ROMANO GUARDINI E LUIGI GIUSSANI IN DIALOGO CON LA MODERNITÀ

ROMANO GUARDINI E LUIGI GIUSSANI IN DIALOGO CON LA MODERNITÀ

Partecipano: Massimo Borghesi, Docente di Filosofia Morale all’Università degli Studi di Perugia; Johannes Modesto, Postulatore della Causa di Beatificazione di Romano Guardini e Addetto Pastorale nella curia arcivescovile di Monaco di Baviera; Monica Scholz-Zappa, Docente di Scienze Linguistiche e Culturali all’Università Albert-Ludwig di Freiburg im Br. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.

 

ALBERTO SAVORANA:
Buon pomeriggio. Benvenuti a questo incontro della giornata inaugurale del trentasettesimo Meeting per l’amicizia tra i popoli “Tu sei un bene per me”. Io sono molto contento di poter introdurre i nostri relatori, perché le persone di cui ci parleranno hanno esercitato un ruolo, una funzione, una paternità grande nei confronti della realtà da cui è nato tanti anni fa il Meeting di Rimini: sono Romano Guardini e Luigi Giussani. Abbiamo scelto un taglio particolare per parlare di loro oggi pomeriggio con i nostri tre ospiti, che è il dialogo che Guardini e Giussani hanno saputo instaurare, intrattenere con l’uomo moderno, con l’uomo della modernità; un dialogo che, come avremo modo di ascoltare, è stato profondamente fecondo e continua ad essere attuale. “Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?” Questa è una frase scritta dal grande Dostoevskij più di un secolo fa. Guardini e don Giussani sono due prototipi di questo uomo moderno, due testimoni esemplari di un uomo dotato di tutte le capacità della sua ragione e della sua libertà, profondamente colti, europei e moderni, due persone che hanno ingaggiato una battaglia, un’avventura, per rispondere alla domanda drammatica e sempre attuale di Dostoevskij. In un mondo dove tutto cominciava a dire il contrario, Guardini negli anno ’30 della Germania, don Giussani negli anni ’50 dell’Italia si sono interrogati sull’attualità della fede cristiana, una fede che la tradizione bimillenaria della Chiesa aveva messo nelle loro mani per riviverla. Hanno cercato in qualche modo una giustificazione, come ha detto in una sua recente intervista Benedetto XVI, una giustificazione che la rendesse accettabile, comprensibile, utile, adeguata alla vita dell’uomo moderno, dell’uomo contemporaneo e dobbiamo riconoscere che ambedue hanno aperto una strada, in contesti profondamente diversi, una strada su cui tanti si sono incamminati e continuano a camminare. Guardini e Giussani hanno in qualche modo intercettato, letto i segni dei tempi, i segni di un cambiamento d’epoca. Il primo nella Milano degli anni ’50, il secondo nella Germania degli anni ’30 e in questo si sono dimostrati testimoni ante litteram dell’invito che Papa Francesco rivolge costantemente ai Cristiani, oggi, in un’epoca in cui le antiche sicurezze, ciò che sembrava incrollabile è venuto giù e tutto in qualche modo dev’essere riconquistato. Diceva il Papa a febbraio ai vescovi del Messico: “Vi prego di non cadere nella paralisi di dare vecchie risposte alle nuove domande”. Entrambi hanno intercettato una urgenza che ancora Benedetto XVI ha espresso con queste parole: “Per l’uomo di oggi le cose si sono in un certo modo capovolte: non è più l’uomo che crede di aver bisogno della giustificazione al cospetto di Dio, bensì è del parere che sia Dio stesso che debba giustificarsi a motivo di tutte le cose orrende presenti nel mondo e di fronte alla miseria dell’essere umano, tutte cose che ultimamente dipenderebbero da lui”. Confrontandosi con questa provocazione don Giussani e Guardini hanno risposto a Dostoevskij: sì, l’uomo moderno colto europeo può credere ancora, e lo hanno fatto innanzitutto con la testimonianza della loro vita, prima ancora che con la quantità di libri, testi, parole che hanno pronunciano. C’è un motivo in più che ci fa trovare qui oggi ed è il singolare incontro che don Giussani ha avuto con Guardini, lui che non lo ha mai conosciuto, che lo ha incontrato di lontano, leggendo negli anni della sua formazione, poi via via nel tempo, alcune delle opere più importanti del grande teologo italo-tedesco. C’è un’espressione che probabilmente tanti in sala ricordano, che possono citare a memoria, che ha conquistato don Giussani più di ogni altra: “Nell’esperienza di un grande amore tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito”. Per don Giussani l’esperienza di questo grande amore è l’esperienza dell’incontro cristiano, dell’incontro con la figura di Cristo, che gli ha fatto tornare viva la memoria dio quello che chiamava “il bel giorno”, il giorno che gli ha cambiato letteralmente la vita. “Per me tutto avvenne come la sorpresa di un bel giorno, quando un insegnante di prima liceo, avevo quindici anni, lesse e spiegò la prima pagina del Vangelo di San Giovanni: il Verbo di Dio, ovvero tutto ciò di cui tutto consiste si è fatto carne, perciò la bellezza si è fatta carne, la bontà si è fatta carne, la giustizia si è fatta carne, l’amore, la vita, la verità si è fatta carne: l’essere non sta in un iperuranio platonico, si è fatto carne, è uno tra noi”. “La mia vita è stata letteralmente investita da questo, l’istante da allora non fu più banalità per me”. È l’esperienza del grande amore descritto da Guardini. E allora noi vogliamo oggi ascoltare le tre persone che mi siedono accanto, raccontarci qualche cosa dell’attualità, della portata, della vita, del pensiero, dell’esperienza di Guardini e Giussani come contributo all’uomo di oggi, che cerca confusamente una strada per vivere. In un momento di cambiamenti radicali che cosa hanno da dirci, quale contributo offrono al nostro cammino oggi? Abbiamo invitato dalla Germania Johannes Modesto, che è dottore in teologia e addetto pastorale nella diocesi di Monaco Baviera e Frisinga, soprattutto perchè nei mesi scorsi è stato scelto dal Cardinale della sua diocesi come Postulatore per l’apertura della causa di beatificazione e canonizzazione di Romano Guardini e lo ringraziamo per essere con noi oggi. Abbiamo poi Massimo Borghesi, che è docente di Filosofia Morale all’Università degli Studi di Perugia e si è occupato, nei ripetuti anni di studi e di ricerca, di entrambi i nostri personaggi, don Giussani e Guardini, sui quali ha scritto diversi libri. Infine Monica Scholz-Zappa, docente di Scienze Linguistiche e Culturali all’Università di Freiburg in Germania, che negli ultimi anni, ha provato a mettere sotto la lente di ingrandimento questo dialogo a distanza tra don Giussani e Guardini, confluito in un libro che la casa editrice Jaca Book ha pubblicato proprio nelle settimane scorse, intitolato Guardini e Giussani. Una lettura originale. Siccome mi sono già dilungato troppo, darei la parola innanzitutto a Johannes Modesto. Grazie.

JOHANNES MODESTO:
Grazie signor Savorana. In primo luogo tante grazie per essere stato invitato a partecipare a questo colloquio del meeting di Rimini sul tema “Romano Guardini e Luigi Giussani in dialogo con la modernità”. In anticipo chiedo scusa se ci fossero degli errori grammaticali nella mia relazione, ma l´italiano non è la mia lingua madre.
Tutti due sacerdoti sono diventati “Servi di Dio” a causa dell´apertura del processo di beatificazione: per Luigi Giussani nel 2012 e per Romano Guardini in quest´anno. Allora deve esserci una “fama di santità”, un’ammirazione di una parte rilevante dei fedeli, cioè ci deve essere qualcosa che affascina tanti fedeli e li spinge ad ammirare e venerare questi due sacerdoti.
Sentiremo dopo delle numerose sintonie tra questi due grandi uomini dalla bocca del Professor Massimo Borghesi e della Dottoressa Monica Scholz – Zappa, due grandi e conosciuti esperti dell´opera di Romano Guardini e di Luigi Giussani. Per quanto spetta alla mia persona, mi vedo come un modesto esperto della persona di Romano Guardini. Come postulatore della causa di Romano Guardini – l´arcivescovo di Monaco e Frisinga, Reinhard Cardinale Marx n’è l´attore – ho l´incarico di raccogliere tutte le prove documentali e testificali per trovare la verità e la certezza morale sulle virtù eroiche del Servo di Dio Romano Guardini e per un presunto miracolo, attribuito alla sua intercessione.
I cosiddetti teologi censori devono esaminare tutti gli scritti editi e inediti di Romano Guardini (si tratta di 66 volumi finora pubblicati!) per quanto riguarda la fede corretta e i buoni costumi, disegnando così un profilo biografico del Servo di Dio. La cosiddetta “commissione storica” deve ricercare e raccogliere tutti gli scritti inediti (per esempio diario e lettere) e valutarli. Per questo lavoro ci vuole tanto tempo.
Dopo l´esame degli scritti verrà eseguita l’ escussione dei testi per trovare la verità e la certezza morale sulle virtù eroiche di Romano Guardini.
I protocolli degli interrogatori dei testimoni, eseguiti da un tribunale ecclesiastico e le relazioni dei censori teologi e della commissione storica verranno mandati insieme con le opere di Romano Guardini a Roma alla Congregazione delle Cause dei Santi. Così finisce la fase Diocesana e inizia la fase Romana del processo di beatificazione.
Dopo l´esame della validità giuridica degli atti portati a Roma, viene esaminato il contenuto degli atti, il cosiddetto merito della causa. Il postulatore deve preparare, sotto la guida del relatore storico, una trattazione secondo la strutturazione prescritta per tutta la causa, la cosiddetta ”positio”. Se i consultori storici e il Relatore Generale sono d´accordo con la “positio“, essa può essere pubblicata e la causa prosegue al Congresso Peculiare dei Consultori teologi. Essi esaminano, se il raggiungimento della verità circa la santità del Servo di Dio, espressa tramite l´esercizio eroico di tutte le virtù cristiane, oppure attraverso il martirio, è stato ottenuto dal punto di vista teologico. Dopo la luce verde del congresso dei teologi, la causa procede alla sessione Ordinaria dei Membri della Congregazione delle Cause dei Santi, cioè i cardinali e i vescovi.
Spetta al Prefetto della Congregazione il compito di sottoporre all´approvazione del Sommo Pontefice, che è l´unico Giudice nelle cause dei Santi a emettere la sentenza definitiva e concedere la beatificazione e la canonizzazione, le conclusioni della sessione ordinaria circa le virtù eroiche o il martirio del Servo/della Serva di Dio oppure circa un miracolo attribuito all’intercessione dei Servi di Dio.
Per la beatificazione di un “confessore”, cioè un Servo di Dio che non ha sofferto il martirio per la fede, in addizione alla “venerabilità” che vuol dire la conferma d´aver vissuto le virtù in grado eroico, è necessario anche un miracolo attribuito alla sua intercessione. Per l´inchiesta sul miracolo ci vuole un processo a parte, simile a quelle per il martirio o per le virtù eroiche.
Per un presunto martire si deve prendere l´iter del martirio, che procede in maniera molto simile a quello appena descritto. Nel caso di un presunto martire il miracolo non è necessario per la beatificazione. Dopo la causa di Romano Guardini sono anche postulatore per la causa del presunto martire Fritz Gerlich, un giornalista cattolico, che già all´inizio degli anni trenta del secolo scorso scrisse veementemente contro Hitler nel giornale “der gerade Weg” (la via diritta), cosicché fu ucciso già nel 1934 dai nazionalsocialisti a Dachau. Probabilmente è stato il primo martire del regime nazista.
Questi sono – in breve – i passi più importanti di un processo di beatificazione.
Adesso si pone la domanda, perché i due sacerdoti cattolici, don Romano Guardini e don Luigi Giussani, sono arrivati ad essere oggetto di un processo di beatificazione.
Secondo me ambedue hanno creato nel loro periodo una visione nuova e un’insolita prospettiva del cristianesimo: “Ciò che può convincere l´uomo moderno non è un cristianesimo storico o psicologico o comunque modernizzato, ma solo il messaggio non circoscritto e intatto dalla rivelazione. Naturalmente è poi il compito di chi insegna, collegare questo messaggio ai problemi e alle pene del nostro tempo” (RG a Papa Paolo VI 1965). Si deve vedere e conoscere il cristianesimo partendo principalmente dalla figura di Gesù Cristo. “Il Cristianesimo è lui stesso” (cioè Cristo) dice Romano Guardini. Così il Cristianesimo diventa più dinamico, più emozionante o con le parole della collega Scholz-Zappa: “Rimettere al centro del dialogo sull´essenza del cristianesimo il richiamo alla realtà storicamente incarnata, Gesù Cristo, rispetto a ogni tentativo di una sua riduzione etica o pietistica esprime la priorità condivisa e il nucleo originario della stima e dell’interesse per Guardini da parte di Giussani (p. 60)”.
Qui si parla del primato del logos sull´ethos: prima Cristo, poi l´etica. Mettendo il focus sulla figura e sulla vita di Cristo, don Giussani rievoca una strofa della famosa sequenza medievale “Stabat mater dolorosa” del francescano Jacopone da Todi, che esprime in parole semplici ma impressionanti la vicinanza, l´amicizia e l´amore dei fedeli per Cristo:
“fac ut ardeat cor meum
in amandum Christum Deum
ut sibi complaceam”

Questa famosa sequenza è stata messa in musica da tanti compositori famosi, per esempio Alessandro Scarlatti, Giovanni Battista Pergolesi, Joseph Haydn, Gioacchino Rossini, Antonin Dvorak e Giuseppe Verdi. Don Giussani osserva molto bene che i due compositori, Pergolesi e Dvorak, hanno messo in musica proprio questa strofa in maniera molto emozionante e sconvolgente. Partendo da quest’osservazione, don Giussani cita una frase guardiniana molto famosa e molto densa: “Nell’esperienza di un grande amore tutto diventa un avvenimento nel suo ambito”.
Questa bella frase di don Guardini dimostra un fatto conosciuto: se un uomo s´innamora di una donna o viceversa, tutta la sua vita quotidiana e il suo ambito sono immersi nella luce di quest´amore.
Si tratta della stessa esperienza riguardo alla sequela di Cristo e all´amore per Cristo: tutta la vita e tutto l´ambito dell´uomo si vedono in questa luce della fede. Così la fede si manifesta in tutta la vita e si attualizza ogni giorno e diversificandosi da una mera lista di dottrine e regolamenti. La fede si mostra nell’esperienza e diventa così la vita.
Questo è secondo me una posizione molto attrattiva che attualizza proprio per il nostro tempo il pensiero guardiniano e giussaniano, un’altra ragione per i due processi di beatificazione.
Entrambi parlano anche dell´amore e della conoscenza di Dio. Scrive Don Giussani: “Per l´uomo della Bibbia conoscere non designa mai un´azione esclusivamente intellettuale, in un contesto scientifico, ma sempre un´unione, un’unità carica d´intimità in un contesto di vita. Conoscere contiene tutta la realtà sperimentale d´una relazione esistenziale”. In questo ambito dobbiamo ricordare la definizione di San Tommaso d´Aquino: veritas est adaequatio rei et intellectus. La verità è l´equiparazione delle cose reali con l´intelletto. La rivelazione divina diventa per noi uomini un´esperienza ogni giorno sempre nuova, perché l`amore per Cristo risulta ogni giorno un nuovo avvenimento.
Questo non significa un´abolizione dei comandamenti, delle prescrizioni o regole, ma li mette in una nuova e piacevole luce pastorale, meno dominante. In riferimento a don Guardini, scrive Don Giussani: “Dottrina e moralità sono naturalmente di fondamentale importanza, ma ci si domanda se esse possano da sole esprimere la pienezza di ciò che si chiama rivelazione. Soprattutto nell´Antico Testamento – ma a ben guardare anche nel Nuovo – non è difficile vedere che l´una e l´altra sono sorrette da qualcosa di più elementare, cioè della vivente azione di Dio”.
Seguendo la frase di don Guardini “nell´esperienza di un grande amore tutte le cose diventano un avvenimento nel suo ambito”, don Giussani continua: “Il cristianesimo è un avvenimento. Non esiste altra parola per indicarne la natura: non la parola legge, né le parole ideologia, concezione o progetto. Il cristianesimo non è una dottrina religiosa, un seguito di leggi morali, un complesso di riti. Il cristianesimo è un fatto, un avvenimento: tutto il resto è conseguenza“. La rivelazione divina si manifesta nella vita e nella realtà quotidiana; secondo le parole di don Guardini non c´è una religione più materialistica del cristianesimo: la resurrezione della carne.
Anche questa posizione è molto attraente. Un’altra ragione attuale per la beatificazione: la “vox populi” lo vuole così.
Un alto aspetto che secondo me si mostra come un importante fattore per la fama di santità del Servo di Dio, don Romano Guardini, è il suo ruolo come il promotore spirituale del movimento liturgico prima del Concilio Vaticano secondo. Seguendo il suo pensiero centrale dell’avvenimento di Cristo, ne coglie anche le conseguenze per la liturgia. Guardini scrive: “La liturgia non ha in fin dei conti nessun altro contenuto che la persona, la vita, la parola e l´opera del Signore…. Tutto quest´ordine dei tempi, delle orazioni e delle azioni si riferisce a un avvenimento storico: l´avvento e la vita di Gesù. Nella liturgia non si tratta di un “allora”, ma dell´adesso”.
Questa visione era l´inizio del movimento liturgico, che condusse alla riforma liturgica del Concilio Vaticano Secondo (per esempio l´uso della lingua madre accanto al latino e la partecipazione attuosa dei fedeli nella liturgia).
Un altro punto dell´attualità del Servo di Dio don Romano Guardini consiste nella sua critica della centralità della tecnocrazia. Il Santo Padre Papa Francesco si riferisce alcune volte nella sua enciclica “Laudato si` al libro “Das Ende der Neuzeit” (La fine dell` epoca moderna) di Romano Guardini, quando scrive nel capitolo 115: “L’antropocentrismo moderno, paradossalmente, ha finito per collocare la ragione tecnica al di sopra della realtà, perché questo essere umano «non sente più la natura né come norma valida, né come vivente rifugio. La vede senza ipotesi, obiettivamente, come spazio e materia in cui realizzare un’opera nella quale gettarsi tutto, e non importa che cosa ne risulterà ». “ Così il valore proprio del mondo viene diminuito. Sempre citando Guardini, Papa Francesco continua: “Per questa ragione è possibile che l´umanità non percepisca la serietà delle sfide esistenti”. La possibilità dell’abuso del potere umano andrà sempre aumentando, se non esistono norme della libertà, ma solo presunte necessità dell´uso e della sicurezza.
Già più di cinquanta anni fa, Romano Guardini aveva descritto in maniera profetica i pericoli del progresso e della tecnica, che non viene usata dagli uomini nel rispetto della natura. Un tema veramente sempre attuale.
L´ultima parte della mia breve relazione intende far vedere un po’ la personalità del Servo di Dio Romano Guardini e i luoghi più importanti che hanno formato e influenzato anche la sua personalità.
La prima fotografia ci mostra la sua casa natalizia a Verona con una placchetta commemorativa.
La seconda fotografia fa vedere la placchetta commemorativa con il testo.
Adesso si vede il fonte battesimale di Romano Guardini nella sua chiesa parrocchiale San Nicola vicino all`Arena di Verona.
In questa foto si vede la grande cattedrale di Magonza/Mainz, dove Romano Guardini ha ricevuto il sacramento dell´ordinazione sacerdotale.
Veduta dell’interno della cattedrale di Magonza
L’università Humboldt a Berlino dove il professor Romano Guardini teneva le sue lezioni.
La casa canonica di Mooshausen, dove Romano Guardini si doveva ritirare nel periodo finale del nazionalsocialismo.
La facoltà teologica e filosofica a Tübingen, dove studiava e insegnava Romano Guardini.
L´edificio principale della Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco, dove si trova anche l´auditorio massimo, dove il professor Romano Guardini teneva le sue conferenze, che erano sempre affollate da tantissimi uditori.
Questa è la famosa villa della famiglia di Guardini a Isola Vicentina, dove Romano Guardini spesso trascorse le sue vacanze e si lasciò ispirare dal bell’ambiente per la concezione delle sue opere.
Il grande parco della villa.
La tomba della famiglia di Guardini a Isola Vicentina.
La casa dove visse Romano Guardini a Monaco.
La chiesa parrocchiale di Hl. Blut (“preziosissimo sangue”), vicino alla sua casa a Monaco, dove don Romano Guardini tenne parecchie omelie.
L´interno della chiesa parrocchiale di Hl. Blut
L´interno della chiesa universitaria e parrocchiale di San Ludovico a Monaco, dove il predicatore universitario professor Romano Guardini tenne tante omelie.
La cappella absidale destra di San Ludovico, dove si trova la tomba del Servo di Dio don Romano Guardini.
La tomba di Romano Guardini a San Ludovico
Rilievo medievale nel chiostro di San Fermo Maggiore a Verona, rappresentante una lezione universitaria.
Grazie per la Vostra attenzione.

ALBERTO SAVORANA:
Già da questo primo intervento vediamo la pertinenza, l’utilità della testimonianza di queste grandi figure della Chiesa del ’900 per l’uomo di oggi. Guardini e Giussani non si sono arroccati su posizioni difensive, non hanno avuto paura di ingaggiare un dialogo con l’uomo moderno, con il cuore dell’uomo moderno. E allora chiedo a Massimo Borghesi: in cosa hai rintracciato i tratti salienti, i tratti attuali, utili per il nostro cammino oggi, di questo percorso di Romano Guardini? Quale contributo ti sembra che Guardini possa offrire alla Chiesa in uscita di Papa Francesco?

MASSIMO BORGHESI:
Grazie, buonasera a tutti. Risponderò alle domande che mi fai dentro una riflessione sul modo con cui Guardini ha impostato il dialogo con la modernità. A me spetta di trattare di Guardini, un autore che mi è caro, a cui ho dedicato molta della mia riflessione, per i motivi che Alberto Savorana ha appena indicato: perché è un autore di straordinaria attualità, perché non è un autore del passato, perché è un autore che ha una sua proposta che vale anche per noi oggi. Guardini, italiano per nascita, tedesco per formazione, è stato in realtà un grandissimo educatore; qui c’è un percorso del tutto simile a quello di Giussani, in fondo siamo di fronte a due grandissimi educatori. Il movimento Quickborn (fonte viva) con il suo castello di Rothenfels lo ha avuto come protagonista (ci è stato ricordato che le attività del castello furono spiate e poi soppresse dai nazisti, Guardini verrà messo fuori causa nel ’39, la sua cattedra soppressa, il movimento giovanile chiuso), è stato certamente un punto di resistenza cristiana negli anni bui del nazionalsocialismo, quando molti cristiani vendettero l’anima e lui rimase fermo (penso che anche la causa di beatificazione abbia a che fare con questa sua resistenza cristiana al nazionalsocialismo, il suo insegnamento a Berlino era spiato dalla Gestapo). Ebbene, Guardini è stato filosofo, teologo, educatore, interprete di opere letterarie, ha avuto una visione del mondo realmente cattolica ed è stato apprezzato e stimato da ben tre Papi, da Paolo VI, da Benedetto XVI e da Papa Francesco, che – come sappiamo – voleva farci addirittura la dissertazione di dottorato. Qual è dunque, per obbedire al titolo che ci siamo dati, il rapporto di Guardini con la modernità? Quando Guardini è studente di teologia nella Germania degli anni 10 del secolo passato, l’orizzonte culturale è dominato dalla corrente neoscolastica, che auspica un ritorno a Tommaso d’Acquino, ritorno che Leone XIII aveva patrocinato e voluto. Questo movimento della neoscolastica che segna, impregna i seminari e le facoltà pontificie, è un movimento di grandissimo spessore culturale. Intuisce la deriva idealistica e soggettivistica di tanta parte del moderno e oppone una tendenza realistica, di un sano realismo che si rifà a Tommaso d’Acquino. Quindi la neoscolastica rappresenta realmente un luogo di formazione reale, e i giudizi denigratori sulla neoscolastica sono sciocchi e non tengono conto della grandezza di questo movimento. C’era però un limite nella neoscolastica ed era dato dalla sua utopia medievalista. L’opposizione al moderno portava ad idealizzare romanticamente il medioevo come periodo perfetto dal punto di vista della sintesi tra fede e ragione, dal punto di vista dell’incontro tra Chiesa e Impero, e dal punto di vista della perfezione della vita Cristiana. Insomma c’era una sorta di idealizzazione molto romantica. Non a caso questa idealizzazione del medioevo emerge durante il romanticismo. E questo portava naturalmente ad una opposizione totale, frontale, con l’intera modernità e portava inevitabilmente ad una sorta di ghetto cattolico, cioè di chiusura, di incapacità di parlare agli uomini del tempo, ad una sensibilità che inevitabilmente appariva arcaica, ad una posizione che per quanto fosse animata dalle migliori intenzioni rimaneva molto intellettualista. Insomma è come se tutta la grande corrente, per esempio, dell’esistenzialismo del ’900, scorresse via senza nessun rilievo, con grandi eccezioni. Posso ricordare tra queste Cornelio Fabro, Etienne Gilson, Jacques Maritain, grandi eccezioni. Ebbene anche Guardini, nei suoi primi saggi pubblicati, si muove in questo orizzonte del medievalismo. Anche lui in qualche modo guarda all’indietro, nella sua reazione al tempo presente. Ma già nel suo capolavoro filosofico del 1925, L’opposizione polare: tentativi per una filosofia del concreto vivente”, ci offre un modello storico che già va al di là di questa opposizione frontale. È un modello triadico. Guardini dice pressappoco così: il medioevo è stato una grande epoca, però è un’epoca precritica. È un’epoca che non ha stabilito ancora in maniera chiara le distinzioni tra il clero e il laicato, tra il potere politico e la Chiesa; insomma il suo peccato è stato di confondere troppo gli ambiti. Così che alla fine la libertà ne ha sofferto. Poi è seguita l’epoca moderna che è stata l’epoca della grande divisione, della contrapposizione frontale, l’epoca della scissione. Ora, dice lui, spetta a noi ricreare una nuova unità, un’unità critica, non precritica come quella medievale, ma un’unità critica che sappia mantenere le distinzioni all’interno di una nuova unità che siamo chiamati a realizzare. Quindi non più un’unità organica totalizzante come quella del medioevo, ma un’unità nuova che valorizzi la libera personalità. La Chiesa deve ritrovare il ponte con la libera personalità. Questo è il senso della sua opera del 1923, Il senso della Chiesa, dove lui auspica proprio questo: la rinascita della chiesa nelle anime può avvenire soltanto se la Chiesa riesce ad intercettare, a valorizzare, la libera personalità che è maturata nel corso della modernità. Questa è la sfida che abbiamo di fronte. In questa maniera, come vedete, Guardini anticipava i risultati del Concilio Vaticano II, perché sarà il Concilio Vaticano II che finalmente riuscirà a valorizzare il meglio, rifiutando il peggio, della modernità, cioè ad operare quella distinzione critica che Guardini aveva auspicato già nel 1923. Certamente Guardini, e questa era una nota di differenziazione rispetto ad altra parte del mondo cattolico che lui frequentava, non è mai stato un medievalista se non in questi primi scritti. Scrive: “Per quanto si possa amare il medioevo per la sua ineguagliata profondità, pienezza e bellezza, non si crederà nemmeno un istante all’opportunità di scambiare la nostra situazione con quella medievale”. E ancora: “L’atteggiamento medievale si è dissolto, e dopo che la riforma e l’autonomizzazione della cultura hanno sciolto le connessioni storico psicologiche tra Cristianesimo e cultura, entriamo di nuovo a pieno nel cerchio di fuoco del problema del Cristianesimo primitivo”. Permettetemi di dire, questa è una frase del 1926, che questo è un colpo di genio. Che uno nel ’26, invece di sognare il ritorno al medioevo, che era una pura utopia teologica, capisse che la dissoluzione della Cristianità poneva il Cristianesimo nelle condizioni del Cristianesimo primitivo, è assolutamente una posizione geniale, perché è la posizione di oggi. Intuirla nel 1926 dimostra quale capacità intuitiva avesse Guardini allora. Scrive ancora, nel 1928: “Non vogliamo pensare che la possibilità di realizzazione della fede propria del medioevo e del barocco, siano il non plus ultra. Esistono altre sommità più elevate ancora, forse tali ad ogni modo da trovarsi sulla nostra strada. Noi presentiamo un ardore, una profondità della fede, una capacità di superamento in essa, perlomeno altrettanto grande che nel medioevo, per quanto di tutt’altro colore spirituale”. La fede di oggi è più grande di quella medievale quando si manifesta nella sua purezza, perché non ha più gli appoggi del medioevo, perché è una fede che vive nuda in un mondo che certamente non sostiene quella fede. Quindi il ritorno al medioevo non solo non è praticabile sotto il profilo storico, ma nemmeno è giusto sotto il profilo ideale, perché l’unità medievale, lo si è visto, è l’unità organica troppo stretta, troppo integrale, nel senso di integralistica. con i rischi della confusione, del clericalismo etc. Per Guardini noi, in realtà, siamo di fronte a due modelli a rischio. Uno è l’assoluta autonomia del mondo da Dio, che porta a deificare il mondo. Ma c’è anche il rischio contrario, ed è quello per cui la presenza di Dio viene concepita in maniera così totalizzante, così integralistica, che la realtà creaturale evapora e si distrugge. Per cui tutto diventa soffocante, tutto diventa ecclesiastico, tutto diventa clericale, e non c’è più respiro, non c’è più il rispetto della natura in quanto tale. Paradossalmente Guardini dimostrava di essere un ottimo tomista quando elevava questo tipo di critica, perché il Cristianesimo rispetta ad un tempo natura e sovranatura e non permette che un termine prevalga sull’altro. Quindi siamo di fronte a due prospettive devianti e per questo Guardini legge l’autonomia moderna come reazione all’assolutismo medioevale. Si tratta di separare i due momenti: la ribellione negativa contro Dio che sta dietro l’autonomia moderna, dalle giuste rivendicazioni della libertà che stanno dietro l’autonomia moderna. Questa è l’operazione critica che i cattolici sono chiamati ad operare. Diversamente sono o modernisti o integralisti. E bisogna invece avere questa pazienza e questa capacità. Scrive in un importantissimo appunto dell’opera Der Mensch degli anni trenta: “Sarebbe importante cercare di delineare la storia della patologia della modernità, a partire dal rapporto che essa intrattiene con Dio. Tale storia si rivelerebbe senza dubbio coincidente con quella del fallimento del Cristianesimo”. Perché capire che l’autonomia è una rivolta contro Dio e un distacco da Lui, significa aver compreso solo la metà della questione. Ci si deve chiedere anche se nella volontà di autonomia non siano compresi elementi positivi che sono arrivati a maturazione nella modernità, ai quali il Cristianesimo, non certo modificando la sua impostazione di base, ma cogliendoli in essa, può concedere un legittimo spazio. Quindi si tratta di capire se dietro la rivolta moderna ci siano istanze positive che possano essere accolte dal Cristianesimo senza che il Cristianesimo debba diventare modernistico. Cioè il Cristianesimo rimane fedele alla sua tradizione, ma una tradizione è una ricchezza di virtualità che possono essere valorizzate. Quindi si può superare l’autoaffermazione moderna solo separando e distinguendo lo spirito di rivolta dalle giuste aspirazioni, non adeguatamente comprese nell’ottica di un soprannaturalismo dimentico della natura. Scrive Guardini: “Se rifiutiamo l’atteggiamento della modernità per fondare l’esserci nella libertà dell’agire di Dio, ciò non significa che vada necessariamente rifiutato anche ciò che tale atteggiamento esprime di valido”. Ebbene queste posizioni di Guardini allora non erano certamente usuali. Lo dico perché tanti studiosi di Guardini ne fanno un autore spirituale, semplicemente. Guardini era uno che aveva anche una posizione chiara, e la posizione chiara gli ha attirato in vita, basta leggere la biografia di Hanna-Barbara Gerl, per capirlo, gli ha attirato tante ostilità, tanti consensi, ma anche tante ostilità, e non dobbiamo appiattirlo come un autore spirituale, aereo, leggero e ultraterreno, se no lo ammazziamo due volte. Ebbene, dicevamo, Guardini suscitò molti sospetti, come quelli del dottor Carl Sonnenschein, assistente spirituale dei giovani nella Berlino degli anni ’20, che lo ostacolò in ogni modo nell’ambiente universitario ed educativo. Cosa diceva Sonnenschein: “Siamo in una città assediata, perciò non ci sono problemi bensì soltanto parole d’ordine”. Questa era l’impostazione dura dei cattolici d’assalto d’allora. Molto integralista, basta. Non bisogna dialogare, perdere tempo, ci sono parole d’ordine, bisogna obbedire. Non bisogna perdere tempo in vane riflessioni etc. Ebbene come risponde Guardini a questa posizione? Dice: “Questo motto può fare impressione, ma è sbagliato. Non si possono congedare i problemi, chi li avverte deve applicarvisi, specialmente se è responsabile sul piano intellettuale e spirituale. La prassi autentica, cioè l’agire giusto, deriva dalla verità e per essa bisogna lottare. In ogni caso mi applicavo all’interrogare, e non potevo lasciarmi aggiogare alla sua prassi. So che mi ha giudicato in modo molto aspro. Mi vedeva come un uomo che suscita inquietudine, in verità temo che fosse proprio così, che egli non sopportasse alcune interrogativi”. Guardini negli anni della guerra riscopre la propria natura liberale. Lo scrive all’amico Wiger nel 1924. Scrive: “In questi giorni mi ha colpito in modo del tutto particolare la profondità della natura liberale che ho nel mio sangue. Ho forse frainteso me stesso? Mio padre era un liberale italiano di vecchio stampo, sangue caldo e mente fredda. Pieno di rispetto per ciò che è religioso ma con una profonda avversione per ciò che è clericale. Era come se dentro di me rimbombi il sangue di mio padre. Prima ho sempre inveito contro il liberalismo, ma vedi lo si respira nell’aria”. La corrispondenza con l’amico Wiger, da cui si rifugerà poi negli anni della guerra, è preziosissima, e per capire Guardini bisogna leggere questa corrispondenza, perché era l’amico fidato (è stata editata in italiano dall’editore Morcelliana). Bisogna leggere la corrispondenza con Wiger. Non si capisce l’animo e le prospettive di Guardini se non si parte da quell’epistolario. Ebbene, nel 1915 diventa insofferente verso l’integralismo. L’integralismo allora voleva dire i cattolici che sposavano la guerra in Germania, quelli delle bandiere, voleva dire che la Chiesa e l’impero erano tutt’uno perché, come al solito, i Cattolici avevano la preoccupazione di non essere patriottici, di non essere sufficientemente patriottici. Scrive Guardini: “Vedi, credo che l’essenza dell’integralismo consista proprio nel rifiutare questa religiosità indiretta. E nel volere che la vita intera sia direttamente religiosa. Se lo fa una persona singola per sé, allora le è permesso, anche se credo che raramente una persona normale lo possa fare. L’integralismo in se stesso cerca di creare un sistema per tutti, un sistema per tutti. Persino per le istituzioni pubbliche della vita ecclesiastica. E non gli riesce mai, neppure per alcune. La natura si arroga il suo diritto, ma continua a provarci e proprio per questo il suo effetto è così pesante e malsano. È il tentativo forzato di collocare Dio e ciò che supera la natura nella vita piena, e di farne la parte dominante di ogni cosa. È un male per il fatto stesso di volersi imporre esclusivamente”. Ebbene, questa prospettiva di Guardini spiega perché soffrì a lungo delle ristrettezze del Cattolicesimo tedesco. Nel 1923 auspica una grande rinascita del Cattolicesimo in Germania. La chiesa che ritorna nelle anime. Ma verso la fine degli anni ’20 si nota un processo di disillusione progressiva. Si rende conto che questo Cattolicesimo tedesco è imbalsamato, è clericalizzato, si muove, potremo dire nei termini di Papa Francesco, in una chiusura autoreferenziale, non riesce a comunicare con l’esterno, non riesce a trovare interlocutori. E allora contro questo legalismo, scrive ancora a Wiger nel ’24: “Ho appena letto un libro che possiede grandezza, bellezza, disciplina e una netta ostilità verso la Chiesa. Sono consapevole di quanta grandezza, purezza e forza creativa ci sono là fuori, fuori dalla Chiesa, e di come ciò che produce creatività all’interno sia epigonismo. Pensieri scomposti, tecniche di compromesso, e temo il momento in cui mi diventerà assolutamente chiaro come il vero Cattolicesimo sia misero. Quello che facciamo noi, infatti, la gente che si dice Cattolica, scrivere libri e tenere discorsi, ed organizzare, tutto ciò è qualcosa di disperato che non dice niente. Se il vero evento non arriva a noi da un’altra parte, allora siamo alla fine”. Se il vero evento non arriva da un’altra parte siamo alla fine. Ebbene il mondo cattolico, chiuso nel proprio ambito, non si collocava nella sfera richiesta, cioè quella di una libera testimonianza in grado di accordare il soprannaturale con la natura. Guardini soffriva molto le accuse di Nietzsche sul Cristianesimo misero, che non valorizzava la natura umana, che non esaltava l’umano nelle sue componenti, sempre questo Cristianesimo moralista, sempre questo Cristianesimo restrittivo, fatto di vento, incapace di valorizzare l’umano. L’ateismo moderno non era dato semplicemente da una posizione teoretica, l’immanenza del cogito cartesiano, come pensavano i tomisti. Esso rappresentava anche una posizione esistenziale, una scelta affettiva, una rivolta. Per questo la modernità andava affrontata almeno secondo due posizioni: una assolutamente non liberale ed è quella che è stata ricordata prima, quando Guardini ha la consapevolezza che bisogna proporre Cristo così com’è, il Cristo dei Vangeli, non adulterato, non addomesticato, il Cristo storico, il Cristo dei Vangeli, il Cristo reale. Questo, contro ogni liberalismo teologico, era il contenuto dell’annuncio Cristiano. Guardini combatte nella metà degli anni 30 per questo Cristo, contro la riduzione mitologica, mitica del Cristo dei nazionalsocialisti e dei cristiani tedeschi che gli andavano dietro a un Cristo irriducibile al senso religioso. Perché il senso religioso è una cosa della natura e Cristo invece è l’automanifestazione storica di Dio nel tempo. L’altra posizione invece era liberale, liberale nel senso che è esistenziale, che valorizza la libertà dell’uomo, secondo quella posizione per cui non si dà verità che non sia accompagnata dalla certezza. In questo un punto di consonanza assoluta con don Giussani. È chiaro perché Giussani era così sensibile alla lezione di Guardini. Perché la verità non si può dare in maniera intellettualistica, ma si dà soltanto nella verifica di un’esperienza, e quindi passando attraverso l’esistenza. E questo è il momento moderno, è il momento esistenziale, è il momento della soggettività, è il momento della libertà. Quindi la modernità andava affrontata a partire da queste posizioni, e in particolare sul terreno esistenziale. È la scelta che Guardini compie con le sue lezioni universitarie di antropologia Cristiana degli anni ’30, gli anni del nazionalsocialismo. “Queste lezioni, scrive, si interrogano su che cosa è l’uomo nella coscienza cristiana. La questione deve essere trasportata, e senza alcuna esitazione, nel moderno stile del pensiero. In uno stile esistenziale. Ciò significa che l’obbiettivo principale di queste lezioni è la chiarificazione dell’esperienza di esistere e della modalità in cui nell’esistenza un determinato Cristiano incontra se stesso. In questo modo si introduce nella trattazione un elemento di grande soggettività”. Ebbene questa modalità di pensiero trova nella tradizione Cristiana il suo autore ideale in Agostino. Agostino diviene per Guardini il ponte tra il Cristianesimo e l’era moderna. A partire dalla metà degli anni ’30 in avanti, Agostino diventa il ponte con la modernità, per il suo stile esistenziale, perché in lui il Cristianesimo diventa esperienza esistenziale e non semplicemente affermazione formale. Scrive: “Agostino ha stabilito un legame non solo dall’antichità al medioevo, ma anche dall’antichità all’era moderna. I pensatori e maestri spirituali del medioevo hanno attinto a larghe mani dai suoi scritti ma molti dei suoi interrogativi sono rimasti a loro, cioè ai medievali, estranei. A questi appartiene in primo luogo quello riguardante il modo in cui il singolo uomo si trova nell’esistenza. Quando Agostino lo pone, stavano crollando i sistemi di difesa e di sostegno che costituivano un cosmo attorno all’uomo antico, e davano alla sua esistenza un’ autocomprensione. Così il singolo si sentiva consegnato in balia di un mondo divenuto pericoloso e di un corso della storia non più comprensibile”. Cioè Agostino, vivendo nel momento della crisi del mondo antico, non vive più delle coperture, degli appoggi che sono tipici del medioevo. Vive in mare aperto, in una situazione di crisi e questo ce lo rende contemporaneo, perché noi viviamo la stessa situazione. Guardini pone Agostino in una situazione culturale, esistenziale analoga a quella che segna i primi decenni del XX secolo. L’aver vissuto tale condizione da parte di Agostino è la dote che gli permette di entrare a pieno titolo nel teatro di una modernità in crisi. Ha l’acutezza che manca sia all’antichità che al medioevo. Concludo con una citazione ancora di Guardini: “Solo con i pensatori degli inizi dell’età moderna e nelle appassionate impostazioni del problema da parte di Pascal, si fanno strada quelle domande che da quel momento non resteranno più mute. Quel modo di sperimentare la propria esistenza si manifesta particolarmente evidente nei primi 5 libri, nei quali Agostino riferisce del suo cammino verso la fede: Le Confessioni. Le domande che ci vengono poste, lo stile nel quale si sviluppa il pensiero, il modo con cui il pensatore sente la propria vita in rapporto al mondo ed entrambi in rapporto con la vita di Dio, fanno di quei capitoli una delle manifestazioni più pure della moderna esperienza esistenziale”. Grazie.

ALBERTO SAVORANA:
Adesso Monica Scholz-Zappa ci racconterà il dialogo di don Giussani con la modernità, che vuol dire non con una categoria teorica, ma con l’uomo moderno, con il cuore dell’uomo moderno. Io sono rimasto letteralmente affascinato quando ho sorpreso nei tratti biografici di don Giussani il suo primo, il primissimo albore del suo incontro con la modernità, che accade a 13 anni con quello che don Giussani, nell’età adulta, definirà letteralmente “il compagno più suggestivo del mio itinerario religioso”, Giacomo Leopardi. Don Giussani, a 13 anni e poi per tutta la vita, subisce l’attrazione di questo uomo, perché sotto la superficie, sotto l’apparenza delle posizioni assunte, vede un cuore che cerca, che domanda, che desidera, che vuole usare la sua ragione, la sua libertà, secondo tutta la loro ampiezza. E allora chiedo a Monica: qual è l’attualità di don Giussani oggi? Qual è la portata di questo dialogo che a un certo punto gli ha fatto intercettare un altro suggestivo compagno di cammino in Romano Guardini?

MONICA SCHOLZ-ZAPPA:
Buonasera, ringrazio di questa occasione di dialogo.
Il tema è immenso, parlare in modo adeguato della modernità in don Giussani è un compito non facile: per questo non voglio in alcun modo né commentare né parafrasare testi che lui ha scritto, in cui emerge, infinitamente e immediatamente meglio di come io possa fare, il cuore della questione di questa sera. Vorrei, piuttosto, leggere Giussani alla luce delle sue consonanze sul tema con Guardini: è di questo rapporto che parlerò, delle domande che ho colto nel loro dialogo.
Prendo le mosse da un passaggio presente nel primo paragrafo della Lumen Fidei: «Parlando della luce della fede» – scrive il Papa – «possiamo sentire l’obiezione di tanti nostri contemporanei. Nell’epoca moderna si è pensato che una tale luce potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione, desideroso di esplorare in modo nuovo il futuro. In questo senso, la fede appariva come una luce illusoria, che impediva all’uomo di coltivare l’audacia del sapere. Il giovane Nietzsche invitava la sorella Elisabeth a rischiare, percorrendo “nuove vie…, nell’incertezza del procedere autonomo“. […] “A questo punto» prosegue Nietzsche «si separano le vie dell’umanità: se vuoi raggiungere la pace dell’anima e la felicità, abbi pur fede, ma se vuoi essere un discepolo della verità, allora indaga“».
Nietzsche è sicuramente uno dei più grandi pensatori della modernità, proprio per la sua radicalità e, in questa citazione, mi è parso di cogliere due punti, due domande legate al tema della modernità che possono fungere da filo conduttore.
La prima: la domanda sulla ragione, questa esigenza infinita di sapere inscritta nell’uomo, l’audacia del sapere, l’energia del sapere, l’inquietudine del sapere; il dare ragione di questa tensione infinita dell’uomo, non bloccandola, ma valorizzandola. La seconda: la domanda sul rapporto fede-ragione, su questa apparente contrapposizione che continuamente riemerge come due facce del nostro io.
Potremmo già qui anticipare e leggere l’intenzione fondamentale sottesa alla lunga riflessione di Luigi Giussani nel Per-Corso, la trilogia che raccoglie l’elaborazione sistematica del rapporto Uomo-Cristo-Chiesa, come luogo della risposta a tali questioni, in cui emergono sia la riflessione riguardo all’anelito conoscitivo proprio dell’uomo che la proposta della categoria di avvenimento, come luogo unitario di superamento della possibile antinomia tra fede e ragione.
Incomincerò dalla seconda questione, cioè da tale antinomia.
Quando Giussani ha iniziato a porsi il problema della modernità, è stato sollecitato da alcuni fenomeni di natura esistenziale, soprattutto legati al tema delle antinomie, delle contrapposizioni o separazioni: contrapposizione fede-ragione, individuo-società o, anche all’interno della Chiesa, tra io-individuo e comunità. Egli ha ripetutamente evidenziato il continuo tentativo, tipico della modernità, di frammentare l’uomo. C’è una sua citazione, che ritengo molto attuale, che recita: «La cultura della società di oggi produce un’immagine e un sentimento dell’io come aggregato di segmenti o frammenti. Ogni segmento, ogni frammento – il rapporto affettivo, il lavoro, la religione, il riposo, il divertimento, eccetera – ha la sua legge, ha una dinamica stabilmente fissata e ineludibile (ci sono delle leggi per giocare al football e ci sono altre leggi per il rapporto tra un uomo e una donna, o per affermarsi nel proprio lavoro, e via dicendo). Tutti i segmenti sono governati da una loro legge: perciò è come se la realtà rimanesse tutta terremotata. L’esito di un simile comportamento culturale e psicologico è quello di azzerare ogni costruzione in frammenti, dispersi per terra e l’uno contro l’altro in lotta. Come dopo un violento terremoto, non esiste più la casa e non esiste più il paese: esistono mucchi di sassi, brani di mura, la «gran ruina»2 di cui ancora parla Dante» (Luigi Giussani, In cammino (1992-1998), a cura di Julián Carrón, BUR, 2014, pp. 101-102).
Giussani riprenderà più volte un’immagine di Giovanni Paolo II che aveva parlato dell’uomo contemporaneo come dell’uomo ridotto a pezzi di materia o a cittadino anonimo della città terrena, in cui la parola “pezzi”, diviene., oggi in modo più che mai attuale, sinonimo di “guerra”, di un mondo frammentato.
La prima pagina de Il Senso Religioso del 1957 intende, invece, partire proprio da uno sguardo unitario, cioè dall’osservazione che l’uomo è «fatto per», che l’azione dell’uomo, secondo natura, si dirige verso uno scopo ultimo che abbraccia e supera scopi che potremmo definire, come disse l’allora papa Benedetto XVI nel suo messaggio al Meeting nel 2012: «falsi infiniti». Prima di ogni contrapposizione, all’inizio c’è una tensione unitaria, che nasce da una „chiamata“ attraverso la realtà, da un Fatto che illumina e porta tutto ad unità. E, nella realtà, è rintracciabile il segno e l’invito a tale unità.
Questa era l’esperienza che Giussani aveva vissuto, coincidente, con quell’„opzione teologica“ guardiniana che permetterà, al teologo italo-tedesco, di leggere la modernità in questi termini:
«In verità, per l’uomo di quell’epoca era dubbio se addirittura esistesse l’oggetto. Egli non possedeva alcuna coscienza immediatamente solida della realtà delle cose e, in fondo, neppure della propria. […] Manca l’esperienza originaria della realtà. Tale situazione poteva intuitivamente farsi chiara nella mente di chi, assistendo alle lezioni di un rappresentante del nuovo idealismo, udisse affermare che “l’essere è un valore”. L’essere un valore! Non si potrebbe esprimere più brevemente e bruscamente quanto insostenibile fosse tale posizione e come potesse attribuirsi solo a una profonda adinamia. La realtà non aveva più sostanza per l’esperienza vissuta, non aveva più forza, era fiacca, meschina. […] Nonostante tutto il “senso della realtà”, tutte le scienze naturali, tutta la tecnica e la politica realistica, l’uomo non vedeva la cosa reale, la struttura compiuta, non vedeva l’uomo. […] Egli viveva in un mondo di forme e segni astratti che non erano collegati con quella realtà che i segni indicavano» (R. Guardini, Il senso della Chiesa, op. cit., p. 17). 
 Si tratta di un’ultima incomprensione o misconoscenza, che lo porterà, come Guardini, a citare proprio Friedrich Nietzsche che «parlava degli uomini dei tempi moderni, la cui intelligenza è tanto ottusa da non capire più il senso del linguaggio cristiano» (Perché la Chiesa, op. cit., p. 35. Vedi anche R. Guardini, La fine dell’epoca moderna. Il potere, op. cit., p. 102).
Al contrario, è proprio l’imporsi del Fatto cristiano, presente attraverso la realtà della Chiesa, a rappresentare quel fattore di risveglio e di recupero della natura oggettiva del reale e della possibilità di conoscerlo. Essa diventa lo strumento in grado di spalancare l’energia e l’ampiezza conoscitiva del soggetto, e quindi della sua ragione e del suo accedere alla realtà. Cristianesimo inteso non come alternativa alla ragione, ma come avvenimento storico e reale che spalanca la forza conoscitiva della ragione stessa dell’uomo, e che porterà sintonicamente Giussani ad affermare: «La Chiesa eredita dunque le preoccupazioni amorevoli di Dio stesso e conquista così il titolo di madre. […] La funzione della Chiesa nella storia, dunque, è il materno richiamo alla realtà delle cose: la dipendenza dell’uomo da Dio, un Dio misericordioso»L. Giussani, Perché la Chiesa, op. cit., p. 199).
Dalla presa di coscienza della realtà della Chiesa scaturisce, dunque, la ripresa di coscienza della totalità dell’essere come tale e della possibilità della sua conoscenza. Non antinomia tra fede e ragione, bensì vicendevole impegno: la fede spalanca la natura propria della ragione, in quanto le permette di accedere alla natura più intima e profonda delle cose, della realtà stessa. È, a ben vedere, un inno alla ragione che Giussani così descrive: «La ragione non è la misura del reale, non è la misura dell’essere, perché l’essere la deborda da tutte le parti. Essa non c’era prima, non ci sarà domani. L’essere la deborda da tutte le parti, ma allora, se fosse “misura” non potrebbe conoscere il reale vero, l’essere vero; invece la ragione è una finestra spalancata sulla realtà, è un’apertura alla realtà, alla realtà del volto di mia madre come alla realtà che sta nascosta dietro il segno dell’universo, il segno di ogni cosa, l’infinito, il mistero, Dio». (L. Giussani, La profezia di Leopardi, «Il Nuovo Areopago», 1997, n. 3, pp. 110-112). O ancora: «Tale ostilità è figlia di una persistente dimenticanza, dunque di una riduzione del reale. […] Ciò che si tende sempre a dimenticare è la realtà nella totalità dei suoi fattori» (Perché la Chiesa, op. cit., p. 56. Per approfondire questa analisi si rimanda anche a L. Giussani, Il senso di Dio e l’uomo moderno, op. cit., pp. 79- 137).. Insiste Giussani: «Per il mondo moderno la ragione è “misura” di tutte le cose: quello che io non misuro non c’è. Allora quel che c’è è una prigione: nessuna novità è possibile, radicalmente. Per noi, per la tradizione cristiana, la ragione è una finestra spalancata sulla realtà che l’uomo, quanto più guarda, tanto più desidera guardare – e non ha mai finito. E la legge dell’infinita possibilità passa in ogni palpito del cuore per dilatarlo in una attesa di qualcosa che esso non può immaginarsi, ma che gli corrisponde (Piero Bigongiari – H.G. Gadamer – L. Giussani – E. Komar, La sfida della ragione, a cura di Davide Rondoni e Antonio Santori, Guaraldi, Rimini 1996, pp. 55-56).
Un’unità all’origine, un Fatto che illumina e ridona realtà al presente e alla possibilità di conoscerlo. Detto molto sinteticamente: l’antinomia fede-ragione viene affrontata in termini di possibilità di spalancamento conoscitivo della ragione proprio attraverso il «Fatto» cristiano.
Una dinamica che Giussani illumina anche rispetto a quella tensione all’infinito, agognata dalla modernità, che sarebbe, tuttavia, ancora in balia di ulteriori riduzioni se non compresa e vissuta alla luce del rapporto tra Avvenimento cristiano e senso religioso, in cui l’uno infiamma e vivifica l’altro. Il secondo approccio, infatti, che ha accomunato Giussani e Guardini nel dialogo con la modernità è stato l’approfondimento del tema della religiosità, della possibilità di vivere la tensione all’infinito, secondo una religiosità vera che non può prescindere dal rapporto con una oggettività.
È questo che probabilmente Giussani ha letto e colto nel testo guardiniano L’essenza del Cristianesimo in cui Guardini mira, esattamente come ha fatto anche Giussani nel Per-Corso, a mostrare la novità del Cristianesimo rispetto a vaghi sentimenti religiosi. In particolare, Giussani deve essere sussultato sulla sedia quando ha letto queste tre semplici e intense righe: «Nell’esperienza di un grande amore tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito…». Non so chi di noi si sarebbe soffermato a scoprire queste tre semplici righe, innumerevoli volte citate da Giussani, che avevano colpito il suo cuore e avevano detto qualcosa alla sua fede, alla fede come avvenimento. Perché? «Nell’esperienza di un grande amore, tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito»: in che senso tale frase è un contributo alla modernità? In questa affermazione di Guardini, ripresa da Giussani possiamo scorgere, a mio parer il contributo e l’attualità di entrambi. L’inizio, anche della conoscenza, è un grande Amore, l’inizio è un fatto che si pone. Avvenimento: questo è il nome che danno alla parola ‘Logos’. Il Logos, che è Persona, è il grande amore da cui poter partire, che ci viene incontro per poter a nostra volta poterLo riconoscere attraverso la realtà. È da questa inversione di metodo, dall’affacciarsi del Fatto cristiano alla porta dell’io, che l’io può trovare contenuto e metodo alla propria religiosità. Così Giussani puntualizza: «Gesù Cristo è venuto a richiamare l’uomo alla religiosità vera, senza della quale è menzogna ogni pretesa di soluzione. Il problema della conoscenza del senso delle cose (verità), il problema dell’uso delle cose (lavoro), il problema di una compiuta consapevolezza (amore), il problema dell’umana convivenza (società e politica) mancano della giusta impostazione e perciò generano sempre maggior confusione nella storia del singolo e dell’umanità nella misura in cui non si fondano sulla religiosità nel tentativo della propria soluzione» (L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, op. cit., p. 124). Il tema è così decisivo che il successore di Giussani, Julián Carrón, riprenderà, in tempi, più recenti l’importanza della “questione”, sempre aperta e sempre attuale: «Ma che cosa significa affrontare Il senso religioso dall’interno della fede?». Noi «siamo abituati a intendere il “senso religioso” come una semplice premessa alla fede; perciò esso ci sembra quasi inutile, una volta che la fede sia raggiunta. [Invece] è proprio nell’incontro con l’avvenimento cristiano che il senso religioso si rivela in tutta la sua originale portata, raggiunge una definitiva chiarezza, viene educato e salvato. Cristo è venuto per educarci al senso religioso» (J. Carrón, La bellezza disarmata, Rizzoli, Milano 2015, p. 116). Guardini e Giussani prendono, dunque, le mosse da un orizzonte, potremmo dire, di realismo assoluto, all’interno di un incontro avvenuto, che mette in moto e compie l’attitudine religiosa dell’uomo.
L’avvenimento come pro-vocazione al senso religioso (ricerca dell’infinito) e come possibilità di spalancamento conoscitivo del senso e dello ultimo della realtà (fede e ragione).
Da ultimo va ricordato che quando Giussani si è attardato sul tema della modernità (forse alcuni di voi conoscono il testo La coscienza religiosa dell’uomo moderno), non ha voluto proporre un percorso semplicemente storiografico, cioè di narrazione nostalgica dell’evoluzione o involuzione che poteva aver avuto luogo dal medioevo alla modernità. Ma la sua lettura è stata un tentativo di cercare quei canoni ermeneutici, cioè quei punti di riferimento nel processo di conoscenza dell’uomo, databili oltre la vicenda stessa. La sua riflessione su questa storia – antichità, medioevo, modernità – non aveva nessun interesse apologetico, bensì voleva cogliere i fattori ricorrenti, sintetizzabili in fenomeni di “riduzione” che aveva notato: riduzione della ragione a misura delle cose, riduzione della libertà ad assenza di legami, riduzione della coscienza a norma etica, riduzione del concetto di servizio e di potere, riduzione del concetto di cultura.
Il punto di contatto tra i nostri nello sguardo alla modernità è stato dunque quello di non da un approccio ideologica, ma guardando all’uomo e al suo modo di rapportarsi al reale. Se Guardini ha avuto in alcuni momenti della sua vita una visione, oserei dire, più pessimistica rispetto allo sviluppo della storia, egli ci ha tuttavia lasciato un giudizio e una profezia quando ha usato quell’indimenticabile metafora: «il risveglio della Chiesa nelle anime» (Il senso della Chiesa, Morcelliana, Brescia, 2007, p. 15). Lo sguardo di Giussani è sempre stato caratterizzato da una fiducia e al contempo da un senso di sfida e di verifica: il senso religioso e l’avvenimento cristiano come i veri “bastioni” entro cui proprio la natura e l’anelito della modernità possono accadere, realizzarsi, in cui l’uomo può “essere”. Una sfida ed una verifica che esprimono il grande dramma della libertà qui sotteso. Per questo, Giussani termina – e io termino – con un invito. Dalla certezza del fatto cristiano, l’invito di Giussani anche alla modernità è stato, paradossalmente, quello «di vivere intensamente il reale». Perché il reale, in qualche modo, fa emergere quelle domande che conducono l’uomo verso un Oltre. Giussani lo ha sempre proposto con estrema discrezione, nell’attesa dell’accadere di un incontro, di una domanda solo dalla quale può nascere la nostalgia dell’Oltre: «È una domenica mattina di giugno: Luigi entra in chiesa, con lui c’è la madre. Sebbene cresciuto in un ambiente cattolico, il ragazzo sta attraversando un momento di crisi. Per questo si appoggia allo sportellino del confessionale e dice: “Guardi, io sono qui. Ma io non ho mica voglia di confessarmi, perché non credo”. Giussani, di rimando: “Beh, non posso mica darti l’assoluzione allora”. “Ma c’è qui mia madre, dietro, che mi spinge, perché devo fare la maturità classica e vuole che faccia la Comunione”. Allora attaccano discorso. A un certo punto, di fronte alla valanga dei ragionamenti di Giussani, ridendo gli dice: “Guardi, tutto ciò che lei si affatica a espormi, non vale quanto sto per dirle – e qui abbiamo la modernità -. Lei non può negare che la vera statura dell’uomo è quella del Capaneo dantesco, questo gigante incatenato da Dio all’Inferno, ma che a Dio grida: ‘Io non posso liberarmi da queste catene perché tu mi inchiodi qui, non puoi però impedirmi di bestemmiarti e io ti bestemmio’. Questa è la statura vera dell’uomo”. Dopo qualche secondo d’impaccio, Giussani gli dice con calma: “Ma non è più grande ancora amare l’Infinito?”. Il ragazzo se ne va, ma dopo quattro mesi è tornato a dirmi che da due settimane frequentava i sacramenti, perché era stato roso come da un tarlo, per tutta l’estate, da quella mia frase».
Di fronte alla provocazione della modernità, con la sua promessa e la sua resistenza, di fronte al Mistero della grazia dell’Avvenimento, questa è ed è stata la risposta, l’invito di Giussani all’uomo moderno: « Ma non è più grande ancora amare l’Infinito?”». A noi è drammaticamente chiesta solo l’opzione della libertà, quella di essere almeno aperti a questa possibilità. Grazie.

ALBERTO SAVORANA:
Don Giussani e Guardini non hanno avuto paura di guardare con una tenerezza infinita questo uomo che può giungere a bestemmiare Dio. E allora, dopo l’incontro di oggi, io capisco ancora di più la portata della frase di Benedetto XVI, di Dio che deve in qualche modo giustificarsi agli occhi dell’uomo di oggi. Cioè la fede deve mostrarsi in qualche modo utile alla vita oggi. Questo, io capisco, è il grande contributo, la grande eredità che questi due nostri grandi padri ci mettono nelle mani, sottoponendo al tribunale della nostra vita, della nostra esperienza, la loro proposta. Senza altro armamentario, per usare la bellissima espressione di don Carrón, se non una “bellezza disarmata”, capace di intercettare come nient’altro questo cuore inquieto, questo cuore che vuole vivere ma non sa come. E allora io capisco anche e sono grato che, nel suo messaggio al Meeting, il Papa abbia identificato questo compito con la missione per cui siamo stati scelti da Dio. È l’annuncio del Vangelo, che oggi più che mai si traduce soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo, portando la presenza forte e semplice di Gesù, la sua misericordia consolante e incoraggiante. Di questo oggi abbiamo avuto una ulteriore grande conferma nei contributi di Johannes Modesto, Massimo Borghesi e Monica Scholz-Zappa, e di questo li ringraziamo, perché è una conferma ulteriore di una strada che può giustificare la fede agli occhi dei nostri contemporanei e innanzitutto a noi.

Data

19 Agosto 2016

Ora

17:00

Edizione

2016

Luogo

Sala Neri CONAI
Categoria
Incontri