Un bene che supera i confini

Salem Billan, Primario di Radioterapia al Rambam Hospital di Haifa, Primario di Oncologia “Holy Family Hospital” di Nazareth e Senior Consultant Oncology “Augusta Victoria Hospital” di Gerusalemme est; Azezet Habtezghi Kidane, Missionaria comboniana, Infermiera di professione, Codirettrice di Kuchinate una Ong che si occupa di rifugiate africane a Tel Aviv. Introduce Alessandra Buzzetti, Giornalista TV2000.

Due storie accumunate da una grande passione per l’essere umano, dalla sua nascita, al tentativo di strapparlo dalla morte, in quella Terra Santa, ma sempre divisa da conflitti e pregiudizi, che tuttavia possono non essere l’ultima parola. La fiducia, il coinvolgimento personale diretto, la testimonianza di chi si prende cura fino in fondo di chi è nel bisogno, sono la più grande speranza di una pace vera, in un luogo che non l’ha mai conosciuta. La giornalista Alessandra Buzzetti ci guiderà nel dialogo e nella scoperta di due protagonisti di un mondo nuovo, Azezet Habtezeghi Kidane, Missionaria comboniana, e il dottor Billan, primario di radioterapia.

Con il sostegno di Fondazione Maddalena Grassi, Tracce.

UN BENE CHE SUPERA I CONFINI

Alessandra Buzzetti: Buonasera a tutti e benvenuti a questa serata che vuole essere un po’ un viaggio in Terrasanta da una prospettiva magari un po’ insolita rispetto a quella cui siamo abituati. Sappiamo tutti che la Terrasanta è una terra lacerata da più di 70 anni di conflitto, una violenza che riesplode ciclicamente. Abbiamo letto sui giornali in questo agosto c’è stata un’altra guerra a Gaza, un attentato nel cuore di Gerusalemme a ferragosto, e queste notizie giustamente le leggiamo sulle prime pagine dei giornali ma questa sera vorremmo proprio illuminare, accendere delle luci su chi, magari appunto non finendo in prima pagina, ogni giorno con il suo lavoro è testimone della possibilità di una convivenza per lo meno, di una compassione, di un dialogo tra parti che davvero fanno difficoltà proprio a incontrarsi e a parlarsi. E lo faremo da una prospettiva un po’ particolare che è quella dell’assistenza sanitaria tra israeliani, arabi ed ebrei, tra israeliani e palestinesi. Sappiamo tutti che il sistema sanitario israeliano è un sistema assolutamente all’avanguardia, l’abbiamo visto anche durante questi anni di pandemia, ma magari non tutti sanno che il 46% del personale degli ospedali israeliani è arabo. E anche voglio ricordare in questo senso quello che diceva spesso Abraham Yehoshua, che è una grande scrittore che è mancato proprio tempo fa, lui diceva che l’integrazione sarebbe proprio avvenuta negli ospedali, perché? Perché, scriveva, in ospedale siamo nudi, è il luogo della sofferenza e dell’intimità e già oggi medici arabi curano malati ebrei e viceversa. È una realtà in cui questa sera entreremo proprio grazie al dottor Salem Billan che ringrazio di essere qui, è venuto apposta da Haifa, 51 anni – posso dire l’età non sei una donna – nato a Cana di Galilea, arabo cristiano, oncologo, docente universitario, primario di radioterapia in uno dei più importanti ospedali israeliani nel nord di Galilea che è il Rambam Hospital di Haifa. Ma il dottor Billan è convinto che quello che di più importante ha realizzato nella sua carriera è stato proprio mettere in piedi il primo dipartimento di radioterapia in un ospedale di Gerusalemme est che ancora adesso è l’unica radioterapia a cui possono accedere pazienti palestinesi che vivono nei territori oppure nella striscia di Gaza. Ma anche la seconda nostra ospite di fatto viene dal campo sanitario perché è una infermiera ostetrica di formazione, una missionaria comboniana e si chiama suor Azezet Habtezghi Kidane, e dico subito che a colpirmi, appunto seguendola per il mio lavoro di corrispondente per TV2000 da Gerusalemme, è stato di vedere come si muove, con grande libertà in qualsiasi ambiente. Dove c’è qualcuno che ha bisogno, dove c’è un povero da assistere trovo suor come Aziz, anche la chiamano, la chiamano gli amici. La troviamo tra i beduini nella valle del Giordano come ci racconterà, a curare anche le monache etiopi che vivono nei tuguri, sui tetti del Santo Sepolcro e anche tra le donne e gli uomini migranti nel cuore di Tel Aviv, perché è proprio lì, diciamo, tra i grattacieli delle startup nella città più cara del mondo che suor Aziz ha iniziato la sua missione 12 anni fa in un momento in cui, era il 2010 in Israele arrivava un continuo flusso di migranti africani attraverso il deserto del Sinai in condizioni davvero devastanti. Avevano subito torture, sevizie e stupri. Allora vediamo un breve, proprio passaggio di un reportage che ha fatto in quegli anni la CNN in cui vedremo anche suor Aziz. È in inglese, le immagini sono un po’ forti, però davvero mi sembra importante vedere il dramma in cui lei si è trovata ad operare.

VIDEO fino 25:18

 

Alessandra Buzzetti: Ecco, suor Aziz, ti abbiamo visto in una delle ultime immagini accarezzare questa ragazza che ha raccontato di avere subito torture, violenze, di essere stata vittima di stupri, di non aver avuto proprio la forza di tenere questo bambino. Tu ne hai incontrate davvero tantissime perché hai fatto in quegli anni, eri l’unica che capiva la lingua di questa gente che scappava dal Sud Sudan, dall’Eritrea, dall’Etiopia, eri l’unica che poteva tradurre e quindi hai aiutato a capire con più di 1600 interviste, proprio a ricostruire quella che è stata questa tratta terribile di esseri umani. Una cosa che poi hai dovuto in qualche modo poi pagare anche personalmente. Nel 2013 poi Israele ha costruito un muro anche su quella parte del Sinai, quindi questo flusso, questa emergenza è finita, però le persone appunto che hanno ferite così profonde nel cuore e nel corpo sono rimaste. Lei continua ad assisterle in un centro a Tel Aviv, Cucinette, che ha messo in piedi con una psicologa ebrea israeliana e quindi continua a dare lavoro e a seguire queste donne e anche i loro bambini, perché tante quei bambini vittime di violenza li hanno voluti tenere. Ora suor Aziz innanzitutto raccontaci qual è stato proprio il tuo impatto con questo inferno, con cui ti sei trovata a dover, come dire, interagire.

 

Azezet Habtezeghi Kidane: Grazie Sandra. Io prima di tutto veramente non credevo a nessuno, che una persona, una umana che facesse quello che io sentito e ho visto. Non c’è bisogno che io ve lo spieghi tanto perché l’avete visto. Quando vengono con segni di tortura, con gli occhi fissi, che non riconoscono loro stessi, non credevo che una persona può fare a un’altra persona così. Però quando si è ripetuto, da uomini e dalle donne, anche dai piccoli, ho visto i segni in tutti, ho dovuto credere. Quando ho creduto sono stata trovata: devo parlare di questo, seguire la mia coscienza di testimoniare e di parlare o fare finta? Ho deciso, sapendo anche la paga che mi poteva venire, di parlare. Specialmente, una ragazza con la sua amica sono scappate da una situazione terribile e quando sono arrivate in Sudan erano catturate tutte e due, 17 anni, e le hanno portate in Sinai, torturate, abusate e una non è riuscita, è morta. Quello che mi ha colpito di più: l’amica che è morta è stata legata per tre giorni assieme a questa persona che era viva. La sofferenza che mi raccontava questa ragazza di 17 anni mi sono scoppiata, scoppiata: o devo parlare o devo tacere e andare via di qua. E mi ha detto: quando i soldati israeliani mi hanno portato e mi hanno accettato in questo campo, specie di casa di verificazione, ha detto c’era uno specchio, ha detto: non ho riconosciuto me stessa e ha detto: chi è questa persona? E da tempo questa persona non vede più lo specchio perché le fa ricordare quello che ha visto. Ma tanti, tanti che hanno sofferto per poter dare a questi trafficanti migliaia di soldi, da chi non ha niente, questi poveri sono stati un mese, tre mesi, cinque mesi, un anno sotto tortura per poter avere i soldi. Io ho ascoltato chi ha pagato 3500, chi ha pagato 50000 dollari, che hanno lasciato in loro stessi una piaga, una piaga che non riescono a riconciliarsi perché hanno reso le loro famiglie povere, umiliate, e quelli che sono stati fortunati, che hanno potuto entrare in Israele è una grazia, ma 7000 persone sono morte nelle torture. Quello che mi ha fatto veramente dolore: nessuno parlava, nessuno diceva niente. In quel tempo, quando gli africani erano nel deserto, nel Sinai nelle torture, avevano preso cinesi e tutto il mondo ha parlato, avevano preso non so 4 o 5 americani in Sinai e tutto il mondo ha parlato, ma con quelli africani che veramente soffrivano torture e tutti parlavamo di queste torture che ancora oggi in Libia esistono, nessuno lo parla e sono sicura che voi neanche sapete di questo. Questo non mi ha lasciato star zitta: devo parlare perché la persona, non le persone, la persona sta soffrendo. Quando Alessandra mi ha invitato e mi hanno mandato questo messaggio: la passione per l’uomo, veramente mi ha toccato, veramente se ognuno di noi non vediamo nella persona quella persona, quell’amore di Dio possiamo arrivare nei punti che sono arrivati tanti che torturano per i soldi, per potere, o per qualsiasi bisogni personali.

 

Alessandra Buzzetti: Tu accennavi a queste ferite che dopo chiaramente tanti anni rimangono, cicatrici che comunque ancora sanguinano in queste donne che tu cerchi in qualche modo di fare rivivere nella tua ONG.

 

Azezet Habtezeghi Kidane: Allora quando ero con i medici per i diritti umani ho cominciato a fare queste interviste a queste persone, i dottori non capivano. E sono cicatrici? Che cosa sono? Non riuscivano a capire che cosa è accaduto a queste persone, e io ho incominciato a intervistarli e mandavamo in un centro per partorire, per far crescere il bambino, e poi io ho cominciato ad andare là e dopo tanti anni, adesso 12 anni, con la speranza che ero venuta, sono torturata, ho sofferto tanto però sono nella Terrasanta, la mia sofferenza finirà. Questo era al principio del loro arrivo, ma quando il tempo è passato una mamma che ha una figlia da uno che non conosce perché era bendata, che cosa dire adesso che ha 12, 13 anni? Tuo padre neanche lo conosco, ero bendata, mi ha abusato, allora continua questa sofferenza, questa cicatrice. Anche quelle che hanno abortito perché non sanno, forse mio figlio poteva essere grande. Quella che ha dato adozione a israeliani. Una donna è venuta un giorno: sai, sister, un giorno ho visto una bianca con uno di colore mio e sono andata, l’ho seguita fino a casa sua. Forse quella era quella che io ho adottato, io la voglio. La sofferenza in tutti cammina. Allora io e Didi, la psicologa israeliana ebrea, abbiamo detto: queste donne non possiamo lasciarle da sole: le piaghe sono guarite ma le cicatrici sono là e non riescono venire fuori, hanno bisogno, dobbiamo lavorare per renderli liberi, per essere loro protagonisti. E questo per 12 anni abbiamo lavorato. Vi ho raccontato tutto il male, però anche da questo centro son venute donne veramente meravigliose. Una nostra donna che era abusata e poi, non so come, si è sposata a uno che abusa, che tortura, in Israele, un eritreo! È finita nel centro di accoglienza, dopo è uscita da questa accoglienza, ha cominciato a essere prostituta e poi lei odiava se stessa, odiava perché sono arrivata in questo mondo. Ha cominciato a venire da noi con i suoi figli e questa donna è diventata la protagonista, ha cominciato a parlare delle torture, che cosa è accaduto a lei e come è diventata libera. Adesso è in Canada, noi siamo in Israele e abbiamo un’organizzazione che si chiama “Cucinette” e lei ha aperto in Canada “Cucinette Canada”, e siamo veramente fiere perché questa è diventata un modello, un modello di queste donne che non vedono il futuro, che non vedono “io posso fare qualche cosa”. Questa passione dell’uomo all’uomo, dalla persona alla persona ha dato quanta speranza veramente l’abbiamo resa con l’aiuto del Signore e di tanti buoni israeliani è riuscita a diventare libera, protagonista di se stessa e delle sue sorelle e fratelli. Fino a oggi parla della sua ….. senza vergogna, perché prima diceva: colpevole sono io, adesso dice: non ho nessuna colpa, io devo essere forte per me, per i miei figli e per gli altri.

 

Alessandra Buzzetti: Ecco suor Aziz, tu continui due volte a settimana a andare a Tel Aviv, però la ragione per cui arrivò in Terrasanta era quella di lavorare con i beduini che è un’altra realtà di cui si parla poco e che sono davvero i più poveri dei poveri in Terrasanta, che vivono in delle baracche nel deserto e sono continuamente a rischio sgombero. Tu dici sempre che per incontrarli davvero bisogna rubare loro il cuore. Che cosa intendi con questa espressione?

 

Azezet Habtezeghi Kidane: Allora, quando noi, io e Alì, sister Alicia Vacas Moro, ci hanno destinato a lavorare con i beduini, abbiamo trovato i rabbini per i diritti umani ad introdurci a questi beduini, e noi siamo andati a trovarli nelle loro baracche. Noi aspettavamo che ci dicevano: non c’è acqua, non c’è luce, abbiamo bisogno di mangiare, così, invece loro ci hanno detto: per avere il futuro dei nostri figli vogliamo educazione. Educazione, sì. E non sapevamo come cominciare perché dove vivono loro non si può costruire, non si può fare niente. Allora hanno detto: non c’è problema, potete fare nelle nostre baracche, nelle nostre baracche fate. E noi abbiamo cominciato a fare gli asili. Erano loro a chiederci. Quando abbiamo cominciato ognuno, ogni comunità ci chiedeva: ti diamo questa baracca, ti diamo tre delle nostre donne, aprite l’asilo. E abbiamo cominciato l’asilo in ogni comunità. E dopo abbiamo allargato, promozione della donna. Abbiamo preparato a essere parrucchiere, infermiere, educatrici per i bambini, come tenere i figli, abbiamo fatto taglio e cucito. E queste donne, quello che si vedeva in loro era quello di uscire da loro stessi per poter aiutare anche gli altri. Era la stessa dinamica di quello che vedevamo nei poveri: queste donne che sembravano chiuse erano aperte. Sapete una donna, non era sposata, i beduini guidavano solo gli uomini da una comunità per andare a comprare in Gerico in Alzharia, Betania, erano gli uomini a portare le donne. Lei ha detto: sister, io voglio imparare a guidare la macchina per poter portare le mie sorelle e le mie donne a fare la spesa. Perché non devo fare. E ha imparato a guidare e ha cominciato a portare le donne ai mercati. Per me è stata una gioia incredibile, perché da lei stessa è venuto questo voler aiutare le sue donne che fanno qualche volta fatica a trovare questi uomini ad aiutarle a fare qualche cosa. Per me davvero mi hanno insegnato tante cose: l’ospitalità, l’amore per l’altro, e veramente i rabbini per i diritti umani ci hanno portato a un popolo rispettoso, un popolo che soffre ma nello stesso tempo che vede il futuro dei loro figli. Sapete, un beduino un giorno mi portava da un campo all’altro e mi ha parlato di questi muri e mi ha detto: sai questi muri? Non sono costruiti, si chiamava Suleyman, i muri non solo per me, per noi, anche per loro, non ci conoscono e noi non li conosciamo, non conosciamo il loro volto, non conoscono il nostro volto. Allora si allarga, si allarga questa paura dell’altro, paura del non conosciuto e diventa sfida invece di essere una grazia per riconoscere uno l’altro e vivere. Io quando sono arrivata in Israele sempre pregavo la Madonna e Gesù per la pace. Io da tanti anni adesso non prego per la pace, ma per la coesistenza, perché quando ci incontriamo uno con l’altro possiamo stendere le mani. Se non ci vediamo la faccia di uno con l’altro e riconoscere l’altro è immagine di Dio, sarà differente di cultura, di colore, di religione, ma è umano. Finché questa passione dell’uomo non è dentro di noi a riconoscere Gesù che è in quella persona, è in me, è Dio che c’è in un’altra persona e in me, non possiamo pregare per la pace. La pace ha bisogno di incontro.

 

Alessandra Buzzetti: Ecco, un incontro che accade anche in un’altra modalità perché sister Aziz all’inizio spiegava che ha cominciato il suo lavoro anche a Tel Aviv con queste donne migranti africane attraverso i medici per i diritti umani e tutti i sabati, una volta sono andata anch’io insieme a lei, vanno con questo team di medici che sono tutti israeliani, sia ebrei che arabi, vanno appunto a curare i palestinesi nei territori, quindi nei vari villaggi. Anche tu sempre dici che queste è forse uno dei pochissimi possibilità di incontro fisico tra israeliani da una parte del muro e palestinesi da quell’altra.

 

Azezet Habtezghi Kidane: Sì. Veramente questo movimento ha cominciato più di 35 anni fa con un piccolo gruppo, adesso è più di 1500 dottori. Ogni sabato una ventina di dottori scavalcano il muro per poter arrivare all’altro e questo per me è un esempio grande. Forse, tante volte sono l’unica cristiana con loro perché sono musulmani ed ebrei, però questo incontro quante piaghe fa guarire. Sì andiamo ogni sabato, curiamo tanta gente, però quello che facciamo di più è sentire, ascoltare i loro problemi e qualche volta, ho anche esperienze pratiche, che un dottore che ha perso il fratello o una sorella o qualcheduno che amava perché era ammazzato da un palestinese e incontravano anche le mamme, i padri, i fratelli che erano ammazzati da israeliani e quando si siedono a un tavolo insieme che il dolore tuo, il dolore mio è lo stesso e questo per me è una cosa che solo Dio può dare. E questo non lo chiamo riconciliazione però veramente umano su umano, persona su persona che si capiscono di questa situazione. Questo modo di vivere, non deve andare avanti perché soffriamo tutti, moriamo tutti, allora per finirla, ambedue piangono, ambedue soffrono e ambedue cercano per avvicinare uno con l’altro. Per me questo del sabato mi tocca, scusate se vi scandalizzo, ma più quando vado in chiesa, veramente questa gente che ti tocca, davanti a una donna che ha perso suo figlio, che dicono ti amo, o lei che lo dice anche ti amo. Questa sofferenza dobbiamo finirla insieme. Ci sono gruppi, organizzazioni, per esempio uno con patente di pace, israeliani che erano soldati, che hanno visto tanta sofferenza e palestinesi che erano in prigione perché hanno fatto qualche maligno, adesso insieme dobbiamo combattere per la coesistenza e hanno formato una organizzazione per aiutare i loro popoli. È una goccia nell’oceano però questa goccia c’è anche se non è saputa e speriamo che cresca ogni giorno. Grazie.

 

Alessandra Buzzetti: Adesso allora andiamo, facciamo un viaggio virtuale a Gerusalemme perché vogliamo farvi incontrare anche un’altra amica di suor Azezet che è un medico, è una ginecologa, che lavora in uno dei principali ospedali di Gerusalemme e che è stata anche la prima donna araba a essere Presidente dei medici per i diritti umani e anche lei tutti i sabati con suor Azezet va in questi villaggi palestinesi a curarli. Si chiama Mujra xxx e come dicevo l’abbiamo incontrata a Gerusalemme. Allora ascoltiamo anche la sua testimonianza insomma la sua esperienza.

 

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Alessandra Buzzetti: La compassione che comunque dovrebbe essere anche un tratto che caratterizza l’esperienza di ogni medico e sicuramente per tanti lo è, ma Mujra diceva anche che gli ospedali dovrebbero, israeliani, parlava dell’ospedale di dove anche lei lavora, come te in un ospedale israeliano, dovrebbero essere proprio il luogo di questi incontri, appunto, come dicevo all’inizio quasi metà del personale è arabo, quindi una percentuale che continua a crescere, anche nel tuo, in cui lavori da 26 anni. Lo ricordiamo il Rambam Hospital di Haifa. Anche lì siete, come dire, tanti arabi e lavorate insieme a medici ebrei. Quindi la prima domanda è molto semplice. Tu fai parte anche di quel 20 per cento di arabi israeliani che vuol dire arabi con passaporto israeliano, quindi cittadini a pieno titolo. Ecco, perché così tanti arabi israeliani decidono di intraprendere la professione medica, oppure diventare infermieri come anche hai fatto tu.

 

Salem Billan: Sì, innanzitutto grazie dell’invito. Sono molto contento di vedere, a quest’ora tarda, tutta questa gente che viene qua. Grazie che siete venuti, grazie che sono stato invitato. Innanzitutto la passione medica ci permette, a noi arabi, di avere una carriera, anche di avere una qualità alta di vita, anche ci permette di essere inseriti dentro la società israeliana e questo è molto importante, essere inseriti. L’unica professione è la professione medica perché noi sappiamo che il core business di Israele è xx la cyber security, noi che arabi non facciamo neanche i militari, perché molto difficile andare dentro a fare questa professione, anche se fai non hai poi il lavoro. La professione medica ci permette anche di lavorare. Il secondo motivo è un orgoglio per la famiglia ancora si considera il medico che è un orgoglio della famiglia e veramente può aiutare questa minoranza di arabi che si trovano soprattutto alla periferia, non al centro di Israele. Il 30 per cento di questo popolo arabo, che costruisce il 20 per cento di Israele non parla l’ebraico. Non parlando l’ebraico non potevano prendere la giusta terapia, allora ci sono tanti medici arabi che possono, non è facile fare la medicina in Israele, tu sai, ci sono 600 posti, circa 40 arabi possono entrare ogni anno e altri, come me, vanno all’estero. In Italia a fare la medicina. È questo il motivo. Il motivo è proprio di avere una vita con livello alto socioeconomico.

 

Alessandra Buzzetti: Prima, appunto, presentandoti, ho descritto anche la carriera che comunque tu hai fatto e che stai continuando a fare all’interno proprio del sistema sanitario israeliano, però più volte hai ripetuto, ha ripetuto anche a me, che la cosa più importante che tu hai realizzato finora nella tua carriera è stato quello di mettere in piedi il primo diciamo centro oncologico e soprattutto la prima radioterapia che anche oggi è l’unica a cui i palestinesi che vivono nei territori e a Gaza a cui possono accedere. Quindi volevo capire da te perché la consideri la cosa più importante e se ci racconti anche questo progetto che tra l’altro è stato raccontato anche su The Lancet, che è tra le principali riviste scientifiche, quindi, dice anche della autorevolezza insomma di un progetto che in qualche modo ha fatto scuola o comunque la può fare.

 

Salem Billan: Infatti questo è un progetto di vita. Siccome sono un arabo cristiano ho anche un conflitto dentro Israele e un conflitto anche fuori di Israele. Noi sappiamo che i palestinesi che sono nella Terrasanta sono suddivisi tra un muro quello che avete oltre il muro, nella Cisgiordania Gaza sappiamo che il sistema sanitario è catastrofico. Tanta gente non viene curata, nel primo giugno 2006 è arrivato il direttore generale dell’Augusta Victoria Hospital, che si trova nell’est di Gerusalemme, che serve i pazienti che vengono dell’accesso di Gaza, che hanno l’opportunità di entrare e vedere Gerusalemme e mi ha cercato, mi ha proposto una proposta. Lui sapeva questa situazione catastrofica, soprattutto nei pazienti che soffrono di cancro e praticamente non avevano nessuna terapia e mi ha detto che lui ha il finanziamento di aprire un centro oncologico, dentro questo centro oncologico c’è anche la radioterapia, che all’epoca la gente viene curata solo se hanno i soldi per andare in Giordania o in Egitto per essere curati. Pensate un po’ il povero paziente con cancro andare a essere curato in Giordania o in Egitto e poi tornare. Tante di quelli non sono tornati. Immediatamente quando mai chiesto perché io ho fatto medicina, perché voglio veramente aiutare, è una missione. Aiutare soprattutto i pazienti, la gente che ha più bisogno. La medicina veramente è una missione che può aiutare tanta comunità. Ho subito accettato sapendo che non sarà facile, non sarà facile a livello personale che io lavoro veramente molto e anche come faccio a essere tra due popolazioni che non collaborano e anche non parlano. Era veramente incredibili però era un progetto veramente xxx. È un progetto che quando ho iniziato a parlare con miei colleghi ebrei, che il mio direttore generale dell’ospedale di Rambam e altri ospedali, sono tutti soprattutto professori di XX che era è molto famoso del mondo lui era il direttore della chirurgia xxx sono tutti veramente, erano d’accordo, volevano aiutarmi a fare questo centro di oncologia. Sapete che facendo questo la gente prima di quello negli altri dottori in Cisgiordania non c’è lo screening, non c’è la diagnosi precoce. La gente viene, quasi tutti vengono, nella fase avanzata, praticamente in fase terminal, non hanno neanche la morfina da prendere. È una cosa catastrofica proprio. Abbiamo deciso di fare questo in tre fasi e questo era molto importante. La prima fase era di andare lì ad avere un’idea di cosa c’è all’Augusta Victoria, quale tipo di pazienti, quale tipo di terapia c’è. Io vengo da Haifa, da Rambam, dove la terapia di eccellenza, lo screening, 65 per cento dei pazienti vengono curati totalmente in Israele ogni anno. Questo perché hanno praticamente tutto. Pochi metri dal muro o prima del muro c’è un’altra popolazione che, praticamente tutte muoiono della malattia perché non c’è screening. Allora quando ho visto questo ho iniziato a lavorare ogni sabato, andare da Haifa da Gerusalemme per vedere quale tipo di paziente abbiamo. Ho visto dei pazienti terminali, ho visto pazienti che vengano da Gaza, ci impiegano giorni per venire, una donna con carcinoma della mammella che due mesi fa ha perso due figli. Un altro che proprio ha prestato i soldi per venire a vedermi, un altro che quando mi vedeva piangeva, che è riuscito arrivare da me. È una cosa incredibile. Pazienti con tumori enormi, che non ho mai visto nella mia vita. Dopo questo, quando ho visto questo, abbiamo fatto la seconda fase. Nella seconda fase era che abbiamo conquistato xxx lineare quello che dà la radioterapia e abbiamo deciso di formare il personale perché io credo che senza personale non possiamo fare niente e abbiamo anche coinvolto il centro di pace di Peres, che veramente mi ha aiutato molto in questo, per formare questo personale non solo medici, medici, fisici, tecnici, infermieri; tutto questo abbiamo deciso di selezionare tutte queste genti dalla Cisgiordania a Gaza e portarli all’ospedale in Israele. Non per una settimana o due, ma per 5 anni, 4/5 anni ogni dottore. Così dopo due o tre anni avevamo tanti dottori, tanti fisici che sono, che hanno lavorato in Israele, che hanno fatto l’esame di specializzazione in Israele, che hanno curato gli ebrei, che hanno studiato, che hanno parlato la lingua ebrea. Era una cosa incredibile proprio. Per quello The Lancet ha pubblicato questo, perché è stata una cosa veramente bella da fare. E poi quando loro erano pronti, siamo arrivati alla terza fase, terza fase in cui tutti questi dottori sono tornati alla Augusta Victoria dell’est di Gerusalemme. Sono stato più o meno indipendente, abbiamo aiutato loro ad essere indipendenti. Io continuo ad andare ogni sabato, a supervisionare questo, vedere il lavoro con me lo fanno. Questo progetto mi ha dato veramente tanto e a ogni fase sentivo che ho fatto una cosa giusta, che non solo io ho dato loro, loro mi hanno dato tanto, di crescere come medico, tanta esperienza, e crescere come uomo, di aumentare la mia sicurezza, di aiutare la gente ancora di più, ma con altra gente. Io non sono solo, tanta gente ha lavorato con me. Abbiamo salvato molta vita e oggi c’è il centro oncologico di Augusta Victoria, l’unico e uno dei più famosi secondo me come quelli dentro Israele. Salva tanta di quella gente che si trova dentro, sono contento che siamo riusciti a fare questo.

 

Alessandra Buzzetti: Grazie mille Salem e adesso, allora, andiamo a vederlo questo Augusta Victoria Hospital of Jerusalem e incontriamo anche prima il professore xxx di cui parlava, che era appunto uno dei responsabili al Rambam Hospital, che ha aiutato insomma Salem in questo progetto e poi incontreremo anche Fadi Atrash che è musulmano e che è stato uno dei primi oncologi palestinesi formati in questo progetto al Rambam Hospital, quindi un ospedale israeliano, che oggi dirige l’Augusta Victoria Hospital e proprio poche settimane fa ha dato anche il benvenuto nel suo ospedale al presidente americano Biden. Allora andiamo a incontrarli.

 

VIDEO dal minuto 1:04:12

 

(INIZIO REGISTRAZIONE )

 

  1. Come medico come israeliano, anche come ebreo, perché lei ha deciso di intraprendere questa avventura di formazione dei medici palestinesi?
  2. Quando sono stato assunto al Rambam Hospital ho dialogato per un’ora con il consiglio di amministrazione in merito al piano di sviluppo per il dipartimento. A un certo punto ho detto: dobbiamo anche ricordare che c’è un muro che ci separa dalla Cisgiordania e dietro questo muro ci sono persone che hanno bisogno di cure per il cancro. Questo farà parte della mia agenda dei prossimi dieci anni. In dipartimento ho trovato poi un partner, come il dottor Salem Billan che aveva la stessa idea. Non sapevamo nulla l’uno dell’altro ma trovarsi insieme ha aumentato le possibilità di raggiungere l’obiettivo. È una sorta di tabù creare relazioni economiche o politiche fra israeliani e palestinesi; i due rispettivi governi non lo permettono, ma nel campo dell’assistenza sanitaria, in particolare oncologica, si può invece interagire. Volevamo fare in modo che i medici di talento palestinesi, che in maggioranza vanno all’estero e non tornano indietro, potessero essere formati in Israele così da poter restare per aiutare la loro gente. Abbiamo così iscritto i colleghi palestinesi nei nostri staff senza differenze, perché trattassero pazienti sia ebrei che palestinesi. Abbiamo pian piano costruito una sorta di universo parallelo; abbiamo lasciato da parte la politica e ci siamo concentrati sugli esseri umani, sul loro diritto a essere curati, su ciò che è comune tra le persone e non su ciò che li divide. Quando sono davanti a un paziente non penso a che cosa ha fatto, se è un civile o un soldato o un terrorista. Ho davanti un uomo che ha bisogno di essere curato. Il nostro compito è di portarlo vivo a quello che lo attende, ottenere la libertà o andare in prigione; ma quando il paziente arriva in ospedale, sono tutti uguali.

La realtà degli ospedali è speciale per la coesistenza e collaborazione tra ebrei, cristiani e musulmani, per questo abbiamo intitolato il nostro articolo sulla rivista Lancet “Come creare una partnership tra paesi attraverso l’assistenza sanitaria” “Come connettere due mondi disconnessi “ Il culmine per noi poi è stato vedere il dottor ……, uno dei nostri laureati palestinesi, diventato direttore generale della Augusta Victoria, dare il benvenuto un mese fa al Presidente americano Biden.

 

  1. È la prima visita di un presidente americano agli ospedali palestinesi di Gerusalemme est. Biden ha annunciato lo stanziamento di 100 milioni di dollari per mantenerne la qualità e la sostenibilità.

Abbiamo un problema di liquidità, non abbiamo abbastanza soldi per comprare i farmaci per l’insolvenza dell’autorità palestinese, non pagano i conti mensili dei pazienti che arrivano per ricevere terapie oncologiche dalla Cisgiordania e da Gaza. La gestione dell’ospedale non è facile; è palestinese e tutti i nostri dipendenti sono palestinesi a

Gerusalemme est dobbiamo seguire le regole del ministero della salute israeliano. È un equilibrio non facile da mantenere. Oltre al medico devi fare in qualche modo anche il politico.

  1. Dove è nato e perché ha deciso di fare il medico? Come è stato il suo percorso per diventare un oncologo?
  2. Sono nato in un villaggio a nord della Cisgiordania vicino a Tulkarm; ho deciso che avrei fatto il medico a sette anni; ho frequentato l’università in Tunisia, sono rientrato nel 2005 e ho iniziato a lavorare all’Augusta Victoria. Stavano avviando il reparto di oncologia, ho avuto i primi contatti con i pazienti malati di cancro e ho deciso di fare l’oncologo. Attraverso il dottor Billan mi è stata offerta la possibilità di fare la specializzazione in radioterapia al Rambam Hospital di Haifa. Era la mia prima esperienza in un ambiente interamente israeliano ma ad Haifa non mi sono sentito uno straniero. È una città mista; in ospedale lavorano tanti arabi; ho imparato l’ebraico e sono stato molto sostenuto da Salem che mi ha accolto nella sua famiglia. Sono entrato a far parte

del sistema. La nostra prospettiva era quella di medici alle prese con la sofferenza di malati di cancro; di politica si discuteva ma fuori dal reparto; anche nei momenti più difficili, come quando scoppiano le guerre, la comunicazione tra noi medici israeliani e palestinesi non viene mai meno. L’assistenza sanitaria è una porta per il dialogo tra le due parti per trovare un modo per convivere. La cosa più frustrante per me come all’uomo, come medico e come palestinese è vedere la disparità: in Israele si trovano tutte le migliori terapie e a pochi chilometri di distanza ci sono villaggi che non hanno accesso neppure alle cure più elementari; questa mi ha portato a impegnarmi, a voler fare qualcosa per cambiare le cose e aiutare la mia gente.

 

(FINE DELLA REGISTRAZIONE)

 

Alessandra Buzzetti: Entrambi i tuoi colleghi hanno raccontato che questa collaborazione anche nei momenti in cui riscoppia il conflitto non viene meno; lo abbiamo visto anche l’anno scorso, quando durante la pandemia e giustamente anche con una certa retorica, si è insistito anche in tutti i media israeliani della collaborazione per sconfiggere il nemico comune, che era il virus tra arabi ed ebrei, dentro gli ospedali e poi un mese dopo è riscoppiata la guerra più lunga di Gaza e abbiamo visto scontri violentissimi anche ad Haifa dove vivi tu; nel tuo ospedale arrivavano anche le vittime di questi scontri. Quindi qual è la tua esperienza proprio da questo punto di vista?

 

Salem Billan: È veramente triste; noi siamo due popolazioni che viviamo in Israele completamente ma completamente separati. L’unico posto che possiamo parlare l’un l’altro è dentro gli ospedali. Io ho tre i figli che non hanno amici ebrei, nonostante noi siamo dentro Haifa, una città mista, non abbiamo niente, ma sono stato scioccato ultimamente quando c’è stata la guerra con Gaza perché questa guerra è arrivata sotto la mia porta. Veramente è stata la guerra dentro Israele che mi ha fatto molto riflettere: cosa faccio? Io sono qua con un medico con la mia famiglia in pericolo. Addirittura c’è un mio amico, anche lui cristiano e direttore del pronto soccorso, che hanno veramente attaccato la sua casa; lui dall’ospedale a curare questa gente qua, estremisti che hanno attaccati. Ogni cosa adesso che succede fuori Israele con Gaza noi lo sentiamo dentro. Cosa facciamo? Ci sono tanti ragazzi cristiani che lasciano Israele e vanno all’estero. È una situazione che veramente, nonostante dentro l’ospedale non sentiamo niente, ma noi viviamo un ambiente molto teso che ogni minuto può esplodere. Facciamo di tutto per dare, per calmare le situazioni, però secondo me la pace purtroppo la sento più lontana; l’unico posto in cui c’è la pace è dentro l’ospedale e tra i due popoli. Devo tornare un passo indietro. Dice che quando Trump – è una cosa che anche mi ha commosso – è stato presidente degli Stati Uniti, lui ha tagliato tutti i soldi che arrivano all’ospedale di Augusta Victoria, tutti. A questo punto tutti i professori in Israele ebrei con rabbia avevano scritto una lettera per il presidente Trump; gli hanno chiesto di dare questi soldi al popolo palestinese. Questo è stato un atto veramente incredibili, che mi ha commosso. La realtà è difficile, la realtà che noi abitiamo, noi siamo dentro un conflitto interno che non sappiamo cosa miei figli o nipoti cosa succede con loro, in Israele c’è la quinta elezioni in qualche mese. Non sappiamo cosa succede in questo, sappiamo che quello che conta, la pace può vincere di più un Israele purtroppo. E allora questo mondo aggressivo io spero che imparano un po’ cosa c’è dentro l’ospedale, il rapporto tra l’uomo, la convivenza dentro secondo me è un grande esempio, che spero un giorno diventa anche fuori dall’ospedale.

 

Alessandra Buzzetti: Ecco, un’ultima domanda proprio personale. Dicevo all’inizio che tu sei appunto un arabo cristiano che sei nato a Cana di Galilea, quindi forse proprio i primi da ringraziare, in questo percorso, è stata proprio la tua famiglia, i tuoi genitori, ma anche i tuoi nonni.

 

Salem Billan: Ma certo, io veramente ringrazio la mia famiglia, una famiglia numerosa, però ringrazio l’ospedale italiano Haifa, ospedale italiano dove il mio nonno faceva il giardiniere per 50 anni e mio papà ha lavorato per 50 anni nello stesso ospedale. Lì ho incontrato i pazienti oncologici e ho deciso di fare il medico. Il direttore dell’ospedale, il direttore generale era italiano, che quando ho finito la maturità mi ha aiutato di andare in Italia a fare questo.

Allora veramente ringrazio l’Italia che mi ha dato l’opportunità di essere un medico e di aiutare tutta questa gente che… grazie di tutto

 

Alessandra Buzzetti: grazie a te. Un’ultima domanda, anche questa personale, a sister Azezet che, appunto, tu sei nata in Eritrea e lì ha incontrato padre Comboni che poi ti ha portato in giro per il mondo, quindi come lui ti ha preso il tuo cuore?

 

Azezet Habtezghi Kidane: Allora, io ho incontrato Comboni con i suoi figlie e figli. Io non conoscevo i Comboni o comboniane prima e ringrazio l’Italia che ha generato un uomo con passione per gli africani. Lui, quando ho visto è un film, le suore comboniane lavoravano con i lebbrosi che io ero cresciuta vicino all’Ospedale del Rosario e vedevo questa gente che soffre perché non hanno dite o tanti problemi e dicevo… veramente mi toccavano che questa gente ha bisogno di aiuto quando questa suora ci ha fatto vedere un film in cui le suore comboniane lavoravano in sud Sudan il mio core era toccato e io ho detto: “Questa è la mia famiglia”. E dopo conosciuto Comboni, un uomo di passione, che è andato il centro Africa, in Sudan, con tanti suoi fratelli diocesani e tutti sono morti però lui ha avuto coraggio, ha avuto coraggio di andare perché ha visto che questi schiavi, li ha visti morire, li ha visti soffrire e lui ha deciso di andare a questi piccoli. Daniele Comboni, san Daniele Comboni, più di 150 anni fa parlava delle periferie che oggi il nostro papa lo parla, e lo parla Comboni con e, va.. aiutandoli, dando vita, dicendo: “Se ho cento vite le darei a questi di gente che soffre”. E ha dato la sua vita ed è morto in Cartoon. Questa passione di Comboni mi ha tirato e spero e prego che questa passione anche passi a me e a tutti i suoi figli, che veramente a queste persone di periferia siano amati, curati e vedere il volto di Gesù, il volto di Dio queste persone. Grazie Alessandra, grazie a voi tutti.

 

Alessandra Buzzetti: Grazie davvero a entrambi, al dottor Salem Billan, a suor Azezet, appunto diciamo, anche la sua passione per l’uomo, come dicevamo, passa anche attraverso questa vene ONG “Cucinate” che lei a Tel Aviv, quindi, chi volesse può vedere nel sito dove vendono anche delle cose bellissime che fabbricano queste donne. Quindi insomma chi vuole può andare a curiosare, eventualmente, anche ordinare online. Tu citavi papà Francesco, mi piaceva proprio concludere questo incontro perché ne abbiamo proprio sentito la carne, l’esperienza di questa frase, che tratta dal volume di papà Francesco “Contro la guerra il coraggio di costruire la pace” e dice il papa: “Il vangelo ci chiede soltanto di non guardare da un’altra parte perché il conflitto si radica dove si dissolvono i volti. Quando l’altro il suo volto, come il suo dolore, ce lo teniamo davanti agli occhi, allora non è permesso sfregiarne la dignità con violenza. Non fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite”, che sono quello che Salem e Azezet fanno davvero tutti i giorni. Quindi li ringrazio ancora, ringrazio anche il Meeting per avere dato l’opportunità di fare conoscere insomma le loro storie.

Data

21 Agosto 2022

Ora

21:00

Edizione

2022

Luogo

Auditorium Intesa Sanpaolo D3
Categoria
Incontri