“SONO MOLTO CONTENTO DI VIVERE CON TE”: LA DISABILITÀ COME RISORSA

"SONO MOLTO CONTENTO DI VIVERE CON TE”: LA DISABILITÀ COME RISORSA

In collaborazione con CEC (The Notre Dame Center for Ethics and Culture). Partecipano: Mary O’Callaghan, Public Policy Fellows at the Center for Ethics and Culturealla Notre Dame University, USA; Orlando Carter Snead, Direttore Center for Ethics and Culture alla Notre Dame University, USA. In occasione dell’incontro proiezione della video-intervista a Jean Vanier, Fondatore della Comunità L’Arche. Introduce Maurizio Vitali, Giornalista.

 

MAURIZIO VITALI:
Buonasera, benvenuti, questa sera abbiamo un titolo che riecheggia quello generale del Meeting con questa forma: “Sono molto contento di vivere con te”. Un titolo che nasce da una conversazione con Jean Vanier, il quale ha detto queste parole a proposito del fatto che, come vedrete poi dall’intervista registrata che manderemo in onda, 50 anni fa lui si è messo a vivere con due persone disabili mentali e ci ha vissuto poi per decenni, creando la grande realtà dell’Arche che accoglie queste persone. Quando gli ho chiesto: “Ma è stato un bene o no per lei?”. Lui mi ha detto: “Sì, perché loro ed io eravamo contenti”. Così sono contento che gli organizzatori del Meeting abbiano utilizzato questo titolo.
Più che entrare nel merito dei contenuti, cosa che faranno i nostri ospiti, vorrei presentarveli: due di loro vengono dall’università di Notre Dame negli USA, e Jean Vanier, che non è potuto venire di persona però ci ha regalato questa intervista registrata. Non sono persone che abbiamo chiamato come esperti perché nel mondo lo sono sotto il profilo teorico, culturale, pratico dell’impegno sociale, ma perché hanno un rapporto consolidato con la realtà del Meeting. Jean Vanier ci è stato già molti anni fa e i professori Carter Snead, alla mia sinistra, e la professoressa Mary O’Callaghan del centro per l’Etica e la Cultura – lo dico in italiano, così facciamo prima -, dell’università di Notre Dame, hanno con noi una collaborazione. Si tratta quindi di un dialogo in corso tra persone, tra istituzioni che condividono un pezzo importante di strada. Presento brevemente i personaggi: Orlando Carter Snead viene al Meeting per la sesta volta. Se qualcuno ancora non sa chi è, apra le orecchie: adesso è mega esperto di bioetica, docente di materie che incrociano l’etica con la medicina, la biotecnologia con le scienze umane. Quindi, si occupa di tematiche centrali per le prospettive della realtà umana oggi. E’ consulente di organi governativi statali e federali, docente e con una ricchissima attività pubblicistica e scientifica di libri e articoli: un applauso per lui.
Adesso invece l’applauso lo facciamo, anche più forte, per la professoressa Mary O’Callaghan, perché è la prima volta, quindi un’amicizia che nasce. La sua specializzazione è soprattutto di taglio psicologico, è docente, ha svolto ricerche sul campo, anche per conto dell’istituto statale nazionale della Sanità, per quanto riguarda la disabilità, il ritardo mentale e in particolare la sindrome di Down, sia sotto il profilo dello studio teorico che sotto il profilo dell’impegno personale e anche dell’impegno diretto, perché dei suoi cinque figli, uno ha questa sindrome. Capite che affronta il problema vivendolo in primissima persona, e quindi applausone. Adesso mi taccio, il tema della disabilità non lo affronteremo come se fossimo degli illustri clinici o semplicemente dei grandi pensatori ma con uno sforzo di approfondimento culturale, attraverso l’incontro con delle esperienze e degli impegni. Perché è evidente che il tu non è quello che ognuno di noi ha programmato, il tu è quello che ti viene incontro e che ti prende anche di contropiede. La parola al professor Orlando Carter Snead, grazie.

ORLANDO CARTER SNEAD:
Grazie mille, è un grande piacere per me essere a Rimini, con così tanti amici, inclusi i 2000 volontari che fanno del Meeting uno dei punti cardinali più interessanti e importanti del mondo. Vengo al Meeting dal 2008, questo è il secondo anno di collaborazione ufficiale tra il Meeting e l’università di Notre Dame, il centro di Etica e Cultura che ho il privilegio di dirigere. Siamo veramente lieti e onorati di collaborare con i nostri amici del Meeting. Quando sono venuto a conoscenza del tema di quest’anno, “Tu sei un bene per me”, sono rimasto colpito dalla sua ricchezza e dalla sua profondità. Come Papa Francesco ha scritto nel suo messaggio al Meeting, questo tema cattura profondamente la verità profonda della nostra identità e della interdipendenza reciproca che noi condividiamo. E poi, riflettendoci, mi sono reso conto che l’argomento più interessante per esplorare questo tema è proprio il contesto delle persone con disabilità. Quindi vorrei esaminare come la legge della bioetica pubblica possa insegnare e riflettere la grande verità che le persone con disabilità, nate o ancora non nate, sono un bene per noi e meritano il nostro amore e la nostra protezione. Più nello specifico, vorrei analizzare il modo in cui la bioetica pubblica può promuovere la virtù della misericordia rispetto alle disabilità mentali, in particolare nei bambini non ancora nati. E posso dire che questa virtù è molto, molto necessaria in un mondo che non riesce a cogliere la verità che un bambino con disabilità è un bene per noi. Il fatto nudo e crudo è che un bambino disabile non nato è molto spesso un obiettivo di distruzione su vasta scala. Vi faccio un esempio: è stato scritto che la Danimarca punta a non avere più bambini affetti da sindrome di Down entro il 2030. E come pensa di raggiungere questo obiettivo? Identificando questi bambini affetti da sindrome di Down quando ancora sono nel ventre materno e distruggendoli con l’aborto. Questo è un Paese con un deficit letale di misericordia. Quindi, il mio obiettivo questa sera è cercare di capire come la legge possa correggere questo terribile fraintendimento ed insegnare il fatto che un bambino con disabilità è un bene per noi che va curato, protetto. Procederò come sempre: prima cercherò di dare una definizione breve della virtù della misericordia, suggerirò due, tre condizioni importanti per la pratica della misericordia, poi spiegherò brevemente il ruolo della legge nel riflettere e insegnare il bene etico e le virtù che animano le azioni individuali e sociali. Così come viene rappresentata oggi dalla legge americana, la bioetica pubblica non riflette né insegna la verità della misericordia in un bambino di fatto non nato; al contrario, insegna falsità molto pericolose su chi siamo e su quello che ciascuno di noi deve agli altri, e oscura, invece che chiarire, la nostra capacità di vedere la realtà degli altri che sono un bene per noi, verso cui abbiamo un dovere di cura e protezione. La bioetica pubblica è quindi una minaccia alla misericordia, una minaccia per i bambini disabili non ancora nati. Ricondurrò la riflessione sulla verità di chi siamo e su cosa ciascuno di noi debba al prossimo. Vi darò anche qualche esempio pratico di come la legge possa promuovere la virtù della misericordia verso i bambini disabili non ancora nati e riflettere la verità che rappresenta per noi un bene al quale ci dobbiamo avvicinare.
Cominciamo con questo interrogativo: cos’è la misericordia? Come i filosofi O’Callaghan e McInerny scrissero, la misericordia è una virtù che consente di soffrire con gli altri e di agire per alleviare questa sofferenza negli altri. Assomiglia quindi alla giustizia, che influisce sul bene dell’altro, ma allo stesso tempo è diversa dalla giustizia, perché deriva dall’amicizia naturale che lega tutti gli esseri umani e fa sì che ciascuno faccia proprio il dolore degli altri. È una virtù che nasce dal fatto che il prossimo, l’altro, è un amico naturale, un bene per noi che ha diritto al nostro appoggio e al nostro amore. L’incontro con i nostri fratelli e sorelle disabili ci offre un’importantissima opportunità di mettere in pratica questa virtù: soffrire con loro, condividere il loro fardello, così come Dio stesso ha fatto incarnandosi in Gesù Cristo e garantendoci la salvezza. Ci sono due pre-condizioni necessarie per la pratica della misericordia nei confronti dei bambini disabili non ancora nati: innanzitutto un’antropologia morale vera, vale a dire una vera comprensione della natura delle persone e del benessere umano. Secondo punto, un’immaginazione ben strutturata che ci consenta di vedere chiaramente l’intera comunità delle persone, al di là di quelle che la beata, presto santa madre Teresa di Calcutta, descrive come travestimenti inquietanti.
Allora, come può la legge della bioetica pubblica promuovere la virtù della misericordia e le sue pre-condizioni? Innanzitutto va detto che la legge di per sé rappresenta uno strumento fondamentale per promuovere il bene etico: la legge riflette il bene che la società cerca di raggiungere ed il male che cerca di evitare. In questo modo, la legge è depositaria dei sistemi normativi del sistema. La legge riflette i lati morali del concetto di giustizia di un popolo. In secondo luogo, nel bene e nel male, la legge insegna, forma e costituisce gli impegni morali condivisi di una società. Come ha detto un giurista americano, “la legge è il maestro onnipresente”. Questo vale soprattutto per la parte della legge che noi chiamiamo bioetica pubblica, che è l’amministrazione della legge, della scienza della medicina che ricade sotto la bioetica. Ora arriva la cattiva notizia: così come viene praticata oggi in America e in Europa, la bioetica pubblica non promuove la misericordia per i bambini disabili non ancora nati, al contrario, la ostacola. Perché? Perché attualmente la bioetica pubblica americana ed europea riflette e insegna falsità sulle persone, sul benessere umano e oscura, invece di chiarire, la nostra immaginazione. In altre parole, la bioetica pubblica in America e in Europa soffre a causa di un’antropologia morale falsa e di una visione morale miope.
Una breve riflessione sulla bioetica pubblica relativa alla contraccezione. E’ stata approvata nel 1960: per la prima volta nella storia, la biotecnologia sotto forma di farmaco consentì la separazione del sesso dalla procreazione e poco dopo la Corte Suprema degli Stati Uniti ha dichiarato il diritto costituzionale alla contraccezione in nome della privacy. Da allora, la legge ci ha insegnato che la contraccezione è un meccanismo di liberazione, il controllo delle facoltà sessuali come forma di espressione dell’io. Questo è chiaro nelle pubblicità della contraccezione orale, come vedete qui nella slide, nel paragone tra il concepimento, la nascita e la crescita del bambino, e l’hobby del violoncello o della fotografia. Questa argomentazione ha le sue origini nell’autonomia sessuale e sta anche alla base degli sforzi di imporre alle sanzioni religiose di andare contro i loro più profondi convincimenti e facilitare l’accesso ai contraccettivi e agli abortivi. Lo stesso si può dire anche nell’ambito della fecondazione in vitro, che ha dato all’uomo un nuovo potere di concepire un essere umano al di fuori del corpo della madre. Quindi, se la pillola consente il sesso senza la procreazione, la fecondazione in vitro consente la procreazione senza sesso. Si tratta di aprire la porta a nuove forme di strumentalizzazione della vita umana, tra cui lo scrigno genetico, la selezione per quanto riguarda i tratti del nascituro, la clonazione umana, la scelta del sesso, fino ad arrivare all’ingegneria genetica dei bambini fatti su misura. Ha quindi reso possibile la mercificazione della procreazione, inclusa la pratica commerciale delle madri surrogate dove i bambini, spesso, sono visti come dei prodotti, possono essere restituiti se difettosi, come è accaduto nel caso di una coppia australiana che aveva chiesto alla madre surrogata di abortire perché il bambino era affetto da sindrome di Down. Grazie a Dio, la madre surrogata si è rifiutata di abortire e sta ora crescendo il bambino.
L’antropologia umana della fecondazione in vitro, disegnata e riflessa nella bioetica americana, è evidente nelle parole di due importanti figure di questo settore. Il professore John Robertson, ex-Presidente del comitato etico della più importante società professionale per la fecondazione assistita in America, ha scritto: “La scelta di procedere alla procreazione o di evitarla è fondamentale per l’autodefinizione, per il raggiungimento dei propri obbiettivi e per l’espressione dell’io”. Il dottor Gerald Schatten, allo stesso modo, ha detto di fronte al Consiglio della Bioetica degli Stati Uniti che il motivo della riproduzione assistita è quello di aiutare i genitori a realizzare il proprio sogno di una progenie sana. Gli stessi principi antropologici possono essere visti nel contesto dell’aborto. Le argomentazioni etiche preminenti per l’aborto includono un progetto molto delicato di stato di persona, una interpretazione troppo ampia del concetto di libertà, e una nozione corrotta di uguaglianza. Un bambino non nato, che è ancora nel grembo della madre, o l’embrione nei laboratori di fecondazione in vitro non contano come persone con dei diritti perché ancora non hanno queste capacità attive, anche se sono membri viventi della nostra specie che, se verrà loro consentito di farlo, sapranno sviluppare queste capacità a tempo debito. In secondo piano, i sostenitori dell’aborto ritengono che le donne dovrebbero avere la libertà di scegliere di eliminare il proprio figlio, quando ancora non è nato, se rappresenta un ostacolo alla realizzazione dei proprio obbiettivi economici e sociali. In questo modo sarebbero quindi sullo stesso piano degli uomini che non hanno l’ostacolo di una gravidanza indesiderata.
Ecco, si ritiene quindi che non ci siano obblighi naturali: la bioetica pubblica dell’aborto in America riflette questa concezione falsa e inutile del benessere delle persone per cui c’è un diritto quasi assoluto all’aborto per tutti e nove i mesi della gravidanza, in nome della libertà e dell’uguaglianza. Ora, se vogliamo mettere insieme tutti questi elementi, vediamo che la bioetica pubblica all’inizio della vita riflette ed insegna un’antropologia morale disumana dell’individualismo espressivo più radicale. Quindi, la persona viene concepita come un individuo definito solo e unicamente dalla propria volontà, il suo corpo è uno strumento per perseguire i progetti della sua volontà. In questo modo, la persona viene vista soltanto come soggetto consumatore di cose, di beni, un’entità che può fare delle scelte. Il perseguimento degli obbiettivi della volontà, non limitato dalla natura, viene visto come la forma più elevata del benessere umano. Le relazioni personali vengono viste attraverso questa stessa lente, sono strumentali, prendono la forma di contratti per il vantaggio reciproco e non esistono obblighi se non quelli scelti volontariamente. Le altre volontà vengono viste come volontà che possono collaborare se utili, altrimenti come avversari ed ostacoli da superare nel perseguimento dei nostri obbiettivi. L’autonomia è la chiave che anima il bene etico a cui tutti gli uomini sono subordinati. Tutte le cose imposte dalla natura sono un limite all’espressione di un io libero da oneri. I bambini e le famiglie sono visti in modo strumentale, come l’espressione e l’incarnazione della nostra volontà; sono un contenitore nel quale riversiamo i nostri desideri, un prodotto che può essere accettato o restituito a seconda che sia conforme o meno ai criteri che derivano dai nostri progetti. E quindi, i limiti della comunità delle persone sono definiti proprio in base a questa visione di individualismo radicale. Coloro che possono fare un programma e perseguire un obbiettivo sono visti come persone, coloro che non lo sanno fare sono considerati non persone, che possono essere distrutte a vantaggio degli altri. Non solo la bioetica pubblica insegna un’antropologia morale sbagliata, ma va anche ad oscurare la nostra immaginazione morale, privilegiando i progetti della volontà sopra ogni altro bene e impedendoci di vedere la comunità delle persone nella sua interezza.
Come quell’uomo che aveva perso le chiavi di notte e le cercava solo lì perché solo lì c’era luce, la bioetica pubblica moderna ci porta a guardare e a cercare i nostri fratelli e le nostre sorelle soltanto tra quelle persone che hanno la capacità attiva di creazione, di invenzione. Questo porta ad un mondo in cui il 90% dei nostri fratelli e sorelle disabili vengono uccisi nel ventre della madre e la consulenza genetica diventa lo strumento corrotto e letale di questa distruzione. Ecco, questo è un quadro veramente oscuro. Ma la buona notizia è che questa immagine deformata e falsa dell’uomo come radicalmente solo, consumatore di cose e beni, che persegue i proprio obbiettivi, non può sostenere il confronto con la vera identità dell’uomo, con la sua dignità inalienabile, intrinseca, che vive in solidarietà con gli altri in una condizione di dipendenza reciproca, con obblighi che legano ciascuno di noi al nostro prossimo. La bioetica pubblica, se interpretata in modo corretto, può riflettere e insegnare queste verità. Può insegnare che ogni essere umano ha una dignità uguale a quella del suo prossimo. Ogni essere umano è prezioso, indipendentemente dalla sua età, dal luogo in cui è nato, dalla razza, dal sesso, dal fatto che possa essere utile o di peso agli altri, a seconda che abbia o non abbia determinate caratteristiche e doti fisiche e mentali. E per contro, un’antropologia morale adeguata ci fa comprendere che è incoerente dal punto di vista morale, è un’ ingiustizia, escludere dal circolo delle persone e dalla protezione della legge coloro che sono più piccoli, meno maturi, dipendenti o incapaci di una cognizione di alto livello. La bioetica pubblica ben strutturata può riflettere ed insegnare la verità secondo la quale l’unico concetto coerente di uguaglianza impone che non ci siano pre-persone o post-persone, tutti gli esseri umani sono persone, dal concepimento alla morte naturale. Per quanto riguarda la nostra vita in comune, la bioetica pubblica può insegnare e riflettere che noi arriviamo al mondo già in relazione con gli altri, con dei legami forti con il passato, il presente e il futuro. Noi non arriviamo nel mondo come individui slegati dagli altri membri della comunità umana, non arriviamo come volontà incorporee ma come organismi viventi bisognosi e vulnerabili. Fin dal principio, noi dipendiamo dalla beneficenza degli altri per sopravvivere e questo chiaramente è un obbligo che noi abbiamo nei confronti di tutto, della nostra famiglia umana, soprattutto dei più deboli e dei più vulnerabili, in particolare i bambini. La bioetica pubblica, se ben strutturata, può perseguire questo obbiettivo e migliorare l’immaginazione morale. L’ingiustizia nella bioetica pubblica è data dall’incapacità o dal rifiuto di riconoscere ciò che non vediamo, è l’incapacità dei genitori di riconoscere il proprio figlio, del medico di riconoscere il proprio paziente e della società di riconoscere i propri membri. È più radicale dell’incapacità di amare il nostro prossimo come noi stessi, è proprio l’incapacità di riconoscere il nostro prossimo in quanto tale. Così come non riconosciamo, non vogliamo vedere i senza tetto, i profughi, gli affamati e le vittime delle catastrofi naturali, allo stesso modo non vediamo le nostre sorelle e i nostri fratelli negli embrioni dei laboratori, nei feti delle madri.
La legge può essere migliorata in modo che possiamo finalmente vedere e riconoscere, per soffrire insieme a loro, i nostri fratelli e sorelle disabili, nati e non ancora nati. Ci sono in effetti alcune iniziative concrete in questo senso, soprattutto per quanto riguarda la tutela giuridica, come per esempio il diritto all’aborto sulle basi della disabilità ed un consenso informato che consente di capire e di trasmettere beni a disabili mentali. La legge può anche riflettere ed insegnare la verità sui nostri fratelli disabili ancora non nati, facilitando l’accesso ad una assistenza prenatale, così come la mia collega Mary O’Callaghan avrà modo di dire. La legge può fornire condizioni di base per soggetti della società civile che possono dare il loro contributo per coloro che soffrono di disabilità. E qui penso alla comunità dell’Arche, ad esempio. In questo modo, la legge può essere uno strumento di misericordia, che riflette ed insegna la verità di cui il Santo Padre si fa continuamente testimone in questo Anno di Misericordia divina: cioè che i nostri fratelli disabili, nati e non ancora nati, sono per noi un bene e meritano di essere amati e protetti. Grazie.

MAURIZIO VITALI:
ringrazio il professore Carter Snead per la chiarezza con cui ha esposto queste idee, che sono più che idee, e per la connessione che ha fatto, così persuasiva dal mio punto di vista, tra la misericordia come posizione che avvicina alla verità, alla vera umanità e la cattiva bioetica come qualcosa che allontana da un riconoscimento dell’uomo, distruttiva per l’uomo. La chiarezza con cui ha fatto questi passaggi mi ha veramente colpito e lo ringrazio. E ora proseguiamo nella direzione di questi pensieri, di queste esperienze, dando la parola alla professoressa Mary O’Callaghan. Prego.

MARY O’CALLAGHAN:
Buonasera, è bellissimo essere qui con voi. Mio marito ed io abbiamo incontrato il movimento 25 anni fa alla Notre Dame e ci siamo sempre sentiti a casa con Cl, quindi, grazie davvero di cuore per questo invito. Questa sessione ha un tema, un’impostazione che si basa sulle idee di Jean Vanier. Ebbene, forse sono idee particolari, tra coloro che scrivono sulla disabilità, perché non scaturiscono da una riflessione teologica astratta ma dall’esperienza vissuta da qualcuno che per 50 anni ha condiviso la sua casa e la sua comunità con chi era affetto da disabilità. Questa idea che possiamo incontrare la verità nell’amicizia di una vita vissuta insieme non è nuova. La vediamo sin dall’inizio della cristianità, dalla chiamata di Cristo agli apostoli, e non ho nemmeno bisogno di dirvi che questa visione dell’amicizia determina anche il carisma di Cl, è l’amicizia che si cerca negli amici. Anche questo è qualcosa di non astratto, perché è una verità che si incarna in Cristo stesso. Ma quello che è radicale nell’approccio, nella proposta di Vanier, è il fatto che si parli di un’amicizia con individui che potrebbero apparire diversi, addirittura suscitare paura, allontanamento, e che non sembrano nemmeno in grado di corrispondere a questa amicizia. Si tratta di persone affette da disabilità cognitive spesso profonde, con tutto quello che ne consegue. Si tratta di persone da cui non siamo spontaneamente attratti. Pensate alla parole di Gerald Hopkins che ci dice: “…poiché Cristo gioca in diecimila luoghi, bello nelle membra, e bello in occhi non suoi, per il padre nei lineamenti del volto dell’uomo”.
Vanier ci chiede di considerare l’amicizia con coloro le cui le membra, i cui occhi, di primo acchito, al primo sguardo, potrebbero sembrare non belli. Quello che invece Vanier ci propone è una chiamata radicale alla misericordia. Quello che ci propone è molto diverso, è qualcosa di cui aveva già parlato Tommaso d’Aquino nel suo concetto di misericordia, di cui ci ha parlato anche Papa Francesco, a proposito del povero, del carcerato e del malato. Ebbene, la risposta di Vanier alla sofferenza è andare a vivere con persone con disabilità cognitive: così è nato il movimento dell’Arca. L’Arca crea comunità centrate su adulti con disabilità, persone che sono state abbandonate o altre che hanno persone anziane intorno che non possono più occuparsi di loro, o persone che hanno lasciato volontariamente la famiglia per cercare una comunità di amici. Vanier parla di comunità che si formano e si basano su una nuova forma di famiglia. Queste nuove famiglie sono comunità composte da persone con disabilità cognitive ma anche persone senza disabilità che decidono di vivere con loro. Il lavoro di Vanier non forma una teologia della disabilità ma si basa su riflessioni sulla disabilità nella relazione, se volete. Riflette sui frutti del vivere questa vita di misericordia radicale con i disabili della comunità dell’Arca.
Quello che vorrei fare questa sera è considerare come il suo approccio e le sue idee ci permettono di considerare il contributo che danno questi disabili a queste nuove famiglie. E, allo stesso modo, di pensare come questi bambini con disabilità, possono arricchire la vita delle loro famiglie. Possiamo quindi concentrarci sulla bellezza della comunità dell’Arca, anche se spesso ci dimentichiamo che la maggior parte delle persone affette da disabilità nascono in famiglie tradizionali. E la famiglia è la prima forma di comunità. Lo dico senza nulla togliere ad una comunità come quella dell’Arca, ma semplicemente perché oggi abbiamo un disperato bisogno di capire. E i doni che queste persone disabili portano alla famiglie é sicuramente uno dei temi centrali di Vanier: colui che riesce a stringere un’amicizia con una persona disabile riceve il più grande dei doni. Ebbene, questa cosa accade a un punto tale che Vanier, in uno dei suoi testi, Occuparsi dello sconosciuto, scrive che Dio parla ad un non disabile che arriva all’Arca, dicendo: “Io non ti ho chiamato qui perché c’è bisogno di generosità o di efficienza, ti ho chiamato qui perché il regno di Dio è promesso proprio ai poveri, e qui sei venuto perché sei povero”. Se Dio rivolge la sua chiamata ai non disabili perché vadano all’Arca, è perché vuole che ci sia un arricchimento della loro povertà. Ovviamente, non è che desideri direttamente la sofferenza associata con la disabilità: desidera che la disabilità diventi l’occasione per un grande dono alla famiglia. Un dono che non si basa sul merito ma sul fatto che siamo imperfetti e che abbiamo bisogno di redenzione. Ebbene, dovrebbe rattristarci il fatto che la maggior parte del mondo non apprezza questi bambini come doni, salvo rare eccezioni. In alcuni Paesi ci sono forme di abbandono come, ad esempio, quelle che vedono la maggior parte dei bambini affetti da sindrome di Down messi in istituti. Nella maggior parte delle nazioni occidentali, ci sono pratiche abortive, un rifiuto di coloro che hanno qualche disabilità. E questo ha assunto forme estreme. Negli Stati Uniti si pensa che tra il 70% e il 99% dei nascituri sia oggetto di diagnosi prenatale e di aborto, e questi tassi si mantengono costanti. Malgrado queste percentuali così alte, non abbiamo ancora capito il potenziale gravissimo di distruzione della vita. Ad esempio, si pensa che un aumento degli esami del sangue non invasivi per le anomalie fetali possa portare il numero dei test annuali degli Stati Uniti da centomila a tre milioni all’anno, un aumento di trenta volte.
Contemporaneamente, l’evoluzione di nuove tecnologie, come il sequenziamento completo del Dna, porterà alla diagnosi di disturbi prenatali. Se quindi le percentuali di aborto per la sindrome di Down e altri disturbi rimangono gli stessi, purtroppo si arriverà ad un aumento dei nascituri eliminati a livelli devastanti.
E quindi, dobbiamo considerare che sono questi progressi, per così dire, che permettono nei paesi come la Danimarca di affermare che si pensa di eliminare la sindrome di Down entro il 2030. Questa è una gravissima ingiustizia. Una forma assoluta di discriminazione.
In un momento in cui il mondo sembra sordo alle rivendicazioni di giustizia in questo campo, il lavoro di Vanier, la sua stessa vita sono un appello a ritornare alla misericordia, per quello che ci può insegnare, ma soprattutto ad accettare la misericordia come un atto che ci avvicina a questi bambini. Questo concetto di persone che vivono con persone con disabilità come doni ci deve invitare a capire che dobbiamo curare la nostra imperfezione, condividendo la vita con queste persone perché sono loro che possono suscitare qualcosa nel nostro cuore. Se Vanier dice la verità, le sue parole dovrebbero tormentarci, dovremmo essere tormentati da quello che perdiamo se perdiamo di vista questi bambini. Dovremmo essere anche tormentati dai genitori, dalle famiglie che, invece, non prendono coscienza della loro imperfezione, della perdita di questi doni. Non dovrebbe sorprenderci il fatto che le donne che vivono un’esperienza di aborto dopo questo tipo di diagnosi sono più incline a sviluppare disturbi da stress post-traumatico rispetto a donne che si sottopongono all’aborto per altre ragioni. Ma dovremmo anche cercare di capire la bellezza straordinaria di questi doni, perché è così che Cristo ci viene incontro, per incontrarci nella nostra miseria. E lo fa nella persona di questi esseri, di questi bambini che sembrano così piccoli e fragili. E ci incoraggia ad aiutarli.
Vorrei affrontare adesso alcuni temi che riguardano il lavoro di Vanier, per illustrare i modi con cui questi bambini con disabilità sono accolti nelle famiglie e possono trasformare radicalmente i loro genitori e le intere famiglie. Nel lavoro di Vanier, uno dei temi centrali è quello del rapporto tra l’individuo con disabilità e l’insegnante. Ovviamente non si parla di istruzione formale, nemmeno di principi astratti trasmessi in modo organizzato: si parla di un insegnamento che si basa sull’esperienza vissuta e che riguarda quindi proprio una sorta di conversione dell’io. Voglio essere chiara sul fatto che non si può imparare da queste persone semplicemente guardandole, che questa trasformazione non avviene osservando dall’esterno le famiglie che hanno questi bambini, perché dall’esterno si rischia di essere distratti solo dalle difficoltà o dalla sofferenza associata a questa vita. Ad esempio, non molto tempo fa ho letto la testimonianza di una donna che aveva deciso di abortire perché al suo nascituro era stata diagnosticata la sindrome di Down. Ebbene, la donna raccontava di avere preso quella terribile decisione vedendo una famiglia al ristorante con un bimbo affetto dalla sindrome di Down che veniva imboccato. Questa lettura mi ha toccato da vicino perché noi stiamo svezzando mio figlio da un sondino alimentare e quindi lo alimentiamo imboccandolo, pulendogli il viso. Mi chiedo se qualcuno che ha visto dall’esterno questa scena possa aver pensato che quella vita non valeva la pena di essere vissuta. Io capisco che dall’esterno, dalla prospettiva di questa donna, questa vita può sembrare complicata e difficile ma mio marito ed io, i miei figli, abbiamo un punto di vista diverso, quello della vita condivisa. E devo dire che il nostro bambino era stato sottoposto al sondino prima di essere sottoposto ad un intervento a cuore aperto. E quindi per noi è già una conquista poterlo imboccare, perché per lungo tempo non abbiamo potuto farlo. Speriamo che un giorno possa tornare a mangiare da solo ma intanto questo è già un grande passo avanti, questo piccolo gesto fa parte di quel tessuto che è la nostra vita insieme. Se quella donna che aveva scelto di abortire avesse magari parlato con la famiglia che aveva visto al ristorante, forse avrebbe capito il valore delle persone con disabilità, il ruolo che svolgono nelle famiglie. E forse avrebbe capito il senso di queste parole: “Venite a vedere”.
Qual è la ricchezza ha portato nella nostra famiglia mio figlio? Cosa ci ha insegnato? In generale, questi bambini con disabilità insegnano tantissimo alle loro famiglie. Innanzitutto, il loro stesso esistere è un dono poiché questi bambini portano davvero tantissimo alle loro famiglie. Vanier ha notato che altri figli che, nella stessa famiglia, vivono questa esperienza, sviluppano naturalmente una tendenza ad occuparsi degli altri, all’accudimento. Anche perché questi bambini affetti da disabilità non si curano della posizione o dello status sociale di chi li circonda, ma vivono il presente, vivono il momento. Sono davvero una fonte di gioia e di amicizia. E questo vale anche per me. Lo vedo con mio figlio Tommy che tutti i giorni ci chiede: “Sei felice? Siete felici?”. Questi bambini ci insegnano virtù come la compassione, la pazienza, il sacrificio. Abbiamo notato che i fratelli e le sorelle di questi bambini affetti dalla sindrome di Down hanno una tendenza naturale ad occuparsi di più degli altri. E lo vedo, ad esempio, anche in mio figlio Danny: sono molto contenta che lui abbia sviluppato queste qualità, e non perché noi gliele abbiamo insegnate.
Credo che questo riprenda quello che ha detto Papa Giovanni Paolo II nella Familiaris Consortio, quando ha scritto che ogni membro di famiglia ha la grazia e la responsabilità di costruire giorno per giorno una comunità di persone, rendendo la famiglia stessa una scuola di umanità profonda. Credo che davvero sia la migliore testimonianza di come la vicinanza di queste persone sia un dono, poiché ci permette ogni giorno di condividere l’altro come bene per la gioia che ci dà e anche per le preoccupazioni. Mio figlio Tommy, per la sua stessa esistenza, è per noi un grande bene e la nostra vita con lui ci arricchisce umanamente. È chiaro comunque che questa scuola di umanità che è la vita con un bambino affetto da disabilità sicuramente va al di là dello sviluppare particolari virtù umane. Vivere con un bambino di questo tipo ci richiama ad una maggiore vicinanza con il cuore di Dio. Amare un bambino che ha anomalie fisiche oppure comportamenti che possono sembrare disturbanti, e bene, è qualcosa di profondo. Io ho un amico che ha fondato un programma per il Natale cattolico di un hospice chiamato Non abbiate paura e lavora a stretto contatto con genitori che hanno bambini fragili o affetti da gravi disabilità. Queste disabilità sono spesso accompagnate da malformazioni fisiche oppure da sembianze difficili da accettare. E c’è tutto un percorso particolare per aiutare i genitori ad affrontare questa circostanza. E quindi si cerca anche di far capire ai genitori che lo sguardo che avranno sul bambino sarà simile a quello di Dio che ci guarda. Se guardiamo come le madri guardano questi figli, vedrete effettivamente che Cristo gioca in diecimila luoghi: bello nelle membra e bello negli occhi non suoi.
Ebbene, mio figlio mi toglie il fiato per la sua bellezza, ma vivere con lui mi ha fatto aprire gli occhi sulla bellezza di altre persone come lui, persone che hanno tantissima bellezza da condividere. Ancora di più, amare un bambino così vulnerabile e fragile in tutta la sua bellezza rende l’amore infinito di Dio un fatto ancora più concreto. Questo fatto ci avvicina anche al cuore, all’essenza del lavoro di Vanier: al paradosso che è proprio il maggiore dei doni vivere con queste persone che sembrano più deboli ma che in realtà ci fanno rendere conto della nostra debolezza. In un mondo in cui valori come la forza e il potere sembrano dominanti, come ci può attirare questa idea di vivere la vita con persone affette da disabilità? Ebbene, la risposta è che noi in realtà possiamo prendere coscienza della nostra debolezza, della nostra imperfezione; noi abbiamo tutto da imparare… Un teologo tedesco che perse la vita a causa della sua resistenza, dell’opposizione ai nazisti, disse che nelle nostre vite tutto dipendeva sempre dal rispondere ad una domanda: qual è il significato di debolezza? Ebbene, tutto dipende dalla risposta che si dà a questa domanda. Poiché la debolezza è là dove riconosciamo il nostro bisogno di Cristo. Questa è la risposta: noi riconosciamo il bisogno di Cristo nella nostra debolezza. E quindi dobbiamo semplicemente ripensare alle parole del suo messaggio: “Qualunque cosa abbiate fatto ai più piccoli, l’avete fatta a me”. Se accettiamo, come dice Vanier, che le persone con disabilità, così come il povero di cui parla Gesù, rappresentano il modo che abbiamo per riconoscere il nostro bisogno di Cristo, il fatto che lo possiamo incontrare nelle persone che accogliamo, e quindi nel bambino con disabilità, porta un grande dono alla famiglia, la misericordia di Dio incarnato, Cristo stesso. E questo è davvero tutto. Grazie.

MAURIZIO VITALI:
La ringrazio molto, Miss Mary, a nome di tutti, intanto per il garbo che ha avuto nel valorizzare Jean Vanier e per la capacità di collegare veramente in profondità l’intenzione dell’esperienza del Meeting, l’esperienza di Jean Vanier, la sua riflessione, la sua vita, il suo impegno, il suo sacrificio personale. Io mi sono annotato delle cose che voglio dirvi brevemente per dare un senso al mestiere di chairman che svolgo qui. L’altro, il disabile, insegna e converte me, è qualcosa che mi fa crescere. L’altro è un bene per me. Seconda cosa, la grande apertura in Vanier, nella sua famiglia, nelle esperienze di accoglienza, il grande dialogo, la grande accettazione dell’altro, non nascono mai da un’insicurezza di sé ma da una certezza, da un’identità che però, com’è nella concezione che il Meeting vuole proporre quest’anno, non è una definizione astratta, a priori, è un’esperienza. La solidità del soggetto e la sua capacità di apertura nasce da un’esperienza e questo fa fare un cammino con l’altro. Il Meeting di quest’anno vuole essere l’offerta di un cammino insieme, non di un’identità chiusa che si accontenta di sbattersi di fronte all’altro. E la testimonianza di questa sera mi sembra eccellente. L’ultima parola che voglio sottolineare è bellezza, c’era anche nell’intervento del prof. Carter Snead, nell’intervento della prof. Mary O’Callaghan: ciò che mobilita non è un accanimento per affermare o semplicemente per contrastare ciò che non va fatto. E’ la domanda che l’uomo ha dentro di bellezza, la bellezza del disabile, la bellezza di quel bambino che è stupendo, bellissimo. Vorrei tranquillizzarvi: questa è già la mia sintesi, non ne farò una ulteriore, non ho vocazioni omiletiche. La ringrazio anche perché meglio di così Vanier non poteva essere introdotto dai nostri due ospiti. E adesso, vediamo l’intervista che abbiamo registrato.

PROIEZIONE INTERVISTA VIDEO

Signor Vanier, l’Arche è nata dal suo incontro personale, 50 anni fa, con Raphaël e Philippe, due uomini con disabilità mentale, ha scelto di condividere la sua vita con loro. penso quindi che il titolo del Meeting di quest’anno, “Tu sei un bene per me”, possa ben descrivere il filo conduttore della sua vita. E’ così?

JEAN VANIER:
Sì, è vero, ed è vero che Raphaël e Philippe erano un bene per me. Avevo lasciato la Marina per seguire Gesù, avevo l’impressione che Gesù volesse che io vivessi con i poveri, che fosse questo il Vangelo: vivere con, incontrarsi. Avevo incontrato Raphaël e Philippe in un istituto: troppa gente, violenza, chiusi a chiave, nessun lavoro, due dormitori da 40 persone, ecc. Sono rimasto scioccato. C’era qualcosa di molto violento, le persone con un handicap erano considerate senza importanza. Bisogna dire che nel Vangelo di Giovanni i discepoli chiedono a Gesù, davanti a un uomo nato cieco: “Chi ha peccato? Lui? O i suoi genitori, che sono causa del suo handicap?”. Nei tempi antichi, molti pensavano che la disabilità fosse una punizione di Dio e una vergogna per i genitori. Quello che io posso dire è che stare con Raphaël e Philippe era un bene per me: erano talmente felici di lasciare l’istituto… La mia casa era piccola, sistemavamo la cucina insieme, facevamo tutto insieme, la spesa, la cena. Mangiavamo insieme. Gesù dice: “Quando offrite un pranzo, non invitate i membri della vostra famiglia, non invitate i ricchi, non invitate gli amici. Quando offrite un buon pranzo invitate i poveri, gli storpi, gli infermi e i ciechi. E sarete molto felici”. È una beatitudine! E che cos’è questa beatitudine? Mangiare insieme, nel pensiero biblico e nel pensiero di Aristotele, è diventare amico. Perciò: diventa amico dei mendicanti (infatti i poveri, gli storpi, i ciechi erano i mendicanti del tempo di Gesù). Diventa amico del povero e sarai cambiato. E’ straordinario. Posso fare l’esempio di Francesco d’Assisi. Uomo straordinario, Francesco d’Assisi! Verso i lebbrosi egli provava repulsione, poi un giorno lo spirito di Dio lo condusse a vivere con loro. Vi passò del tempo e al termine, quando partì, disse: “C’è una nuova dolcezza nel mio cuore e nel mio spirito”. Francesco d’Assisi è cambiato perché è diventato amico dei lebbrosi, ha scoperto che erano persone meravigliose, persone sofferenti, persone umiliate, persone escluse, persone che soffrivano perché erano state espulse dal loro villaggio e vivevano al bando. Ma Francesco dice che diventare loro amico lo ha cambiato. Allora direi che il lebbroso era un bene per Francesco e Raphaël e Philippe erano un grande bene per me. La persona che ha un handicap non vuole operazioni intellettuali, non discute di politica, di economia… Cosa vuole? Un amico. E questo è quello che Gesù vuole, vuole che siamo suoi amici. Potrei dire che Raphaël mi ha fatto scendere dalla mia testa al mio cuore, perché possiamo rimanere tutto il tempo nella testa: con la testa io so, faccio teologia, politica, filosofia. Io so! E posso insegnarvi. Ma la relazione è più difficile, è un incontro, bisogna che io aspetti che tu parli, è un momento di comunione. Sicché mi ha fatto scendere dalla mia testa al mio cuore e scoprire che l’unica cosa importante è la relazione. La relazione in cui rivelo a Philippe: “Tu sei bello, tu sei un figlio di Dio, sei qualcuno importante”. Mi piace dire: “Tu sei più importante di quanto non osi credere”, perché ognuno di noi è figlio di Dio. Possiamo essere un professore, una persona importante, possiamo essere come Raphaël o i lebbrosi, ma siamo tutti figli di Dio e aspettiamo che qualcuno ci dica: “Sono felice di incontrarti”.

L’altro è un bene, ma lei nella sua vita ha probabilmente sperimentato che l’altro può essere anche un problema o un fastidio. E dunque?

JEAN VANIER:
Qualche volta, magari anche molte volte, l’altro è un problema, un grande problema. Ad esempio, quelli che dicono che i disabili non valgono nulla, che sono dei deboli, che bisogna scartarli, abortirli, e così via. Questo mi ferisce. Ciononostante, quando le persone mi feriscono o non sono d’accordo con me, bisogna comunque ascoltarle, ascoltare la loro storia. Ognuno di noi ha la propria storia. Ci sono persone che hanno idee molto diverse, che rimangono nella testa e non scendono mai nel cuore. E’ un problema per me. Ma allo stesso tempo, bisogna che impari a comprenderli: hanno la loro storia, la loro cultura, hanno un’identità intellettuale, quindi possono molto facilmente rifiutare la persona con disabilità intellettuale. Gesù disse: “Ma io vi dico: amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, parlate bene di chi parla male di voi, pregate per coloro che vi perseguitano”. Quando ci sono persone che sono un problema bisogna dedicare loro del tempo, comprendere. Io ho la mia esperienza, forse prima di venire all’Arche sarei stato come loro. Sono cambiato grazie a un’esperienza, grazie al Vangelo, a Gesù, agli amici, ecc. Sono potuto cambiare, altri non sono cambiati. Ricordo che avevamo qui una psicologa e si parlava dell’importanza di guardare l’altro con benevolenza. Qualcuno ha detto “Ma come posso guardare con benevolenza, quando si tratta di jihadisti, di terroristi?”. E lei rispose semplicemente: “Hai pregato per loro?”. Tutte le persone, anche le più difficili, i nemici, sono figli di Dio. Gandhi ci ha insegnato un cammino di non-violenza: provare a comprendere l’altro, non ribattere con violenza “io ne so più di te”, provare a capire: e se ci sono persone che rifiutano i disabili, allora “Vieni, vieni a mangiare da noi! Scoprirai qualcosa”. Si tratta di aiutare le persone a vivere un’esperienza positiva. Nella mia vita ho reazioni negative ma voglio anche essere un discepolo di Gesù. Gesù ha accettato tutti e ama ogni persona: le sue ultime parole sono state: “Perdonali perché non sanno quello che fanno”. Come discepolo di Gesù, bisogna che io cambi, che io vada avanti, che io cerchi di capire, che io preghi: sono tante cose, è così!

L’attitudine all’accoglienza e all’incontro è insista nella sua dimensione personale. Ma nella vita quotidiana e concreta di una comunità, come si applica? L’Arche deve avvalersi anche di professionalità, non solo di amicizia.

JEAN VANIER:
Si vive con persone fragili, qualcuno ha grandi fragilità. Ad esempio abbiamo accolto qui circa 40 anni fa Ludovico. È piccolo di statura, non è cresciuto, ha una disabilità grave, non parla, non cammina. C’è voluto del tempo per imparare a comunicare con lui. Ludovico è un uomo dallo sguardo di una bellezza estrema, è molto bello. Bisogna imparare progressivamente a incontrare l’altro, è la nostra vita: mangiamo insieme, abbiamo degli atelier, lo stesso Ludovico ha il suo, delle attività… Certamente, ci sono dei farmaci, abbiamo medici e psicoterapeuti, tutte le figure professionali: ma l’essenziale è vivere insieme, mangiare insieme, gioire. Il cuore dell’Arche è l’incontro, una comunione che fa sì che ridiamo e piangiamo insieme. Ci sono i laboratori per le attività, certo, ma il centro è aiutare ognuno a scoprire che è più bello di quanto possa credere: non ha molte capacità intellettuali ma ha tante capacità del cuore. Gesù era colui che prendeva vicino a sé un bambino e i discepoli gli dicevano: “No, no”. Ma lui replicava: “Lasciate venire a me i bambini, chi accoglie un bambino accoglie me”. Ludovic ha 60 anni ma sotto tutti quegli anni c’è la capacità di un bambino. Un bambino nel corpo di un adulto. Dunque ci vogliono dei professionisti, bisogna curare, bisogna occuparsi, bisogna vegliare perché tutti possano fiorire, perché possano scoprire Gesù. Questo è straordinario. Gesù è qualcuno che semplicemente diventa mio amico, al punto che possiamo non chiamarlo il Cristo o il Signore, ma con il suo nome proprio, Gesù. Così Maria: è un cuore a cuore. Quindi, la nostra vita è semplice: lavoriamo, ridiamo: nella mia comunità siamo in 60 persone, alcune con gravi disabilità, altre meno gravi, ma siamo felici insieme, nelle piccole case che abitiamo.

Attualmente viviamo in un mondo dove ognuno sembra connesso con tutti gli altri, con la rete dei trasporti e con la rete Internet. Dunque io sono vicino a te. Ma allo stesso tempo vediamo costruire muri, ad esempio contro i migranti, e vediamo molta paura nei confronti degli altri. Cosa ne pensa?

JEAN VANIER:
Vi racconterò una storia. Sono stato in Cile qualche anno fa, per parlare del nostro movimento Foi et Lumière, dell’Arche, delle persone con disabilità… Sono venuti ad accogliermi all’aeroporto e mi hanno portato a Santiago. Lungo il percorso c’erano, a sinistra, le bidonville dei poveri, a destra, le case dei ricchi protette dai militari e dalla polizia. Nessuno attraversa quella strada, tutti hanno paura. Paura di cosa? Di venire ferito o di non fare carriera o di non essere amato, paura della sofferenza, paura dell’insicurezza economica, dei rifugiati, degli immigrati. Abbiamo sempre paura, anche di essere soli: c’è bisogno della comunità. La comunità è qualcosa di straordinario, è appartenere per divenire, appartenere a delle persone che mi amano… Ci amiamo e abbiamo una missione insieme, appartenere per divenire più umani, per scoprire l’importanza di perdonare, per accogliere persone che normalmente non accolgo. Perché tutti hanno paura di attraversare da soli la strada. Insieme possiamo farlo, mettendoci in contatto. Quindi bisogna che impariamo: “Si saprà che siete cristiani dall’amore che avete gli uni per gli altri”. Ecco che cos’è un cristiano. Questo comporta incontrare le persone, accoglierle e che le mie barriere interiori cadano. Come Francesco d’Assisi, tutte le sue paure sono cadute perché ha scoperto che il diverso era più bello di quanto immaginasse.

Quello che lei dice riguarda anche l’immigrazione, la questione odierna sui migranti?

JEAN VANIER:
Sì, i problemi dell’immigrazione, del rapporto con l’Islam, con gli anziani affetti da Alzheimer, con le persone in carcere, con tutti quelli che sono esclusi. Occorre dare del tempo per accogliere l’altro, il diverso che mi fa paura. È vero che c’è la paura! Ma stando insieme, nella comunità, le cose cambiano. Non siamo i migliori ma ognuno ha il suo dono che ci permette ad esempio di accogliere dei Ludovico o altri: ma lo facciamo insieme, ci sosteniamo in questo. Appartenere per diventare più liberi, perché cadano le mie paure e perché io mi scopra mosso dallo spirito di Dio e non dalle paure.

Per imparare e per cambiare noi stessi bisogna seguire delle buone esperienze e dei buoni e veri maestri. Chi possiamo seguire oggi per imparare e cambiare?

JEAN VANIER:
Dei grandi maestri… Io mi sento sempre molto vicino ai maestri che vivono con i poveri, penso alle Piccole Suore di Gesù. Mi ricordo di aver fatto loro visita in certi ghetti neri… Un giorno, una persona del ghetto ha sparato un colpo di pistola, senza voler fare del male, ma il proiettile è entrato nella casa delle suore e nel cuore di una suora, una piccola suora che aveva dedicato la vita alla gente di colore. C’è padre Joseph Wresinski, che ha lavorato con le persone più umili; Dorothy Day, che negli Stati Uniti ha aperto case per la gente di strada… Ci sono tante persone meravigliose. Ma il maestro è Gesù. Gesù è venuto! Mangiava con i peccatori, con i pubblicani e le prostitute, era amico di tutti. È un lungo cammino. E direi che il grande maestro è Papa Francesco. E’ straordinario Papa Francesco, mio Dio. Egli ci dà una visione, ci chiede di andare nelle periferie delle nostre società e lì trovare le persone più povere per diventare loro amici, lasciare che ci evangelizzino e imparare dalla loro saggezza.

Grazie, grazie, Jean

JEAN VANIER:
Padre Francesco!

Molte grazie.

JEAN VANIER:
Grazie a te!

MAURIZIO VITALI:
Senza rovinarvi l’appetito e senza pretendere che sia la prima volta che lo sentite, ma ogni cosa è nuova se la si ascolta con orecchi nuovi, prosegue la campagna di Fundraising del Meeting.

Data

21 Agosto 2016

Ora

19:00

Edizione

2016

Luogo

Salone Intesa Sanpaolo B3
Categoria
Incontri