STORIE DAL MONDO. LA RIVOLUZIONE, UN SOGNO.

Rassegna di reportages internazionali a cura di Roberto Fontolan e Gian Micalessin.
Presentazione del reportage di Gian Micalessin, Giornalista. Regia di Marcello Pastonesi. Direttore Editoriale: Francesca Ulivi. Produzione: MTV News. Partecipano: l’Autore; Francesca Ulivi, Direttore Tg e Responsabilità Sociale di MTV Italia.

 

Un anno dopo la primavera araba Mtv torna ad incontrare i ragazzi protagonisti nel 2011 delle rivolte che hanno portato alla caduta di Ben Alì in Tunisia, di Hosni Mubarak in Egitto di Muhammar Gheddafi in Libia. Svanite le illusioni e le speranze di un anno prima la rivoluzione sembra essersi trasformata in un sogno irrealizzabile. A Sidi Bouzid la città nel cuore della Tunisia dove il rogo di Mohammed Bouazizi scatenò la rivolta ben poco è cambiato. La disoccupazione e la mancanza di prospettive restano la principale piaga per dei giovani che hanno conquistato la libertà d’espressione ma son ben lontani dall’avere garanzie per il futuro.
In Egitto i ragazzi di piazza Tahrir esprimono la loro rabbia nei confronti di militari e Fratelli Musulmani considerati i traditori della loro rivoluzione.
A Bengasi, in Libia, i ragazzi che un anno prima combattevano contro Gheddafi sono tornati in piazza per dimostrare contro un Consiglio Nazionale di Transizione accusato di non aver mantenuto le promesse.

ROBERTO FONTOLAN:
Buonasera, stasera è la serata Gian Micalessin possiamo dire, che ci presenta il suo lavoro. L’abbiamo definito come un diario di un ritorno. Lo scorso anno proprio qui, in queste occasioni delle nostre “Storie del mondo”, ci aveva presentato il suo lavoro fatto con i giovani di Bengasi in Libia. Quest’anno ci presenta un lavoro che è: Un anno dopo. Cosa è successo. Poi tra un anno avremo anche la terza puntata. E naturalmente il lavoro di questa sera entra nel pieno dell’attualità. Attualità di cui sentiamo parlare molto anche al Meeting in questi giorni, cioè la realtà di questi Paesi. Il viaggio si è un po’ allargato rispetto allo scorso anno: lo scorso anno riguardava la sola Libia e invece nel documentario di quest’anno Gian ha fatto un viaggio più esteso, perché ha aggiunto l’Egitto e la Tunisia, che sono poi sostanzialmente i tre Paesi nei quali è accaduta questa trasformazione che ha cambiato per sempre il volto di questa regione. Bene, male, poi la storia ce lo dirà anche più avanti, però certamente ha cambiato per sempre il volto di questa regione. Abbiamo con noi Francesca Ulivi, come lo scorso anno, che è la responsabile News di MTV, e possiamo dire che dall’anno scorso, come Gian ha esteso il suo reportage così Francesca ha esteso, da un anno all’altro, la sua competenza, perché si occuperà per MTV News anche di un’area molto più estesa che riguarda tutta l’Europa Meridionale, l’Africa, e proprio il Medio Oriente, con una sede che hanno a Dubai. A Dubai, da cui partirà anche un’attività di news legata proprio al mondo arabo in lingua araba. Adesso lascio la parola a Gian che ci introduce brevemente il suo lavoro e una parola poi a Francesca. Come sempre vedremo insieme la cosa e poi avremo una mezz’ora per poter approfondire e naturalmente ci sono qui i protagonisti per fare domande a loro, approfondimenti e commenti.

GIAN MICALESSIN:
Telegrafico, perché il documentario dovrebbe parlar da solo. E’ un tentativo di capire un anno dopo, capirlo soprattutto con i giovani del Medio Oriente, i giovani Tunisini, i giovani Libici, e i giovani Egiziani, se questa rivoluzione di cui tanto si è parlato, questo sogno della rivoluzione, si è realizzato o se invece non si è realizzato, se si è realizzato o se invece è diventato un’illusione. Quindi partiamo da Sidi Bouzid, la culla dell’albore delle primavere arabe, dove un venditore di frutta e verdura si diede fuoco, s’immolò, e quella scintilla, quel rogo, fece scoppiare le primavere arabe; e partendo da Sidi Bouzid passiamo prima in Libia e poi in Egitto, a Piazza Tahrir, per capire un pochino cosa pensano i giovani, protagonisti di quella rivoluzione, di cosa è successo quest’anno.

FRANCESCA ULIVI:
Il documentario è durato fra Gennaio e Febbraio di quest’anno, prima delle elezioni, prima di alcuni momenti che sono stati fondamentali per la storia di questo Paese. Io volevo solo aggiungere che ci siamo per molti giorni domandati come intitolarlo “La rivoluzione è un sogno” con punto interrogativo, punto esclamativo, cosa? Alla fine è diventato “La rivoluzione, un sogno” e poi ognuno giudicherà da quello che vedrà.

ROBERTO FONTOLAN:
Bene! Allora buona visione e ci vediamo tra poco meno di cinquanta minuti. Quarantotto minuti. Abbiamo tempo dopo per approfondire.

“Video”

ROBERTO FONTOLAN:
Bene! Abbiamo alcuni minuti da passare insieme e con l’autore di questo reportage Gian Micalessin e con la responsabile delle News di MTV che ha prodotto questo reportage esattamente come quello dell’anno scorso dedicato alla Libia. Dico subito che l’episodio che mi è piaciuto di più è quello centrale, con i due ragazzi tunisini, e quello che vuole essere nello stesso tempo Usain Bolt, Eminem, però mette come primo punto l’educazione. Quindi mi ha colpito tutto questo rovistare tutte queste idee insieme nella testa, che un po’ evoca quello che dice questa ragazza alla fine: “Voglio fare tutto, voglio vedere tutto. Voglio diventare nello stesso tempo fotografa e così via”. Diciamo è la bellezza della gioventù, che però non vorrei fosse vista in una chiave né giovanilistica né sentimentale. Per me è interessante questo aspetto che un po’ ci connette anche all’atto inaugurale del Meeting, alla mostra ma dei giovani che un po’ ci rimanda anche a queste cose che abbiamo sentito e visto questa sera insieme. C’è questa energia, questa forza, che arriva. Poi ci sono tantissime considerazioni politiche, politologiche, strategiche, geo-strategiche, però per me l’importante in queste cose è sempre vedere com’è il dato della realtà. Intanto immagino che ci siano persone che vogliano un po’ colloquiare con Gian e con Francesca e porre domande su quello che hanno visto, su come sono andati questi racconti. Ci sono alcuni dei ragazzi della Libia che c’erano l’anno scorso. Io mi ricordo quella ragazza…

GIAN MICALESSIN:
E’ Tarek, che era uno dei protagonisti della rivoluzione che si stava svolgendo davanti ai suoi occhi, infatti lui all’inizio mostra ai suoi genitori il filmato che avevamo fatto un anno prima. Io lascerei più spazio alle domande questa sera, nel senso che non vorrei fare un racconto di cosa sia veramente la rivoluzione, né questa è tutta la rivoluzione, questa è soprattutto, come diceva giustamente Roberto, il sogno della rivoluzione come viene vissuto dai giovani, che la vedono come una possibilità di cambiamento in un mondo fermo, immobile da quaranta anni, che aveva Gheddafi da quarant’anni, Mubarak dal 1979, Ben Alì da altrettanto tempo e all’improvviso si apre un ventaglio di possibilità, si apre un porta. Ma questo ce la raccontano bene anche i ragazzi di Piazza Tahrir, che è forse la parte più critica di questo filmato. Ma ce lo raccontano anche i ragazzi di Bengasi nella Piazza dell’Albero, dove dicono: “La rivoluzione non ci ha dato quello che ci aspettavamo, non ha realizzato le sue promesse”. Però in tutto questo per i giovani è sicuramente una ventata di energia, è quello che gli permette sicuramente di sognare. Dal punto di vista politico, dal punto di vista sociale, che questo documentario non affronta, questo documentario è soprattutto rivolto a far capire come una certa generazione vive questa rivoluzione. E’ sicuramente una porta che si apre dopo quarant’anni di immobilismo in Medio oriente.

DOMANDA:
Mi hanno colpito tantissimo due aspetti. Uno, questa forza dei giovani, terrificante, che son pronti a dare il sangue, cosa che da noi mi sembra totalmente eclissata. C’è gente che per la libertà, per i sogni che ha, per il desiderio di realizzare la propria vita e di avere un lavoro, di fare una famiglia, di crescere, sono disposti a dare il sangue. Invece vedo che da noi non son disposti neanche a farsi rompere un’unghia. Dall’altra parte, sento dentro al cuore la paura che venga tradita, che tutto quello per cui hanno speso, per cui hanno conquistato, adesso si trasformi in una melma partitica o di arraffamenti vari. Quello che mi chiedo è: da una parte, come possiamo noi recuperare nell’Occidente questo desiderio grande di libertà che ci manca? E dall’altra parte, come possiamo noi aiutare loro a non invischiarsi? So che sono domande enormi ma mi piacerebbe sapere da chi è stato se può in qualche modo aiutarci.

GIAN MICALESSIN:
Scarico la patata bollente a Francesca, che è la responsabile di una televisione che guarda soprattutto ai giovani.

FRANCESCA ULIVI:
Io non sono d’accordo con la prima affermazione, perché i giovani italiani non reagiscono, perché i giovani italiani sono una generazione perduta, perché qui e perché là. Noi siamo un piccolo osservatorio. Raccontiamo i giovani tutti i giorni. Abbiamo raccontato quasi cinquecento storie di ragazzi e non è vero, i giovani italiani la libertà ce l’hanno, la democrazia ce l’hanno. Combattono per altre cose, non è vero che non sono motivati e che non si romperebbero nemmeno un’unghia per l’Italia, per il loro Paese, ma anche per il loro futuro, visto che chi c’era prima di futuro, di possibilità gliene ha lasciate davvero poche. Volevo solo dire questo. Rispetto alle due domande sono davvero domande enormi.

GIAN MICALESSIN:
Sono domande enormi, però sicuramente diciamo che una situazione dove hai avuto per quarant’anni l’impressione di vivere in un posto dove non c’era futuro e all’improvviso si apre questa porta, è chiaro, è naturale che avvenga così, è come nei giovani del dopoguerra. Sicuramente c’era molta più speranza di poter cambiar qualcosa, di poter creare qualcosa nel dopoguerra. O anche negli anni dopo gli anni ’70, anche quando avevo io la loro età, c’era l’impressione di poter cambiare tantissimo. Io sono invece dell’idea che in Italia non ci sia oggi quella disponibilità al sacrificio, a fare degli sforzi enormi come fanno questi ragazzi. E infatti qual è il rischio? Il rischio purtroppo, molto grave e molto serio. è che l’Europa, di fronte all’esplodere del Medio Oriente, di fronte alla crescita del Medio Oriente, non sappia reagire con altrettanta forza e vivacità, che i ragazzi di oggi non sappiano rispondere con tanta forza a una generazione che cresce dai ghetti dell’Africa, del Medio Oriente, e che quindi sono molto più attrezzati ad affrontare le difficoltà, ad affrontare la vita, e molto più disposti a portarci via spazio. Se i giovani europei non si svegliano, questi gli porteranno via la merenda.

DOMANDA:
E’ una domanda per tutti e tre. Volevo sapere, che collegamento fareste con il ’68?

GIAN MICALESSIN:
Che collegamento faremmo con il ’68? Io l’ho usato così per far capire. Diciamo che il ’68, qui, quando è scoppiato, è stata una reazione al conformismo, a una società che non cambiava da tanti anni, che era sempre la stessa. Per questo scoppiò negli Stati Uniti prima e poi in Europa. Lì c’erano dei regimi immobili, dei dittatori, dei regimi autoritari che erano al potere da decine di anni. E quindi se voi vedete Sidi Bouzid, che è l’inizio di tutta la rivoluzione, la fiammata inizia da un nonnulla. Inizia da questo ragazzo che faceva il rivenditore di frutta, che prende una multa perché non aveva la licenza e per protesta si dà fuoco. Questa scintilla e rogo scatenano la rivoluzione. E’ un piccolo fatto quello di Sidi, ma è una scintilla che innesca una grandissima voglia di cambiamento, come successe nel ’68. La similitudine è quella di andare contro il conformismo, contro quello che ti impedisce di cambiare. Ovviamente poi il gioco in Medio oriente è più complesso. Se andassimo a vedere le radici politiche, cosa c’è dietro, chi le appoggia, vedremmo che c’è molto di più complesso dell’entusiasmo dei giovani. I giovani hanno avuto una parte importante nel portare avanti l’inizio della rivoluzione. In Tunisia, in Egitto e poi in Libia. Quei giovani che avete visto in piazza Tahrir, sono ancora lì che protestano, perché il loro sogno non si è realizzato. Chi ha vinto dopo la rivoluzione sono stati i Fratelli Musulmani, quindi tutto il contrario di quello che sognavano quei giovani: una rivoluzione liberale, democratica che desse spazio alle donne. Hanno vinto i Fratelli Musulmani, che è una fazione islamista, che non ha ancora dimostrato di credere nella democrazia e nel liberalismo. In questo senso c’è stato un grande sogno, una grande speranza e voglia di cambiamento, rischiamo però che i Fratelli Musulmani e la loro vittoria in Egitto blocchino tutto questo anche in Libia e in Tunisia.

FRANCESCA ULIVI:
Rispetto alla domanda, io vedo la forza dei ragazzi, la forza delle idee e delle utopie, dopo di che le generazioni cambiano. I ragazzi del ’68 sono diversi rispetto a quelli del 2011 e del 2012 come sono diversi rispetto a quelli degli anni ’40 e ’30. Quindi c’è una similitudine nel fatto di voler guardare ad un futuro e di venderlo più roseo di chi ha superato una certa età. Questi ragazzi che hanno fatto le rivoluzioni, ma anche quelli che non le fanno e non le faranno in Europa sono molto diversi da quelli del ’68. E anche le utopie sono un po’ più reali rispetto al ’68.

ROBERTO FONTOLAN:
Vorrei dire due cose brevi. Una, è che è più facile e appartiene tipicamente alla generazione dei giovani che si possa dire “io” e che questo “io” impatti la vita, la società, la politica fino in qualche caso a contribuire al cambiamento. E’ quello che penso vedendo il reportage di Gianni questa sera: questa emergenza, urgenza dell’io, con anche tanta confusione, sentimentalismi e sogni. Però è interessante questo aspetto. La grande sfida è quella del tempo, è la tenuta di questa scintilla, di questo fuoco dell’io. E’ un po’ quello che abbiamo cercato di dire in questi giorni con la mostra, perché vi vedo una certa analogia. Pur nelle condizioni enormemente diverse, negli esempi che abbiamo visto raccontare, che hanno colpito anche il Presidente del Consiglio Monti, c’è un po’ questa cosa: nella condizione di una Italia stanca, logora ecc. – la famosa generazione perduta – quando c’è qualcuno che dice “io”, viene fuori e diventa come una strada, una possibilità per tutti. Questo è il grande punto. Dopo la sfida, come sempre è la tenuta nel tempo, perché il tempo è il grande esaminatore, che mette sotto esame qualunque cosa. Circa il ’68, possiamo dire in fondo le stesse cose. Ci sono fenomeni comuni alle epoche, alle storie, penso che la generazione del ’68 in Occidente e in Italia sia una generazione che poi la battaglia per il potere l’ha saputa fare molto bene ed è arrivata a posizioni di potere reali. Il potere della comunicazione, della parola, in Italia è molto presieduto e governato da una generazione che è stata quella che nel ’68 nel ’70 ha fatto la famosa contestazione. Non ho l’impressione che questa generazione possa arrivare fino a quella possibilità. C’è stata una temperie, una battaglia culturale attorno al ’68 molto complessa, che non è il caso di discutere qui, ma in qualche modo la giovinezza del ’68 e la combinazione del potere ci ha dato anche questa Italia di oggi. Chi negli anni ’70 era per strada, oggi occupa certe poltrone in tanti casi ed è una analogia al contrario che sento. Penso che per questa generazione del mondo arabo sarà tutto molto più difficile, perché lì c’è una guerra vera, che riguarda sia il tempo che le condizioni concrete di quelle società e di quei mondi.

GIAN MICALESSIN:
L’analogia c’è, i ragazzi incontrati a piazza Tahrir non sono ragazzi del popolo, che arrivano dal proletariato urbano dell’Egitto, sono come nel ’68 ragazzi di famiglie ricche, benestanti, che parlano bene l’inglese, tutti oppositori di Mubarak ma, come spiegano quelle ragazze, la vera rivoluzione è incominciata quando in piazza è arrivato il popolo cioè i Fratelli Musulmani, che hanno portato la gente delle moschee. I ragazzi di piazza Tahrir, che abbiamo idealizzato come rivoluzionari, sono in verità una piccola élite, che sicuramente ha fatto esplodere quella scintilla, ma erano l’élite, perché erano gli unici che avevano la possibilità di accedere a Internet. Anche per l’Egitto la rivoluzione arriva da una serie di famiglie che sono più ricche, elitariamente più importanti delle altre, sono loro che fanno scoppiare la rivoluzione. Nel ’68 la protesta venne fatta dalla borghesia radical chic, in tal senso almeno in Egitto c’è una certa analogia.

DOMANDA:
Se per caso qualcuno non avesse fermato quei quattro carri armati che stavano lì, ma che razza di reportage avreste fatto? Se l’occidente non avesse fermato Gheddafi, cosa avreste raccontato?

ROBERTO FONTOLAN:
Non ho capito se c’è un tono polemico della domanda…

DOMANDA:
Non polemico. Volevo dire, questi ragazzi che avete fatto vedere… avete raccontato un ’68 letto in qualche libro. Dopo il Movimento Studentesco di cui ho fatto parte, cosa abbiamo fatto? Arriva la borghesia che blocca tutte le speranze che avevamo e sono usciti Curcio e quant’altro. E questi ragazzi che avete fatto vedere, saranno ammorbiditi, faranno quella fine, perché alla fine i grossi poteri non faranno che ammorbidire tutti i loro sogni.

GIAN MICALESSIN:
Potrà succedere, lei lo prevede, noi però abbiamo raccontato quello che abbiamo visto, che è il mestiere del giornalista: raccogliere le voci. Non abbiamo certo raccontato tutte le voci, perché il giornalista non può raccontare l’intero universo ma solo quello spicchio di universo che incontra. Questo abbiamo incontrato, forse tra 2, 3, 4 anni potrà essere smentito, ma non sarà una nostra colpa

DOMANDA:
In Siria come è la situazione adesso?

ROBERTO FONTOLAN:
Gian sta brigando per avere il visto per andare in Siria. È una domanda quindi profetica

GIAN MICALESSIN:
Vedo la Siria come un cambiamento più magmatico e pericoloso, perché è in corso da due anni e non esiste sicuramente una voglia di cambiamento paragonabile. C’è una vera guerra civile, un Paese spaccato a metà, dove un 50% sta con Assad e un 50% che gli è sicuramente contrario. Vedo soprattutto molta disinformazione sulla Siria, vedo un comune pensiero in Occidente che ci fa pensare che il male sia solo da una parte, mentre io penso che stia da entrambe le parti, con la differenza che quello che c’è adesso è un male che conosciamo, quello che arriverà è un male che non consociamo, caotico, incontrollabile e che rischia di lasciarci al crocevia del Medio Oriente. Rischiamo di ricreare un buco nero come quello dell’Iraq post Saddam, dove i primi a subire le conseguenze è stata la comunità cristiana, costretta a fuggire in Siria. La Siria accoglieva i cristiani, e noi spesso ci ricordiamo dei musulmani, parliamo della libertà dei Fratelli Musulmani, ma ci dimentichiamo di chi dovrebbe essere il nostro alleato principale in Medio Oriente, cioè le comunità cristiane che se perdono la Siria, non avranno più un posto dove rifugiarsi. Se cade la Siria, cadrà una buona parte del cristianesimo in Medio Oriente, che è iniziato lì, a Damasco.

DOMANDA:
Si vede una influenza della cultura occidentale sui giovani della rivoluzione. Mi chiedo quanta parte sia influenza mediatica occidentale e quanta parte sia cultura mediorientale.

FRANCESCA ULIVI:
La risposta banale è globalizzazione, partendo però da quello che ha detto prima Gian. Questi ragazzi, non tutti, rappresentano le élites. Sicuramente Internet, la comunicazione ha inciso nelle vite di questi ragazzi e anche su come le rivoluzioni sono andate. Non sono d’accordo che sono le rivoluzioni di internet e di twitter, perché il 50% della popolazione in Egitto non ha accesso a Internet e quindi se fossero state le rivoluzioni di internet non ci sarebbero stati quei numeri. Però la risposta è globalizzazione: i modelli occidentali sono conosciuti da questi ragazzi

DOMANDA:
Sia il documentario di ieri sull’Iran che quello di oggi hanno una analogia: fanno parlare un desiderio irriducibile, che penso sia la radice della speranza.

GIAN MICALESSIN:
Quello che ti fa apprezzare anche in questo lavoro le situazioni difficili, la guerra, posti dimenticati del mondo, è che non vai in cerca delle banalità, cerchi le persone che anche nelle difficoltà sanno venir fuori, che trovano un modo per sconfiggere le difficoltà e le avversità e sopravvivere. Allora è chiaro che nel nostro lavoro cerchiamo sempre di andare a cercare: se trovi una analogia è frutto del fatto che siamo attratti dalle persone che ti raccontano anche un dramma, ma con la voglia sia di stupirti sia di mostrarti perché vogliono uscirne. E’ inevitabile che questo succeda in una storia molto disgraziata come quella dell’Iran in cui non si vede soluzione immediata, dove però i protagonisti, essendo quelli che hanno colpito l’autore, diventano anche quelli che ti colpiscono di più per la loro voglia di uscire dal loro dramma, voglia che si manifesta nella nostalgia drammatica e disperata. L’autore, quando va a vedere i giovani, seleziona quei giovani che gli danno più speranza e voglia di uscire dall’anonimato e dal grigiore dei 40 anni passati nella dittatura.

FRANCESCA ULIVI:
Noi per missione editoriale andiamo a cercare ragazzi che cercano di rispondere positivamente. E ci sono non solo nelle rivoluzioni e non solo in Medio Oriente

DOMANDA:
Avete percepito delle possibilità educative presenti in questi posti, dove le idee possano prendere forma e cambiare le cose?

GIAN MICALESSIN:
Le idee in un anno hanno cambiato tre regimi. Per esempio quella televisione a Bengasi nasce veramente da un visionario che, col suo computer, manda in streaming i resoconti drammatici ed è la prima voce che abbiamo sentito in Occidente. Lui raccontava al mondo cosa stava succedendo a Bengasi che si ribellava a Gheddafi. Quel ragazzo lì è morto durante i primi scontri a Bendasi, ai primi di marzo del 2010, però dalla sua esperienza dalla sua voce che si sentiva appena, disturbata, incerta, spezzata, è nata una televisione, sono nati decine di ragazzi che hanno imparato a fare i giornalisti e sognano un mondo nuovo. Anche una sola voce, così flebile, spezzata e uccisa dalla guerra, è capace di dare non solo la speranza ma di costruire qualcosa che moltiplica quella speranza.

ROBERTO FONTOLAN:
Vi ringrazio. Vorrei che con NTV, l’anno prossimo, potessimo ritrovarci, perché la possibilità di costruire sull’irriducibilità umana in ogni contesto è il Dna del nostro Meeting e penso che se c’è un lavoro interessante dal punto di vista mediatico è proprio trasformare la denuncia in proposizione, in positività, in possibilità di costruire, nell’io che costruisce. E’ questo ciò su cui possiamo andare avanti, anche se rimanesse un solo io.
Inoltre vorrei sottolineare come il tema del fattore tempo, in queste vicende, io lo senta moltissimo, perché noi viviamo nell’idea che tutto debba accadere. Siamo assediati dalle informazioni, per cui dal momento in cui Gheddafi viene linciato, subito dopo ci domandiamo: e ora cosa succede, come sarà la democrazia? Pensiamo ai decenni che ci sono voluti nel mondo occidentale dove ci sono democrazie stabili, a volte secoli. Noi viviamo troppo condizionati dalla fretta. In tal senso il tempo è una grande sfida. Noi pretendiamo da queste società tutto ciò che le nostre società hanno costruito in secoli, senza essere ossessionate e premute e incalzate. Pensiamo all’Egitto in questa fase: è tremenda la pressione che si esercita su questi mondi con tutto il gioco politico delle forze negative. Anche noi dobbiamo rieducarci alla sfida del tempo, perché anche questo è un modo con cui guardare a queste situazioni. Mi ha colpito ieri all’incontro sulla libertà religiosa un relatore che ha usato la stessa espressione che usò Giovanni Paolo II all’inizio del suo pontificato: “Non abbiate paura”. Non abbiamo paura della realtà con tutto ciò che ci propone: è l’unico modo per potere entrare nella realtà con una possibilità di costruire. Non avere fretta, non avere paura.
Non so come volgere in positivo questi due non, ma è un pensiero col quale voglio che ci congediamo questa sera. Alle 21,45 abbiamo qui un altro documentario.
Grazie Francesca, Grazie Gian.

Data

21 Agosto 2012

Ora

19:00

Edizione

2012

Luogo

Sala Neri GE
Categoria
Testi & Contesti