UNA VITA DI LAVORO

UNA VITA DI LAVORO

Interviene Gianni Letta, Politico e Giornalista italiano. Introduce Emmanuele Forlani, Consigliere Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.

 

Ore: 19.00 MeshAREA TALK Intesa Sanpaolo B1
UNA VITA DI LAVORO

Interviene Gianni Letta, Politico e Giornalista italiano. Introduce Emmanuele Forlani, Consigliere Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.

EMMANUELE FORLANI
Buonasera, benvenuti a tutti. Un ringraziamento speciale al nostro ospite di stasera che è il dottor Gianni Letta, che abbiamo già accolto con un applauso e che ringrazio particolarmente di essere qui questa sera. Non ha certo bisogno di presentazione il dott. Letta, mi limito semplicemente a dire che nella sua lunga carriera professionale è giornalista, è uomo delle istituzioni, ha lavorato per tantissimi anni nell’ambito del giornalismo e della comunicazione, ha fatto parte come sottosegretario alla presidenza del consiglio del primo, del secondo e del terzo governo Berlusconi, ed è un profondo conoscitore sia dei media che delle nostre istituzioni. È una persona che, anche per la passione che anche io ho per la cosa pubblica, ho potuto ammirare e che stasera sono veramente contento possa essere con noi per parlare di un tema che non è di per sé istituzionale o che riguarda la comunicazione, ma un tema ancora più interessante, ovvero la sua esperienza. Tant’è vero che abbiamo deciso questa sera di dare come titolo al nostro incontro, d’accordo ovviamente con il dottore, “Una vita di lavoro”. Quindi io mi limiterò a fare qualche brevissima domanda, per lasciare lo spazio a lui, che ringrazio nuovamente. Vorrei partire dal titolo di questo Meeting. Il dottor Letta ha appena partecipato all’incontro sulla mostra di Giobbe, che rappresenta in tema di contenuto, una declinazione di questo nostro titolo del Meeting di quest’anno, “Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”. È un tema estremamente attuale, estremamente profondo, estremamente provocatorio, accennavo al dottore qualche istante fa che anche gli avvenimenti degli ultimi giorni in qualche modo sembrano suggerire un titolo diverso, perché è come se di fronte alle difficoltà di questi giorni, ciò che muove la storia sembra essere invece la rabbia, il rancore, la difficoltà. Invece il titolo del Meeting è “Le forze che muovono la storia, sono le stesse che rendono l’uomo felice”. Che ci sia un nesso appunto tra la storia che si muove e la felicità dell’uomo è qualcosa già di per sé estremamente ardito. Quindi io la prima cosa che gli vorrei chiedere, rinnovando ancora il nostro ringraziamento, è: che cosa ha trovato, cosa pensa, come giudica anche questo titolo? Nel chiudere questa domanda, ricordo anche che non è la prima volta che il dottor Letta è con noi. È passato qualche anno, noi siamo rimasti fedeli ad un percorso, e siamo contentissimi appunto che ancora una volta sia con noi.

GIANNI LETTA
Per la verità sono io che devo ringraziare e ringrazio sentitamente. Se non avessi sentito la cordialità del vostro applauso, se non avessi sentito l’affettuosa presentazione di Forlani, e se non fossi ancora invaso dall’emozione dell’incontro precedente, su Giobbe, avrei potuto immaginare di assistere alla mia commemorazione. Perché in genere soltanto di chi ci lascia si parla bene, di chi invece continua ad essere presente, è più difficile, di questi tempi soprattutto, sentir parlare bene. E ringrazio per aver voluto inaugurare quest’area tematica con la esperienza di lavoro, che è sì molto lunga ma non so se tanto significativa da poter essere portata all’attenzione di un pubblico così qualificato, così attento, così sensibile, come quello del Meeting. Anch’io caro Forlani, mi sono esercitato ovviamente su un titolo così stimolante, così provocatorio, come sempre sono i titoli del Meeting, ma che questa volta suonava forse più paradossale di altre volte. E avevo cercato di indagare, di riflettere, di discutere. Avevo chiesto persino consiglio a chi mi conosce bene e vi conosce bene, il mio amico Renato Farina, un giornalista bravo, colto, che filosofeggia perché non è soltanto un giornalista, è un profondo conoscitore delle cose umane, che sa riflettere e studiare sulle cose del mondo, e che forse meriterebbe di scrivere su una tribuna un po’ più ampia e autorevole, di quello che lo ospita. Ma questo è un mio pensiero personale e un mio auspicio. Ebbene Farina, mi aveva suggerito di contrapporre questa frase di don Giussani che dà il titolo al Meeting, a una frase, di un periodo quasi coevo, di un filosofo laico, pur rispettabilissimo, Norberto Bobbio, che diceva invece commentando un’amara situazione di qualche anno fa «che Dio e la storia hanno i loro disegni, ma sono totalmente indifferenti alla felicità dei singoli». Esattamente il contrario di quello che sembra suggerire invece il titolo del Meeting, e don Giussani che dette questa risposta ad un ragazzo che lo interrogava, e al quale voleva indicare proprio una strada, una soluzione, per dire che c’è chi governa i grandi disegni della storia, ma chi anche è attento alla felicità dei singoli e al modo in cui i singoli si possono realizzare. E allora mi ero andato a interrogare sulla storia, andando a scomodare gli antichi testi. Abbiamo sentito la bellissima poesia sul dolore di Mario Luzi e invece ce n’è una bellissima sulla felicità di Montale che dice «Si cammina per te sul fil di lana, agli occhi sembra barlume che vacilla, al piede ghiaccio che s’incrina», per dire quanto sia effimera la ricerca della felicità e quanto sia difficile aver contezza di cosa possa essere la felicità dei singoli e di come quella delle persone, sommandosi, possa fare la felicità collettiva e quindi muovere la storia. Poi ho letto una ricerca coordinata da una professoressa, una psicologa, dell’Università di Milano, Antonella Delle Fave, condotto in dodici Paesi di cinque continenti; hanno interrogato 3.799 persone, alle quale hanno chiesto la definizione di felicità. Sono venute fuori 7.500 definizioni di felicità, comprese quelle di chi nega completamente la possibilità di definirla. E mentre cercavo di riflettere e di intrecciare queste cose con il tiolo del Meeting, tutto è precipitato da quel ponte a Genova, tutto schiacciato su un interrogativo, lo abbiamo sentito risuonare con accenti forti nelle parole di Giobbe, lo abbiamo risentito risuonare nelle parole dei protagonisti di oggi. Tutto schiacciato da un perché inesplicabile che sia spezzata la vita di 43 persone, interrompendo misteriosamente e senza un perché la loro storia individuale e tracciando, forse anche la storia degli anni prossimi di questo sfortunatissimo Paese. Tutto è rimasto sepolto da quell’inaccettabile, pronunciato con modo severo ma forte e sillabandolo dal nostro presidente della Repubblica. Come a mio giudizio “inaccettabili” sono pure alcuni comportamenti che hanno contrassegnato quelle ore, perché se c’era una circostanza, un evento, una sciagura così inesplicabile come quella, ancora più forte di un terremoto, perché il terremoto in un certo modo (e ne abbiamo vissuti tanti negli ultimi anni, ed è stata per me una esperienza dolorosa, totalizzante, difficile, sofferta, quella de L’Aquila del 2009, che ho vissuto con una responsabilità diretta e in prima persona) fa parte di quelle cose di natura che ancora si possono comprendere, una sciagura, una catastrofe come quella di Genova non trova spiegazione ed è sì inaccettabile. Bene, di fronte a questo, forse avremmo dovuto proprio trovare quell’unico momento di ritrovata coesione, sentirci uniti di fronte al dolore di tanti sventurati, sentirci uniti di fronte ai problemi che si pongono a tutti noi, sentirci uniti e ritrovare un senso di comunità, un senso di appartenenza, quell’ethos popolare, come lo chiamava Giovanni Paolo II, che attiene alle ragioni di fondo che tengono insieme una comunità, che sono gli ideali, le finalità, quel senso di appartenenza, quel modo di condividere le gioie e i dolori, quel modo di condividere insieme e di preparare insieme l’avvenire di una comunità. Tutto questo non solo non si è visto (e c’erano tutte le ragioni perché questo dovesse dominare un momento di così grande dolore) ma al contrario è esploso, anche in una circostanza come questa, quel rancore che Forlani evocava e che sembra la cifra caratteristica del nostro tempo. Consideriamo il rapporto Censis 2017. Ebbene il rapporto Censis del 2017 dice che la parola chiave del nostro Paese nell’anno 2017, e ancor più nel 2018, è “rancore” e che tra il 70 e l’85 per cento degli italiani hanno rancore, livore, risentimento, quando non addirittura disprezzo verso le istituzioni. Ecco, un Paese che ha sostituito la coesione, l’ethos della nazione, l’ethos popolare al rancore, che ha sostituito il rancore a questi sentimenti, temo che non abbia un avvenire felice o perlomeno viva in una situazione in cui tutti abbiamo il dovere di riflettere. Poi per fortuna sono arrivato qui e ho ritrovato, già nei volti di questo popolo festoso del Meeting, di questi ragazzi, nell’accoglienza di questi volontari che ti accolgono con un sorriso pieni di premure, che cercano di risolvere o anticipare anche le tue esigenze e che, festosamente, preparano un evento come questo ho ritrovato motivo di speranza e di fiducia. Poi la mia meraviglia e contentezza sono aumentate, quando sono arrivato in quell’area affollata da migliaia di giovani che sembrava deserta per il silenzio devoto con cui ascoltavano Carrón, Natoli in un dibattito su Giobbe, ma che voleva andare oltre, che voleva sì dare l’interpretazione giusta del titolo del Meeting, ma anche ritrovare quelle ragioni di speranza, di fiducia alle quali questo Paese ha diritto e alle quali hanno diritto i giovani di questo Paese. Lì, per la verità, in quell’ora e mezza, due ore, non solo per le cose che ascoltavamo sul Libro di Giobbe ma anche per quella testimonianza splendida, del professore Melazzini, ho capito che in fondo questo Paese ha forze, energie, capacità, risorse, giovani capaci di superare anche quella parola triste che ha caratterizzato l’anno scorso, per scrivere parole di speranza e di fiducia che aprano ad un avvenire diverso. Allora ho trovato giusto quello che proprio ai giovani papa Francesco ha affidato qualche giorno fa, in preparazione del Sinodo sulla bellissima spianata di Tor Vergata a Roma e di cui c’era l’eco nel Messaggio che ha mandato a voi giovani del Meeting ieri. Ha detto che è giusto che i giovani vogliano cambiare il mondo, e debbano cambiarlo, e sono sicuro che lo cambieranno e gli ha consegnato come sfida per gli anni a venire tre verbi sui quali voi dovete costruire questo cambiamento e che sono: sognare, amare, rischiare. Sono tre verbi che in fondo sono le forze che muovono la storia, ma sono tre verbi che anche a livello personale debbono muovere ognuno di noi, nella convinzione e nella certezza che non dobbiamo aspettare tutto dagli altri o tutto dalla politica o tutto dalle istituzioni, ma che dobbiamo concorrere ognuno per la sua parte, come fanno i giovani qui del Meeting, dove ho visto una organizzazione perfetta, che non si avverte ma che si ricompone attraverso il contributo singolo di tante persone che fanno poi una macchina organizzativa che consente un risultato come questo. Così è nella storia. La storia in fondo è fatta da tante piccole storie, ognuno di noi è chiamato, nella sua responsabilità, grande o piccola che sia, a dare il contributo di operosità, di laboriosità, di impegno, di coraggio, di solidarietà, di accoglienza, perché solo così si può ritrovare quel valore fondante di una comunità che è quella che con la storia dei singoli muove anche la storia e trova, attraverso quelle forze che muovono la storia, la felicità delle persone.

EMMANUELE FORLANI
In qualche modo ha già iniziato a rispondere alla seconda domanda, perché qui ci troviamo in un Area, come dicevamo qualche istante fa, interamente dedicata al tema del lavoro. Tema del lavoro evidentemente non affrontato appena come continuità del reddito (e non mi riferisco a quello di cittadinanza ma semplicemente di sussistenza), affrontato in maniera diversa. Il lavoro è qualcosa in più, è proprio l’occasione di una crescita umana. Da questo punto di vista noi siamo particolarmente lieti e curiosi di poter ascoltare, per quello che vorrà dirci, la testimonianza di chi da tanti anni lavora esattamente con l’accezione che ci diceva adesso. Quindi la pregherei di raccontarci qualche cosa che la riguarda.

GIANNI LETTA
Sul piano della quantità certo, sono tanti, tanti anni, forse troppi per un popolo giovane come quello del Meeting. Però lei ha detto, Forlani, una cosa giustissima, che lega la domanda al tema del Meeting e a quel titolo così provocatorio ma così pertinente, perché ha detto che il «lavoro è una opportunità di crescita umana». Io penso che sia la principale opportunità di crescita e che, forse, attraverso la realizzazione per sé e per gli altri, una realizzazione piena della propria personalità, delle proprie aspirazioni, si possano creare quelle condizioni di felicità personali che poi possono muovere la storia e realizzare quei disegni provvidenziali per chi crede o della storia per chi laicamente pensa a una concezione immanentistica. Il lavoro, io credo sia proprio, come lei ha detto, non solo una opportunità di crescita, ma vada visto come dimensione della vita, non esclusiva: la vita non può essere ridotta all’ossessione per la carriera e il lavoro non può essere elevato a idolo che fa gli uomini schiavi. Il lavoro deve essere considerato in una dimensione totale della esistenza dell’uomo, fatto per realizzarsi, fatto per recare beneficio a sé e agli altri. Come dicono le Scritture, però, anche Dio, l’eterno lavoratore, il settimo giorno riposò. Oltre al lavoro, quindi, c’è un’altra dimensione. C’è quella della famiglia, quella degli affetti, della solidarietà, del riposo, dello svago, del guardare agli altri. Il lavoro va inserito in una visione più completa della vita perché possa dare alla singola persona e alla società nel suo insieme i risultati migliori. Ho sempre creduto ad una impostazione del genere e ho sempre cercato di ispirarmi a questi principi. Sarebbe presuntuoso dire che ci sono sempre riuscito, ma credete alla buona intenzione di aver sempre guardato a una dimensione così piena e propria del lavoro. D’altro canto, mi deriva dalla mia formazione che è tutta racchiusa in quattro semplicissime parole: sono nato in Abruzzo, in una piccola città di provincia, Avezzano, ho avuto una grande famiglia, ho cominciato le mie prime esperienze di lavoro nello studio legale di mio padre avvocato, ho fatto una esperienza fondamentale in una fabbrica come operaio, ho poi cominciato, sempre nel mio Abruzzo, a scrivere sui giornali. Sono questi cinque momenti della mia fase iniziale dell’esperienza lavorativa che mi hanno formato e che poi mi sono portato appresso per tutta la vita (come vedete, una lunga vita). Avezzano, una piccola città di provincia, dove però la tradizione si incontra con l’innovazione e dove i valori della tradizione, propri di una sana provincia, sono resistenti e dove le parole dovere, sacrificio, sentimento, religione, non sono prive di senso e dove sono praticate e sono la guida e l’orientamento ancora per la vita di chi, in maniera meno dispersiva di quanto non accada in città, può vivere e formarsi in quella cultura e in quei valori. La mia famiglia… sono secondo di otto figli e l’esperienza più bella per un figlio (per un padre e per una madre è terribile) ma per un figlio l’esperienza più bella è vivere in una famiglia numerosa. Lì, senza merito, ti rendi conto di tante cose: ti rendi conto di alcune esigenze, di come si deve lavorare, ti abitui alla responsabilità, al lavoro di squadra, al rispetto degli altri, alla solidarietà. Impari senza accorgertene tutto quello che poi ti servirà nella vita e lo vivi in un clima, grazie anche a due grandi genitori che questa famiglia hanno saputo tenere sempre forte, unita, coesa, anche quando diventati grandi, i vari figli hanno preso le strade del mondo separandosi ed allontanandosi. Ma quei valori sono stati un orientamento costante nella mia vita di lavoro anche quando gli impegni mi hanno chiamato a prove difficili. Non avessi avuto il sostegno di quel ricordo e la forza di quella formazione, forse non avrei saputo o potuto affrontare tante prove difficili della vita. Le prime esperienze di lavoro. Dovevo e volevo fare l’avvocato seguendo la tradizione paterna e quindi anche già negli anni del liceo andavo a studio, magari a fare il dattilografo, a battere a macchina le comparse, le citazioni, i ricorsi. C’era ancora, pensate quanto sono vecchio, la carta carbone e le veline, che non sono le vallette della televisione, alle quale siete abituati, ma la carta velina con la quale si battevano, attraverso la carta carbone messa nel rotolo della macchina da scrivere, le varie copie per i diversi uffici giudiziari, quelle che oggi i computer stampano con una facilità estrema. E io faceva il giovane di studio, il dattilografo. E ho fatto le prime esperienze. Poi ho cominciato anche a scrivere sui giornali, perché il mio professore di liceo, che era corrispondente del Messaggero, non faceva lo sport e allora mi chiese, in seconda liceo, di cominciare a sostituirlo nelle cronache sportive. Lì cominciai e poi passai al concorrente Il Tempo. E poi ho fatto un’esperienza fondamentale, come spesso si fa nelle città di provincia, dove esiste, esisteva ahimè, nella mia Avezzano, lo zuccherificio che aveva una lavorazione stagionale di 5/6 mesi, legata la produzione delle barbabietole. Ho fatto l’operario, ho fatto per scelta, perché poi dovevo studiare, il turno di notte. Entravo in tuta alle 18 del pomeriggio e uscivo alle 6 del mattino dopo. E lì ho fatto un’esperienza per quattro anni fondamentale in cui ho imparato umilmente il rispetto del lavoro altrui, la solidarietà, il lavoro di squadra, la fatica, la noia delle operazioni ripetitive, la psicologia di chi lavora e di quanto, chi lavora, sia attento al merito e alla giustizia. E poi ho fatto le mie prime esperienze giornalistiche. Scrivendo appunto sul Messaggero e su Il Tempo, poi sull’Ansa e alla Rai, di cui divenni corrispondente. L’esperienza giornalistica in provincia è molto più formativa di quella che si fa in città, perché in provincia il controllo dell’opinione pubblica non è aleatorio e così astratto, è concreto, perché in una piccola comunità tutti si conoscono, tutti ti conoscono, tutti sanno ciò che avviene. E se la sera passeggiando per il corso o sotto i portici, tu incontri chi quel fatto, di cui hai scritto la mattina, conosce meglio o quei personaggi frequenta più di te, se non sei stato attento, se non sei stato preciso, ti contesta. Il controllo dell’opinione pubblica è immediato, concreto e diretto e quindi ti obbliga ad una verifica preventiva molto più attenta di quanto non avvenga in una grande città, dove è difficilissimo che tu incontri il protagonista di quel fatto che ti possa contestare una imprecisione. Ecco perché io ho sempre detto poi, nella mia lunga carriera giornalistica, ai ragazzi che intraprendevano questa professione, che l’esperienza di provincia è insostituibile, perché insegna ad essere più seri, più documentati, ad essere meno superficiali, è il miglior antidoto a quella tentazione naturale della professione giornalistica che è l’approssimazione, la superficialità, il non verificare, il dare tutto per scontato, il presumere che tutto ciò che sai sia automaticamente vero e pubblicabile. E lì mi sono formato arrivando poi a Roma, percorrendo tutta la mia carriera in quel giornale nel quale avevo cominciato a scrivere come corrispondente di provincia. Sono arrivato a Roma, ho fatto il redattore delle province, poi degli interni, poi degli esteri, poi l’inviato speciale, poi il redattore capo fino a che il fondatore di quel giornale, Renato Angiolillo, che ne era anche il proprietario, mi disse che per amministrare in tempi moderni in grande giornale che voleva crescere, ci voleva non un amministratore, non un ragioniere attento ai numeri, ma ci voleva un giornalista. E mi chiese di improvvisarmi amministratore, nominandomi improvvisamente direttore amministrativo, io che non sapevo nulla di amministrazione. Lo feci e lo feci con certo successo, se sei mesi dopo mandò via l’amministratore delegato e mi fece amministratore di tutte e due le società, la editrice del giornale e la stampatrice del giornale. E quindi mi sono ritrovato ad esser giornalista, perché formalmente ero ancora il segretario di redazione, che è l’equivalente del segretario generale di un ministero, cioè la massima carica giornalistica in redazione, prima del direttore, ma anche amministratore delle due società, editrice e stampatrice. E quando il fondatore e il proprietario del giornale si ammalò all’improvviso, i miei colleghi, la mia redazione, in un momento in cui si temeva delle sorti del giornale che era molto legato a quella persona che aveva improvvisamente taciuto per un ictus al cervello, mi chiesero di assumere anche la direzione. E allora io scrissi un piccolo fondo in cui dicevo che in un giornale in cui tante firme più illustre della mia, tanti giornalisti eccelsi, c’erano effettivamente tantissimi giornalisti molto importanti, avrebbero avuto più titolo di me di assumere la direzione, io assumevo in via provvisoria la direzione del giornale solo per assicurare la continuità con la vecchia proprietà e direzione, per assicurare un ordinato passaggio. In Italia non c’è nulla di più definitivo del provvisorio, infatti la mia provvisorietà durò per 15 anni. E per 15 anni sono stato direttore ed amministratore del mio giornale. Voi sapete che nei giornali ci sono sempre due partiti: il direttore che è secondo il contratto giornalistico, la massima autorità, il responsabile di tutto ciò che il giornale pubblica, il responsabile dell’organizzazione giornalistica e quindi è la massima autorità giornalistica; poi c’è sempre l’editore, rappresentato dall’amministratore della società, che rappresentando la proprietà, tende a contenere lo strapotere del direttore, a misurarsi con lui o a condividere con lui il potere e spesso questo è fonte di un dualismo che non sempre fa bene ai giornali. Quindi si creano all’interno delle redazioni i due partiti, chi sta con il direttore chi sta con l’amministratore. Io invece avendo la fortuna di essere amministratore e direttore e non potendo litigare con me stesso, potevo fare il giornale che volevo, nel quale mi sono sempre rispecchiato. È stata la stagione più bella della mia vita, un’esperienza lunga 15 anni, straordinaria, anche se vissuta in anni tremendi e difficili, gli anni delle brigate rosse, gli anni del terrorismo, Io stesso inseguito e braccato, come i miei figli sanno. Qui ne sono presenti due Marina e Giampaolo, due figli splendidi insieme a mia moglie, che mi hanno consentito di lavorare in maniera totale, con grandissima dedizione, con grande impegno, con grande sacrifico, ma senza mai perdere quella dimensione della vita e della famiglia, merito loro non mio, che mi ha consentito sempre di tener fede a quella ispirazione di cui parlavo. Sono stato 15 anni e fu allora che venni la prima volta al Meeting, era il 1986 e c’era un altro titolo un po’ matto e provocatorio come quello di quest’anno, dedicato alla comunicazione: “Tamburi, bit, messaggi”. Erano gli albori della comunicazione elettronica, di internet, dei telefonini, dei computer, di quella tecnologia che poi ha invaso pesantemente la comunicazione fino quasi, stavo per dire a stravolgerla, fino quasi a cambiarla sostanzialmente, o comunque a renderla più difficile. Io venni e parlai della comunicazione al Meeting in sala grande e evocai due principi guida che erano la coscienza e la responsabilità come guida per fare bene il proprio lavoro, senza rincorrere i falsi miti, che all’epoca andavano molto di moda, della obiettività come se fosse un valore possibile e assoluto, ma dissi che con coscienza e responsabilità si poteva raggiunge anche il massimo della obiettività possibile. E citai in quel Meeting il documento conciliare che mi aveva molto impressionato. Mi aveva impressionato che il Concilio avesse dedicato il suo primo documento alla comunicazione, a conferma di come la Chiesa fosse sensibile ai temi della comunicazione e come li avesse fatti propri, e come avesse adottato dei criteri che dovrebbero essere di guida anche fuori dalla Chiesa, anche validi per chi non crede. E i tre valori che quel documento conciliare indicava e che io cercai di indicare assieme a quelli di coscienza e responsabilità, erano il dovere della verità, il rispetto dei valori e il servizio al bene comune. Se uno fa comunicazione, se uno cerca di fare un giornale, tenendo presenti questi principi guida, coscienza e responsabilità, per cercare di servire al meglio il dovere della verità nel rispetto dei valori e al servizio del ben comune, io credo, che se fossimo capaci di farlo, i giornali sarebbero un’oasi meravigliosa e non quello forse che sono. Ma più si possono applicare questi principi e meglio si può raggiungere un grado di comunicazione accettabile al servizio di quel bene comune che dovrebbe essere poi il fine di una società ben ordinata.

EMMANUELE FORLANI
A proposito di bene comune, proviamo a scavare ancora di più in quest’affascinante percorso. Bene comune e interesse personale sono due aspetti che vengono spesso contrapposti, quasi non potessero effettivamente stare assieme il perseguimento di un interesse personale e la costruzione di un bene comune. Però è esperienza di tutti, di ciascuno che nel rapporto con la realtà esistono dei desideri, delle domande, esiste un interesse, esiste un disegno, esiste effettivamente un progetto che uno può fare sulla società, su di sé, sulla società, sul lavoro. Come stanno insieme interesse personale e bene comune?

GIANNI LETTA
Dovrebbe essere semplicissimo e nell’enunciarlo sono tutti maestri. Poi nel realizzarlo, nel praticarlo, è oggettivamente più difficile, ma molti dimenticano anche ciò che predicano e omettono di praticare ciò che predicano. Qui vedo Maristella Gelmini che è presidente del gruppo parlamentare alla Camera e che è anche avvocato, ma non ti ho evocato quando parlavo di carta carbone e di battere a macchina, perché sei dell’era del computer, sei molto, molto più giovane. Sapete quando sia difficile comporre in armonia queste due categorie che Forlani ha evocato e che spesso sono in conflitto anche quando non dovrebbero esserlo. Io credo che il compito della politica sia proprio quello di ricercare, attraverso il compromesso, attraverso l’ascolto e il rispetto delle diverse posizioni, quel punto di equilibrio che possa rappresentare il punto più alto dell’interesse generale, cioè del bene comune, nel rispetto delle singole parti che possono e debbono essere in contrasto tra di loro, perché altrimenti avremmo una visione unica e un pensiero unico intollerabile. E mi piace citare un famosissimo discorso dell’allora cardinale Ratzinger ai deputati della Germania, del parlamento tedesco, che disse che la finalità più alta della politica è proprio il compromesso, nel senso più nobile dell’espressione, quello cioè di ricercare una mediazione degli interessi per un fine più alto, non semplice o arida mediazione degli interessi ma punto di equilibrio per realizzare il punto più alto del bene comune, dell’interesse generale. Esercizio nobilissimo e difficilissimo al tempo stesso, che però dovrebbe rappresentare proprio l’obiettivo ultimo di una classe politica seria, responsabile, consapevole dei suoi doveri, attenta alle esigenze del bene comune e consapevole che diversamente finisce per prevalere quel rancore, quei sentimenti negativi che portano alla dissoluzione o alla distruzione di una società che, per mantenere invece la sua coesione, deve saper guardare più in alto, per guardare insieme agli interessi di tutti cioè al bene comune.

EMMANUELE FORLANI
Grazie. Mi permetto, a questo punto, un’ultima domanda che è legata a quello che sta dicendo lei adesso ovvero sul ruolo delle istituzioni e di chi lavora nella pubblica amministrazione che, di certo nell’ultimo periodo, nell’immaginario collettivo viene additato in maniera negativa. Per lei che ha dedicato tanto tempo alle istituzioni, che cosa rappresentano, non tanto come definizione, ma quanto come sua esperienza personale, che cosa rappresentano le istituzioni e qual è anche il ruolo della pubblica amministrazione e della politica?

GIANNI LETTA
Mi ha fatto molto piacere che introducendo questa conversazione lei abbia detto un’espressione che io rivendico sempre e che spesso invece viene distorta. Lei ha detto «un uomo prestato alle istituzioni». Mi sono sempre definito infatti un giornalista prestato alle istituzioni, perché così ho inteso il mio servizio. Tutti sanno che lavoravo con Berlusconi e che assieme a Fedele Confalonieri ero contrario al suo ingresso in politica e quando nel ‘94 Berlusconi decise di entrare in politica, Confalonieri ed io gli dicemmo: «addio, noi rimaniamo in azienda, auguri per la tua avventura politica». E quindi lo lasciammo correre da solo la sua prima avventura elettorale. Contrariamente alle previsioni dei più, anzi, di tutti tranne che le sue, lui vinse e stravinse. E quando vinte le elezioni pensò che forse avrebbe dovuto fare il governo mi disse: «Ma adesso che debbo venire a Roma me la dai una mano tu che conosci tutti, sei stato 15 anni direttore di un’importante giornale romano, mi aiuti a entrare in questa società della politica?». E dissi: «Questo certamente». E dissi: «La prima cosa che dobbiamo fare è, prima ancora che inizino le consultazioni, sapere – voi non ricordate ma la polemica era furente, Berlusconi aveva vinto le elezioni ma tutti i giornali dicevano che il Capo dello Stato non poteva dare l’incarico di fare il governo a Berlusconi, che era un usurpatore -, capire se il presidente della Repubblica ti da l’incarico o no. Allora, siccome io sono amico del presidente Scalfaro, gli chiederò di vederti in segreto prima della programmazione ufficiale, in modo da capire che cosa dobbiamo fare». Organizzai l’incontro e il presidente Scalfaro – il presidente Scalfaro, non è un mistero, non amava Berlusconi né mai l’ha amato, però fu corretto – disse: «Presidente, lei ha vinto le elezioni e io le darò l’incarico, perché questo mi impone la Costituzione, quindi si prepari perché tra dieci giorni ci sarà la proclamazione degli eletti, tra 15 giorni farò le consultazioni, tra una ventina di giorni lei sarà chiamato al Quirinale ufficialmente ed avrà l’incarico ma, soggiunse, non pensi di andare a palazzo Chigi senza questo signore qui». E Berlusconi, pronto, rispose: «Non ho mai pensato di andare a palazzo Chigi senza questo signore qui». Quel signore ero io e mi ritrovai perciò incastrato, ma allora dissi a Berlusconi, e non sarò mai tanto riconoscente a lui per come accolse questa mia richiesta e per come ha rispettato questo patto per tanti anni e per come lo rispetti, io gli dissi: «Silvio, io non ho voluto far politica. Dal lavoro che ho fatto al giornale, abituato cioè a guardare e osservare, raccontare e giudicare gli altri senza schierarmi mai, anche se tutti conoscono le mie idee, io non ho voluto far politica perché non voglio identificarmi con una parte. Tu adesso farai il governo cioè il governo dell’Italia e degli italiani, io accolgo l’invito, ti sarò a fianco, a una condizione, che tu mi consenta di svolgere il mio ruolo in maniera rigorosamente istituzionale, cioè non di parte, senza schierarmi, senza entrare in un partito, senza fare attività politica». E lui mi disse: «Ok». Ha sempre rispettato tutto questo. Maria Stella sa che io non ho mai fatto attività di partito, non ho mai fatto attività politica ma ho sempre potuto fare il lavoro al governo, in tutti i tre come hai ricordato tu Forlani, in piena libertà ma in pieno rispetto e con piena convinzione da parte di Berlusconi di quel patto fatto quel giorno e cioè rispettando la mia vocazione istituzionale. Che significa questo? Significa affrontare i problemi del governo e del Paese, della buona amministrazione di un Paese, senza il filtro della parte, senza il pregiudizio, senza il condizionamento ma in maniera istituzionale, rispettoso delle posizioni di tutti per trovare sempre quel punto alto di compromesso che possa consentire di servire il bene comune. Così ho potuto svolgere il mio ruolo, così ho sempre fatto, così mi è stato riconosciuto da tutti e quando, nelle successive esperienze di governo, Berlusconi avrebbe voluto promuovermi, voleva farmi vicepresidente, voleva farmi almeno ministro, voleva cioè segnare, in qualche modo, una progressione di carriera, io gli ho sempre detto: «No, fare il vicepresidente significa fare politica, significa mediare tra i partiti, io, se ti sono stato utile e se pensi che possa esserti ancora utile, lo posso fare soltanto in quel posto dove si amministra, dove si governa senza fare politica, dove si sciolgono i nodi, dove si coordina il lavoro dei ministri; se posso essere utile, posso esserlo in quel ruolo perché quello è un ruolo istituzionale, amministrativo, che mi consente di esserti utile senza venir meno ai miei principi». E così ho fatto per tre volte e così l’ho potuto fare con piena realizzazione di quel disegno, con piena soddisfazione del presidente Berlusconi, il quale non mi ha mai chiesto qualcosa di diverso e di più di quello che era stato l’oggetto di quel patto e questo mi ha consentito anche di dialogare con le opposizioni, come con le forze di maggioranza, sullo stesso piano, nell’interesse generale, nella visione di quel bene comune senza pregiudizi, senza partigianerie, senza faziosità. Forse qualche risultato questo l’ha dato perché ho cercato di svolgere, in quel ruolo, il mio lavoro con quello spirito istituzionale che la Costituzione richiede a quei funzionari e dirigenti che giurano fedeltà alla Costituzione. Negli articoli 53 e 54, 97, 98, c’è la descrizione dei doveri del funzionario pubblico, del dirigente statale, che deve assolvere con disciplina e con onore ai compiti che la Costituzione gli assegna nell’interesse generale della Nazione, per servire il bene comune nella continuità dell’amministrazione che segue l’alternanza dei governi. Questo significa lo spirito istituzionale che è rispettoso della politica a cui spetta di cambiare maggioranza e di alternare i governi di diversa ispirazione politica, ma garantendo la continuità dell’amministrazione. Per questo io non ho mai voluto praticare quella istituzione importata dagli Stati Uniti e introdotta, purtroppo, recentemente nella nostra Costituzione che invece l’aveva all’inizio respinta, che è lo spoils system. Perché io credo che uno dei mali della nostra pubblica amministrazione sia proprio la pratica recente dello spoils system che introduce un elemento di divisione, che crea i partiti del prima e del dopo, che crea le benemerenze di chi crede che stia per vincere qualcuno e di chi prende le distanze da chi ormai è dato per spacciato e che introduce dei criteri di partigianeria, anche all’interno della pubblica amministrazione, laddove la Costituzione, nella stesura originaria, voleva appunto quella continuità che era garanzia. Infatti, se quei doveri si svolgono con quella caratteristica che la Costituzione prevede e prescrive, disciplina e onore, fedeltà e coscienza, si può servire il Paese in maniera onorata anche e indipendentemente dal colore dei funzionari. Io non ho mai chiesto a coloro i quali ho trovato e che non ho mai voluto cambiare e con i quali ho sempre lavorato bene, per chi avessero lavorato o votato prima di lavorare con me, perché ritenevo che chi serve lo Stato deve farlo in una certa maniera. Che poi questa sia teoria o utopia è purtroppo anche vero ma, fortunatamente, nella nostra pubblica amministrazione ci sono ancora tanti funzionari che concepiscono il loro servizio alla collettività, alla comunità, così come la Costituzione prescrive. Ecco perché assisto poi con dolore e con tristezza a un modo un po’ disinvolto e sconcertante con cui oggi i comportamenti e il linguaggio di chi dovrebbe invece avere, nella responsabilità pubblica e di governo, atteggiamenti diversi, si tende a dissacrare le istituzioni, a dileggiarle o ad attaccarle in maniera impropria, confondendo la persona con il ruolo. Questo è pericolosissimo, perché il progressivo degradare delle istituzioni può segnare in maniera pericolosa, e Dio non voglia irreversibile, anche il declino di questo Paese. Ecco perché anche il linguaggio, il comportamento, l’atteggiarsi di chi ha responsabilità pubbliche, meglio ancora di chi ha responsabilità di governo, deve essere consono al ruolo, al prestigio che le istituzioni debbono avere e che devono mantenere per essere credibili e per poter parlare con autorevolezza e credito al pubblico disorientato e sconcertato anche nei momenti difficili. E nei momenti difficili saper parlare con autorevolezza e prestigio, senza rancore, ma guardando al bene di tutti, a quel bene comune che dovrebbe essere il cemento di una collettività, fa la differenza ed è questo che io credo da Rimini dovrebbe arrivare come richiamo. Rimini, il Meeting, ha sempre saputo indicare una strada anche al comportamento di chi è impegnato in politica. Penso infatti che un richiamo a certi principi, a certi valori, a certi comportamenti, oggi sia tanto più necessario.

EMMANUELE FORLANI
Grazie di cuore perché ci ha offerto come spunto tantissimi ingredienti che penso saranno oggetto di dialogo tra di noi anche nei prossimi giorni. Io la ringrazio nuovamente e auguro una buona serata a tutti.

Trascrizione non rivista dai relatori

Data

20 Agosto 2018

Ora

19:00

Edizione

2018
Categoria
Arene