SINDACATO E PROSPETTIVA DEI CORPI INTERMEDI

Sindacato e prospettiva dei corpi intermedi: quale futuro?

Partecipano: Annamaria Furlan, Segretario Generale CISL; Giulio Sapelli, Docente di Storia Economica all’Università degli Studi di Milano. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.

 

GIORGIO VITTADINI:
Buongiorno e benvenuti all’incontro: Sindacato e prospettiva dei corpi intermedi. È una tradizione tra le più importanti del Meeting quella di ospitare, praticamente ogni anno, il Segretario della CISL, data la profonda affinità che noi sentiamo con questo sindacato, con la sua tradizione. Penso di aver presentato praticamente tutti i segretari della CISL, almeno da D’Antoni in poi. Perché questa insistenza? Nel DNA del Meeting c’è il tema dei corpi intermedi e il sindacato, soprattutto questo sindacato, è uno dei corpi intermedi più importanti della nostra società. Oggi questo dibattito ha un fattore di novità. In primo luogo per la presenza di Annamaria Furlan, che è diventata segretario generale della CISL quest’anno, e la ringraziamo molto per la sua presenza oggi. In secondo luogo perché insieme a lei c’è Giulio Sapelli, docente di Storia Economica all’Università degli Studi di Milano che è già venuto molte volte al Meeting ed un nostro profondo amico e, ritengo, il più preparato a parlare di sindacato in Italia. Quest’anno vorremmo trattare di questo tema rispondendo alle tante domande emerse, perché mai come in questo momento c’è chi ha messo in discussione, non dico l’esistenza del sindacato, ma la sua importanza. Si tende quasi a considerarlo non un fattore di progresso, ma un fattore di blocco della attività. In questa tematica rinasce la domanda su che tipo di sindacato cerchiamo perché – e lo vediamo bene in questo momento – non tutti hanno la stessa visione di sindacato. Il dibattito di oggi, che è il dibattito di sempre, assume questa visione. Chiedo innanzitutto a Giulio di inquadrare la questione del ruolo del sindacato, con il contributo che la CISL può dare in questo momento di cambiamento della situazione economica e politica. Di seguito, un primo intervento di Annamaria Furlan.

GIULIO SAPELLI:
Grazie. Ringrazio tutti voi per essere qui; parlare al Meeting è come un ritorno a casa che scalda il cuore. Partiamo dai problemi che ha sollevato Giorgio. L’organizzazione sindacale è sempre la stessa se si tratta di un sindacato che fa riferimento al moto associativo e alla riproduzione di comunità che c’è nelle società. Ci sono stati molti teorici illustri che hanno preconizzato due cose: la prima è che la condizione ottimale della società si realizzava quando c’era un rapporto 1:1 tra il sovrano e il cittadino. Lo ha spiegato bene Hobbes, per esempio, ne Il Leviatano. Questo era il modo migliore per mantenere l’ordine, perché il problema reale della società, soprattutto delle società di massa, che siano esse industriali o neo industriali, non è il conflitto, ma il mantenimento dell’ordine. Come possono stare insieme milioni di persone che hanno compiti diversi e svolgono funzioni diverse in città che hanno una pluripersonalità? Provate a camminare per le grandi metropoli del mondo, come Buenos Aires o San Paolo. Vedrete che ci sono venti milioni di persone che tutte le mattine si alzano e fanno le stesse cose. E c’è un sostanziale ordine sociale, anche se normalmente questo non esclude dei conflitti particolari. Che cosa tiene insieme la società? Tocqueville quando va in America si chiede come faccia la società a crescere rapidamente e virtuosamente, nonostante porti a molti conflitti, sia con gli abitanti che c’erano prima sia di tipo razziale. E la risposta che trova è che ciò è possibile perché c’è il principio di associazione. Il sindacato è il principio di associazione. Ciò che non riesco a raggiungere da solo sul mercato, lo raggiungo associandomi. Al momento c’è molta confusione perché sono nate delle forme ibride, come le imprese sociali, che sono forme del capitalismo che nasconde la sua vergogna. Non si capisce cosa siano, perché non sono né non profit, né cooperative; sono imprese capitalistica con fini sociali – come dovrebbero avere tutte le imprese capitalistiche. Il sindacato invece nasce – e l’ha scritto benissimo Mario Romani, grande teorico della CISL, in un libro fantastico di appunti sul sindacato, un libro che è uscito negli anni ’50 e che andrebbe ristampato, riletto: il sindacato è uno sforzo associativo. I lavoratori non riescono a raggiungere da soli nel mercato condizioni eque di trattamento sul luogo di lavoro e per farlo si associano. Naturalmente c’è anche un’altra concezione del sindacato, che è la concezione del sindacato di tipo classista, per il quale esistono degli interessi oggettivi generali dei lavoratori. Noi non crediamo che esistano degli interessi oggettivi perché gli interessi passano sempre per la coscienza delle persone. Gli interessi sono quelli che la persona riconosce essere tali senza delegare a nessuno questo riconoscimento. Se qualcun altro decide quali sono i tuoi interessi, questi si erige in una casta burocratica che spesso li comanda e li domina senza farli crescere. Tutta la storia sindacale mondiale è stata per molti anni, soprattutto nel periodo della guerra civile e mondiale, confronto tra l’Unione Sovietica e i meccanismi dei diversi capitalismi che affollano il pianeta. C’era una forma di sindacato classista, che oggi in Italia è rappresentato dalla CGIL. Nonostante la fine della guerra fredda, il modello organizzativo è rimasto quello di un sindacato di classe che rappresenta gli interessi generali dei lavoratori, anche se nessuno decide gli interessi generali se non una burocrazia che spesso non fa parte degli stessi lavoratori. La caratteristica fondamentale della CISL, invece, è che rappresenta gli interessi dei soci i quali, volta a volta, si sforzano attraverso un lavoro di elevazione culturale di rappresentare anche gli interessi generali. Questo non vuol dire che non riconoscono differenze di interessi, questo non vuol dire che non si riconoscono necessità nel conflitto. Io che vengo da una famiglia operaia di sinistra, sentivo dire sempre da mio padre: gli operai possono smettere di fare la lotta di classe, mentre i borghesi non smettono mai. È quello che è accaduto in questi anni, dove hanno massacrato la classe lavoratrice con i contratti a tempo, con le varie leggi Treu e Ichino, che vergognosamente ha distrutto il capitale umano. Da un lato si predica che c’è il capitale umano e dall’altra non si riconosce che il vero capitale umano è la capacità e la professionalità dei lavoratori, la fedeltà dei lavoratori alla propria impresa quando riconoscono in questa impresa qualcosa che non solo prende, ma anche da. In questo senso, la battaglia ideale è molto forte. Io sono un sostenitore del modello americano di sindacato, un sindacato che contratta sul posto di lavoro, difende i proprio associati e ha motivo di grande solidarietà. L’America ha stretto un accordo con il sindacato dei clandestini – perché lì i clandestini hanno un grande leader, Alejandro Toledano – per cui ai clandestini è garantita assistenza legale per ottenere la cittadinanza e l’assistenza sanitaria. Questa è una cosa piuttosto strana, ma è possibile in un Paese come l’America dove tutto promana dalla società, dal basso e non dallo Stato. In Italia abbiamo un compito molto duro. gli ideali della CISL sono stati spesso messi in discussione, gli ideali della CGIL hanno prevalso anche nella stessa CISL in tempi oscuri. Ma adesso, lentamente, la CISL sta riconquistando una sua autonomia culturale ed intellettuale. Questo è molto importante perché bisogna dire anche al nostro Presidente del Consiglio che non può riferirsi ai sindacati in forma indistinta. C’è sindacato e sindacato, e Renzi deve capire che senza corpi intermedi non si governa. Quando non si conoscono le cose, bisognerebbe leggere un po’ di libri o parlare con le persone che sanno, e soprattutto bisogna avere una delle tre virtù penultime che diceva Simone Weil: umiltà, attenzione e rispetto. Non si comanda e non si governa senza queste tre virtù. Le autonomie funzionali, le camere di commercio, promanano dallo Stato, in funzione dello Stato. I corpi intermedi rampollano dall’associazione, non chiedono nulla allo Stato, ma spesso danno allo Stato. Noi qui ne abbiamo parlato, il Meeting è il luogo dove è nato il concetto di sussidiarietà fatto carne soprattutto nel welfare. Per esempio, la scuola sussidiaria, la scuola cooperativa: in America Latina le scuole sono corpi intermedi, sono fatte, governate, dalle famiglie, dagli insegnanti. Questo mondo di corpi intermedi è l’essenza. I rappresentanti devono essere fedeli allo spirito del corpo intermedio. Più che di crisi dei corpi intermedi, io oggi parlerei di crisi della rappresentanza, che spesso è ridotta a rappresentazione. La rappresentanza, deve tutelare gli interessi degli elettori, con probità e serietà. Questo vale per la classe politica, ma anche per i giornalisti. Sono un feroce oppositore di Stella e Rizzo e della Gabanelli; penso che essi svolgano il ruolo che i diciannovisti svolsero in Italia prima dell’avvento del fascismo, attaccando la democrazia. Il fatto che tale giornalismo sia la voce di quella cupa e sorda borghesia milanese mi fa capire che lo scontro è molto alto. Il corpo intermedio del sindacato, di un sindacato associativo che risponde ai soci, che tramite i soci e la cultura dei suoi associati si pone obbiettivi generali, è una ricchezza inestimabile. Il suo ruolo è fondamentale soprattutto – e questa è una cosa su cui poi vorrei tornare – per respingere la campagna, sbagliata teoricamente e infame politicamente, che riduce il problema ad una lotta di giovani contro vecchi, dove i vecchi pensionati rubano il lavoro ai giovani. Oggi se c’è qualcuno che aiuta i giovani sono i vecchi, sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista della riproduzione sociale. Se ci fosse lo sciopero dei nonni, si fermerebbe la società. Tramite la lente di ingrandimento con cui guardiamo il sindacato, possiamo vedere un caleidoscopio di problemi. I tempi sono difficili; pensate all’attacco violento fatto alle banche popolari, forma di democrazia economica, banche evidentemente borghesi, ma che raccolgono anche le classi medie di Don Sturzo, i commerciati. Siamo a metà del guado, dobbiamo ricreare una cultura della società intermedia, più che puntare sulla politica, visto che i governi cambiano. Su questo punto siamo indietro, abbiamo mancato nella teoria; dobbiamo rimetterci a studiare e bisogna che il sindacato ci accompagni. La CISL è ancora l’unica sponda che un intellettuale e un lavoratore hanno per sentirsi partecipi di questa storia. Grazie.

ANNAMARIA FURLAN:
Non avrei moltissime cose da aggiungere a ciò che ci ha detto il professor Sapelli, perché ha inquadrato molto bene il bisogno di sindacato che c’è in una società complessa come quella in cui viviamo e nel momento di evidente trasformazione dell’economia reale e del lavoro. Credo sia importante parlare di tutto questo al Meeting, un luogo che ha una caratteristica lampante: riesce a tenere insieme le generazioni. Il messaggio del lavoro, e quindi del sindacato che rappresenta i lavoratori, sia quelli che aspirano a trovare lavoro, quelli che ce l’hanno e anche quelli che l’hanno avuto, è esattamente questo: come il sindacato confederale – per quello che mi riguarda la CISL – dentro una società complessa spesso attraversata da messaggi conflittuali, può creare le condizioni perché si uniscano le generazioni, si uniscano gli uomini e le donne, si unisca chi ha il lavoro stabile con chi ha il lavoro precario e chi il lavoro non ce l’ha per niente. Il sindacato è la casa comune che può dare speranza dentro una società che spesso fa vivere il lavoro come malessere, perché non si trova, perché si ha paura di perderlo o perché è un momento di conflitto. Il lavoro invece può diventare, come dice la Dottrina Sociale della chiesa, un momento essenziale di crescita nella vita delle persone e delle loro famiglie. Crescita economica, ma, ancora prima, crescita individuale e collettiva. Per fare tutto questo il sindacato, e io credo oggi la CISL, deve assolutamente rafforzare i luoghi di incontro e di partecipazione della comunità. Da settembre a fine di novembre organizziamo le nostre assemblee organizzative, e siete tutti invitati, per analizzare sino in fondo come il cambiamento del lavoro e come il cambiamento dei luoghi del lavoro devono vedere il cambiamento del sindacato. Il sindacato che rende protagoniste le persone non può essere altro che un sindacato che rafforza la sua presenza laddove le persone vivono e si incontrano, cioè il territorio e il luogo di lavoro. È lì che si crea comunità e lì si crea unione tra i giovani e gli anziani, tra gli uomini e le donne, tra chi il lavoro ce l’ha, non ce l’ha e ha paura di perderlo. Lì si riesce anche a fare la sintesi: questo è il bene comune che il sindacato può rappresentare, i bisogni complessivi di una comunità, la presenza dentro un’azienda, la vita vissuta dentro e su un territorio. Il bene comune significa avere la capacità di fare sintesi tra le visioni e le speranze così diversificate sul territorio e nei luoghi di lavoro. Certo, ci vuole un sindacato che oltre a porsi il tema del cambiamento sappia anche testimoniare la forza di saper dire sì e no a chi oggi rappresenta il potere politico. E per fare questo ci vuole un sindacato che, come la CISL, nella sua storia non ha mai avuto paura di dire sempre il vero anche quando il vero è scomodo e quando, proprio perché è scomodo, è più difficile da dire e da fare. Sapelli diceva una cosa importantissima: perdere la memoria storica significa perdere se stessi, nella propria vita individuale come in una vita collettiva. Sento spesso dare giudizi generale sul sindacato confederale, su CGIL, CISL e UIL nel loro pluralismo sindacale, che mostrano con chiarezza come quei giudizi siano frutto di poca conoscenza della storia del sindacato confederale e, soprattutto, della storia della CISL in questo Paese. Penso alla storia degli anni ’80, al coraggio significativo che ha avuto la nostra organizzazione di combattere a piè pari dando tutta se stessa. L’inflazione a due cifre con il patto di S. Valentino è costato tante vite, Ezio Tarantelli è una di queste. Ma penso anche agli accordi della così oggi denigrata concertazione degli anni novanta, gli accordi del ’92 del ’93, per fare entrare l’Italia in testa all’Europa nell’area dell’euro, che significava creare condizioni di stabilità economica forte del nostro Paese, di competitività delle nostre imprese. Anche in quelle occasioni non è stato facile gestire tante contestazioni e tante incomprensioni; però io sono ancora oggi tanto grata al premio nobel Modigliani che in quel momento storico ringraziò la CISL per il coraggio testimoniato. Anche oggi noi dobbiamo avere questo coraggio che, in una società che ogni giorno trova elementi di divisione, implica il proporre continuamente le menti che uniscono le opinioni dentro la società, e nei confronti di una politica che vuole mettere a margine il sindacato come il ruolo in generale dei corpi intermedi, ricordare che invece la rappresentanza sociale è una cosa importante che tiene insieme le persone. Attraverso i patti sociali dobbiamo avere il coraggio di portare tra chi governa tutti i livelli; tra chi ha le rappresentanze del lavoro, possiamo far uscire il nostro Paese dalla più grave crisi economica che la nostra storia ha conosciuto, e farlo uscire con una trasformazione profonda. Non vogliamo tornare ad essere un Paese dove le rappresentanze sociali non contano, se non nei momenti di grande bisogno, perché prevalgono le lobbies. Vogliamo un Paese dove le rappresentanze sociali determino insieme a chi governa a tutti i livelli il futuro e la speranza del futuro. Per questo ci vuole un sindacato coraggioso, un sindacato che dice il vero, un sindacato che si sa rinnovare. Rinnovare se stessi è faticoso, ma ne vale la pena. Il contributo che oggi siamo chiamati ad offrire al Paese, che la CISL è chiamata ad offrire al Paese, sarà fatto con grande generosità.

GIORGIO VITTADINI:
Giulio, tu prima accennavi alle condizioni del mercato del lavoro rispetto all’umiliazione del lavoratore. Vorrei chiedere ad entrambi come vedete la condizione economica sotto il profilo di questo rapporto che c’è con il lavoro e del quale ci sarebbe bisogno.

GIULIO SAPELLI:
Penso che i nodi siano venuti al pettine perché questi sono stati vent’anni di contro rivoluzione liberista iniziata, non a caso, come diceva Giovanni Agnelli, un personaggio che governava l’industria come un piantatore di canna da zucchero: se vuoi fare qualche cosa di destra chiama la sinistra. Diciamo che la controrivoluzione liberista di sregolazione finanziaria di Blair e di Clinton, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, non ha avuto più pudori. Lì c’è stato un arretramento, e vi assicuro sono lontano mille miglia dalle culture classiste. A livello di condizione salariale, a livello di conduzione del sindacato, noi abbiamo vissuto a debito attraverso la finanza che allontanava la crisi. Ma perché? Perché si è distrutto il capitale umano. Usare questa formula dà fastidio ma occorre usarla. Che cos’è il capitale umano? È quel quid che la persona porta nell’impresa attraverso la sua conoscenza, il know how e l’esperienza. Forse a volte, come sanno nell’industria manifatturiera, conta più delle lauree. L’esperienza, l’esperienza che si basa sull’esempio e sul rapporto tra le generazioni. Noi cosa abbiamo fatto in questi vent’anni? L’Europa è stata fatta male, costruita sulla menzogna dell’articolo del regolamento che ha imposto a tutti il 3%, il che non ha nessuna giustificazione scientifica. Che cosa è successo? È successo che il meccanismo dominante fondato solo sull’esportazione massima del 20-30% di un complesso manifatturiero, doveva trainare dietro di sé società che vedevano i mercati interni restringersi sempre più e quindi avevano bisogno di bassi salari. Perché la Germania che ha perso tutte le guerre ma ha vinto tutti le paci, doveva imporre all’Europa un’economia di austerità di bassi salari di basso costo di manufatti che essa importava? Soprattutto, a livello mondiale ci si stupisce della Cina e si scrivono delle cose esilaranti, come che il leader cinese Xi Jinping vorrebbe far entrare lo Yuan nel mercato. Una persona che ha fatto fuori 600 mila quadri del partito in un anno e mezzo non so se sia un modello di mercato. Voglio dire qual è la crisi della Cina. Ci sono città programmate per venti milioni di abitanti e non c’è nessuno perché i contadini che vivono di terra non hanno bisogno di comprare nessuna merce. Io ho visto in Cina militari che all’alba sradicavano i cimiteri buddisti, in modo da ferire il cuore della cultura contadina, per farli cadere nell’anomia, cioè nella perdita di valori, spingerli a forza con violenza nelle città. Questa cosa non è riuscita e i BRICS sono in crisi. L’unico Paese che ha fatto una politica diversa fondata su un’altra flessibilità di fattori ma su alti e differenziati salari, è l’America. Che cosa c’è alla base di tutto questo? La svalutazione del lavoro. Non può esistere una economia sana senza alti salari, non può esistere una economia sana senza i lavoratori che si affezionano all’impresa, che vogliono restare senza essere messi alla porta dopo sei mesi. Come pensate che possa crescere una società così? Manca la base per crescere. Poi, si insiste tanto sulla centralità della persona, ma penso che di dovrebbe pensare a pagare bene i propri dipendenti prima di parlare di corporate social responsability. Adesso si parla di shared economy: prima di avere la shared economy vorrei avere l’economy, cioè vorrei avere un buon bilancio familiare. Questo meccanismo è giunto al massimo: i lavoratori nel mondo sono stremati. Che cosa tiene in tutto questo? Il sindacato. Negli Stati Uniti sono solo 8%, ma meglio che niente. Abbiamo i sindacati che si formano in Bangladesh, in Cambogia, i lavoratori hanno fatto scioperi di mesi per avere condizioni di vita ragionevole nell’industria tessile; ma nessuno parla di questo. Non si può non parlare del sindacato del lavoro senza capire che il lavoro è un fatto internazionale. Adesso c’è un grandissimo cambiamento: la nuova manifattura è fatta con macchine super intelligenti che colpiranno anche gli high skilled cioè i più qualificati. C’è bisogno di contrattare, bisogna riprendere di nuovo il discorso su salario e produttività. Se c’è più produttività ci deve essere più salario, non come nella riforma Schröder che per avere più produttività crea degli operai di serie B, che prendono 700 euro e che hanno portato la Germania alla crisi. La Germania si sosteneva con l’incrocio di alte esportazioni e forte mercato interno che adesso non ha più. Penso che sia iniziata una stagnazione secolare; la questione della Cina avrà un colpo alla detrazione, il crollo del prezzo del petrolio ci porterà alla deflazione. Vedete amici cari siamo in un deserto, il lavoro è in un deserto, soprattutto perché mancano le “pozze d’acqua” della teoria che gli intellettuali trasmettevano ai lavoratori. Come diceva Pasolini, si è rotto il rapporto tra intellettuale e popolo. L’unico strumento in cui il rapporto intellettuale e il popolo si può ricostruire è l’associazionismo, la Chiesa – non solo per noi che siamo cattolici – e il sindacato. Altro esempio di associazionismo dovrebbero essere i partiti, non personali, ma di massa. Se non costruiamo questo ambienti, il rapporto intellettuale con popolo muore. Sapete da quanti anni non esce più un libro di descrizione del lavoro? Sappiamo tutto sulle imprese ma in realtà non sappiamo niente perché non sappiamo chi ci lavora, chi è, che faccia ha, in cosa crede. Se si vuole pensare a una economia che libera l’uomo occorre sapere che l’economia giusta non è quella che fa valore per l’azionista, ma quella che consente di fare l’economia della piena occupazione. Abbiamo perso l’alfabeto il sindacato, e penso a volte che anche il sindacato ha perso il suo stesso alfabeto, perché la pressione dell’ambiente è stata fortissima. Uno delle Acli non può candidarsi con Monti, se il mio povero papà l’avesse visto gli sarebbe venuto un infarto. Come la vedo? La vedo brutta. Ma vedo anche che c’è un risorgimento – per usare ancora un termine di Romano Romani – un ritorno di passione: i giovani in cerca di Dio, un ritorno al desiderio di organizzarsi di nuovo. Capiscono che la risposta da soli non basta. Come diceva Anna Maria, noi vecchi dobbiamo metterci e rimetterci a disposizione dei giovani, tanto dobbiamo fare un passo indietro dovunque siamo. Mandare loro avanti, però, sarà dura.

ANNAMARIA FURLAN:
Non c’è dubbio che parlare di cambiamento della situazione implica un cambiamento forte sui temi internazionali, in modo particolare dell’Europa. Sapelli giustamente diceva che nel nostro mondo è passato un concetto drammatico che, nei paesi occidentali, ha creato milioni di disoccupati, in altri paesi, guerra e fame. Nel mondo è passato un concetto che per produrre ricchezza non serve più il lavoro, ma basta la speculazione finanziaria. Vi ricordate quanto nel 2011-2012 questo tema è stato al centro di discussioni, di proposte, anche molto autorevoli? La Chiesa stessa ha fatto proposte importanti rispetto a come regolamentare nuovamente i mercati finanziari. La deregolamentazione totale dei mercati finanziari, e quindi l’impoverimento del valore del lavoro, ha creato un mondo peggiore. Dopo quei momenti, però, non si è più parlato di questo, nessuno ha ripristinato le regole che erano state tolte, e nulla oggi ci può garantire che un’altra bolla finanziaria crei di nuovo condizioni di grande povertà in una parte del mondo, di fame e guerra in altre. La funzione internazionale deve essere rivista e per rivedere questo bisogna rivedere l’Europa. La CISL è un’organizzazione da sempre europeista. Rivedere oggi l’Europa significa discutere di nuovo il suo statuto economico, perché senza la ridefinire lo statuto economico che superi il fiscal compact, noi non cambiamo l’ Europa, e non riusciamo a creare l’Europa del lavoro, del sociale, delle persone, perché superare la rigidità del fiscal compact significa avere le risorse per finanziare gli investimenti nell’economia reale e quindi nel lavoro. È impossibile farlo? io credo di no. La stessa Germania, probabilmente col mutamento del suo stato economico finanziario inizia a fare qualche riflessione in più, ma bisogna essere molto determinati su questo. Non basta spostare di qualche metro l’asticella del tempo, Renzi oppure Hollande, l’anno scorso, hanno portato a casa un po’ di flessibilità, ma non è quello che serve realmente. Occorre rivisitare drasticamente quel trattato e patto economico, dicendo che quando un Paese investe in lavoro, in formazione in ricerca, in innovazione, in infrastrutture, non allarga il debito, ma investe per il lavoro e per il futuro. Su questo ci vuole tanta determinazione, e, per quello che ci riguarda come CISL, un sindacato europeo rinnovato e molto forte. La CIESSE ha funzionato poco in questi anni perché non ha le competenze, perché vive di deleghe dei sindacati e degli stati membri. Dobbiamo invece creare un sindacato europeo forte di proprie competenze, anche di competenze contrattuali. La globalizzazione, le grandi multinazionali, se hanno davanti un sindacato a livello internazionale forte, trattano in un determinato modo. Se hanno davanti tanti sindacati di tanti paesi, quando la proprietà è dall’altra parte del mondo, il lavoro diventa difficile. Le cose sono un po’ più complicate. Allora la dimensione internazionale del lavoro deve avvedere una dimensione internazionale di chi rappresenta i lavoratori e le lavoratrici, ben diversa, ben più forte di quella di oggi. Poi ci sono le politiche interne. Il nostro Paese sta un po’ peggio di altri paesi in Europa, ma non di molto per la verità, a causa di nodi strutturali antichi, non di questi ultimi due o tre anni. Un Paese che da Salerno in poi ha la rete ferroviaria dei tempi dei Borboni, è un Paese che non si può candidare ad essere un Paese che traina lo sviluppo, né per se stesso né tantomeno per l’Europa. Un Paese che, di anno in anno, di finanziaria in finanziaria, negli ultimi vent’anni ha tagliato in innovazione, in ricerca, in formazione non è un Paese che si può candidare ad essere competitivo nei mercati internazionali rispetto la qualità. La contrattazione deve cambiare. Lo dico con grande chiarezza: la CISL a luglio ha scelto di presentare una proposta di cambiamento del modello contrattuale, perché non potevamo più aspettare che anche gli altri soggetti della rappresentanza del lavoro – CGIL, UIL, ma anche Confindustria – si decidessero ad aprire un tavolo di confronto su questo. Oggi le imprese, per essere più competitive – e noi vogliamo che la competizione non sia sulla povertà, non sia sul costo del lavoro, ma sia sulla qualità – hanno bisogno di rivedere il modello contrattuale. Meno peso al contratto nazionale, riconfermiamo la copertura del potere d’acquisto. Tutto ciò che fa qualità, formazione, innovazione, organizzazione del lavoro, può cambiare, e cambiare in positivo, solo sul luogo di lavoro o sul territorio. Come? Pagando la maggiore produttività e la maggiore flessibilità, ma aumentando la competitività delle nostre imprese. Se non succede questo, continueremo a guardare al 15% di imprese italiane che fanno tante esportazioni – e menomale che le abbiamo – e continueremo ad essere convocati al Ministero del Lavoro e dello Sviluppo per le crisi aziendali di tutte le altre. Se non ripartono i mercati interni attraverso una riforma del fisco che renda più consistente le pensioni e le buste paga dei lavoratori, e se non ritorniamo a investire sulla qualità detassandola, non usciamo dalla crisi e non ci usciamo come un Paese migliore, che riconosca nella qualità il valore vero del nostro lavoro. È lì che noi siamo vincenti. Questo vale per il manifatturiero, vale per il terziario tutto, per i servizi e deve valere anche per la Pubblica Amministrazione. Ci è voluta una sentenza della Corte Costituzionale per sbloccare dopo sei anni il contratto, ma io aggiungo: la spending review quando arriva? Perché i primi a volere e a chiedere i tagli alla spesa pubblica, quella inefficace e inefficiente, siamo noi. È possibile stabilire ciò che non serve, quello che spreco? Lo dico con chiarezza: lo spreco spesso è parente stretto della corruzione. Tagliarlo definitivamente e puntare sulla qualità dei servizi a partire dai bisogni dei territori, dei sistemi delle imprese sui territori, ma anche dei bisogni delle persone, degli anziani, dei giovani disoccupati, è la sfida per rilanciare l’economia reale del Paese e per ritrovare qualità e valore sociale nel lavoro. Dobbiamo affrontare la crisi su questi temi, con questo spirito. Per carità, il conflitto a volte serve, ma mi chiedo: è possibile oggi, dove dobbiamo fare grandi patti sociali per far uscire il Paese dalla crisi, ragionare in termini di qualità della proposta, invece che in termini conflittuali? Vorrei che finalmente nel Paese, sui temi economici, sulla pubblica amministrazione, sulla scuola, sulla formazione, la gara fosse non a chi confligge di più, ma a chi ha le idee migliori. Ci deve essere un luogo dove queste idee possono essere espresse e diventare bene comune, arricchimento collettivo di una comunità e di una società. Quello che noi chiamiamo e definiamo partecipazione è tutto questo. Credo che sia la strada maestra su cui ricostruire il Paese. Con i governi che ci sono. Il sindacato non sceglie il Governo, il sindacato si confronta col Governo che c’è. Vorremmo che si uscisse dai luoghi comuni scontati e si entrasse, invece, nel merito delle questioni confrontandoci sulle proposte, con una capacità di sintesi, con un ruolo pieno della politica, della politica con la P maiuscola. E la politica con la P maiuscola è quella in grado di interloquire a pari dignità coi corpi sociali e con chi si organizza per rappresentare bisogni, attese, speranze nella società e nella comunità; quindi un dialogo con le rappresentanze, per una valorizzazione della risorsa umana, dei saperi, delle sfide vere. Questa credo sia la formula giusta per iniziare a creare un Paese migliore.

GIORGIO VITTADINI:
Ultimo tema che vorrei toccaste è: i giovani e il sindacato, i giovani nella prospettiva del lavoro. L’avete accennato, ma mi sembra una questione cruciale perché, come ha detto il Segretario Furlan, questo è un luogo che mette insieme le generazioni; e perché qualunque organizzazione, qualunque possibilità, se prescinde da chi comincia oggi è morta.

GIULIO SAPELLI:
I giovani oggi sono in una crisi di attesa. Il vecchio Banfi alla fine della Seconda Guerra Mondiale scrisse un saggio intitolato Tempo di attesa. In fondo, ogni crisi è un tempo di attesa. I giovani che cosa attendono oggi? In primo luogo, attendono dei maestri che non hanno più. Non esiste una giovinezza che raggiunge l’età adulta senza i maestri. Il maestro non è colui che sa, ma colui che è, cioè colui che dà l’esempio. Questo vuol dire che dobbiamo lavorare per ricostruire e per creare un insieme. Torniamo alle comunità, torniamo all’associazionismo intermedio. Per esempio, Giorgio ed io ogni anno con la Fondazione per la Sussidiarietà facciamo alcuni colloqui a Milano con degli amici illustri e cari. Quest’anno il tema era Una educazione che passi per l’esperienza. L’esperienza è una tradizione che si rinnova. L’esperienza è una virtù transitiva. Mentre il sapere può essere una virtù intransitiva, perché appartiene a noi stessi, e siamo noi che decidiamo se renderlo transitivo, l’esperienza di per sé se non diventa transitiva non esiste, perché non la vediamo. Oggi la gioventù ha bisogno di trovare questa capacità transitiva e quindi superare i miti della nostra società edonistica, pornografica, consumistica; deve ritrovare la dignità del lavoro, qualsivoglia lavoro. Pensate al fatto che diamo un esempio negativo quando parliamo di lavoro manuale, come se le mani potessero lavorare separate dal cervello. Parlavo di questa cosa straordinaria a Torino alla “Casa dei Mestieri” dove si insegna ai ragazzi a fare tante cose semplici. Naturalmente i radical chic, i ricchi sono spaventosi quando guardano i poveri, no? C’è l’estetismo della miseria. “Questa ragazza vuole fare la parrucchiera”. E allora? C’è qualcosa di male? Mi sembra un’ottima cosa. Lavora con la bellezza, fa un lavoro serio, pulito. Un tempo i giovani operai facevano il capolavoro: dovevano produrre uno strumento che funzionasse. Ricordate le pagine di Péguy, quando parlava dell’operaio che aveva un onore, perché anche la parte del suo prodotto che rimaneva nascosto, doveva essere calibrato e reso armonico come quello che si esponeva? Naturalmente noi abbiamo abbandonato i giovani a loro stessi innanzitutto perché abbiamo diviso l’educazione dal sacrificio. L’abbiamo fatto diventare divertimento. Abbiamo diviso i diritti. Ciò che ci ha ucciso è la società dei diritti. L’abbiamo divisa dal dovere. Non possiamo pensare di ricreare una società del lavoro senza un impegno diuturno, duraturo, faticoso. Naturalmente la famiglia ha avuto un ruolo importante in questo processo, non solo per noi cattolici. Il ruolo delle madri, soprattutto, è stato devastante in questi trent’anni, quarant’anni. Una mia amica ha una piccola fabbrica in val Chiusella, e mi diceva che i giovani vanno a fare i colloqui accompagnati dalla mamma cha fa domande come: “C’è la polvere?”, “A che ora si entra? Alle sei e mezza?” Si entra alle sei e mezza, anche alle quattro e mezza, e si fanno quattro turni. Questo però non può indurci a dire che è una gioventù perduta. È una gioventù bellissima che offre esempi di dedizione e di sacrificio. Qui siamo in un posto dove il dovere dei giovani diventa bellezza, diventa amore per gli altri. Tutta questa cosa che abbiamo attorno è frutto dell’impegno dei giovani. Però si è poco insistito nella battaglia di dare dignità al lavoro. Abbiamo troppi laureati e pochi periti tecnici. Questa è la cosa che a me, forse perché vengo da Borgo San Salvario a Torino, mi fa più paura. Se noi abbiamo questo non ci fa paura l’emigrazione, il fatto di andar via a trovar lavoro. Basta che io lo faccia non perché sono costretto dalla fame o dal non rispetto del lavoro, ma perché cerco una vita migliore. Un tempo emigravano i più intelligenti, mica i fessi. Chi era un fesso rimaneva a casa. Emigrava la persona che aveva tutti gli studi sull’emigrazione. Questo non vuol dire che io difendo il fenomeno, perché credo che si debba stare nel proprio Paese, però c’è bisogno di una rivoluzione culturale che rimetta il lavoro come valore al centro. Si fa qualcosa per questo? Il Governo, i governi, fanno troppo poco. Le imprese fanno troppo poco. Io mi sono laureato lavorando all’Olivetti e l’Olivetti non solo mi dava il giorno di ferie quando dovevo fare gli esami, ma mi pagava anche la trasferta da Ivrea a Torino, perché riconosceva che far laureare i propri giovani dipendenti arricchiva l’azienda. Leggo di imprese americane, grandi multinazionali, che fanno la stessa cosa. Possibile che in Italia non ci sia nessuno che si metta sulla stessa strada? Solitamente chi lo fa è gente nobilissima che fa prodotti che hanno una rendita spaventosa, ma forse dovrebbero farlo anche chi fa metallurgia e chi fa industria manifatturiera. Noi abbiamo giovani. Avete seguito che inverno è stato per i giovani neri, o bianchi, o gialli che lavoravano nelle campagne del sud? Sono morti di lavoro. Sono morti di lavoro. Bisogna guardarsi negli occhi: questo ci conferma che l’idea di progresso non esiste. Sul problema giovanile noi abbiamo avuto un regresso, sia morale (discoteche, ecstasy, alcool eccetera), sia delle condizioni di lavoro. In tutti questo, c’è un grande universo giovanile positivo che lotta con le unghie e coi denti e afferma dei valori, in larga parte figlio di Santa Romana Chiesa, in piccola parte no. Questo universo è ancora una minoranza. Penso che una rappresentanza sociale, e parlo del sindacato, deve assumere la questione giovanile come una questione straordinaria; deve farsene carico, influenzando in questo modo i partiti, e le organizzazioni sociali. Sono convinto che i giovani potranno rispondere, perché, vedete, quello che vuole un giovane è solo essere amato. Vuole essere amato. Cosa diceva Federico Ozanam: “Date e vi sarà dato”. Non era la carità, era anche l’amore. Questa battaglia deve essere fatta su tutti i fronti: all’università, a scuola, nelle fabbriche; gli imprenditori possono fare tantissimo per i loro giovani, i professori possono fare tutto. Tutto. A volte penso: “Come mai io che faccio il Professore universitario prendo il triplo di una maestra?” Devo dire che spesso non mi pare giusto. Ma non perché lavoro di meno – perché io sono il “sale della terra”, sono un intellettuale, quindi, mi sembra giusto. A volte mi chiedo: la responsabilità che ha una ragazza giovane, o una signora di 60 anni di tirar su dei bambini, è una responsabilità enorme, no? Questo non è lontano da quello che penso io sui giovani. Nei giovani c’è tutto: una grande volontà e una grande attesa. Personalmente io sono pessimista nel breve, ma molto ottimista nel lungo periodo. Se dovessi lanciare una risposta istituzionale, direi che c’è bisogno di dare un po’ di dignità civica ai giovani. Per esempio, penso dovrebbe essere reintrodotta l’obbligatorietà del servizio civile. Bisogna che lo Stato obblighi i giovani a lasciare la famiglia e la mamma, e che donne e uomini vadano a fare qualcosa di utile per un paio di anni in giro per il mondo o in Italia. Poi forse avremo anche bisogno del servizio di leva – ma questa è una cosa che penso io, perché ho delle idee pessimistiche sulla situazione internazionale. Per ciò che capita in Africa, per il massacro. Probabilmente anche la Chiesa sui giovani dovrebbe fare di più. Io ho lavorato in parrocchia; a Pantelleria facciamo ogni anno “Parrocchia in piazza”. Far ritornare i bambini alla vecchia scuola catechistica, farli leggere dei testi e non solo farli ballare e giocare, andrebbe anche bene. Anche lì abbiamo perso un po’ il tempo. Cari giovani, non vi è dato niente, non bisogna che vi diamo niente se non l’amore, per il resto dovete lavorare. Parole inattuali che non sono simpatiche. Vi benedico, grazie!

ANNAMARIA FURLAN:
Il tema dei giovani è uno dei temi che appassiona il dibattito politico ma ogni volta che l’appassiona si fanno scelte che a mio avviso non vanno a favore dei giovani. Penso alla riforma sulla previdenza, la legge Fornero. Tutti al lavoro fino a 67 anni, a prescindere dal lavoro che si fa. Sapelli parlava di come è complicato a 65-66 anni fare l’insegnante in una scuola materna con 25-30 bambini. Io ho 57 anni e ho una nipotina che deve compiere due anni: il sabato e la domenica quando ho la fortuna di poter stare con lei, alla sera sono sfinita. Immagino cosa voglia dire stare con una trentina di bambini! Figuriamoci poi a lavorare a 50 metri su una gru di un’impalcatura in un porto. Dico questo perché il nostro Paese almeno negli ultimi 15 anni, ha continuato a fare scelte che contengono poco a favore dei giovani. Così i modelli che ha offerto ai giovani sono modelli poco educativi. Un Paese dove per anni è stato spiegato che fare l’evasore fiscale è un peccato veniale e non un peccato grave, non crea una condizione di cultura della legalità e del rispetto dello Stato, al contrario. Un Paese che è il primo in Europa per corruzione – ogni anno settanta miliardi – non è un Paese che offre ai giovani un buon esempio di come si può creare una condizione di promozione sociale attraverso il proprio impegno, attraverso la propria dedizione. Un Paese dove di Governo in Governo è stato spiegato ai giovani che hanno poche tutele perché hanno troppe tutele i padri e le madri, che non andranno mai in pensione perché tuo nonno e tua nonna hanno una pensione troppo alta, è un Paese che divide le generazioni. E in questa divisione delle generazioni i giovani sono deboli, non sono forti. Tutto questo ha creato una condizione di poca educazione dei giovani ai valori del lavoro e della vita. Un mondo dove o sei ricco, giovane sei spregiudicato o vali poco, è un mondo che premia il cinismo, non i valori. Credo che qualche responsabilità ognuno di noi ce l’abbia: la nostra generazione sicuramente rispetto a questo ha un po’ di responsabilità. Un Paese dove l’immagine continua a essere che le madri e padri per essere eternamente giovani si tirano le rughe e si tingono i capelli, prima o poi crea qualche rottamatore per affermare che c’è un’altra generazione che può costruire e fare. Non sempre la rottamazione dà i risultati migliori, a volte si perde l’esperienza, si perde la conoscenza, a volte anche i valori. Abbiamo un bisogno estremo di giovani nel sindacato e se non li andiamo a trovare e a rappresentare nel momento di maggiore debolezza della loro esperienza lavorativa, da precari, da lavoratori stagionali, da lavoratori a tempo determinato, da lavoratori atipici, ben difficilmente vorranno incontrare il sindacato quando il loro status di lavoratore/lavoratrice sarà più forte. In più, a differenza del passato, c’è una ignoranza rispetto a cos’è il sindacato, a quali valori esprime. La mia generazione quando arrivava sul posto di lavoro poteva non conoscere le differenze tra CIGL, CISL e UIL, ma sicuramente sapeva cos’era il sindacato, sapeva da che parte stava il sindacato, sapeva cosa chiedeva il sindacato. Poi si sceglieva se aderire o non aderire, e dove aderire. Oggi i giovani arrivano sul posto di lavoro, e non hanno la pur minima conoscenza della storia del sindacato confederale in Italia, della storia della CISL e di cosa significa associarci a un’organizzazione sindacale. Io credo che dobbiamo fare tanto lavoro su questo e per farlo significa innanzitutto iniziare a occuparci profondamente, attivamente, quotidianamente del rapporto di lavoro dei giovani, che non è una tipologia di rapporto di lavoro che il sindacato è abituato a rappresentare. Dobbiamo dedicare molta più capacità di rappresentanza, molte delle nostre conoscenze, della nostra capacità di essere capillari sui posti di lavoro. C’è tutto un mondo giovanile spesso precario, spesso atipico a cui molti hanno spiegato che è meglio arrangiarsi da soli e se si è un po’ rampanti, un po’ cinici e un po’ spregiudicati, ci si arrangia anche meglio. Recuperare il valore sociale del lavoro significa anche recuperare il valore sociale del lavoro che significa stare insieme, che significa crescere insieme in una comunità come in un luogo di lavoro. E credo che il compito del sindacato oggi nei confronti dei giovani sia esattamente questo, facendo proposte chiare sui bisogni dei giovani. Quando vedo altre organizzazioni sindacali che, ad esempio sulla pensione integrativa, quella per cui si può garantire a un giovane un domani di non essere sicuramente un pensionato povero, non sono nemmeno disponibili a dire che la parte di versamento del datore di lavoro deve essere obbligatoria, credo che come sindacato confederale qualche passo avanti nel voler rappresentare i bisogni dei giovani lo dobbiamo fare ancora. Quando vedo parti sindacali e parti datoriali storcere il naso se il sindacato, esattamente come succede in tutti nordeuropei, si occupa di mercato di lavoro, agevola l’incontro tra domanda e offerta, offre servizi ai disoccupati oltre che ai lavoratori e lavoratrici, io credo che anche il sindacato confederale rischia di parlare tanto di giovani, ma di non voler operare davvero per i giovani. Questa è una cosa che come CISL non accettiamo assolutamente. Guardate il Jobs Act: ha avuto luci e ombre, cose positive – non abbiamo avuto nessun timore a dire cosa ci è piaciuto – e cose negative. Ma quando io vedo discussioni incredibili se vale di più una nuova assunzione o se vale di meno il fatto che un precario è stato stabilizzato, mi chiedo come sindacato confederale, quando diciamo di rappresentare i giovani, di cosa parliamo? In un Paese dove fino a 35 anni sei precario, se quel lavoro diventa stabile non è un lavoro di qualità? Non è un passo avanti che abbiamo fatto nella dignità del lavoro e nella dignità delle persone? Queste cose fanno rappresentare concretamente o no il bisogno e il futuro dei giovani. Poi c’è il tema del rinnovamento: riguarda la politica, ma riguarda anche le parti sociali, riguarda il sindacato e la CISL. Non possiamo immaginare che basti che il giovane si iscriva al sindacato. Io ho guardato con grandissima attenzione i dati del nostro tesseramento. Noi abbiamo perso iscritti nei pensionati, circa ottantamila, e abbiamo acquistato circa venticinquemila iscritti tra i lavoratori e le lavoratrici. Dove? In modo particolare nel terziario, tra i precari della scuola e nel settore bancario-assicurativo. Settori dove il precariato è molto presente. Occorre rendere la nostra organizzazione interessante per un giovane e una giovane, dove davvero vale la spesa, vale la pena, dove sia di qualità dedicare il proprio tempo a fare il sindacalista e la sindacalista. Questo salto di qualità noi lo dobbiamo fare con una politica dei quadri che davvero apra ai giovani e non c’è politica dei quadri che guarda ai giovani se non sappiamo creare le condizioni di ricambio del gruppo dirigente senza traumi, ma creando le condizioni perché il ricambio sia il ringiovanimento dell’organizzazione. Per guardare avanti ci vogliono i giovani dentro la CISL. Se no saremo un’organizzazione che guarda più a conservare l’esistente – che è tanto perché abbiamo 4.300.000 – ma che non si candida a traguardare il futuro. Credo che invece sia il compito di questo gruppo dirigente: creare le condizioni per farlo velocemente, in modo determinato, perché ci sia quella partecipazione e quel protagonismo che proietta la CISL a rappresentare bisogni e speranze per tanti e tanti anni ancora.

GIORGIO VITTADINI:
In molti dibattiti in questo Meeting – penso anche a quello con Violante e Magatti – si è sottolineata l’idea che siamo su un crinale di passaggio. Magatti diceva che siamo all’inizio del XXI secolo, che in realtà è cominciato un po’ di anni dopo. Quello che era scontato, non lo è più. La crisi finanziaria ha fatto non dico tacere ma almeno ha ridimensionato la convinzione che la finanza è la salvezza del mondo. L’enciclica di papa Francesco mette a tema un cambiamento della vita economica che fa capire che l’economia neoclassica non è l’unica economia. In un dibattito precedente si diceva che si insegna ancora l’idea che l’egoismo dei singoli con la mano invisibile porta al benessere collettivo. Ormai si capisce che non è più vero. Il Papa lo dice. Questo dibattito mette in luce che bisogna pensare al futuro perché il futuro non è più la conseguenza deduttiva del passato. Anche tutti gli accenni alla situazione internazionale, all’idea che non è detto che l’immagine dell’Europa che c’è adesso è l’immagine dello sviluppo, l’idea che la divisione tra lavoro e capitale dei soldi non permette uno sviluppo, l’idea di un sindacato moderno, vanno in questa direzione. Non stiamo per l’ennesima volta cercando di capire cose che sappiamo già. Penso che la presenza di Sapelli e di Annamaria Furlan, Segretario della CISL, ci costringa a dire quello che per anni abbiamo considerato scontato, e cioè che vince la destra o vince la sinistra. Soprattutto in questo ambiente, dobbiamo avere il coraggio di non avere più schemi e di andare verso il mare aperto, verso l’oceano. Scalfari citando Mattarella, che a sua volta citava Giussani, parlava di Ulisse. Noi dobbiamo avere il coraggio di Ulisse per fare il viaggio oltre le Colonne d’Ercole, perché azienda, lavoro, corpi intermedi, non sono più neanche quelli dell’anno scorso, e non sappiamo cosa siano. L’imprevisto del viaggio di Abramo, di cui abbiamo sentito parlare oggi Julián Carrón, Monica Maggioni e Joseph Weiler, è l’imprevisto, è il viaggio verso un’economia diversa. Grazie.

Data

24 Agosto 2015

Ora

19:00

Edizione

2015

Luogo

Sala eni B1
Categoria
Incontri