad insegnare. Io l’ho abbracciata al volo, perché l’ho sempre aspettata questa cosa, nel senso che io vi ripeto, se torno indietro rinuncio ancora, perché questo aspetto di sacrificio e di servizio alla nostra amicizia, alla nostra compagnia, al nostro tentativo può arrivare fino lì e ci credo e l’ho vissuto così e nello stesso tempo dicevo sempre: certo se mi si proponesse di tornare ad insegnare, subito al volo.
E così è stato. L’anno scorso mi è stato proposto di tornare all’insegnamento, sono tornato ad insegnare e mi hanno dato il part-time, quindi nove ore alla settimana di lezione, tre ore per tre giorni, per ragioni di salute, altrimenti avrei fatto il tempo pieno. Sono tornato, mi hanno dato una terza ed una quarta ragioneria. E’ stata durissima: primo perché ho fatto una scoperta che mi ha abbastanza sconvolto. Mi ero occupato per dieci anni di riforme e pensavo che in qualche modo la scuola fosse cambiata e invece no, arrivi dieci anni dopo e l’è tut istess, uguale, preciso, è cambiato qualche nome, il tale non si chiama più figura, ma un’altra cosa, il programma non si chiama più programma, ma si chiama in un altro modo, ma l’è tut istess, non è cambiato niente. Lo si può dire però anche nel bene, questo lo dico sempre, non è cambiato niente nel senso che non sono cambiati i ragazzi; i ragazzi sono quelli di sempre. Come ho detto una volta anche a Roma in un importante convegno, grazie a Dio, i nostri figli vengono al mondo con lo stesso cuore con cui siamo venuti al mondo noi, i nostri nonni, i nostri bisnonni, mille anni fa, diecimila anni fa… il cuore è bello. Il problema è che generazioni di adulti hanno davanti; che maestri hanno di fronte; che famiglia incontrano venendo al mondo. Ma loro sono come devono essere e cioè con una grandissima attesa di bene, di positività e hanno bisogno di avere di fronte degli adulti che questa positività gliela facciano vedere, li accompagnino a trovarla, a vederla dentro le pieghe delle cose; dentro anche l’apparente male o banalità del reale e del quotidiano, ma hanno bisogno di adulti così. Quindi mi sono rilanciato (non è stato facile), in particolare ho avuto una classe molto difficile, con la quale la scommessa è ancora tutta da giocare, ma mi sono tornato a divertirmi un sacco. Sono tornato a fare l’insegnante per la stessa ragione per cui avevo incominciato; perché mi sembra di avere qualcosa di importante da dire, non perché l’ho capito, l’ho visto. Ho visto troppo bene nella vita per non aver voglia di raccontarlo e a chi lo posso raccontare se non ai ragazzi? Si parla proprio male dei nostri figli e dei nostri giovani; bisogna cominciare a parlarne bene! A chi raccontare tutto il bene che ho visto se non a dei ragazzi di quattordici, quindici e sedici anni, che sono lì che stanno per decidere la fisionomia che la loro vita avrà per sempre? Perché lo dico sempre a loro: guardate che a vent’anni i giochi son fatti. Adesso prendete come una opzione fondamentale, che segnerà e darà forma a quel che sarete per tutta la vita, fatta salva un’eventuale caduta da cavallo, ma è meglio non augurarselo; perché cambiare da grandi avviene di norma solo attraverso un grande dolore; se si può cambiare prima, senza aspettare un grande dolore, come ci aveva detto Carrón una volta: non è il caso di aspettare di avere l’infarto, un infarto o la fede, meglio la fede, meglio prima. Allora se questi anni devono essere così decisivi, io voglio essere sul pezzo, voglio esserci, per raccontare il bene che ho visto. Dico sempre cinquantatre anni di bene infinito, di grandezza, di positività, di letizia, anche nel dolore e nella sofferenza, che non posso non raccontare e voglio poterlo continuare per come posso, per come riesco, a raccontarlo ai ragazzi che Dio mi da e che mi prendo un po’ come figli, perché poi adesso che li ho tirati su – per l’amor di Dio non si finisce mai, ma mi sembra che ormai ragionevolmente il grosso è fatto, il peggio è passato, adesso che ho quattro figli con i quali condivido persino un responsabilità educativa, perché il primo insegna. Adesso capisco che il mestiere è veramente sempre lo stesso: fare il padre… Insomma, arrivi a casa e hai davanti quattro che Dio ti ha affidato e poi vai in classe e capisci che è la stessa cosa: hai davanti trenta che Dio ti ha affidato e te gli ha affidati come figli. Puoi mettere in gioco soltanto un paternità. Per meno non vale la pena insegnare, anzi non si resiste nemmeno a insegnare. Per meno di una paternità grande, di un’amicizia, di una compagnia, fino al destino, con tutto quel che comporta di sacrificio e di pazienza, di tempi lunghi e di libertà, in una parola: di rischio educativo. Non puoi aprire la porta della classe alle otto del mattino senza questa paternità, questa voglia di compagnia, questa voglia di andare insieme, di camminare insieme, con tutti i rischi che questo comporta.

MODERATORE:
Mi pare che sarebbe davvero un peccato non approfittare di quello che ci è stato detto per approfondirlo con domande, che si possono fare semplicemente venendo qua e raccogliendo il microfono. Posso cominciare facendone una io: mi ha molto colpito, perché mi sembra molto sfidante della mentalità che ci troviamo addosso, quando hai raccontato di un sacrificio che hai fatto, in cui ti sei sentito, come hai detto tu, inadeguato rispetto a quello che ti veniva chiesto, ma non l’hai raccontata come un’esperienza frustrante, faticosa sì, contraddittoria sì, ma non frustrante. Questa mi sembra una provocazione grande per il lavoro di tutti, non solo per chi fa questo tipo di mestiere e, personalmente, la trovo molto provocante. Quindi mi piacerebbe capire meglio cosa vuol dire che, anche davanti a un lavoro che ti è chiesto, rispetto al quale non hai un rimando che ti fa sentire bravo, questo consente comunque l’esperienza di una soddisfazione.

FRANCO NEMBRINI:
Ieri sera ho cenato con Vicky, la nostra amica dell’Uganda e sono venuto via assolutamente sconvolto, perché ho avuto l’impressione… Avevo sentito parlare di Dio spesso e anche in modo convincente, ieri sera mi è sembrato di stare a tavola con Dio. Non so se il termine vi sembra esagerato; così non ricordo di averlo visto in vita mia e abbiamo pianto insieme, per la grandezza delle cose che stava dicendo. Una delle cose che ha detto è stata questa: Vicky malata come sapete, con il dramma di un figlio malato allo stesso modo, nella condizione terribile dell’Uganda, che ti parla della vita come di una positività estrema. Quando le ho chiesto: perché dici cosi? Io non riesco neanche a immaginare che si possa nella tua condizione parlare di una positività estrema, lei mi ha guardato, ci ha guardati (c’era lì anche la Cleuza con Marcos) e ha detto: “Certo, bisogna passare attraverso il calice amaro che ha bevuto anche Gesù. Perché la vita è fatta così: è un grande e continuo sacrificio; ma se è un sacrificio fatto a Uno presente edifica, perché aiuta ad andare in profondità nelle cose, e dopo il sacrificio, dopo quella ferita, tu sei infinitamente più grande di prima e il tuo rapporto con la realtà è vincente. Tu vinci, tu sei vittorioso in quella ferita, in quella fatica e in quel dolore”. Poi prende il bicchiere come faccio io adesso e dice: “Però a una condizione (così, ha fatto così) fino all’ultima goccia, allora il sacrificio diventa questa positività”. Io non me lo dimentico più per tutta la vita; perché, d’altra parte, in qualche modo ha descritto anche la vita di ciascuno di noi, immagino. Provate a pensare, chi mette al mondo un figlio non è un sacrificio? Ci ricordiamo tutti di esserci alzati di notte quando i figli non fanno dormire per settimane; me lo ricordo bene io, se lo ricorderà anche mia moglie che è qui, che un volta ci siamo incrociati – tocca a me, tocca a te – vai là te sennò lo ammazzo… Mi ricordo bene quando le ho detto alle tre di notte: aveva ragione Erode! Mi ero candidato a presidente dell’ “Associazione Erode”, perché non ne potevo più. Certo che è un sacrificio, tra l’altro è il meno gravoso, cioè proprio un sacrificio da ridere; il sacrificio grande viene dopo, viene con lo strappo, viene con la ferita dei figli che non sono mai come vorresti. Ma dentro quel sacrificio viene anche l’incredibile, capisci che non è il risultato del tuo lavoro, del tuo cervello; viene da un’altra parte la scoperta che i figli possono diventare di una grandezza per cui ti metti tu ad andare dietro a loro. Allora il sacrificio è veramente sempre la ferita da cui sgorga un bene più grande; ogni nostro sacrificio è come la ferita del costato di Gesù sulla croce, quando sembrava tutto perduto; ma la chiesa ci ha insegnato a leggere in quella ferita, da cui sgorgarono sangue e acqua, la nascita della chiesa, cioè di una compagnia di uomini salvati. Da quel sacrificio in poi, nessun nostro sacrificio è inutile; nessun dolore, nessuna menzogna (sto andando a memoria rievocando un noto passo di Don Giussani); fa che nessuna oscurità, nessun tradimento, nessuna menzogna, nessuna morte offuschi la percezione che ho di Te come il bene grande che domina la vita; fa che una positività ultima governi l’esistenza. Detto questo io mi scuso anche di dirvelo, perché del dolore finora… Dico sempre quando mi fanno delle domande difficili, io dico sempre che non so rispondere, perché del dolore sulla mia carne ho visto ancora poco; mi è capitato poco di soffrire. Ho visto morire il mio papà e la mia mamma, va bene, ma vedere due santi andare in paradiso non è una cosa così intollerabile; è uno strappo ma fecondo nel momento stesso in cui accade; già fecondo nel momento in cui accade. Tanti fra noi invece portano tanto dolore. Ecco, l’unica cosa che mi sento di dire a loro, a me stesso, a noi (ma quante volte ce lo siamo ricordati); quello che mi sento di dire – vedete, faccio già l’insegnante – vi racconto quello che ho visto ieri sera; vi racconto quello che ho visto perché da ieri sera io sono infinitamente più certo che la fatica ha dentro una promessa di bene infinita, proprio abbracciata. Non è che diventiamo grandi nonostante la fatica, attraverso. Non è che si diventa grandi nonostante ci sia da tirare la carretta; tirando la carretta si diventa grandi. E se forse un vizio voi ragazzi avete, è che non avete ancora… Insomma c’è un mondo di adulti che vi distrugge perché vi evita i problemi; i genitori fanno fatica a pensare che per il vostro bene non bisogna evitarvi il dramma della vita e la fatica della vita, ma accompagnarvi a portarla. Siccome non la sanno più portare loro, pensano che il bene dei figli sia evitarla e così tirano su ragazzi che a vent’anni non hanno ancora capito che cosa vuol dire sacrificare la vita; così gli portiamo via il segreto per diventare grandi. Se c’è una testimonianza di cui i visitatori del Meeting sono sempre colpiti è che invece qui vedono i ragazzi che, lavorando gratis, cioè facendo un sacrificio, servendo una cosa più grande di loro, diventano grandi. Io credo che questo valga per tutte le professioni e per tutti i mestieri. Quando studiavo di notte, con gli occhi che mi pesavano, mi si chiudevano sui libri, e al mattino alle sei bisognava andare in fabbrica… era un sacrificio; forse era anche un clima, con la vita che faceva mio padre, mio padre ha fatto una vita… dicendo una cosa sola di fronte a tutte e circostanze, anche gravi, che ha dovuto attraversare. Ancora il giorno prima di morire, sono andato a salutarlo e ho detto: allora papà come va? E lui, come sempre, come in tutta la vita, in bergamasco: “Fares pecat a lamentam” (Farei peccato se mi lamentassi), sarebbe un peccato, sarebbe ingiusto, sarebbe non vero. Io, venuto su in una famiglia così, forse anche questo mi ha aiutato. Allora quando facevo il sacrificio di guadagnarmi il mestiere che sognavo, studiando di notte, non mi ha mai pesato granché; mi sembrava nell’ordine delle cose. Come si fa a diventare grandi senza sacrificio, senza fatica? Come si fa? Roba da andarla a cercare se non c’è. Ragazzi andatevi a cercare un posto dove possiate essere accompagnati a entrare nella fatica, a entrare nel sacrificio; perché se no vi impedite di diventare grandi. Fatelo adesso che ha ancora un senso farlo, perché dopo, diventando grandi, si diventa più cinici. E’ più difficile insomma.

DOMANDA DAL PUBBLICO:
Scusa, io sono con te quando dici che i ragazzi hanno un cuore grande che aspetta soltanto di incontrare la grandezza; anche io insegno. La tristezza che mi viene di più è quando certe volte mi vedo con i miei colleghi, che sono talmente soli da essere quasi disperati. Volevo chiedere come è stato per te il rientro a scuola con gli insegnanti.

FRANCO NEMBRINI:
Un disastro totale! Un disastro per una e mille ragioni: mi vergogno un po’. Allora: primo è stato faticoso, perché lavorando tre mattine alla settimana, senza mai un’ora buca, cioè: arrivo alle otto, faccio due ore e poi scappo via; arrivo alle otto, faccio tre ore e poi scappo via. Per una serie di ragioni, di impegni, di cose e poi il part-time per cui vai via il mercoledì, rientri il lunedì: è cambiato il mondo, è successo un casino e tu sei sempre fuori. E’ una condizione difficile, molto più difficile di quello che pensavo lavorare part-time; perché invece io avevo sempre vissuto la scuola come casa mia; non guardavo neanche l’orario al mattino; cominciavo alle otto e finivo all’una. Poi, che le ore di insegnamento fossero due o tre… Quella era casa mia, non casa mia: era il posto dove la mia vita si esprimeva e doveva esprimersi in mille forme e in mille modi. Adesso vivo questa strana condizione di essere invece lì come con un piede dentro e uno fuori; questo mi ha fatto soffrire molto perché capisco di essere un po’ estraneo proprio a quel rapporto con i colleghi che per me era la prima ragione di una presenza. Per me in tutti gli anni precedenti la sfida era tanto con i ragazzi quanto con i colleghi e con il collegio docenti. Invece questo, quest’anno l’ho vissuto proprio con disagio; un po’ per questa fatica dovuta all’orario, un po’ per la fatica dovuta alla salute, per cui a volte, non dormendo nulla la notte, capisci che se non hai dormito niente per una malattia che mi sono beccata… Non dormi niente fino alle sette di mattina, poi fai la doccia e vai a insegnare, arrivi a scuola che un filino rincoglionito lo sei. Allora ti tocca spiegare camminando per rimanere sveglio e i colleghi non li vedi neanche mettere passo nel corridoio. Per cui ci sono questi due limiti di cui devi tenere conto e la cosa che posso dire è: primo, quello che ha detto lui; se guardassi al successo dovrei dire che quest’anno risultati zero, è stato un disastro. Invece se guardo alla soddisfazione c’è tutta, c’è dentro tutta. Poi ci provi, come riesci, quando puoi, con la fatica che questo costa, però ci provi perché non puoi partecipare a uno scrutinio o a un consiglio di classe e sentire dire certe cazzate e non reagire con tutta la tua umanità in difesa dell’umanità; ma non solo dei tuoi alunni che devi difendere, ma per difendere quel povero cristo di insegnante che se dice di sé stesso certe cose, vuol dire che va proprio accompagnato. Capisci che il lavoro dell’educazione è proprio quello che dicevo prima: è tanto educazione stare in classe con i ragazzi quanto è educazione un certo modo di fare il consiglio, di stare al collegio docenti, di bere il caffè nell’intervallo e ci provi come riesci, come puoi. Per esempio, ho avuto la grazia di avere tre o quattro amici a scuola con me, e l’appuntamento del giovedì all’intervallo è diventato un appuntamento fisso. Mi viene in mente, quando ci trovavamo con il mio amico Bobo Persico e con altri due, mi veniva in mente il portico di Salomone, ce lo avete come immagine? Uno fa quel che può, lo dico anche con amarezza, perché capisco che sono stato debole, che si può essere più decisi, si può essere più dentro e uno fa veramente i conti con una condizione a volte faticosa, con le condizioni vivaddio, cioè con quel che è. Allora quando questa estate ho cercato di ripensare all’anno scorso, ho addosso una frenesia di cominciare il lunedì che non avete idea. Perché in quelle condizioni voglio provare a esserci di più, a essere di più sostenuto dai miei amici e a sostenere di più, per come potrò, anche la mia presenza lì. Il rapporto con gli insegnanti quest’anno è stato debole, anche se va detta una cosa: a distanza di dieci anni una considerazione la posso fare, che mi sembra che peggioriamo un po’. Cioè le grandi figure di insegnanti che c’erano in quella stessa scuola dieci anni fa sono andate via. Chi in pensione, chi per fare altro e oggi il corpo docente è sempre meno corpo, e perciò sempre meno docente. Una unità tra gli insegnanti, minima, una solidarietà nel compito comune, una responsabilità portata insieme si fa molta fatica a farla crescere; tanto è diventato faticoso il lavoro con i ragazzi quanto lo è diventato con i docenti. Però l’anno prossimo voglio esserci di più, con più decisione, con più scaltrezza, con più strumenti, indicando le cose buone che ci sono. Per dire, il mio amico Bobo Persico ha scritto un libro insieme al suo amico Maschini, che oggi pomeriggio verrà presentato allo stand di Diesse. Allora quello che non posso fare io lo fanno i miei amici e quello che posso raccontare ai miei compagni, ai miei colleghi di lavoro, se non è quello che ho fatto io, sarà quello che hanno fatto i miei amici. Allora fai il tifo per loro, li sostieni, li aiuti e provi, provi con quel che sei e senza vergognarti dei limiti che hai. Quest’anno è stata la scoperta amara di voler portare con me dei limiti, dei limiti di salute, di tempo e dei limiti anche di un errore che fai. Credo di aver fatto un errore l’anno scorso; adesso mi sto facendo aiutare dai miei amici a non farlo più; un errore di impostazione del tempo, dell’agenda. Ho capito che forse in questo c’è una correzione e allora ho chiesto ai miei amici: ci troveremo il primo di settembre. Ho chiesto ai miei amici: aiutatemi, perché se l’anno scorso ho sbagliato non voglio sbagliare più. Aiutatemi, vi do l’agenda, come si fa con gli amici. Da cosa si vede che uno è con gli amici? Che decide l’agenda con loro. Allora voglio prendere l’agenda e con i miei amici dire: aiutatemi. Perché la mia vocazione deve avere il privilegio su tutto e la mia vocazione è data da due cose: dallo stato di vita (dal matrimonio nel mio caso) e dal compito che Dio ti dà, dal mestiere che ti fa fare. Sono due facce della stessa medaglia. Senza una di queste due cose non c’è l’uomo, non c’è l’adulto, non c’è fecondità, non c’è neanche fecondità nel girare come un pirla in giro per tutta l’Italia e per tutto il mondo, se non è il frutto di una fecondità della tua vocazione. Ecco, forse ho sbagliato in questo; benissimo, faccio ammenda, chiedo ai miei amici di aiutarmi perché abbia il coraggio di rinunciare magari a cose anche più gratificanti per obbedire di più a Dio nella situazione che mi ha dato, nella vocazione che mi ha dato. Così magari l’anno prossimo ti so raccontare qualcosa di più.

DOMANDA DAL PUBBLICO:
Un po’ hai già risposto. Prima hai detto: i ragazzi hanno bisogno di adulti che li aiutino a trovare una positività. Mi viene da dire che anche in noi adulti c’è la stessa domanda, lo stesso desiderio.

FRANCO NEMBRINI:
Mi sembrava di averlo accennato, ma ridiciamolo. Ho detto che non si può educare se non si è educati. questa è la regola fondamentale dell’esistenza, cioè non riesco a immaginare un atteggiamento più criminoso, criminale dal punto di vista educativo, di uno che dicesse a un altro: vieni dietro a me, se non in forza di ciò a cui vado dietro io. Ma se io non seguissi niente e avessi il coraggio di dire a dei ragazzi: venite dietro a me, questo sarebbe il crimine educativo più grave che si possa commettere. L’educazione o riguarda te o non potrà riguardare né i tuoi figli né i tuoi alunni. L’educazione è un fenomeno che vivi tu; è una dinamica umana che vivi tu fino in punto di morte. Allora ai ragazzi, ai figli che cosa dite? Io posso dire ai miei alunni: vieni con me, perché io sto andando da qualche parte e la chiarezza di questa strada è la chiarezza per la quale posso sfidare loro. Posso sfidare la loro libertà e accogliere la loro eventuale risposta. Per cui in realtà si vede che uno è un educatore perché innesca questa dinamica per sé, cioè con degli amici. Non esiste strada se non è una strada comune. In questo l’educazione è terribile, perché ti presenta il conto; se pensi di poter educare da solo, l’educazione presenta subito il conto. Se Dio ha messo insieme un uomo e una donna per tirare su un figlio, se devono essere in due persino a quel livello lì, per farlo, cioè per dargli la vita biologica, a maggior ragione per educarlo (e lo dice tutta la psicologia quale sia la funzione complementare di un uomo e una donna dal punto di vista educativo) non varrà a scuola? La testimonianza che io devo ai miei figli, quale sarà se non un’unità possibile con la donna che ho sposato, con la loro madre? E se sono a scuola, che cosa convincerà della bontà di quel che insegno ai miei alunni se non un’unità tentata almeno con tutti gli adulti che hanno di fronte? Perché non c’è nulla di più diseducativo di questo: di aver davanti una divisione, di aver davanti una solitudine. Questo mette una radice di scetticismo in tutto quello che dirai. Così tiri su figli che ti imitano per moralismo, ma che sanno che non è vero quello che insegni loro e questo succede uguale a scuola. Troverai ripetitori anche fedelissimi, da registratore, di tutto quello che insegni, ma hanno dentro un tarlo di uno scetticismo per cui non è vero niente e nulla vale. Lo devono vedere che vale e lo vedono se vedono che quello che dici e proponi costruisce una unità; perché l’uomo è questo desiderio di unità. Non è vero niente di tutto quello che ci diciamo se non dà come frutto una unità più grande, un’amicizia cioè tra gli uomini, cioè una compagnia. Perciò tra noi insegnanti si dovrebbe essere insieme, per esempio, a fare il tifo e a costruire uno strumento come Diesse. Quello che dici è vero solo in una compagnia, se genera una compagnia almeno come necessità, almeno come domanda, almeno come tentativo. Tre amici che si mettono a scrivere un libro come ha fatto Bobo, tre amici che si mettono a cercare di capire la politica del ministro e aiutano tutti a capirla, tre amici che hanno voglia di capire come si spiega una poesia e si telefonano, si scrivono. L’educazione o è insieme o non è; o è un’unità che almeno tentativamente si esprime o non è; è una menzogna, ha dentro una menzogna radicale, che i ragazzi con le loro antenne assolutamente infallibili percepiscono subito e non ti credono. Tra l’altro, centinaia tra voi potrebbero salire qui, come ha fatto lei, e testimoniare più di me e meglio di me quello che sto dicendo, perché grazie a Dio di tentativi e di gruppi e di persone così ce ne è tanti. Guardatevi in giro in questo Meeting… Sono solo da vedere e da incontrare.

DOMANDA DAL PUBBLICO:
Volevo chiedere se potevi spendere due parole su un altro aspetto importante della scuola, che è quello del rapporto con le famiglie, i genitori. Per natura non mi schiero mai contro gli insegnanti, perché dobbiamo aiutare i nostri figli a non sostituirci a loro, ma di imparare a stare di fronte anche agli insegnanti ai quali sono meno portati come rapporto. Volevo sapere della tua esperienza. Mi sembra un aspetto importante perché vedo tante volte tanti genitori che si intromettono in maniere inappropriata nel lavoro che non compete loro.

FRANCO NEMBRINI:
Provo a rispondere con una battuta, perché è una domanda troppo difficile e pericolosa. Però poi voglio la domanda di uno studente; non vado via se non c’è una domanda di uno studente; cioè vorrei capire se avete capito la sfida che vi ho lanciato.
Su questa questione della famiglia è un casino, perché in un mondo in cui la scuola non fa più la scuola, la chiesa non fa più la chiesa e la famiglia non fa più la famiglia, capire da dove partire è veramente dura. Cioè qual è il punto? Non può più essere come era fino a qualche tempo fa una difesa ideologica della famiglia. Figuratevi se qui non siamo dei difensori tutti, immagino, dei difensori strenui del ruolo della famiglia. Ci faremmo ammazzare per la difesa della famiglia: luogo naturale della educazione, prima responsabile etc. etc. secondo quel che dice la dottrina cattolica. Ma da qui non può discendere un automatismo per cui, per esempio, la famiglia nel suo ruolo di collaboratrice della scuola va difesa tout-court.
Bisogna vedere. Personalmente (spero che non equivochiate quello che sto dicendo adesso) a volte mi sembra che il mestiere della scuola sia difendere i figli dalle loro famiglie, nel senso che gli vai contro. Perché una cosa resta vera: (in questo quante volte l’ho ricordato ai genitori: “Siate orgogliosi di essere padri e madri dei vostri figli”. Piantiamola con questa idea tutta moderna, e falsa come Giuda, che per essere buoni genitori dobbiate aver bisogno di uno psicologo, di un analista, di un dietologo, di uno psichiatra, di un prete se siete cattolici e via dicendo; che se non c’è l’equipe che vi aiuta non sapete fare il padre e la madre) se Dio ve li ha dati è perché si è fidato di voi e, se si è fidato Dio una ragione ci sarà! Dio continua a fidarsi dell’amore dei genitori per mettere al mondo i figli e per dar loro una casa. Allora dobbiamo partire da qui e io, quando incontro le famiglie dei miei ragazzi, mi piace partire da qui. Poi c’è quel problema che dicevo. Una contraddittorietà, una fatica, per cui potrei dire cosi: prima regola, se un insegnante oggi decide di fare l’insegnante deve sapere che in qualche modo è chiamato a esercitare una paternità anche nei confronti delle famiglie dei suoi alunni, perché incontrando un alunno, puoi girarla come ti pare, o sei schizofrenico tu e chiedi di essere schizofrenico all’alunno, ma l’alunno porta in classe suo padre e sua madre; l’alunno è lì seduto nel banco, ma se ieri sera hanno litigato il papà e la mamma non è lo stesso dell’altro ieri; lui è lì col dolore dentro del suo papà e della sua mamma, che non si parlano più, che si sono separati, che litigano. C’è il dolore del fratellino ammalato, ma che ne so?! E’ seduto ma è lì intero; non puoi fare finta che ce ne sia lì un pezzo. L’educatore è quello che, almeno tentativamente, abbraccia l’intero che ha davanti, la persona intera. Tu non puoi pensare che un alunno è lì a imparare l’Italiano e tu gli fai la fregnaccia per un’ora su Dante e quello, povero cristo, sta piangendo dentro per il saluto negato dal papà un’ora prima quando ha lasciato la casa per venire a scuola. Tentativamente tu devi abbracciarlo intero e accompagnarlo. Seconda cosa: per la ragione che ho detto prima, è un crimine educativo mettersi di traverso. Se i genitori fanno fatica, se non capiscono, lo vedi a volte che sono proprio inadeguati, nel senso che non ci pigliano, che sbagliano; il delitto supremo sarebbe che tu ti infili a gamba tesa in quel rapporto già difficile e invece se vuoi aiutare i figli devi accompagnare i genitori, devi aiutare loro. Insomma, è come se avessi un amico insegnante e vedo che fa delle cazzate; che cosa faccio, vado dai suoi alunni a parlare male di lui? Ma è criminale, capite? Farò il contrario, prendo lui da amico, da adulto e gli dico: guarda amico mio, lì non ci pigli, devi fare diverso, così non li aiuti; e a loro dirò: andategli dietro perché, in qualche modo, è il vostro insegnante e questo è un dato di realtà che non si può evitare. E li aiuto a correggersi. Accompagni un rapporto, non lo distruggi mai, mai; perché è contro la natura dell’educazione. Tu accompagni l’altro, l’adulto, a correggersi dove è il caso. Terzo: Non avendo più ragioni educative e preoccupazione educativa, tutta la tensione dei genitori dove si sposta? Che fanno i professori al posto del professore. Rompono le balle. Ti vengono lì: “Eh però il cuginetto del mio pargolo (che come è noto è un genio, perché tutti sono geni) ho saputo che ha già fatto Roma antica; perché la maestra è ferma ancora alle guerre persiane?” Un professore o un maestro intelligente o un gestore di scuola intelligente dice una cosa che non posso dire qui in pubblico, alla signora suddetta e al suo pargolo e li manda a farsi benedire. Gli dice: senta, cambi scuola ma mi lasci fare il mio mestiere. Lo dico un po’ rudemente, ma c’è un compito che è il mio, c’è un mestiere che è il mio. Tu mi vieni pure a dire le tue preoccupazioni. Forse era sbagliato quando mio padre e mia madre andavano una volta all’anno a dire: “Siura maestra il Franco il fa giudisi? Si?” Fine. Questo era il compito educativo dei miei genitori perché, sapendo cosa fosse l’educazione, davano il giusto peso a ciò che accadeva a scuola, distinguendo bene il ruolo della maestra e il loro. Siccome adesso siamo tutti laureati e tutti professori, è un casino. Bisogna aiutarsi in una alleanza vera, sulle ragioni dell’educazioni bisogna fare un’alleanza vera tra genitori e insegnanti, tra scuola e famiglia, ma che sia assolutamente rispettosa dei ruoli, perché se no è un casino: si fanno veramente pasticci gravi. Più di così non so cosa dire. Uno studente c’è? Così poi chiudiamo.

DOMANDA DAL PUBBLICO:
Scusi, lei parlando del suo lavoro ad un certo punto ha detto: la soddisfazione c’era tutta, mentre il successo no. Mi chiedo come fa a parlare di soddisfazione e successo separatamente. Io ho sempre pensato che per essere soddisfatta quello che faccio deve avere successo.

FRANCO NEMBRINI:
Bella domanda, ha fatto una domanda radicale, ha detto: io ho sempre pensato che nella vita per avere soddisfazione si debba avere successo; come fai a parlarne come se fossero due cose diverse? E’ anche facile la risposta, è così radicale la questione che ha una risposta che non capisco ancora bene neanche io, però giuro che c’è ed è questa: tu nella vita puoi avere successo, nel senso che puoi perseguire determinati obiettivi: diventare grande, diventare madre, fare un sacco di cose e però l’ultima parola sulla vita è un insuccesso radicale. Posto che ti vada bene tutto (che non ti cada una tegola in testa, che non ti ammali, che non ti muoia nessuno, che non rimbambisci prima del tempo come me, insomma che ti va tutto proprio liscio) immagina la tua vita come una serie di successi, uno via l’altro. Ma alla fine il punto di arrivo qual è? Il punto di arrivo è che muori, cioè tutto questo è condannato a un radicale insuccesso, perché l’ultima parola sembra essere la morte, il venir meno di tutte le cose. E accade già durante la vita, non pensate soltanto alla morte quando si tirano le cuoia, c’è una morte dentro le cose: c’è una dimenticanza, c’è un tradimento, c’è un venir meno giorno per giorno delle cose grandi della vita, che sfioriscono, appassiscono, cambiano, muoiono. C’è un insuccesso dentro le cose! Bisogna trovare quella cosa che vinca la morte. Il cristianesimo non è interessante perché scopriamo che c’è Dio, il cristianesimo è interessante perché è una vittoria nella realtà, è dentro le cose. Dico sempre: noi non abbiamo il problema di Dio, noi abbiamo il problema della realtà e, se sei realista, devi riconoscere questo: che c’è una morte dentro le cose di cui la morte finale è come la punta estrema, l’evidenza totale. A cosa serve la vita? La vita serve ad andare a vedere se c’è qualcosa che vince la morte, la morte quella finale, cioè se c’è una resurrezione. Ma capisci se c’è una resurrezione finale se c’è una resurrezione che vince la morte di ogni ora, la morte di ogni rapporto, la morte che sta dentro il rapporto con il tuo moroso se ce l’hai; la morte che sta dentro le ore di lezione vissute in una noia tremenda, per cui esci tutte le ore sconfitta dalle ore di lezione. Si può essere vittoriosi in una lezione che va male, in un rapporto che sembra fallire come vi ho raccontato prima? Si può essere vittoriosi nel dolore? Può la Vicky sentirsi vittoriosa? La soddisfazione non viene dal successo; viene dal trovare questa cosa che vince la morte dentro l’ora, dentro il particolare, dentro la lezione, per cui tu esci vittorioso anche da quello che non funziona, da quello che è un apparente insuccesso. Se no tutti i nostri ammalati cosa dovrebbero dire di sé? Sono già condannati all’insuccesso per definizione, tutti. Tutti saremmo condannati a un insuccesso a partire da quello che ci accadrà domani. Ecco, la vita cristiana è la scoperta che dentro l’insuccesso che segna la vita c’è una soddisfazione che è data dallo scoprire dentro la vita Colui che salva la vita. Non la vita eterna, non me ne frega niente, quando vado là vedo com’è, è inutile affannarsi prima. Salva la vita nel senso che salva le ore della vita. Salva la giornata, salva la fatica del rapporto con la donna e con l’uomo, la fatica del rapporto con gli alunni, la fatica di studiare, la fatica della matematica che magari non ti piace, la fatica del greco…Salva la fatica e si può vincere: questa si chiama soddisfazione. Se poi questo si accompagna anche a un successo, è una benedizione di Dio, è una serie di botte di culo come dicevo prima e c’è da ringraziare Dio. Ma noi non cerchiamo il successo, cerchiamo la soddisfazione.

MODERATORE:
Io desidero innanzitutto ringraziare Franco per la vibrazione con cui ci ha travolto in questa testimonianza e molto modestamente appuntare il fatto che attraverso questa testimonianza ci hanno raggiunto alcuni temi, alcune parole che valgono come spunto di riflessione qualsiasi lavoro ciascuno di noi faccia. Lo dico per me che faccio un lavoro tutto affatto diverso dall’insegnante. Grazie.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

25 Agosto 2008

Ora

13:45

Edizione

2008

Luogo

PAD. C1
Categoria
Incontri