O PROTAGONISTI O NESSUNO

Partecipa Marco Bersanelli, Docente di Astrofisica all’Università degli studi di Milano. Introduce Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.

 

MODERATORE:
“Sulla mesta landa in purissimo azzurro veggo dall’alto fiammeggiar le stelle (…) e quando miro quegli ancor più senz’alcun fin remoti nodi quasi di stelle, ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo e non la terra sol, ma tutte in uno, del numero infinite e della mole, con l’aureo sole insiem, le nostre stelle o sono ignote, o così paion come essi alla terra, un punto di luce nebulosa; al pensier mio che sembri allora, o prole dell’uomo?”.
L’immensa e sconfinata grandezza dell’universo nelle parole di Giacomo Leopardi, come sentirsi allora protagonisti in mezzo a tanta infinitudine e a tanta bellezza infinita? Come essere protagonisti? Che cosa è questa prole dell’uomo che desidera essere protagonista quando non è neanche un punto infinitesimo rispetto al punto più infinitesimo di una nebulosa? Oggi appunto è un astrofisico, uno scienziato, che per mestiere ha a che fare con questa infinitudine, a parlarci del tema del Meeting “O protagonisti o nessuno”. Ringrazio il professore Marco Bersanelli che ha accettato di confrontarsi con questo tema. Il professore Bersanelli, amico carissimo per tantissimi di noi, è appunto docente di Astrofisica all’Università degli Studi di Milano, si occupa prevalentemente di astrofisica e cosmologia sperimentale. Ha partecipato nell’89 e nel ’91 alle spedizioni scientifiche alla base americana del Polo Sud. Ha ottenuto la medaglia d’oro per l’attività scientifica svolta in Antartide e ha trascorso questa ultima estate in Belgio, a fare l’ultimo test del satellite Plance, che dovrebbe andare in orbita all’inizio del prossimo anno. Quindi proprio una persona che di infinitezza e di domanda su cosa voglia dire essere uomini, essere protagonisti dentro questa in finitezza, credo che se ne possa intendere. In questi giorni fino ad oggi, siamo al quarto giorno di Meeting, non la vastità del cielo, ma la vastità della terra abbiamo incontrato, la complessità non meno affascinante e provocante della terra, del mondo, dei problemi degli uomini, delle questioni della pace e della convivenza, delle domande che nascono dalla vita e dal quotidiano di ognuno di noi, questo è stato a tema in questi giorni. In questi giorni abbiamo incontrato tanti protagonisti: dall’Arcivescovo di Mosca Monsignor Pezzi, la Vicky, uomini politici, uomini potenti, di grande rilievo internazionale, pensiamo soltanto al Segretario Generale della Lega Araba Amr Moussa, uomini che con le loro decisioni possono determinare le sorti della pace nel mondo; altri ne incontreremo, in questi giorni incontreremo Barroso, il Presidente della Commissione Europea, incontreremo Osman, il premio Sakharov 2007, nella giornata di sabato, cioè personaggi che proprio si stagliano sulla scena mondiale. Persone venute qui, come mi diceva uno dei nostri ospiti, uno dei nostri relatori, direi uno degli ospiti più importanti e autorevoli che il Meeting abbia avuto in questi giorni, “venuti qui a parlare, del proprio cuore, a partire dal proprio cuore”, cioè persone venute comunque qui a testimoniare quel desiderio di bene, di senso, quel bisogno di utilità – perché possiamo usare anche termini concreti per parlare di protagonismo – quel bisogno di utilità, cioè di esserci nel mondo e nella storia per qualcosa da cui ognuno di noi è mosso. Che cosa è successo? Che cosa sta accadendo a noi di fronte a questi incontri? Io dico che ci siamo sentiti provocati proprio dalla loro testimonianza. Perché di fronte – faccio solo un esempio, ma penso che sia evidente per tutti – allo spessore di dignità umana che quelle tre donne di colore, di ieri pomeriggio, una delle quali è uscita per la prima volta dal suo paese, la Vicky che insieme alla Rose e insieme alla Marguerite Barankitse hanno testimoniato una dignità, una capacità, un’energia, un senso della vita che le rende veramente protagoniste e dove era proprio evidente che tutto questo nasceva da un senso della loro esistenza, da quello che loro erano e non al posto che occupavano. Dicevo di fronte a testimonianze come queste ci siamo sentiti anche noi più protagonisti, proprio perché in questi giorni abbiamo visto, queste cose le abbiamo viste, la Vicky la abbiamo vista, Monsignor Pezzi lo abbiamo visto, noi, coloro che di noi lavorano o quelli che incontriamo cioè abbiamo veramente visto, e che cosa abbiamo visto? Abbiamo visto che si può vivere così, come recita opportunamente il titolo del ciclo di testimonianze che fa un po’ da filo rosso di questa edizione del Meeting, si può vivere così, si può vivere con un senso, si può camminare insieme con uomini diversi, con uomini di culture, di razze, di religione diverse, non è uno slogan. L’altro giorno, il nostro grandissimo amico Bonzo del monte Koja, Shodo Habukawa, che dopo sei anni è ritornato al Meeting – un rapporto antico che poi abbiamo ereditato da don Giussani – salutandomi mi diceva: “io pregherò ogni giorno per la tua felicità”. Questo è quello che abbiamo in comune con tutti, questa tensione alla felicità e anche questa intuizione che la si può domandare. Dicevo, si può veramente vivere così, lo abbiamo visto, si può camminare insieme, si può costruire, basta rispondere quando arriva la chiamata, diceva la Vicky ieri pomeriggio, ribadiva anche Monsignor Pezzi raccontando la sua storia ieri, ma che cosa è questa chiamata? La chiamata non è qualcosa che viene dall’iperuranio o qualcosa che viene dal mondo dei sogni, la chiamata per ognuno viene dalla realtà e lo abbiamo visto, perché queste persone in questi giorni ci hanno documentato esattamente questo, la chiamata viene dalla realtà, è la realtà che ci chiama, è la realtà che ci chiede di accettarne la sfida. Un ultimo esempio voglio farvi. La sera prima, l’ultima sera dell’allestimento, la sera mentre andavo a casa, era sabato, passando nella Hall centrale, c’era un ragazzo in ginocchio, con un piccolo straccio, la Hall centrale è abbastanza grande come sapete, questo ragazzo stava togliendo le ultime macchie di vernice dal pavimento con una passione, con una dedizione, con una intelligenza nel toglierle, che passando di lì quell’immagine mi è rimasta negli occhi e ho detto: “questo sì che è un protagonista, cioè questo è un protagonista” e in quel momento, era la sera prima che cominciassimo, in quel momento ho proprio domandato per me e per tutti voi la stessa passione per la realtà e la stessa capacità di obbedire intelligentemente alla realtà così come lui stava facendo. Io credo che in questi giorni, quello che ci stiamo documentando è proprio un desiderio di essere dei protagonisti così. La parola al professor Bersanelli.

MARCO BERSANELLI:
Ringrazio Emilia, ringrazio gli amici del Meeting per questo invito, che indubbiamente per me rappresenta una grossa sfida. Mi sentirei più a mio agio a parlare di altri argomenti, non so di Dark Energy o di espansione dell’universo. Il tema non è facile, anche perché la parola protagonista è spesso usata in un modo equivoco, parziale, richiede di essere chiarita, e anche questa alternativa secca “O protagonisti o nessuno”, sulle prime può apparire un po’ esagerata, un po’ categorica. A me pare però, che se ci si ferma un secondo, si capisce che è semplicemente vera. Ogni uomo infatti per sua natura aspira a essere protagonista, non l’uomo astratto, ciascuno di noi, tutti sentiamo il desiderio che la nostra vita lasci un segno, che dia un contributo originale, che sia il nostro e solo il nostro. E’ insopportabile l’idea che la nostra vita passi senza generare nulla, che il tempo scorra senza essere vissuto fino in fondo. E’ insopportabile. Soprattutto ci ripugna l’idea che la nostra stessa esistenza in quanto tale non sia qualcosa di unico. La giovinezza è proprio il momento della vita in cui affiora l’urgenza, il desiderio profondo di essere protagonisti della propria vita, come ha detto Giovanni Paolo II: “la vita è la realizzazione del sogno della giovinezza, l’uomo per sua natura aspira a essere protagonista”. Questo vale per ciascuno di noi, per la singola persona, e vale per la presenza umana nel mondo, in generale. L’uomo è sulla scena del mondo per essere protagonista della storia, ed è nell’universo per essere in rapporto con tutto ciò che esiste; non c’è niente di ciò che esiste che sia sentito dall’uomo come estraneo, che non senta un rapporto con quell’oggetto, con ogni cosa creata. L’essere umano infatti è colui che dà il nome a tutte le creature, che cerca il senso di tutte le cose, secondo la nostra tradizione giudaico-cristiana. Naturalmente nella storia diverse civiltà hanno interpretato in modi diversi questa vocazione dell’uomo di essere se stesso, di compiersi, di vivere fino in fondo la propria natura, di possedere e di conoscere il reale. Non è il caso qui, naturalmente, di ripercorrere le tappe della evoluzione della mentalità che noi oggi ci ritroviamo al riguardo, della mentalità moderna, le tappe che hanno condotto al nostro presente. Come possiamo tracciare sinteticamente la condizione diciamo culturale, esistenziale a cui noi ci veniamo a trovare oggi, rispetto a questo desiderio profondo di essere noi stessi? Come si trova l’uomo contemporaneo, cioè ciascuno di noi, rispetto a quel desiderio di essere protagonisti della vita? Ci viene in aiuto Hanna Arendt, che è una delle voci più acute, una voce laicissima, dell’epoca contemporanea: “L’uomo moderno non guadagnò questo mondo quando perse l’altro mondo, e neppure la vita ne fu favorita, come pensavano. Egli fu proiettato in se stesso, proiettato nella chiusa interiorità dell’introspezione, dove tutt’al più poteva sperimentare i processi vuoti del meccanismo mentale, il suo gioco con se stesso”. E qui viene la frase cruciale: “E’ perfettamente concepibile che l’età moderna, incominciata con un così eccezionale e promettente rigoglio di attività umana, termini nella più mortale e nella più sterile passività che la storia abbia mai conosciuto”.
Anche qui sembra un po’ un’esagerazione, questa sottolineatura della passività, ma noi lo vediamo sotto i nostri occhi, quotidianamente, come educatori, come genitori, come insegnanti, ma soprattutto se guardiamo a noi stessi. Dobbiamo constatare questa debolezza, questa debolezza estrema del soggetto umano, che fatica ad interessarsi del reale, che non riesce veramente a interessarsi più di nulla, come se qualcuno avesse deciso e ci avesse convinto che la realtà non ci riguarda se non marginalmente, oppure che possa essere ridotta a ciò che di essa noi decidiamo di scegliere. E’ come se i fatti avessero come perso la loro efficacia, non sono più accolti naturalmente come opportunità per la realizzazione di sé. Piuttosto sono sentiti come ostacoli da cui liberarsi o come limiti da superare. Dice il grande Eliot: “Siete tutte persone alle quali non è accaduto nulla, al massimo un urto continuo di eventi esterni, siete passati attraverso la vita come nel sonno”. Ecco, il nostro impegno per la educazione, in tutti questi anni, nasce proprio dalla consapevolezza di questa difficoltà in cui tutti noi ci troviamo. Del resto già nell’87 don Giussani parlava di un effetto Chernobyl come di una esplosione nucleare, che potrebbe lasciare strutturalmente, apparentemente, intatta la struttura, ma svuotasse, distruggesse l’uomo dall’interno, dal di dentro; oppure Carrón che sottolinea insistentemente che il nostro problema capitale è che abbiamo ridotto il rapporto con la realtà, diventando vittime di quello che lui ha chiamato “una inerzia antropologica” e questa crisi nel rapporto con la realtà ha portato anche una aridità come tenore della conoscenza. Vedete, noi sappiamo tante cose, scopriamo tante cose, ma è come se ci lasciassero indifferenti, tutto ci lascia come eravamo prima, non suscita un istante di commozione. Nell’ambito scientifico, per esempio, quasi ci si vergogna che resti come un residuo di stupore di fronte a ciò che osserviamo, ciò che scopriamo, quando invece è esattamente quello stupore, quella meraviglia che di fatto riapre continuamente alla conoscenza. Max Plance, a cui appunto è dedicato il satellite a cui stiamo lavorando, diceva: “Chi ha raggiunto lo stadio di non meravigliarsi più di nulla, dimostra semplicemente di aver perduto l’arte del ragionare e del riflettere”. E’ andata persa quell’ultima simpatia per la realtà che caratterizza l’uomo sano, secondo quella bella definizione cara a don Giussani: “La personalità è definita dalla capacità di simpatia; la simpatia per la realtà, la famigliarità con il dato nasce dall’esperienza di un significato presente” o almeno dall’ammettere la possibilità di un significato presente, se è negato il significato – “l’altro mondo”, come diceva Hanna Arendt -, e si è offuscato il nesso con la realtà. Persino la materialità delle cose, quella che il vecchio materialismo indicava come unica vera realtà, finisce per dissolversi. Sono impressionanti, mi impressionano sempre quando le rivedo, le parole di Sartre quando dice: “Le mie mani che cosa sono le mie mani? La distanza incommensurabile che mi divide dal mondo degli oggetti e mi separa da essi per sempre”. Il mondo degli oggetti, come è lontano quell’impeto positivo, quell’abbraccio di un Dante Alighieri per cui ogni creatura nella sua materialità, nella sua contingenza era percepita come segno del Mistero: “Le cose tutte quante hanno ordine fra loro, e questo è forma che l’universo a Dio fa somigliante”. Dunque, qual è l’idea di protagonista, di realizzazione di sé che ha fallito, che ha perso il reale? Benedetto XVI nella Spes salvi descrive sinteticamente la pretesa moderna con questa frase: “Il progresso è il superamento di tutte le dipendenze ed è progresso verso la libertà perfetta”. Ecco, gli fa eco don Giussani: “L’epoca moderna, anzi l’epoca contemporanea è la documentazione tragica di ciò a cui l’uomo arriva come pretesa di autonomia”. La pretesa di farsi da sé, di realizzarsi da sé, di crearsi da sé, di decidere da sé, di avere sé come centro, questa è la svista dell’uomo moderno, è la svista in cui tutti noi siamo coinvolti: identificare la propria realizzazione con il superamento di tutte le dipendenze, pensare che la personalità, la creatività, il protagonismo nasca dall’autonomia, dall’appartenere a se stessi, dall’avere se stessi come centro. Ma allora c’è un’altra possibilità oppure questa è una sconfitta definitiva per quel desiderio innato che noi sentiamo di essere protagonisti fino in fondo? Risponde don Giussani a questa domanda, risponde con una indicazione di una strada e con la testimonianza di una vita: “Protagonista non vuol dire avere la genialità o la spiritualità di alcuni, ma avere il proprio volto, che è in tutta la storia e eternità unico e irripetibile”. E’ questa la frase da cui è stato, diciamo, originato il titolo del Meeting di quest’anno, che è un’espressione che Giussani usò nel ’79 nel dialogo con alcuni universitari. Don Giussani realmente è nell’epoca contemporanea colui che ha avuto il coraggio di riconoscere, come giudizio e come testimonianza di vita, la natura irriducibile dell’io umano, di ogni io umano, il valore infinito della singola persona. Ma noi, ciascuno di noi, è chiamato a rendersi conto di questa irriducibilità, può riconoscerla osservando l’esperienza, sorprendendo nella propria umanità un’attesa, una capacità di infinito che sfonda qualunque riduzione sociologica o pseudoscientifica. La natura ci ha dotati di un cuore che ci fa ribellare a qualunque schema pretenda di rinchiudere il nostro io in un perimetro finito. Quindi protagonista non è chi riesce a realizzare grandi cose, ma è l’uomo libero, cioè chi vive consapevolmente questo suo essere unico e irripetibile. Del resto, come diceva prima Emilia, chi ha visto la Vicky ieri, che si è sentita dire da Rose: “tu hai un valore più grande della tua malattia e della morte”, ecco chi ha visto, capisce questo. Chi ha visto Marcos e Cleuza, chi ha visto gli amici carcerati, chi si guarda intorno in questi giorni e scorge il modo in cui i nostri amici volontari sono qui a lavorare, questo è essere protagonisti, nasce da un’esperienza di libertà. Insiste Giussani: “Tutto il passato, il presente, il futuro per l’eternità, dovessero esserci centinaia di miliardi di mondi, non esisterà più un io come il tuo; il tuo io è irriducibile e c’è una sola irriducibilità nella storia, l’io”, la cosa che sembra più fragile. Siamo dipendenti dall’universo in tutto, più scopriamo la fattezza della natura e più ci rendiamo conto di quanto intimamente dipendiamo dal contesto cosmico e non soltanto dal contesto locale in cui noi viviamo, ma siamo assolutamente liberi dall’universo come soggetti, non siamo determinati dagli antecedenti fisici e biologici, come un certo evoluzionismo ideologico vorrebbe farci credere. Guardate, questo non è un sentimento vago o un’idea fra le altre, mi pare che sia un esigenza radicale e un’evidenza radicale. Io credo che un uomo non potrebbe più vivere senza la segreta certezza di non essere assimilabile a nulla di ciò che lo circonda e di ciò che lo precede, non potremmo più vivere. Allora dobbiamo fare un altro passo, dobbiamo tentare un altro passo: che cosa è questa irriducibilità che ci rende protagonisti, che ci dà una speranza di essere protagonisti, da dove viene? E’ una nostra capacità, è una nostra decisione? E’ una nostra volontà? No, è un dato di fatto: io non mi sto facendo da me. Don Giussani quante volte ci ha esortato a renderci conto di questo, a immedesimarci in questa percezione di sé: il mio io è fatto da un altro, in ogni momento, ora. Questa è una evidenza accessibile alla ragione. Giussani diceva: “è la più grande evidenza in senso assoluto”; non è una nostra scelta, non è un’interpretazione, un istante di questa consapevolezza significa un istante di vera commozione, è l’attimo in cui uno come per la prima volta si accorge di sé e delle cose come qualcosa di sorprendente. Mi verrebbe da dire, qualcosa di ingiustificato, che non si giustifica da sé, è qualcosa che è dato gratuitamente in modo totalmente gratuito, dato da una presenza misteriosa quanto reale. E’ da qui che nasce una nuova affezione per ciò che c’è, nulla è sentito più come estraneo, si desidera che la nostra conoscenza delle cose che ci circonda e di noi stessi giunga fino alle radici misteriose da cui esse sorgono. Allora la consistenza della personalità non sta nella pretesa di autonomia, ma nella coscienza di quella presenza da cui il mio io e tutto l’universo sorge. Protagonista allora è l’uomo che continuamente si accorge con stupore che il proprio io è generato da qualcosa che non è lui, da un infinito, da qualcosa di altro da sé. Ecco che allora si tracciano, diciamo così, gli elementi di una lotta, in cui l’uomo contemporaneo, cioè noi, siamo ingaggiati. Dice Giussani: “La lotta di oggi, culturale, è fra due concezioni dell’uomo: fra l’uomo che appartiene a qualcosa di grande, alla grande Presenza, oppure che appartiene a se stesso”. Non è che sia la lotta tra i buoni e i cattivi evidentemente, o fra noi e gli altri, è la lotta che si combatte ogni giorno nel terreno dell’esperienza di ciascuno di noi. Allora vorrei brevemente vedere come queste due concezioni di sé, della propria personalità in azione, del proprio essere protagonisti, si confrontano con il reale, prima sul livello umano, storico cioè il potere e poi sul potere naturale, l’universo. Un uomo che fonda se stesso sulle proprie forze, un uomo che appartiene a se stesso, un uomo che è totalmente agganciato alla propria capacità, a un proprio progetto, o a una propria capacità morale, è facilmente preda del potere, la sua pretesa di autonomia porta alla dissoluzione, alla perdita della libertà come “originalità di giudizio” diceva Giussani. Si diventa alienati nell’opinione comune, nelle opinioni indotte dalla cultura dominante. Basterebbe vedere che cosa ne è stato della stragrande maggioranza di coloro che 40 anni fa, nel ’68, hanno confuso la propria libertà con un progetto politico, totalmente riassorbiti. La capacità di riassorbimento e riciclaggio del potere è straordinaria. Questo io, tutto appoggiato su se stesso, finisce per perdere il suo volto, diventa preda di una mentalità che lo domina, “ecco che scivola”, come diceva Hanna Arendt, in quella “sterile passività” in cui siamo tutti in qualche modo testimoni e coinvolti. Mentre un uomo cosciente della propria irriducibilità è inassimilabile a qualunque potere, democratico o totalitario che sia. I primi cristiani preferivano morire che identificarsi con Cesare. Un uomo libero come Solženitsyn ha messo sotto scacco un intero regime, ne abbiamo avuto una documentazione splendida in questi giorni. Il potere cambia volto, cambia nella storia ma tende sempre a negare, a soffocare questa punta acuta dell’io, della sua irriducibilità, perché fugge, non la può controllare. Nel secolo scorso, le dittature cercavano di soffocare la persona con l’isolamento e con la violenza fisica, oggi a me sembra che paradossalmente lo smarrimento dell’io sia favorito da un eccesso di comunicazione e di possibilità di scelta. Guardate, è quasi una nuova ideologia, io non ho niente contro Internet o i telefoni, ne uso abbondantemente, dico che è menzognera l’idea che una maggiore libertà, una maggiore realizzazione di noi stessi venga automaticamente dalla moltiplicazione delle possibilità di scelta, di visibilità, di velocità di scambio di informazione, di sostituzione di informazioni. Alcuni ricercatori del Lorentz Liver Laboratory hanno previsto che questo criterio, applicato alla bioingegneria e alla microelettronica nei prossimi decenni – parlano di 50, 70 anni – porterà a modificare l’idea che abbiamo del nostro corpo, il quale potrebbe diventare qualcosa a cui noi potremo dare la forma che a noi più pare e piace, liberi di scegliere, del resto qualche inizio si inizia a vedere, neanche il dato del proprio corpo viene accettato, seguito. Comunque senza andare nel futuro, già oggi è chiaro che la persona è sempre più umiliata, ha sempre più difficoltà a percepire uno scopo, in balia dei falsi protagonisti creati dalla mentalità ingannatrice di certi programmi televisivi. Non è la possibilità di scelta: vedete, in un mare infinito di possibilità equivalenti siamo apparentemente più liberi, in realtà siamo solo più confusi, perché? Perché l’io è qualcosa di unico, prima di scegliere, prima di comunicare ha bisogno di incontrare, di amare e di essere amato. Come ha detto Benedetto XVI: “Oggi l’uomo è minacciato da uno squilibrio tra le possibilità che ha e la debolezza del giudizio del cuore”. Questa è la sfida per noi. Ci saranno dei Solženitsyn nel XXI secolo? Ci saranno ancora uomini senza patria? E infine ci domandiamo, ma se veramente l’uomo appartiene a se stesso, fino a dove può arrivare il suo potere sulla realtà, quanto può essere grande il potere di un uomo? Paragoniamoci con la realtà tutta intera dell’universo, un faraone o Giulio Cesare, Bush o Putin, possono sicuramente vantare un grande potere sulla terra, anche Berlusconi naturalmente, ma il potere di un uomo nobile o malvagio che sia, fin dove può arrivare? Quando avesse conquistato tutta la terra, dove è arrivato realmente, dove è arrivato? Ecco, se c’è una cosa che la scienza moderna ci fa vedere con chiarezza, con una chiarezza senza precedenti, è l’abisso della vastità del mondo, la potenza delle forze in gioco rispetto a quello che noi siamo, l’immensità dello spazio e del tempo all’interno dei quali un essere umano è un istante invisibile, è un punto invisibile. L’universo ha una storia di 13,7 miliardi di anni, quasi 14 miliardi di anni. Ora, se noi paragoniamo questo tempo, l’età dell’universo, a un anno, bene tutta la durata dell’impero romano è meno di un secondo, un attimo, tutta la durata dell’impero romano. I confini dell’universo osservabile, se teniamo conto dell’espansione, si trovano a circa 46 miliardi di anni luce, vuol dire circa 400.000 miliardi di miliardi di chilometri, se noi paragoniamo questo orizzonte cosmico all’Oceano Atlantico, quello che aveva davanti Cristoforo Colombo, allora la distanza fra la Terra e la Luna sarebbe come un deci miliardesimo di un granellino di sabbia sulla spiaggia del Portogallo. Ecco, se la grandezza umana fosse misurata dal dominio che essa riesce a stabilire sul mondo, siamo condannati al nulla, anche il più grandioso potere politico diventa insignificante, disprezzabile, anzi oserei dire ridicolo. Ma allora dobbiamo chiederci: c’è qualcosa nell’uomo che regge il confronto con questa vastità dell’universo, della realtà tutta, tutta intera? E di nuovo qui ci viene in aiuto Dante. Per lui ogni circostanza umana è una circostanza cosmica, per iniziare a descrivere il gesto umano, l’istante della sua avventura, il suo amore per Beatrice, la sua scoperta di Dio, Dante situa l’istante nel contesto cosmico, come quando inizia il suo viaggio nel primo canto dell’Inferno. Dice: “Temp’era dal principio del mattino e il sol montava in su con quelle stelle ch’eran con lui quando l’Amor divino mosse da prima quelle cose belle”. Si vede nell’Universo, non è che comincia così nel suo piccolo, lui è in rapporto con tutto. Oppure quando inizia la grande ascesa verso il Paradiso, verso il destino, come incomincia? “Surge ai mortali per diverse foci la lucerna del mondo, ma da quella che quattro cerchi giugne con tre croci, con miglior corso e con miglior stella pare congiunta e l’umana cera più a suo modo tempera e suggella”. “Quattro cerchi giugne con tre croci” dice l’istante cosmico di quel momento, non c’è un gesto umano se non il rapporto con la totalità, perché questo è ciò che contraddistingue l’umano, è il segno di quella irriducibilità, è questo che ci descrive come dimensione che non si può ridurre, assorbire in tutto ciò che ci precede e ci circonda. Bene, ma la visione attuale che noi abbiamo dell’Universo in realtà sembra esaltare ancora di più questo rapporto affascinante tra l’io irriducibile e il cosmo nella sua evoluzione, nella sua vastità. Una grande astronoma del secolo scorso, Maria Mitchell, ha scritto queste parole: “Questi immensi spazi della creazione non possono essere misurati dalla nostra limitata potenza, eppure piccola come è la nostra realtà rispetto alla infinità della creazione, breve come è la nostra vita in paragone ai cicli del tempo, noi siamo così intrecciati con il tutto, che la vibrazione delle parole che noi gridiamo, riempie tutto lo spazio e il suo tremore attraversa tutto il tempo”. Forse ancora più vibranti e definitive sono le parole del già citato Leopardi, il quale come sapete era un conoscitore profondo di astronomia, quindi parlava delle stelle e della luna, dell’universo avendo un’idea anche dal punto di vista fisico di quello che diceva e afferma: “Considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio. Immaginarsi il numero dei mondi infinito e l’universo infinito e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo, pare a me maggior segno di grandezza e di nobiltà che si vegga nella natura umana”. Ecco, se l’io è riconosciuto come irriducibile, come rapporto con l’infinito, allora c’è qualcosa nella singola persona che non si azzera al cospetto dell’universo, c’è qualcosa che tiene, che regge il confronto con la vastità cosmica, anzi la supera da tutte le parti. Tutto è poco e piccino, è il paradosso della condizione umana, è un quasi nulla, è il quasi nulla dell’io di ciascuno di noi che è capacità di infinito, è quello che il salmo ottavo esprime dall’antichità in modo insuperabile: “Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno di te, di gloria e di onore lo hai coronato”. Ecco, gente come Dante, come Pascal, come Leopardi o Dostoevskij e come don Giussani, ha capito molto bene che ogni essere umano ha una grandezza incommensurabile, incommensurabile, di un altro ordine, diceva Pascal, e questo è precisamente il suo irriducibile e diretto rapporto con il Mistero che lo crea. Togliete questo e ditemi come si può ragionevolmente difendersi dalla mercificazione della vita umana, dal dare un prezzo, basso o alto a seconda di chi decide, a ogni vita umana, alla nostra vita e dei nostri figli. Non c’è ragionevole opposizione a questo, a che vale una vita di sofferenza? A essere spezzata. O protagonisti, o nessuno. Ma, mantenere la coscienza di sé, questo livello della coscienza di sé come rapporto con l’infinito, è arduo. Anzi è impossibile per i più. Il potere, come abbiamo visto, tende a soffocare questa autocoscienza, questa libertà. Ma non è tutto, se ben guardiamo, c’è anche una strana rinuncia che è propria dell’io, quasi volesse poter fare a meno di sé stesso, come se volessimo liberarci della nostra libertà, come una componente endogena, non indotta dalla mentalità ma proprio dall’interno, dalla passività che diceva prima alla Hanna Arendt. C’è la splendida, struggente frase di Rilke: “Tutto cospira a tacere di noi, come si tace di un’onta, o forse di una speranza ineffabile”. O Dostoevskij: “Non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà”; o Berdiaev: “Sembra quasi che l’uomo si sia stancato della propria libertà e che sia pronto a rinunciarvi in nome di una forza che organizzi la sua vita, interiormente ed esteriormente”. Allora, concludendo, non possiamo evitare quest’ultima domanda: che cosa permette oggi, oggi, il ridestarsi dell’io? Di questo io così diviso, disorientato, combattuto, cosa consente di ridare alla persona la possibilità di essere se stessa veramente? E’ ancora possibile? E’ possibile per noi contemporanei? “Che cosa può sfidare la misura con cui l’uomo si mette davanti al reale?”, diceva recentemente Carrón, “cosa consente di allargare il desiderio? Di mettere in moto il centro dell’io che è come bloccato? Occorre un avvenimento, occorre un avvenimento”. Ciò che fa ritrovare se stessi è un amore incontrato, non è una filosofia migliore delle altre, neanche religiosa. E’ una presenza in cui ci si imbatte e che afferma il tuo essere. Questa è la dinamica naturale con cui la persona umana evolve nel corso della vita. Il bambino diventa uomo così, galleggiando nella presenza di chi ha davanti, sentendosi fatto dalla presenza del padre e della madre; l’uomo adulto si arricchisce in questo modo, nell’incontro con un altro diverso da sé. L’ipotesi cristiana è che questa sia stata anche e sia la dinamica con cui la grande Presenza, quella che misteriosamente fa me stesso in questo momento, si è fatta compagnia all’uomo. Il cristianesimo, per come noi lo abbiamo incontrato, è questo invito inaspettato che ti cambia la vita, è un incontro con uno che ti guarda e ti dice “anche i capelli del tuo capo sono contati”, oppure che dice a quella vedova a cui era morto il figlio, come don Giussani ci ha fatto rivivere tante volte, “donna, non piangere”. Ecco, questo è più grande dell’universo, è più grande della vita, perché è la sorgente della vita. Vedete, non è che noi siamo contro il potere, non si tratta di demonizzare niente, anzi, a ciascuno è dato quello che è dato; è che a noi ci affascina di più il potere dello sguardo di Cristo su quella donna che la boria di certi politici. E’ per questo che non ci avranno mai. Uno quindi, quando incomincia ad essere protagonista? Quando si imbatte in qualcuno, in una presenza, per cui si accorge di essere guardato così, voluto, considerato, chiamato per nome. Questo ti fa dire “io” con una tenerezza e una dignità inconcepibili. Non si tratta di fare grandi cose, ma il fatto è che se uno si sente guardato così, diventa un soggetto instancabile, non lo puoi più fermare, un protagonista di positività; riscopre quella capacità di simpatia per tutto, guardate il Meeting che cos’è, e tenderà a costruire pezzi di mondo migliore, lì dove si trova, ogni giorno, senza strafare! Quasi senza accorgersene. Perché come disse una volta don Giussani: “Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo”. Dunque se il Mistero infinito, se è vero, se è vero che il Mistero infinito è entrato nella storia, se il senso dell’universo è entrato nell’universo, allora è Lui il protagonista e noi lo diventiamo nel rapporto con Lui, seguendo Lui. Sigrid Unset ha questa frase meravigliosa: “Dio poteva obbligare gli uomini a seguire la via che aveva tracciato per loro e a obbedire come fanno le stelle, ma egli si è fatto uomo e ha deposto la sua onnipotenza sul lusso del mondo degli uomini”, ha deposto la sua onnipotenza sul lusso della nostra libertà. E allora l’unica vera condizione per essere se stessi, per essere protagonisti, paradossalmente, perché qui si va di paradosso in paradosso, è la semplicità, è la umiltà. Come ha scritto recentemente Carrón: “Chi lascia entrare Cristo attraverso la crepa delle proprie ferite e del proprio bisogno umano, si riempie di stupore per quanto accade, si accorge della realtà, ricomincia a vivere, perché questo bisogno, questo essere feriti che noi innanzitutto siamo, è il primo dato, è quello che la modernità non ha voluto vedere, è quello che noi rischiamo di non voler vedere, cioè che siamo dei poveretti, siamo tutti mancanti, siamo dei bisognosi, non ci diamo da noi l’essere, non ci diamo da noi la vita, la risposta alla felicità. Anzi, siamo bisogno, l’uomo è questo grido nell’universo e siamo capaci di tradimento, di viltà, perché desideriamo vivere ma siamo tentati di rinunciare a vivere, come tutti. Per questo, in fondo, non abbiamo altra risorsa che la mendicanza di Lui”. Allora concludo con queste parole di don Giussani: “L’uomo ritorna a essere se stesso quando ritorna a essere mendicante, a mendicare il suo traguardo, il suo destino. Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo”. Vi ringrazio.

MODERATORE:
Senza patria e mendicanti, ringraziamo il professor Bersanelli perché questa immagine di protagonista che oggi ci ha testimoniato, documentato e rilanciato davanti, è veramente l’immagine più gloriosa, proprio perché più indomabile, possiamo essere liberi solo perché siamo senza patria e perché siamo mendicanti, ma possiamo mendicare solo perché abbiamo una percezione vivida del nostro desiderio, del nostro, bisogno, della nostra domanda. Questo ci rende gloriosamente mendicanti e questo ci rende gloriosamente protagonisti della storia. Grazie e buona serata.

Data

27 Agosto 2008

Ora

17:00

Edizione

2008

Luogo

Auditorium D7
Categoria
Incontri