RISORSE DEL PIANETA: SPARTIZIONI O CONDIVISIONE?

Risorse del pianeta: spartizioni o condivisione?

Partecipano: Alberto Piatti, Segretario Generale della Fondazione AVSI; Jeffrey Sachs, Director of the Earth Institute, Quetelet Professor of Sustainable Development and Professor of Health Policy and Management at Columbia University; Paolo Scaroni, Amministratore Delegato di eni. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.

 

RISORSE DEL PIANETA: SPARTIZIONI O CONDIVISIONE?
Ore: 19.00 Sala C1 Siemens

BERNHARD SCHOLZ:
Buonasera a tutti. Se la natura dell’uomo, come dice il titolo di questo Meeting, è rapporto con l’infinito, vuol dire che ogni uomo ha una dignità assoluta che non può essere relativizzata da niente e da nessuno, che chiede di essere valorizzata perché ognuno possa esprimersi al meglio, dando un contributo al bene di tutti. E chi vive con la coscienza di essere rapporto con l’infinito, non può non avere un interesse che si faccia il possibile, forse anche l’impossibile, perché questo diventi una possibilità di vita per ognuno. E’ per questo che siamo grati di poter discutere questa sera insieme su un tema che riguarda noi ma soprattutto le future generazioni, cioè i nostri figli e i nostri nipoti. Com’è possibile condividere le risorse di questo pianeta in modo che ognuno possa essere partecipe al bene che questo pianeta ci riserva, perché non è un bene esclusivo di nessuno ma è un bene che va condiviso fra tutti? Siamo molto onorati di poter parlare, questa sera, di questo tema con uno dei più autorevoli e celebri economisti al mondo, il professore Jeffrey Sachs, Direttore dell’Earth Institute della Columbia University. Lo ringrazio veramente di essere venuto qua per parlare con persone che non sono scienziati, almeno non lo sono la maggior parte di noi, ma appassionate a dare il loro contributo dovunque siano e in qualunque situazione si trovino, per rendere questo pianeta più vivibile nel futuro. Un cordiale benvenuto anche a Paolo Scaroni, Amministratore Delegato di Eni, spesso ospite del nostro Meeting, e un altro altrettanto cordiale benvenuto ad Alberto Piatti, Segretario Generale di Avsi.
Noi viviamo in un mondo di grandi trasformazioni che non incidono solo, come si discute in questi giorni, a questo Meeting, sulle nostre imprese, sulle nostre famiglie, sulla nostra vita quotidiana, ma anche sulla vita di tutte le persone in tanti altri Paesi in giro per il mondo. Questa globalizzazione, chiamiamola così, ci fa uscire da una presunta indipendenza e ci fa scoprire una grande interdipendenza perché, qualunque cosa succeda in una parte del mondo, incide su altre parti del mondo. Assistiamo a tanti Paesi emergenti che, giustamente, chiedono di vivere meglio, di avere un benessere maggiore, di vivere non più nella povertà e di poterlo fare con maggiore giustizia. Quindi, ci troviamo di fronte alla sfida di trovare un nuovo equilibrio di sviluppo, che non continui a demonizzare l’economia, come spesso accade, senza pensare che lo sviluppo debba avvenire a prescindere da uno sviluppo economico, in modo assistenzialistico, senza dare a questi Paesi la possibilità di presentarsi anche loro sui mercati internazionali in un modo degno ed equo.
Nel suo ultimo libro appena uscito, Il prezzo della civiltà, Jeffrey Sachs denuncia senza mezzi termini una delle cause principali di questa crisi finanziaria che mette a repentaglio anche parte di questi Paesi: parla di un’avidità che è diventata sistema e dell’arroganza intellettuale di tanti accademici che non si confrontano con sufficiente serietà con questi problemi. Lui presenta in questo libro le virtù civiche come rimedio a livello sociale, e a livello politico presenta dei modelli di un mercato globale che garantisce con le sue regole un funzionamento che permette anche uno sviluppo sociale a tutti i Paesi che si presentano in questo momento, con le loro economie in crescita, sul mercato internazionale. Nel suo libro La fine della povertà, un libro famoso che è uscito a metà dell’ultimo decennio, presenta anche dei modelli dove lo sviluppo delle imprese, in un modo adeguato, diventa motore di sviluppo di questi Paesi emergenti. Negli anni ’90, Jeffrey Sachs ha cominciato a partecipare a progetti di riforme in India, in Cina, in tanti Paesi africani, è stato coinvolto anche dai Governi della Polonia, della Russia, nella riforma delle loro economie dopo la caduta del Muro. In tutti questi anni, ha acquisito un’ampia conoscenza delle criticità e delle opportunità dello sviluppo sostenibile, che si basa non solo sul capitale economico ma anche sul capitale sociale. Per queste ragioni è stato nominato Consulente speciale delle Nazioni Unite, in modo particolare per la realizzazione del “Millennium”, otto obiettivi sottoscritti dai 191 Stati dell’ONU per diminuire la diseguaglianza a livello globale. Come sicuramente sentiremo, Sachs non si è mai limitato a considerazioni generale ma ha sempre cercato di entrare nei particolari, nelle condizioni specifiche dei Paesi e ha enfatizzato, come pochi economisti, l’analisi specifica di ogni situazione come condizione di sviluppo. Quindi, caro professore, quali sono le priorità per uno sviluppo sostenibile?

JEFFREY SACHS:
Signore e signori, buonasera. Sono veramente lieto di essere qui con voi, è un onore essere al Meeting di Rimini. Sono davvero colpito da quanto avviene al Meeting, onestamente spererei che molti colleghi americani potessero partecipare a un consesso come questo e auspicherei che potessero riportare in patria l’ottimo esempio che date. Sono anche molto lieto e onorato di poter condividere questo podio con tre leader nell’ambito dello sviluppo sostenibile. E’ una grande opportunità per me e potrò citare anche il loro lavoro nel corso del mio intervento. Purtroppo, credo che il mondo di oggi, la realtà odierna sia descritta da una sola parola che è complessità. Vorrei che non fosse così, perché sarebbe più facile descrivere la nostra situazione. Anche quando parliamo di crisi economica, a volte diciamo che c’è una crisi economica globale, però in realtà questa crisi non è globale, è una crisi che colpisce particolarmente l’Europa e gli Stati Uniti. Alcune parti del mondo crescono molto velocemente, per cui non è facile descrivere la situazione in termini semplici. La realtà può essere così descritta: il mondo è affollato, anzi, sovraffollato come mai lo era stato nel corso della sua storia. Ci sono 7 miliardi di persone sulla terra, il che significa 10 volte di più rispetto a due secoli fa: e prevediamo che la popolazione mondiale aumenti di altri 2 miliardi di individui per il 2045. Il mondo è interconnesso come mai in passato, noi effettivamente abbiamo un’unica economia mondiale, per la prima volta nella nostra storia, e il mondo sta cambiando molto anche dal punto di vista tecnologico e molto più rapidamente di quanto non sia avvenuto in passato. Vent’anni fa, gli utenti di telefoni cellulari erano circa 10 milioni, ad oggi siamo passati a 6 miliardi di utenti e non vi era mai stato un cambiamento tecnologico di siffatta natura, avvenuto a tale velocità, nel corso della storia umana. Ovviamente, i sistemi politici e sociali non riescono a tenere il passo con la velocità di questo cambiamento: c’è una crisi politica che colpisce quasi ogni Paese del mondo e questo perché i sistemi politici non riescono a tenere il passo con queste dinamiche così veloci. Ora, per riassumere le possibili conseguenze di tutto questo, vi dirò quanto segue.
Come tutti sappiamo, la geopolitica mondiale sta cambiando radicalmente. Siamo passati da un mondo con due poli di potere a un mondo nel quale non c’è più un vero e proprio leader. Vi sono poteri regionali ovunque, tuttavia gli Stati Uniti non sono più leader mondiali, e nessuno potrà né vorrà sostituire questo ruolo. Vi sono 20 Paesi che si riuniscono nell’ambito del G20, e ci vogliono almeno 5 ore affinché ogni leader prenda la parola. Si tratta di una collaborazione veramente difficoltosa. Io lavoro per conto del Segretario Generale delle Nazioni Unite, vi sono 193 Paesi membri dell’Onu e ci vogliono 4 settimane prima che tutti i leader si siano potuti esprimere: ci sono voluti almeno vent’anni per prendere una qualsiasi decisione comune. Quindi, la complessità è estrema, inoltre siamo davanti a un cambiamento economico: il più importante fenomeno economico è dovuto al fatto che i Paesi in via di sviluppo stanno raggiungendo quelli più ricchi e industrializzati del mondo. Per centinaia di anni, l’emisfero nord, in particolare i Paesi del nord Atlantico, hanno guidato l’economia mondiale, e questa fase della storia sta giungendo alla sua conclusione. Cina, India, Africa, America Latina sono gli ambiti geografici che stanno attraversando il progresso e la crescita economica, e questo progresso avviene in modo molto più rapido di quanto non fosse successo per l’economia del nord Atlantico: pertanto, il divario tra ricchi e poveri si sta chiudendo.
C’è un terzo fenomeno per descrivere la situazione, e riguarda i profondi cambiamenti sociali che stanno avvenendo nei nostri Paesi. Ci sono maggiori disuguaglianze all’interno delle nostre società. Alcune persone sono beneficiate dagli effetti della globalizzazione, altre invece ne risultano perdenti. Le diseguaglianze in termini di reddito e ricchezza negli Stati Uniti sono ai massimi livelli degli ultimi 75 anni. La disoccupazione giovanile, che è un problema che colpisce l’Italia, gli Stati Uniti e anche molti altri Paesi, è un elemento importante di questo cambiamento sociale. Come se le cose non fossero abbastanza complesse, dobbiamo aggiungere che c’è anche una crisi ambientale, una crisi grave e che sta rapidamente peggiorando. Non solo la politica, l’economia, le società mondiali stanno cambiando, ma anche l’ambiente stesso, a un passo molto più rapido di quanto non fosse avvenuto in passato nella storia dell’uomo e ogni anno raccogliamo sempre più prove di questo cambiamento. Sappiamo che c’è il riscaldamento globale, che gli Stati Uniti hanno subito la peggiore siccità nella storia moderna, che in altre parti del mondo sono avvenute le peggiori alluvioni della storia e non abbiamo ancora una soluzione a questa crisi. Questi sono i punti che voglio sottolineare. Le generazioni future si trovano davanti a una sfida assai più complessa e unica nel suo genere, rispetto agli strumenti che sono disponibili per affrontare questa crisi. Naturalmente, vi sono molti modi per affrontare queste sfide, abbiamo delle potenti tecnologie, siamo più collegati a livello mondiale, abbiamo molti progressi scientifici, tuttavia una cosa che ci pone a rischio è la nostra incapacità di collaborare per risolvere questi problemi. I nostri sistemi politici sono sempre meno flessibili, contemporaneamente la crisi si complica e l’orizzonte temporale della politica si accorcia, diminuendo il tempo che sarebbe necessario per risolvere i problemi.
Farò un esempio che attiene all’argomento del nostro dibattere, ossia la sfida energetica. E’ veramente un onore per me essere qui assieme ai rappresentanti di una grande azienda dell’energia, una delle più importanti al mondo. Innanzitutto, ci serve più energia perché cresce la domanda di energia al mondo, per migliorare gli standard di vita, per porre fine alla povertà, per coltivare e avere più cibo, per affrontare il problema del cambiamento climatico, per risolvere la crisi idrica. Al contempo, dobbiamo reinventare il modo in cui utilizziamo l’energia perché, come ben sappiamo, le attuali tecnologie contribuiscono a peggiorare la crisi ambientale e questo è un esempio delle grandi sfide che ci attendono.
Come riusciremo ad utilizzare nuove fonti energetiche e come potremo usare l’energia per aiutare l’Africa e porre fine alla povertà? Come potremo ricostruire il nostro sistema che produce energia in modo da ridurre l’impatto antropico sul clima? Per fare questo, ci vorranno almeno quarant’anni di lavoro: dobbiamo reinventare i nostri sistemi energetici, non bastano dodici mesi. Il problema è quindi il seguente: come la politica, con orizzonti temporali di uno o due anni, può proporre soluzioni che per essere attuate prevedono un orizzonte temporale di 20 o 40 anni? Per il momento, la risposta è: la politica non è in grado di farlo. Vent’anni fa, il mondo ha adottato un Trattato per affrontare il cambiamento climatico e l’ultima volta che si sono incontrati i leader a Rio de Janeiro, per parlare dei progressi avvenuti nel corso di questi ultimi vent’anni, purtroppo ci si è resi conto che non si era fatto alcun passo in avanti. Quindi, dal ’92, quando è stato adottato questo Trattato, siamo arrivati nel 2012, e il verdetto è stato questo: il mondo non ha fatto nulla per mettere in pratica questo Trattato. E questa è la situazione. Viviamo in tempi complessi ma non siamo ancora in grado di afferrare la natura di questa complessità, per affrontare a livello mondiale i problemi di lungo termine e mettere insieme il mondo per farlo.
Credo che i Governi non saranno in grado di risolvere questi problemi, serviranno nuove modalità organizzative per lavorare insieme, abbiamo bisogno di nuove modalità di collaborazione per trovare delle soluzioni e forse i Governi ci seguiranno, però non saranno loro a guidare questo processo. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, di recente mi ha chiesto di aiutarlo a creare una nuova rete globale che chiamiamo “la rete della soluzione dello sviluppo sostenibile”, per individuare delle strategie di azione pratica per affrontare le sfide che ho elencato. L’idea alla base di questa rete è quella di riunire scienziati, esperti di tecnologia, ONG e grandi aziende come Eni, per lavorare insieme, scambiarci le idee e trovare delle soluzioni ai problemi. Vorremmo poter presentare la dimostrazione di queste soluzioni nella speranza che i Governi, pur senza un ruolo di fautori, possano seguirci. Credo che nessuna delle crisi attuali sia al di là della nostra portata, ci sono delle buone soluzioni, delle buone risposte per sradicare la povertà estrema, per dare energia moderna a tutti, per ridurre le emissioni di CO2, per migliorare l’istruzione e la formazione dei nostri giovani. Effettivamente, le soluzioni alla nostra portata sono ottime e la sfida consiste nella collaborazione tra di noi a livello mondiale. E’ per questo che Meeting e incontri sono così importanti, perché sarà la gente che guiderà questo processo e indurrà i nostri Governi a seguirla, e troveremo una soluzione. Grazie della vostra attenzione.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie mille, Jeffrey Sachs. In questa sede, al Meeting di Rimini, quante volte si è parlato di “Più società meno Stato”? Sentirsi dire che questo non vale anche a livello internazionale è veramente un conforto, perché cambia realmente la mentalità, perché se aspettiamo di nuovo che i Governi, da soli, portino soluzioni, andremo avanti ad aspettare le calende greche. Mentre è possibile, e ora ne sentiremo degli esempi, che sia imprese for profit, sia organizzazioni non governative, non profit, in una forte collaborazione tra di loro, possano diventare leader che i Governi possano guardare con attenzione, addirittura imparando modelli di sviluppo nuovi. Jeffrey Sachs ha ricordato Rio G20, che si è riunito a giugno, nel quale si è cercato di vedere cosa fosse successo al summit di vent’anni prima. A quel primo incontro ha partecipato anche Eni, che presentò un progetto di sviluppo nel Congo. Adesso siamo molti grati a Scaroni che ci presenterà le attività che Eni fa in Africa, come un esempio di ciò che Jeffrey Sachs ha annunciato. La parola a Paolo Scaroni, grazie.

PAOLO SCARONI:
Grazie, buonasera a tutti, mi fa piacere essere di nuovo qui a Rimini e mi fa soprattutto piacere aver convinto Jeffrey Sachs a venire qui a parlarvi delle sue idee innovative su questo tema così importante per tutti noi e per il nostro futuro. Parliamo di spartizione e condivisione di risorse: l’intera storia dell’umanità si è sviluppata intorno a questo tema. Su questo tema abbiamo avuto il colonialismo, i movimenti di liberazione, abbiamo avuto guerre, rivoluzioni, conflitti ideologici, conflitti religiosi, nazionalizzazione, privatizzazioni: dietro a tutto ciò, c’è sempre stato il desiderio dell’uomo di spartirsi le risorse naturali del nostro pianeta. Tutta questa competizione per le risorse dura da molti anni, da millenni, ha coinvolto il mondo intero, ma negli ultimi anni si è senza dubbio concentrata sull’Africa, che è diventata l’epicentro di questa guerra per le risorse. Innanzitutto, perché l’Africa è ricchissima di risorse minerarie, naturalmente oro, platino, diamanti, ma anche quei minerali che sono così essenziali per la nostra vita, quindi lo zinco, il piombo, il rame, il titanio, l’uranio. E poi naturalmente in Africa c’è anche petrolio e gas. Ma c’è un’altra ragione per cui la competizione globale per le risorse si è spostata in particolare sull’Africa, ed è che l’Africa è un continente nuovo, politicamente molto nuovo e recente, con assetti ancora instabili, come abbiamo avuto modo di vedere con la primavera araba che, in pochi mesi, ha cambiato interamente la geografia politica del nord Africa.
Dicevo che, di tutte le straordinarie ricchezze minerarie dell’Africa, la più importante è petrolio e gas. Pensate che il petrolio e il gas africani, in termini economici, sono più importanti di tutte le altre risorse minerarie dell’Africa messe insieme. Parliamo di circa 5 miliardi di barili di petrolio l’anno, più del consumo di tutta l’Europa, parliamo di 220 miliardi di barili di riserve, ma soprattutto, quello che è importante è che l’Africa è un Paese molto promettente per gli idrocarburi, ogni momento ci sono nuove scoperte, le riserve continuano ad aumentare, il continente è ancora inesplorato. Pensate negli ultimi 5 anni le riserve di petrolio, in Africa, sono aumentate del 30% e quelle di gas di più del 100%. Vi parlo di Africa e di petrolio perché – non sono sicuro che lo sappiate tutti – Eni è di gran lunga il leader degli idrocarburi in Africa, siamo i primi per produzione di idrocarburi, per riserve di idrocarburi, per presenza geografica nei Paesi africani.
Pensate, vi faccio una lunga lista, ma credo che vi darà un’idea, siamo presenti in Nordafrica da molti anni, in Egitto, in Libia, in Tunisia, in Algeria, ma siamo anche nell’Africa occidentale, siamo in Liberia, siamo in Ghana, in Togo, naturalmente siamo in Nigeria, in Gabon, siamo nell’Africa australe e quindi nel Congo, la Repubblica democratica del Congo, Angola, Sudafrica, siamo in Kenya e siamo soprattutto in Mozambico. Vi parlo volentieri di Mozambico perché in Mozambico Eni ha fatto la più grande scoperta della sua storia, dalla sua fondazione. A cavallo tra il 2011 e il 2012, abbiamo scoperto circa 2mila miliardi di metri cubi di gas, più del consumo di tutta l’Europa per 4 anni, in un unico grande giacimento.
Quello che è da dire, ed è rilevante, proprio sul nostro tema “spartizioni e condivisioni di risorse”, è che negli ultimi 10 anni la nostra penetrazione in Africa ci ha portato ad essere di gran lunga l’azienda più presente in più Paesi, e posso dire che abbiamo battuto tutta la concorrenza internazionale. Quali sono le ragioni di questo nostro straordinario successo africano? Beh, le ragioni sono, come sempre, molte: certo, abbiamo tecnologie di assoluta eccellenza, certo abbiamo un’organizzazione molto efficiente, di persone motivate che amano l’Africa e la conoscono particolarmente bene, abbiamo poi la forza finanziaria per investire miliardi e miliardi di euro ogni anno in Paesi rischiosi come quelli africani. E poi, noi di Eni abbiamo una grande forza, quella di essere italiani, e gli italiani, in Africa e non soltanto in Africa, hanno un tasso di accettazione come nessun’altra nazionalità occidentale. I nostri italiani amano il Paese e ne vengono amati, non hanno mai atteggiamenti invasivi, riescono sempre a trovare il modo per un approccio amichevole nei Paesi in cui operiamo. Di una cosa vi posso assicurare: quando si va all’estero e si è italiani, si è più forti e non più deboli.
In aggiunta a tutto questo, noi abbiamo un asso nella manica che ci viene dal nostro passato, ci viene da lontano, addirittura dal nostro fondatore, Enrico Mattei. Su Mattei molto si è detto, molto si è scritto, ma non si è parlato abbastanza della sua visione strategica davvero lungimirante. Quando Mattei prese in mano quella che oggi è Eni, nell’immediato dopoguerra, il mondo del petrolio era dominato da alcune compagnie internazionali molto forti, finanziariamente potenti, tecnologicamente di prim’ordine, ma che avevano soprattutto la grande forza politica che veniva loro dall’essere basate nei Paesi che la guerra l’avevano vinta, non l’avevano persa come noi. Enrico Mattei voleva entrare a tutti i costi in questo mercato e decise di sparigliare le carte. Lui era convinto che ci fosse spazio per una ottava compagnia petrolifera, magari non così forte e ricca come le altre, che magari venisse da un Paese più debole o indebolito dalla guerra, ma che poteva avere un approccio vincente sul mercato un po’ ingessato. Prese il problema in mano e lanciò una strategia aggressiva, basata sostanzialmente su due pilastri: il primo era quello di offrire, nei Paesi produttori, condizioni più favorevoli degli altri. Ribaltò i normali schemi contrattuali, si mise in condizione di offrire di più e questo gli consentì un primo importante successo. Ma poi, immediatamente dopo, lanciò una cosa inaudita nell’industria: invece di tutelare gelosamente le proprie competenze tecniche, tenerle per sé e non dividerle con i Paesi produttori, lanciò un grande programma di formazione che consentiva a tutti i paesi produttori di creare dei giovani talenti che fossero capaci di portare avanti l’industria petrolifera nel loro Paese. Noi abbiamo continuato a lavorare su questa strada e dobbiamo proprio a questo, credo, i successi che abbiamo collezionato in questi anni.
Il punto fondamentale da cui noi partiamo, e che è un po’ il filo conduttore che seguiamo ogni giorno – mi ricollego a quello che diceva Jeffrey Sachs prima di me – è che, quando parliamo di petrolio, e di petrolio nei Paesi del Terzo Mondo o nei Paesi africani, in particolare, la prima cosa che ci ricordiamo è che il petrolio è loro, non è nostro e quindi noi compagnie internazionali abbiamo il diritto di sfruttarlo, su una base contrattuale, ma non siamo noi i proprietari delle risorse. Solo ricordandoci che non siamo noi i proprietari delle risorse, possiamo avere quella flessibilità, quella capacità di rinegoziare i nostri contratti che possa consentire al Paese, in ogni momento, di trarre da questa risorsa il massimo per le proprie popolazioni, il massimo in termini economici, il massimo in termini sociali, il massimo in termini di formazione delle persone. Proprio parlando di formazione, noi abbiamo in Africa 25mila persone che lavorano nei 21 Paesi dove noi operiamo. Molti, moltissimi di questi uomini e donne che lavorano con noi, sono con noi da decenni e hanno sviluppato un senso di appartenenza che è una delle ragioni principali del nostro successo. Quanto sia importante questo senso di appartenenza, lo abbiamo toccato con mano recentemente in Libia negli scorsi 18 mesi, quando un regime violento, quarantennale, stava vacillando e si stava trasformando in un mondo di violenze, di soprusi. C’era la rivoluzione, il nostro ufficio a Tripoli era regolarmente aperto e funzionava in modo normale: grazie agli uomini e alle donne Eni in Libia, abbiamo potuto mantenere il controllo delle nostre operazioni in quel Paese. Pensate, durante tutta la rivoluzione, abbiamo continuato a produrre gas nel Sud-Ovest del Paese, e ci è stato consentito di mantenere in funzione le centrali elettriche che alimentano la Libia. Mai avremmo potuto fare questo senza l’abnegazione e il senso di appartenenza degli uomini e donne che lavorano con noi in Libia, e sempre grazie a loro, immediatamente appena il regime è caduto, abbiamo potuto riprendere le esportazioni dalla Libia verso l’Italia, quelle esportazioni di gas che sono state cruciali per permetterci di superare la crisi del gas che, credo ricorderete, abbiamo vissuto nel febbraio di quest’anno, quando mezza Italia ha avuto per settimane un clima siberiano.
Tutto questo si rifà ad un principio che noi consideriamo fondamentale nelle nostre attività, in ogni Paese in cui operiamo, il nostro imperativo è affrontare in modo innovativo i temi dello sviluppo e i temi dell’ambiente. Ad esempio, lo diceva Jeffrey Sachs prima, noi siamo convinti che non ci possa essere sviluppo senza l’elettricità, è impensabile che ci possa essere sviluppo economico quando la popolazione non ha accesso all’energia elettrica: come l’acqua è fondamentale alla vita, così l’energia elettrica è fondamentale allo sviluppo. Il tema vi sembrerà ovvio, ma per esempio, nell’Africa sub-sahariana che è così ricca di idrocarburi e che ha 600 milioni di persone, 400 milioni non hanno accesso all’elettricità. Noi di Eni abbiamo deciso che questo era intollerabile per la nostra presenza in quel Paese, e abbiamo considerato che produrre energia elettrica per le popolazioni locali sarebbe diventato un nostro mestiere fondamentale. Abbiamo cominciato a costruire centrali elettriche in Nigeria, dove forniamo il 20% dell’energia di quel grande Paese, l’abbiamo costruita in Congo, dove forniamo quasi 80% dell’energia elettrica congolese, stiamo sviluppando progetti in Ghana, in Togo e in Mozambico.
Siamo convinti che soltanto con l’accesso dell’energia elettrica potremo dare un contributo decisivo allo sviluppo di quei Paesi. Ecco come mettiamo in pratica i suggerimenti di Jeffrey Sachs e del suo istituto, di cui mi onoro di essere nel Consiglio di Amministrazione, perché gli insegnamenti di Sachs sono quelli che ci consentono di sviluppare la nostra attività in modo sostenibile. Dice Jeffrey – non ve lo ha detto oggi, ma io ho imparato la lezione – che lo sviluppo sostenibile è quello che consente a una generazione di soddisfare i propri bisogni, ma lasciando anche alle generazioni che seguiranno la possibilità di soddisfare i lori bisogni. E’ un insegnamento che seguiamo in Africa e fuori dall’Africa, ma che certamente ci ha spalancato le porte di quel continente.
Bene, dicevo che, seguendo i principi di sostenibilità, la nostra è diventata un’azienda davvero internazionale: noi facciamo il 95% dei nostri risultati fuori dall’Italia, potremmo dire che l’Italia, da un punto di vista economico, è per noi una cosa piccola, ma non lo è nella nostra storia, nella nostra cultura. L’Italia è alla base delle nostre competenze, della nostra capacità di innovare, del nostro pensiero strategico. Siamo una azienda italiana e siamo fieri di esserlo, e nello stesso modo in cui è impossibile per me immaginare come continuare a crescere in Africa senza che gli africani beneficino della nostra presenza (le due cose devono andare insieme), così faccio fatica ad immaginare Eni che prospera, che va bene, che va a gonfie vele, mentre il nostro Paese passa da una crisi all’altra. Beh, anche qui c’è una contraddizione che non può funzionare. Certo, il momento non è facile e lo vediamo in tutte le nostre attività italiane: ma io sono ottimista sulle nostre prospettive anche a breve e ho l’impressione, come credo abbia detto proprio qui il Presidente Monti ieri, che il nostro Paese stia reagendo bene, con serietà e con vigore, alle ondate della crisi internazionale.
Noi in Eni siamo determinati a fare la nostra parte per far ripartire il nostro Paese, l’abbiamo fatto con la nostra campagna estiva dello sconto sul carburante, che spero abbiate apprezzato, abbiamo voluto dare un segnale a tutti che Eni pensa ai cittadini italiani anche se ha spesso ha il cervello in altri Paesi, fuori dall’Italia. E faremo altre iniziative, perché io sono convinto che tutta l’energia di cui abbiamo bisogno, e ai prezzi di cui abbiamo bisogno, sarà un ingrediente essenziale per la ripresa del nostro Paese. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Ringrazio Paolo Scaroni facendo una brevissima parentesi. Per avere una reale fiducia ragionevole nel proprio Paese, bisogna anche conoscere gli esempi virtuosi: purtroppo i media parlano tanto di ciò che non funziona. Se ogni tanto proponessero al popolo anche storie come quella che abbiamo sentito, sarebbe meglio per tutti. Perché è impossibile chiedere fiducia ai mercati internazionali se non si ha fiducia in se stessi. Bene, un’altra ragione per la quale conviene avere una grande fiducia nell’Italia è il lavoro che fanno i volontari italiani in giro per il mondo. Sentiamo Alberto Piatti, a cui chiedo di essere molto sintetico. Mi permetto di fare una domanda che mi sembra importante: come è possibile aiutare la popolazione di un Paese a svilupparsi e a crescere, senza importare modelli ma rimanendo sussidiariamente obbedienti al loro bene?

ALBERTO PIATTI:
Sarò disciplinatissimo, senza abusare dei minuti che mi ha concesso il Presidente Scholz. Innanzitutto, veramente grazie di cuore a Bernhard di avere voluto questo incontro, e a Paolo Scaroni di avere portato in Italia il prof. Jeffrey Sachs e di parlare di energia e sviluppo nei termini con cui si è espresso fino ad ora. Ieri sera, dialogando con il prof. Jeffrey Sachs, abbiamo ricordato un episodio, quando Giovanni Paolo II ricevette Bono e il professore per la famosa campagna per la remissione del debito. C’è un dettaglio rimasto riservato che è inutile svelare ora, ma mi è venuto in mente che Giovanni Paolo II, nella Novo Millennio Ineunte, cita un santo italiano, don Orione, il quale dice che ci vuole una nuova fantasia nella carità per permettere a questo mondo di svilupparsi in modo equo e sostenibile: usiamo due parole che conosciamo tutti. Io penso che la discussione che abbiamo fatto questa sera sia esattamente uno sforzo in quella direzione: una nuova fantasia della carità. Abbiamo sentito un professore che con la sua vita e con il suo studio ha cominciato a rompere alcuni paradigmi dei mostri sacri che governano la finanza internazionale e lo sviluppo – leggasi Fondo Monetario e Banca Mondiale -, un’impresa che ha il coraggio di prendere pubblicamente posizione, come abbiamo ascoltato adesso. Vi suggerisco di leggere questo rapporto che credo potrete trovare allo stand dell’Eni, in cui peraltro c’è scritto, e Scaroni l’ha dichiarato in una intervista: “Noi dobbiamo lasciare in un Paese più di quanto riceviamo”. Una presa di posizione così pubblica non è usuale, forse questa nuova fantasia della carità, questa cooperazione internazionale che non è più confinabile al recinto dei buoni che si impegnano a fare buone azioni per lenire un mondo che comunque va avanti secondo altre logiche, ci stiamo avvicinando ad una fantasia operativa e concreta.
Questo sviluppo, di cui qui vedete rappresentati quattro pilastri – un’impresa di carattere sociale, un’impresa orientata al profitto, l’accademia che ha avuto il coraggio di rompere alcuni paradigmi in un quadro istituzionale, il pilastro internazionale – forse raggiungerà lo scopo. Noi siamo stati sfidati, a dicembre dello scorso anno, da don Carrón, che è venuto al nostro meeting annuale: mi è venuto in mente perché Jeffrey Sachs ha calcolato che dal 1950 al 2005 i finanziamenti pro-capite per le popolazioni cosiddette in via di sviluppo sono stati di 15 dollari a testa. Carrón ci ha detto: “Dovete domandarvi le ragioni profonde del perché fate quello che fate, perché state distribuendo delle briciole e quale sia il meccanismo fondamentale per cui non vi limitate a distribuire delle briciole ma innescate realmente il motore dello sviluppo”. Questa è la grande domanda, perché ci sono infrastrutture macro che obbiettivamente bisogna realizzare, ma poi c’è il micro che è rappresentato dal mistero della persona, dalla natura dell’uomo come rapporto con l’infinito, che è il punto focale di ogni possibilità di sviluppo. La comunità internazionale, alla fine del secolo scorso, negli anni ’90, a seguito di una serie di conferenze – Istanbul, Il Cairo, Pechino, Rio già citata – si è data simbolicamente, negli obiettivi del Millennium, una sorta di infrastruttura sociale attraverso la quale convogliare la possibilità dello sviluppo. Ma come tutte le grandi infrastrutture, il problema è l’ultimo miglio, l’ultimo metro. Se passo una grande condotta d’acqua a due metri da casa mia, ma non c’è quel tubicino che mi porta l’acqua in casa, la grande infrastruttura sociale diventa un sogno, forse collettivo, ma non incide realmente sullo sviluppo. E il terminale di questo beneficio che la comunità internazionale si è data – “noi, i popoli delle Nazioni Unite”, disse Kofi Annan in un famosissimo discorso – deve arrivare alla persona, al mistero della singola persona e mettere in movimento questa capacità unica e irripetibile che è l’essere umano. In una conversazione recente che ho avuto con il precedente presidente del Banco Interamericano di Sviluppo, Iglesias, lui, alla sua veneranda età, mi ha quasi confessato che per tutta la vita si è occupato di politiche pubbliche, prima nel sistema delle Nazioni Unite, poi in una Banca regionale di sviluppo, ma è arrivato alla conclusione, dopo 18 anni di presidenza della banca, che le politiche pubbliche, se non raggiungono – il lavoro che fate voi, ha detto esplicitamente – la singola persona, quel singolo bisogno, rischiano di essere una dispersione enorme di risorse.
Ora, è chiaro che i paradigmi delle ricette assolute sono finiti, la complessità di cui parla il prof. Sachs è la sfida più affascinante che abbiamo di fronte. Sono finiti perché nessuno può credere ancora che basti una ricetta. Già Churchill – è una citazione fatta da don Giussani nel libro Io, il potere e le opere – il 31 marzo del ’49, venne accolto presso il Massachusetts Institute of Technology e salutato come salvatore dell’Europa e della civiltà, perché aveva sconfitto il nazismo e Hitler, dal Rettore delle Scienze Umanistiche, con queste parole: “Noi delle scienze umanistiche siamo sulla soglia del dominio completo della civiltà umana, ci stiamo avvicinando al controllo scientifico della mente umana, pensieri e sentimenti, così che il mondo possa essere quasi una fabbrica perfetta”. Churchill scattò in piedi e disse che sperava che il giorno che il professore avesse raggiunto questo obiettivo, il suo compito in questo mondo fosse terminato. Evidentemente, l’ultimo miglio è fatto di questa esigenza di vero, di bello, di giustizia, come Benedetto XVI nella Caritas in veritate ci ricorda: “E’ necessario un effettivo cambiamento di mentalità che ci induca ad adottare nuovi stili di vita, nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano gli elementi che determinano la scelta dei consumi, dei risparmi e degli investimenti. E’ urgente la necessità morale di una rinnovata solidarietà specialmente nei rapporti fra i Paesi in via di sviluppo e i Paesi altamente industrializzati”. I tre pilastri dello sviluppo, che abbiamo qui sinteticamente rappresentato questa sera, hanno tutti un ruolo fondamentale e devono riuscire ad arrivare alla singola persona perché – lo dico sempre quando mi capita di dialogare con qualcuno -, quando prendo in braccio mio figlio o mio nipote, che magari è ammalato o non riesce a dire una parola, devo insegnargli a parlare, devo insegnargli a mangiare e non lo definisco per quel bisogno immediato che emerge ma spero per lui un futuro, un desiderio che abbia un significato, una speranza per la vita. Non posso dirgli: hai la febbre, ti do una pillola. Perché trattiamo il bambino africano diversamente da come trattiamo i nostri figli e non con lo stesso amore al suo destino, al suo desiderio di felicità? Allora, io credo che, per concludere, questa alleanza diventi cruciale. Voi sapete meglio di me, per il contributo che date alle campagne AVSI, quanta dedizione i nostri amici mettono, nei 40 Paesi dove sono operativi, perché la dignità di ogni essere umano sia affermata, al di là del bisogno emergente. Credo che il Meeting possa diventare – e lo proporrei al professor Jeffrey – una sorta di forum permanente in cui si possa, di anno in anno, dibattere ed approfondire quanto oggi ci siamo detti. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
La parola ancora a Jeffrey Sachs, per osservazioni rispetto a quello che è stato appena detto.

JEFFREY SACHS:
Questa è un’idea veramente splendida. E’ importante poter continuare questo incontro anno dopo anno per poter rivalutare i progressi che sono stati fatti. Desidero ringraziare entrambi i relatori che mi hanno preceduto per aver ribadito la componente morale, perché infine sarà la spinta morale ad essere vitale per noi, nella decisione comune di contribuire insieme a fare la cosa giusta, impegnarsi per lo sviluppo sostenibile, impegnarsi a sostenere i poveri, perché se assumiamo questi impegni sono certo che i risultati saranno meravigliosi. Quando l’elettricità potrà raggiungere l’Africa rurale, quando i programmi di AVSI potranno essere portati nei villaggi rurali dell’Uganda, allora sapremo che siamo sulla via giusta per attuare lo sviluppo sostenibile. Vi ringrazio per avere ribadito l’importanza primaria di questo elemento morale: tutto il resto, la tecnologia, la conoscenza, anche la decisione politica, possono venire dopo. Credo che noi tutti abbiamo preso molto da questo dibattito, e vi ringrazio.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie, grazie a tutti, grazie a voi che siete venuti e arrivederci all’anno prossimo.

Data

20 Agosto 2012

Ora

19:00

Edizione

2012

Luogo

Sala C1 Siemens
Categoria
Incontri