UN CAFFÈ ITALIANO… DOMANDE SULL’UNITÀ. IL BOOM ECONOMICO

Partecipano: Gianluigi Da Rold, Giornalista; Gian Luigi Trezzi, Professore Ordinario di Storia Economica all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Introduce Francesco Babbi, Studente di Economia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

 

FRANCESCO BABBI:
Possiamo iniziare. Buongiorno a tutti e benvenuti a questo quarto incontro del ciclo “Un caffé italiano… domande sull’unità”. Il tema di oggi sarà proprio il boom economico, che è il tema che tratta la quarta sezione della nostra mostra sui 150 anni di sussidiarietà. Questa mostra è stata realizzata, come avete già avuto modo di sentire, da un centinaio di studenti e una serie di docenti, professori ed esperti. Due di questi, Gian Luigi Trezzi, Professore Ordinario di Storia Economica all’Università degli Studi di Milano-Bicocca e Gianluigi Da Rold giornalista, saranno i nostri relatori e sono loro che ci hanno seguito nel realizzare questa quarta sezione che tratta proprio di come il miracolo economico italiano negli anni ’50 e ’60 sia stato possibile. Abbiamo voluto documentare anche come non era prevedibile, secondo una serie di variabili macroeconomiche che nei pannelli della mostra potete vedere, proprio perché tutti i fattori economici non possono spiegare come un Paese arretrato, nel giro di una ventina d’anni, possa diventare uno dei primi Paesi industrializzati del mondo. Faccio subito la prima domanda al professor Trezzi; le chiederei prima di tutto di spiegarci come era la situazione del Paese in quel periodo e come è stato possibile che l’Italia, nel giro di 30 anni, precisamente negli anni ’80, entrasse nel G7. Come è stato possibile questo?

GIAN LUIGI TREZZI:
Grazie, va bene. Innanzitutto il Paese era un paese sconfitto, lo sappiamo, dove il tenore di vita e dove anche il livello dell’ economia era inevitabilmente basso. Tuttavia il disastro non era così imponente come talvolta si può pensare. In realtà la capacità produttiva del settore più importante, che produceva la maggiore ricchezza, cioè dell’industria, era “sostanzialmente” intatta. Le grandi fabbriche, eccetto quelle o settori di quelle che producevano armi per la guerra, non erano state bombardate. Io ho davanti il caso del mio Comune, Sesto San Giovanni: Falk, Magneti Marelli, grandi imprese siderurgiche, metalmeccaniche, elettriche, elettromeccaniche non erano sostanzialmente state toccate dai bombardamenti. Quindi la capacità produttiva era intatta, però la cosa più importante da dire è questa, che il boom non nasce dal 1945. In realtà il 1945 e gli anni seguenti, specialmente dal ’51 al ’63 che di solito sono considerati gli anni del boom, questi anni hanno potuto, hanno rappresentato una sorta di perfezionamento, di continuità di una impostazione dell’economia, orientata alle imprese industriali, iniziata già negli anni ’20 e negli anni ’30. Quindi siamo di fronte non a un caso di rottura ma di continuità. Esiste una continuità per quanto riguarda il settore industriale dell’economia, ripeto quello più importante, che pesca nel passato, pesca negli anni ’20 e negli anni ’30. Questa è la considerazione importante da fare: dire l’Italia è improvvisamente diventato un Paese importante, non è giusto, non è così; si può pensare che sia così perché l’Italia ha perso la guerra, perché la fama dell’Italia è di un Paese fatto di persone quasi poverette, ma la realtà è diversa. La realtà rappresenta questa continuità fra il passato e il presente. Poi vi sono degli elementi che toccano proprio gli anni del boom, e che vale la pena di considerare, vale a dire una grande capacità di iniziativa da parte degli operatori economici, un atteggiamento fondamentalmente collaborativi. Noi siamo stati abituati da una certa storiografia a ragionare in termini di conflitti più o meno permanenti, in realtà sotto la crosta di contrasti di interessi che potevano esistere e che sempre esistono, anche nei casi migliori insomma, sotto questa crosta vi era, da parte di tutti gli operatori economici, una fondamentale collaborazione gli uni con gli altri. Ciascuno per il suo proprio campo, per le sue proprie capacità tendeva a ricostruire, a migliorare la propria situazione. Questo vale per le piccole imprese, questo vale per i grandi imprenditori, questo vale per lo stato, questo vale per gli operai delle grandi fabbriche. Un aspetto un poco trascurato è anche questo. La grande fabbrica, sede di conflitto e sede di contrapposizione. Ma questo è ciò che appare, ciò che invece regge sotto, è che gli operai della grande fabbrica vogliono ricostruire, vogliono aumentare il proprio reddito, vogliono aumentare la richiesta della nazione. Questo, insomma, è un complesso di fattori che bisogna tenere presente. Quello che vi voglio dire è che non siamo di fronte a una rottura, a una svolta della storia; non è così, non siamo di fronte a una svolta della storia, siamo di fronte al maturare concomitante di fattori che hanno provocato il boom. Finisco, nessun italiano pensava negli anni del boom di vivere il boom, noi lo sappiamo, loro non lo sapevano. Poco dopo gli anni ’50, un grande romanziere italiano, Piovene, ha scritto un libro, Viaggio in Italia, dal quale risultava un quadro che non andava incontro ad un’idea di boom economico: l’Italia era ancora descritta in termini di relativa povertà. Insomma la realtà era più avanti di coloro che la osservavano. Noi sappiamo queste cose, ripeto, loro non lo sapevano. Grazie.

FRANCESCO BABBI:
Grazie. Al dottor Da Rold volevo porre questa domanda: nella mostra si vede come ci fosse una grande cooperazione tra lo stato, il pubblico e il privato sia in qualità di piccole e medie imprese che in qualità di grandi imprese private. Volevo capire come è stata questa cooperazione, come è avvenuta e quali vantaggi ha portato all’Italia.

GIANLUIGI DA ROLD:
La cosa che sorprende di quel periodo è la coralità dello sforzo collettivo, lo possiamo poi vedere in seguito anche per quanto riguarda le persone. Ma quello che colpisce è questa sinergia positiva fra l’impresa privata e l’impresa pubblica. L’Italia usciva da un periodo che non era contrassegnato solo dal fascismo, ma anche dalla cosiddetta irizzazione, cioè dall’Iri fondata da Beneduce. Dopo la crisi del ’29, l’Iri aveva praticamente incamerato molte aziende e queste aziende, sulle quale poi si è discusso in passato, in quel momento svolgevano una funzione importantissima. Tanto per intenderci, l’87% degli Istituti di credito, all’inizio del dopoguerra, sono di proprietà dello stato, la siderurgia, la telefonia e altri settori sono dello stato. Qui si vede che esiste, che si innesta una sorta di cooperazione incredibile che ha alcune figure principali. La figura principale, una delle figure principali, secondo me una delle più importanti, è quella di Enrico Mattei. Comandante partigiano e dei partigiani bianchi, viene chiamato da Parri, nel suo primo Governo, che gli dice: c’è l’Agip, che era praticamente la nostra impresa statale che cercava di risolvere i problemi energetici del Paese, liquidala, non serve a niente. Mattei quasi si ribella e dice no, io non la liquido affatto e va avanti per conto suo. Arriva il ’53 e fa l’Eni. Che cosa fa poi in questi anni? Sostanzialmente attraverso delle ricerche in Val Padana trova il gas e comincia a dare un minimo di autonomia energetica al Paese, dopo di che sconvolge addirittura il mercato mondiale del petrolio, che era appannaggio delle famose 7 sorelle, e trattando con i Paesi produttori a condizioni più favorevoli, garantisce un minimo di energia, di capacità energetica al Paese, togliendo di fatto un monopolio che in Italia c’era e che era quello dei vecchi produttori di energia a carattere idroelettrico. Questo è un elemento. Ma accennavo prima al credito, chi permette ad esempio a Mattei di fare queste azioni quasi in modo ribellistico verso il primo Governo Parri e che gli consegna materialmente l’assegno, tanto per essere chiari? E’ Raffaele Macchiali, vecchio presidente della Banca Commerciale, controllata dal Tesoro e dall’Iri, che gli dice vai avanti, cerca. Questo avviene a tutti i livelli, ed è un alto livello di partecipazione perché, mentre cresce una piccola e media industria diffusa e si discute nella sottocommissione della Costituente su quale dovrebbe essere il futuro industriale dell’Italia – con posizioni contrapposte: c’è chi dice ci dev’essere una fase di fordismo, c’è chi dice no, l’Italia al massimo può avere aziende di 50.000 persone, può garantire solamente un grande artigianato – cresce da sola una grande industrializzazione diffusa nel Paese, corroborata da questa cosa. Per cui si vedono personaggi come Adriano Olivetti, il cui figlio Roberto, dopo la sua morte, sarà il primo che con un modello 101 farà il PC, e questo ormai è chiaro: l’Ibm faceva dei calcolatori elettronici che erano grandi due stanze, Olivetti aveva studiato una cosa che era poco più che una macchina portatile da scrivere. Quindi Eni, personaggi come Olivetti, da non dimenticare anche personaggi come Oscar Senigaglia ad esempio, che ci sembrano sconosciuti, ma che è l’inventore del ciclo integrale della produzione dell’acciaio. Tutti questi, fra pubblico e privato, riescono a fere uno sforzo che è davvero incredibile e che ad un certo punto termina, e che, secondo me, proprio perché termina, determina una piccola inevitabile crisi che poi pagheremo in avanti fino alle così dette privatizzazioni e valorizzazioni. Quando saranno i partiti a inserirsi in questi grandi enti, si dimenticheranno di un fatto importante, che invece era ben presente durante il periodo del boom economico, si dimenticheranno che era stato questo sforzo collettivo e sinergico a permettere di arrivare effettivamente all’obiettivo del bene comune, detto genericamente del Paese. Questo è un aspetto importante che ho visto che ha ricordato, guardando la mostra, anche Napoletano. Lo ha sottolineato perché era complementare. Quindi è un momento magico che non ritroviamo più nella storia italiana, indicativo della svolta importante che ha portato al boom economico.

FRANCESCO BABBI:
Chiederei invece ora al professor Trezzi: noi nella mostra vediamo come soprattutto in Olivetti, che già Da Rold ha citato, i primi esempi, in campo italiano, di welfare aziendale e vediamo come questo sia differente dal paternalismo che altre aziende praticavano. Per cui le volevo chiedere: come si sviluppano questi modelli e qual è la differenza col paternalismo?

GIAN LUIGI TREZZI:
Ecco, Olivetti è la punta dell’iceberg, diciamo così, quello che più evidentemente e anche in maniera molto più pubblicizzata e studiata dalla storiografia, si è occupato di welfare aziendale, se volete di opere sociali delle imprese. Di che si trattava in sostanza? Quando ancora le assicurazioni sociali non esistevano, le imprese si erano date da fare per fornirle ai propri lavoratori. Sto parlando di infortuni sul lavoro, pensioni, malattie. Quando non c’era ancora l’Inps oppure funzionava in modo ancora iniziale e primitivo, le imprese surrogavano questo con le proprie opere sociali e cercavano la soluzione dei problemi dei lavoratori, case, asilo, scuole materne, insomma tutta una serie ingente, notevolissima di iniziative di cui la storiografia non si è molto occupata, ma che senza dubbio rappresentavano l’interesse dell’imprenditore, affinché i propri lavoratori, specialmente quelli delle grandi imprese naturalmente, come dire, potessero vivere in modo migliore con una buona casa, con l’assicurazione sulle malattie, con la pensione per la fine del lavoro. Insomma tutto ciò che lo stato ancora non forniva, e che poi avrebbe fornito, lo fornivano gli imprenditori, specialmente nelle grandi imprese ma anche nelle piccole imprese e nelle medie imprese. Vi erano questi interventi da parte degli imprenditori per risolvere, nelle piccole imprese in modo meno sistematico, per risolvere i problemi dei lavoratori. Nascevano i primi premi per la natalità, i premi per la nuzialità ai dipendenti che si sposavano; vi era la necessità di prestiti per pagare l’affitto delle case nel caso in cui queste case non fossero fornite dalle ditte, o addirittura per acquistare la casa. Le ditte intervenivano facendo prestiti, svolgendo una funzione, diciamo così, finanziaria, bancaria. Questo fenomeno in Olivetti è sistematico. L’impresa Olivetti aveva un dipartimento totalmente dedicato alle opere sociali, o se preferite, al welfare aziendale, ma è una emergenza, in realtà la Fiat faceva le stesse cose, magari in modo meno dialogico, più autoritario se preferite, ma insomma anche la Fiat operava in questa direzione in maniera massiccia e così tutte le altre grandi imprese. Quindi Olivetti non rappresenta solo se stesso, ma rappresenta un retroterra, io credo, piuttosto imponente. Ripeto, gli studi sono quelli che sono, non ne esistono molti, anche le cifre, i dati, le informazioni non sono facilmente ha portata di mano, ma esistono, sebbene sia un campo che deve essere ancora un poco studiato. Ma tutto sommato sappiamo che le cose andavano così: laddove i lavoratori avevano esigenze importanti per se stessi, le imprese intervenivano. Dono? Regalo? Umanità? Si, tutto ciò c’è, esiste, ma esiste anche un mutuo interesse. Evidentemente se l’impresa fornisce la casa, il lavoratore sarà più attaccato all’impresa e così via. Le opere sociali, il welfare rappresentava anche un modo secondo il quale i dipendenti si potevano più avvicinare, sentivano l’azienda come propria, come fatto proprio. Le opere sociali, attenzione, non erano contrattuali, erano opere extra contrattuali, un conto erano i contratti, i salari, le condizioni di lavoro etc., un conto invece era la casa, la previdenza dell’impresa, gli aiuti dati ai figli dei dipendenti perché studiassero, e così via, una grande serie di iniziative. Tutte queste erano opere extra contrattuali, non previste dai contratti, quindi in un certo senso espressione della libertà imprenditoriale. Questo aspetto della vita di impresa è stato etichettato con il termine di paternalismo. Naturalmente l’uso di questo termine è un uso un poco dispregiativo, indica più una realtà negativa che una realtà positiva. E’evidente che se io ho la casa grazie all’impresa, questo è un fatto positivo e anche se l’imprenditore mi dà questa casa in maniera baldanzosa, facendola scendere dall’alto, tuttavia io ho la casa. Se l’imprenditore mi dà la previdenza integrativa o la prima previdenza, mancando quella dello Stato, anche se me la dà facendomela cadere dall’alto, io ho la previdenza. Quindi questo è comunque un lato positivo. Il superamento del paternalismo ha riguardato il fatto che anche queste opere sociali iniziarono ad essere discusse, dialogate tra i lavoratori e le loro rappresentanze, principalmente negli anni delle commissioni interne, delle commissioni di fabbrica. Quindi non più “ti do la casa”, ma “discutiamo”, “ti chiedo”, “vediamo le condizioni”. Questo è il superamento del paternalismo. Non più un’iniziativa puramente unilaterale da parte dell’impresa, ma desiderata, richiesta e dialogata attraverso le istituzioni di fabbrica con gli imprenditori. Un ultima cosa: la festa della donna. La festa della donna, specialmente dopo il 1945, è diventata una consuetudine. La festa della donna cosa voleva dire per i lavoratori? Che lavoravano mezza giornata in meno o una giornata in meno, a salario pagato. Che cosa voleva dire? Che facevano dei grandi pranzi in fabbrica pagati dalla ditta, per lo più pagati dalla ditta. È diventato una tradizione, è diventato quasi un diritto che i lavoratori ritenevano di avere, ritenevano di voler veder esercitato da parte degli imprenditori. Dunque capite che la questione ha un suo aspetto di complessità, cala dall’alto, ma è voluta, cala dall’alto ma ad un certo punto è dialogata. Potremmo dire che anche il fenomeno del welfare viene democratizzato in questo modo. Volevo fare un’aggiunta, e chiedo scusa, alla risposta alla prima domanda, perché effettivamente è una svista un po’ troppo importante. Fra i fattori del boom vi è anche quell’episodio importante, che la storiografia ha sottovalutato negli ultimi anni, che è il piano Marshall cioè un insieme di aiuti, provenienti dagli Stati Uniti d’America, che hanno permesso la ricostruzione sotto due profili principalmente. Sotto il profilo del rifornimento, sicurezza, insomma, delle materie prime: l’Italia è un Paese povero di materie prime, fornite gratuitamente dagli Stati Uniti. E sotto un altro profilo, per quanto riguarda prestiti per l’acquisizione di tecnologie americane, che erano le più avanzate. Questo è un altro fattore da tenere presente e da mettere insieme a quelli concomitanti che dicevo precedentemente.

FRANCESCO BABBI:
Grazie. Farei ora al dottor Da Rold questa domanda: noi, facendo la mostra, non solo abbiamo voluto riguardare gli ultimi 150 anni, ma anche dare un giudizio sul momento attuale e poiché il periodo del boom economico è stato l’ultimo grande periodo in cui l’Italia dal punto di vista economico è cresciuta mentre oggi ci ritroviamo immersi in una crisi economica, e prima ancora che economica, sociale, come possiamo guardare quel periodo per potere scoprire e capire qualcosa sull’oggi?

GIANLUIGI DA ROLD:
Questa è una domanda molto complessa. Vorrei fare una premessa, c’è il mio carissimo amico Trezzi che fa l’economista, che rispetto moltissimo, ma più vado avanti negli anni più mi matura uno scetticismo verso gli economisti che a volte impressiona me stesso. Il perché è che l’economia è fatta dagli uomini e serve agli uomini, l’economia c’è perché l’uomo ha bisogno, non è una sorta di serie di tabelle, algoritmi, previsioni, anche perché poi regolarmente la stragrande maggioranza queste previsioni sono sbagliate. Se penso ai discorsi che si facevano da parte di premi nobel e presidenti della FED americana all’inizio degli anni 2000, sembrava che si fosse ormai raggiunto uno stato tale che tutto si sarebbe risolto. Mi ricordo il premio nobel del 2001, Lucas che diceva: “oramai i cicli economici si risolvono facilmente con la scienza macro economica”. Siamo andati in una depressione, viviamo una crisi che credo sia una delle peggiori, se non forse anche peggiore di quella del ’29. La stessa cosa accade, anche in sede di revisione storica, col boom economico. Tenete presente che durante il boom e anche negli anni successivi, dopo il boom economico, tutte le previsioni non lo riconoscevano, ma non lo riconoscevano nemmeno chi lo viveva. Ad esempio, il Partito comunista o la sinistra in genere, diceva che il boom non esisteva in Italia, che c’era una distorsione di consumi spaventosa, che la crescita probabilmente era una cosa così. Ci volle Giorgio Amendola, esponente del PC, che in una famosa intervista a Piero Melograni del 1975 riconobbe per lo meno che c’era stata un’espansione economica e che gli italiani non avevano mai mangiato così bene e non erano mai stati così liberi. Che differenze c’erano? Io riconosco che per esempio il piano Marshall è stata una causa importante e fra le più importanti del boom economico italiano, o comunque della crescita italiana. Ma è stata una delle cause, perché se poi vado a vedere esattamente i dati, nel piano Marshall che è fatto dal ’48 al ’52, la voce principale del primo anno è quella alimentare, il 50%. Per quanto riguarda veicoli e macchinari, raggiunge negli altri due anni il 17,20%. Il quarto anno, non sono tanto i repubblicani o gli americani che non lo vogliono, è già trasformato, diventa un piano per azioni belliche in Europa. Quindi certamente una causa importante ma non determinante del boom italiano, che è un boom corale, che è antropologico, che è un fatto umano. È della gente che replica e risponde in una situazione drammatica alle sue esigenze, ai suoi desideri e questo è l’esatto opposto di quello che sta avvenendo adesso. Vi parlavo all’inizio della sinergia tra pubblico e privato nell’impresa, stato e piccoli imprenditori, grandi imprenditori, fabbriche, con un sottofondo di pacificazione anche se divisi da contrasti ideologici, una grande coralità, un grande sforzo. Che cosa caratteristica invece la crisi che viviamo oggi? Guardate che non è che dobbiamo girare molto intorno, è una crisi di avidità, è scambiare uno dei fondamenti principali di quello che è il libero mercato: è l’investimento che fa il profitto, è l’investimento che fa la ricchezza, è il lavoro che fa la ricchezza. Qua sembra che sia ormai rovesciato il concetto e che il profitto faccia l’investimento, per cui alla fine io con i soldi faccio i soldi attraverso i meccanismi bancari, finanziari, d’architettura raffinata che va dai subprime a tutti i derivati, ai CdF, io riesco a cartolarizzare e riesco a fabbricare i soldi in maniera incredibile, come un mago. È vero che ci sono stati dei critici furibondi di questo tipo di situazione, un altro premio nobel, forse molto connotato a sinistra, come Stiglitz, diceva sostanzialmente che i processi di cartolarizzazione in un epoca come questa erano basati più che su degli algoritmi, su una previsione che nel mondo nascesse ogni minuto un cretino. Perché una cosa del genere, che si potessero immettere sul mercato dei prodotti senza una copertura adeguata, si poteva solamente concepire per dei cretini. Vale sempre forse ricordare nei tratti umani, nei nostri peccati, nella nostra anche avidità comune, una vecchia frase di Kenneth Galbraith, che diceva che conviene ogni tanto che il denaro si separi dai cretini, tanto per cambiare. La sostanza che io credo si possa vedere tra quel periodo e quello che sta succedendo oggi, è che da un lato c’era effettivamente una tenuta famigliare, una società più compatta che aveva provato delle incredibili prove. Perché voi siete molto giovani, ma io sono un figlio del dopoguerra e in famiglia avevo tre quattro persone che si erano fatte tre guerre e le avevano subite pesantemente, c’era uno spirito di sacrificio diverso. Ma c’era anche nel sottofondo un grande desiderio di miglioramento, una grande volontà di mobilitazione generale. Oggi questa è venuta a mancare. La crisi si è proprio intrecciata da sola, quella attuale, e se non si riprende un minimo di spirito di innovazione, di capacità, di recupero di quel desiderio originale, da questa crisi non si esce. Già si prevedono anni per uscirne, ma per rimettere in moto un meccanismo di crescita della ricchezza, evidentemente qui c’è un problema culturale, un problema di teste, di ragionamento, non è che ci sono tre formule, come non sono state tre formule a risolvere il problema del boom economico che nessuno poteva prevedere, che nessuno nemmeno diceva esserci quando lo vedeva. Così è per la crisi attuale.

FRANCESCO BABBI:
Vorrei fare un’ultima domanda al professor Trezzi e poi siete liberi di fare domande ai nostri relatori. La domanda è questa: nella mostra vediamo come ci fossero i germi di un tessuto di piccole e medie imprese che iniziano in quegli anni e che poi faranno grande l’Italia e che sussistono ancora oggi, diventando espressione proprio del made in Italy. Volevo chiedere come questa natalità è stata possibile, e quali sono stati i suoi apporti alla crescita economica del secondo dopo guerra.

GIAN LUIGI TREZZI:
Insomma, l’apporto è abbastanza evidente, si può dire velocemente: nove imprese su dieci, in Italia, erano piccole-medie, e occupavano un elevato numero di lavoratori. Anche in questo caso: c’è l’evidenza delle piccole-medie imprese durante il boom, anche se la cosa è poco, ripeto, studiata. Però c’è questa evidenza, abbiamo tutto sommato censimenti, ventuno, trentuno, cinquantuno, sessantuno, settantuno. E alcune comparazioni le possiamo fare. Quindi, ci si accorge, insomma, che nove imprese su dieci sono piccole-medie. Cosa vuol dire piccole-medie? Vuol dire da dieci a duecento-trecento lavoratori. Ma la quota delle dieci è piuttosto superiore alla quota delle duecento-trecento. Quindi sono imprese proprio microscopiche. Non è nemmeno qui la novità. Bisogna dire che il boom degli anni Cinquanta, inizio anni Sessanta, è il secondo boom economico moderno che l’Italia ha attraversato: ve ne è stato un precedente. Il precedente si è realizzato negli anni giolittiani, come si usa dire, cioè tra la fine dell’Ottocento e la grande guerra. Già in questi anni il numero di piccole-medie imprese sul totale delle imprese era altrettanto rilevante e questo numero è cresciuto negli anni Venti. Non è cresciuto molto durante gli anni del boom; in taluni casi abbiamo un ritorno all’indietro, cioè sono un poco diminuite, però c’è qui una novità: sono diventate più grosse. La unità media della piccola impresa in termini di lavoratori è cresciuta e l’apparato tecnico è cresciuto anch’esso. Io non esagero il piano Marshall, però se voi andate a vedere, e lo potete fare se volete, le carte dell’IMI, l’Istituto Mobiliare Italiano che gestiva i prestiti americani presso le imprese italiane, anche quindi presso le grandi, innanzitutto, che si sono portate via la fetta maggiore dei prestiti, ma anche presso le piccole, che una certa quota di questi prestiti se la sono portate via, rimanete meravigliati nel vedere come imprese di venti, trenta, cinquanta persone cedessero credito per acquistare torni, frese nuove. Quindi abbiamo avuto anche, oltre a una modernizzazione degli impianti, oltre a una crescita media, non straordinaria, ma comunque avvenuta, una crescita media delle dimensioni di impresa. Questo ha posizionato le grandi imprese nel flusso del cambiamento che si stava realizzando in quegli anni. Dopo, negli anni Settanta, nasceranno i distretti industriali, nascerà il made in Italy, cioè quell’insieme di produzione non di massa, non standardizzato, ma di qualità, che ha a che vedere con la buona vita: i frigoriferi per la casa, la televisione, gli elettrodomestici, i vestiti fatti in un certo modo, in serie, dei buoni beni alimentari, del buon formaggio, del buon vino e tutte queste cose che poi dopo hanno caratterizzato il made in Italy. Il fondamento diciamo moderno, non il fondamento generico, il fondamento moderno è negli anni del boom, ma gli anni del boom vivono di un flusso di imprenditorialità piccola e media precedente. Ultima cosa: il rapporto fra la grande impresa, che so io, la Fiat, la Falk, la Magneti Marelli, la stessa Olivetti, e le piccole medie imprese. Moltissimi piccoli medi imprenditori sono ex dipendenti, sono ex dipendenti usciti dalla grande impresa. Noi siamo abituati a pensare che uno esce dall’impresa perché è licenziato: mica vero. Se voi andate a vedere per caso le matricole di quella grande impresa che era la Breda, il Settebello, quello che fece il primo treno veloce in Italia, anni Cinquanta, le matricole operaie, cioè gli entrati nelle file dei dipendenti operai, vedete che molti se ne escono per propria iniziativa e, dopo lunghe ricerche pionieristiche, sappiamo che se ne sono usciti per mettere in piedi piccole imprese: la fabbrica ti insegna il mestiere, dopo tu ti metti per conto tuo. Quindi certamente scuole tecniche eccetera, però anche il fatto dell’apprendimento di fabbrica. Io imparo e poi mi metto in proprio, anche perché la grande impresa ha bisogna di un certo tipo di indotto intorno a sé per certi tipi di situazioni: si rompe un motore elettrico, insomma, se c’è una piccola impresa che è specializzata a fare questo, meglio così. E così via.

FRANCESCO BABBI:
Bene. Raccoglierei ora un paio di domande.

DOMANDA:
Volevo ringraziarvi di quello che avete detto. Io sono insegnante di storia e filosofia al liceo classico di Udine e mi ha colpito moltissimo quando avete detto che la cosa più urgente è risuscitare nel cuore delle persone il desiderio, perché senza desiderio non si va da nessuna parte. In questo, credo che la funzione dell’educazione e della scuola sia molto importante. Grazie.

GIANLUIGI DA ROLD:
Io sono d’accordissimo con la signora, perché il CENSIS, nel suo rapporto, cita proprio la parola “calo del desiderio”. La fotografia del Paese è questa: c’è un calo del desiderio, il primo fra l’altro ad averne parlato fu don Luigi Giussani nel ’87, a un’assemblea della DC, e ottenne la risposta laconica di De Mita: “non si può basare un’ipotesi politica sul desiderio”. E sbagliò lui, sbagliò De Mita, perché è vero questo, è vero proprio questo fatto. Sono d’accordo anche poi sul fatto delle specializzazioni tecniche. Io, se devo dire, il più grande economista che ho visto nella mia vita, perché era un collega di mio padre, era un re della borsa di Milano degli anni Sessanta/Settanta, si chiamava Aldo Ravelli: non aveva neanche credo la terza media, forse a stento. E riusciva da solo a ribassare tutta la borsa di Milano. C’è una villa, a Varese, di Ravelli, che non si chiama villa Maria ma villa alla Ribasso, quindi questa era la sua considerazione. Ma a parte queste considerazioni, che cos’era questo personaggio che era stato addirittura prigioniero ad Auschwitz? Era un ragazzo, esperto, grande ballerino di tango con i Moratti all’isola di Milano, che amava questa cosa e aveva il desiderio di emergere nella vita. E si è fatto una grande professione, così come ne ho visti molti altri. Quindi quello che si può contestare oggi, – si contesta, per carità… si fa notare – non è che c’è una specializzazione che prevede inevitabilmente con condizioni normali dell’umanità una specie di ascesa al paradiso terrestre… no, non è così! I problemi dell’uomo sono sempre uguali e se si spegne il motore o comunque si riduce il cuore, dicevamo l’anno scorso proprio al Meeting, che ci porta a un miglioramento, alla ricerca, a conoscere, ad avere un’aspirazione di vario tipo, di bellezza eccetera, le società guardate che muoiono! Ci sono delle civiltà che sono scomparse, si può anche morire ricchi e disperati perché si sprofonda in una giornata o in una serie di giornate di finanza che va a capofitto, se non si tengono conto tutti questi fattori. L’impressione che ho di questa crisi è che sia abbastanza uguale a quella del ’29 anche per alcuni meccanismi. Io non dimentico mai un fatto incredibile: nel dopoguerra, nel primo dopoguerra americano, gli anni ’20 sono gli anni dove si ballava il charleston, in cui facevano tutti festa; nel 1933 il charleston era andato via, c’erano 15 milioni di disoccupati e si leggeva Furore di Steinbeck. Questa è la classica storia, ed è una storia umana, normale, non è che c’è da buttarsi giù dal balcone. Bisogna saper affrontare con realtà, con realismo quello che ci portano anche i nostri errori. Non bisogna dimenticare una cosa irripetibile: la complessità degli uomini, la loro incredibile complessità, con le loro debolezze e con i loro grandi slanci. Forse se riusciamo a capire questo, si riuscirà a superare un po’ la crisi che stiamo vivendo.

FRANCESCO BABBI:
Raccoglierei un’ultima domanda

DOMANDA:
Io vorrei chiedere al professor Trezzi un chiarimento su un passaggio su cui lei si è soffermato varie volte. Come mai la storiografia non ha indagato a fondo questi aspetti storici, economici della storia italiana, e poi se questo boom economico, al di là dello specifico caso italiano, ha dei parallelismi con altri casi europei dopo la seconda guerra mondiale.

GIAN LUIGI TREZZI:
Sì, perché, insomma, c’è della ideologia, diciamo così, o una pre-comprensione della realtà. La storia non ti si presenta davanti dicendoti: guarda, sono io e ti spiego chi sono; è una ricostruzione. Se uno va a vedere i documenti, non c’è nessun documento che dica miracolo economico. È una ricostruzione. Ora, per ricostruire occorre uno schema, una rete; noi siamo di fronte a una molteplicità di documenti, occorre una rete che li raccolga e li ordini. Quanto più la rete è capace di raccogliere e ordinare, tanto meglio si riesce a fare la storia. Ora, può darsi che – capita ed è capitato – che questa rete sia fatta a seconda del modo con cui i contemporanei pensano. Se i contemporanei pensano che lo sviluppo, la crescita, avviene attraverso la grande impresa, e non attraverso la piccola impresa, studieranno la grande impresa, guarderanno quella, in maniera tale che comprendendo i meccanismi di funzionamento della grande impresa comprenderanno l’insieme del funzionamento dell’economia in una data situazione. Perché se la grande impresa è il centro, spiega tutto, il resto sono dettagli, non ci preoccupiamo delle piccole imprese. Un esempio specifico: noi possiamo valutare diversamente l’indotto di una grande impresa, possiamo valutarlo come un dare il lavoro fuori, perché il farlo al di dentro della grande impresa costa troppo, lo diamo fuori e costa di meno. Ma vi è una sostanziale subordinazione, perché il lavoro che dai, il prodotto di questo lavoro, il metodo per realizzarlo è dato. Questo è un conto: è sempre la grande impresa che è al centro. Un altro conto è il seguente: la grande impresa dà lavoro fuori, ma nel dare questo lavoro accetta l’autonomia produttiva, inventiva, progettuale, della piccola media impresa. Se le cose stanno così, allora vuol dire che siamo di fronte a un rapporto paritario, in un certo senso, in un certo modo: occorre studiare i due elementi del rapporto, non uno solo. I modelli: dipende dai modelli mentali che lo storico ha al momento, quando intraprende la sua ricerca. In Germania e in Francia e anche in Inghilterra è avvenuto qualcosa del genere, simile, specialmente in Germania, al boom italiano. Non a caso, secondo me, perché la Germania, come l’Italia, ha perso la guerra. Insomma, c’era un desiderio di riscatto e un desiderio di mostrarsi pronti. De Gasperi disse quando parlava della società italiana, a Parigi, per il trattato di pace: “siamo disponibili – cioè noi facciamo, siamo pronti” e identicamente i tedeschi. Quindi presso chi ha perso è più forte la questione. Approfitto per dire che Monsignor Giussani, nel libro L’io, il potere, le opere, a un certo punto dice “il desiderio è una buona casa e una buona poltrona su cui sedere”. Potremmo dire, un buon pranzo, non solamente pane nero o cose di questo genere, la televisione, perché no, anche la televisione; questo è un lato del desiderio, cioè uno desidera di migliorare la propria vita. C’è qualcosa di illegittimo nel voler migliorare la propria vita, nel voler mangiare pane bianco, scusate la retorica, invece che pane nero? Mah, io non avrei nulla da dire su questo punto. Vi è anche un altro lato però della questione: desiderio è anche il volere costruire una società ordinata, equa, in cui ciascuno possa esprimersi, e ciascun gruppo possa presentarsi così come esso è, con la sua peculiarità, potremmo dire usando un termine teologico, con il suo carisma. Ed è il desiderio che questi aspetti si integrino a vicenda, è l’integrazione giusta che dà l’aspetto positivo di tutto: è anche questo il desiderio ed è importante. Ora, può darsi che il primo aspetto sia più evidente per il boom, perché gli italiani non avevano nulla, avevano poco; delle inchieste degli anni ’50/’51, agli inizi del boom, dicevano che gli italiani godevano di calorie giornaliere troppo basse. Quindi il boom è anche questo: una buona casa e una poltrona comoda, ma il boom è anche: ciascuno faccia quel che deve fare in sintonia con il carisma degli altri, con le caratteristiche culturali proprie di chi ti sta intorno e di chi ti sta vicino.

GIANLUIGI DA ROLD:
C’è una cosa solo che volevo dire. Io non ho mai capito perché nelle scuole ma neanche nelle università italiane, non si leggano o si studino due testi fondamentali per capire com’è nata questa Repubblica. Se uno si va a leggere il trattato di pace di Parigi, resta annichilito; noi siamo trattati come i nazisti che hanno fatto una guerra di aggressione e siamo considerati co-belligeranti degli alleati dal 13 settembre del 1943, dopo il trattato di Cassibile. Quindi eravamo in una condizione pazzesca. E infatti si è dimenticata la tragedia dell’Istria, che era italiana: 450mila persone che vengono tolte da quella terra, ospitate malamente, con genocidi. Ancora negli anni ’90, quando si parlava di foibe, sui vocabolari si diceva “fessure carsiche”, e non si diceva quello che c’era dietro.
C’è un secondo testo che Trezzi mi rimprovera, dicendo che glielo ricordo sempre, che è il discorso che fa De Gasperi alla conferenza di pace di Parigi: lo fa in un gelo glaciale, è il rappresentante di un Paese aggressore e sconfitto, pur essendo lui un antifascista, un democratico e spiega in quali condizioni l’Italia è, e quali condizioni, cosa vuole ottenere per questo popolo. Io non riesco a capire perché nelle scuole, non dico nelle prime elementari, non si dicano queste cose, perché solamente conoscendo queste cose, che sono pubbliche, pubblicate, si riesce a capire lo scarto che c’è stato fra quegli anni e quelli successivi, si riesce a capire lo sforzo che c’è stato tra quegli anni e quelli successivi, e si capisce anche a che punto siamo arrivati attraverso grandissime tribolazioni. Quindi, le revisioni storiche. Certo, per rifare la storia di Olivetti – è un’impresa – bisogna andare nelle biblioteche specializzate; Mattei è un personaggio che va accantonato e in genere viene presentato come un grande predatore, o il primo che fa il grande corruttore dei partiti. Sono luoghi comuni, grandi balle, mistificazioni, falsi storici, che vanno smontati però dalle scuole stesse, perché non è che possiamo stare qua a fare delle prediche. Si può poi vedere, rivedere, giungere a diverse conclusioni, ma queste sono le cose. Io credo, tanto per concludere il discorso anche riguardo alle crisi economiche, che il calo del desiderio che avviene nella società italiana, dipende proprio da questi fattori educativi, perché non c’è questa volontà di andare a conoscere la nostra storia. Guardate una cosa: a me rimane sempre impressa una frase di 1984 di Orwell: chi possiede il passato, possiede anche il futuro. Quindi, se vi raccontano delle balle sul passato, vi racconteranno anche delle balle sul presente e sul futuro. È un insegnamento, credo, un consiglio, più modestamente, ma è essenziale.

FRANCESCO BABBI:
Ringraziamo i nostri ospiti. Vi invito a visionare la mostra e a comprare il catalogo, il libro che abbiamo scritto proprio perché nei pannelli non poteva essere riportato tutto il lavoro che abbiamo fatto quest’anno ed è disponibile in libreria. Grazie, arrivederci.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

25 Agosto 2011

Ora

13:45

Edizione

2011

Luogo

PAD. B5
Categoria
Focus