LE PROSPETTIVE DELL’ECONOMIA GLOBALE E I PAESI DEL MEDITERRANEO

Le prospettive dell’economia globale e i paesi del Mediterraneo

Partecipa Carlo Cottarelli, Executive Director International Monetary Fund. Introduce Bernhard Scholz, Presidente Compagnia delle Opere.

 

BERNHARD SCHOLZ:
Buon pomeriggio a tutti! Benvenuti all’incontro su Le prospettive dell’economia globale e i Paesi del Mediterraneo con Carlo Cottarelli, al quale do un benvenuto particolare per aver accettato questo nostro invito. Carlo Cottarelli è Executive Director del Fondo Internazionale Monetario, lavora lì dal 1988, prima ha lavorato in Banca Italia e all’ENI. Ha studiato all’università di Siena ed alla London School of Economics e da novembre è adesso in questa nuova posizione che gli dà la responsabilità per i paesi Albania, Grecia, Italia, Malta, Portogallo, San Marino. Il suo lavoro certamente non è facile. E di questo vogliamo parlare oggi. Abbiamo però concordato di fare alcune domande iniziali che riguardano il Fondo Monetario Internazionale, perché tanti ne parlano ma secondo me non tutti sanno di che cosa stanno parlando. E’ una banca? Un istituto di salvataggio? Che cos’è il Fondo Monetario? Sin dall’inizio, quando è stato fondato, ci sono state due scuole di pensiero. C’era Keynes, che immaginava il Fondo Monetario Internazionale come un istituto più di solidarietà internazionale fra i Paesi, mentre alla fine ha vinto la versione inglese di farlo diventare più una banca che presta e che reincassa quello che ha prestato. Solo per dare dei numeri veloci: grandi azioni di salvataggio del FMI sono state, nel ’98 per il Brasile 41 miliardi, nel 2000 la Turchia con 11 miliardi, l’Argentina con 21, e adesso la Grecia, 30 miliardi nel 2012, quello che è successo ve lo ricordate. Quindi, qual è il compito del FMI?

CARLO COTTARELLI:
Il FMI è una organizzazione che comprende ormai quasi tutti i Paesi del mondo, sono 187 i membri, rimangono fuori soltanto Cuba e pochi altri Paesi. Adesso vedremo il cambiamento nelle relazioni internazionali tra Cuba e il resto del mondo, quando Cuba entrerà nel FMI. E’ quindi una organizzazione globale che fa fondamentalmente tre cose. Dico prima le cose che sono meno alla luce dei riflettori e poi ciò che è sotto gli occhi di tutti. Prima di tutto, fa un’azione di sorveglianza economica: è come avere un medico da cui si va una volta all’anno per avere un giudizio sulla propria economia. E questo viene fatto per tutti i Paesi membri del FMI, per gli USA, la Grecia, i Paesi africani, i Paesi asiatici. Se sei membro del FMI, devi avere questo check-up annuale. La seconda cosa che fa il FMI, è fornire servizi di consulenza a Paesi che vogliono per esempio riformare il loro sistema pensionistico, riformare e introdurre l’IVA: è un servizio che viene fornito gratuitamente, a parte i Paesi più ricchi. La cosa per cui però il FMI è più noto sono i famosi prestiti che vengono fatti a Paesi che sono in crisi. Un Paese che non riesce a finanziarsi sui mercati finanziari o riesce a finanziarsi ma a tassi di interesse troppo elevati, viene dal FMI dicendo: abbiamo bisogno di soldi. Il FMI, sulla base delle proprie regole, presta a questi Paesi risorse economiche che devono essere ripagate, perché sono soldi della comunità internazionale. Per essere sicuri in qualche modo di essere ripagati, il FMI presta chiedendo però che i Paesi che ricevono i soldi facciano certe cose. Questa è la cosiddetta condizionalità dei prestiti del FMI. Il FMI dà soldi con la condizione che i Paesi facciano certe cose. Da qui, il fatto che il FMI viene visto come il “cattivo” che impone certe condizioni. Allora, quali sono queste cose che il Paese deve fare? Se un Paese ha un deficit pubblico molto elevato, dovrà cercare di ridurlo. Se un Paese ha un sistema bancario che è poco solido, dovrà cercare di renderlo più solido. Questo è il tipo di condizioni che il FMI richiede per essere sicuro in qualche modo che poi le economie tornino in carreggiata e che quindi i prestiti del FMI vengano ripagati. Il FMI è stato quasi sempre ripagato, sono pochissimi i casi in cui il FMI non è stato ripagato e quindi la critica che viene talvolta fatta che vengono dati soldi a Paesi che non hanno fatto i propri compiti, è ingiusta: alla fine i soldi rientrano. Ma sono ancora soldi che vengono dati in cambio di certe condizioni. Molto spesso, queste condizioni sono difficili per un Paese da implementare, per cui si dà la colpa a volte al FMI di imporre austerità. Ma ricordiamoci che il punto di partenza è una situazione in cui il Paese che chiede prestiti al FMI comunque ha degli squilibri interni. Una cosa che in qualche modo è cambiata negli ultimi 10 anni è che il FMI adesso dà molta più rilevanza a questioni di distribuzione del reddito, a cercare di proteggere gli strati più poveri della popolazione rispetto a quello che faceva 20 o 30 anni fa. C’è molta più attenzione per queste questioni. Il FMI ha fatto anche degli studi per far vedere che la distribuzione del reddito conta, che un Paese in cui la distribuzione del reddito è molto sbilanciata è anche un Paese che cresce meno. Quindi, siamo sempre cattivi, forse un po’ meno cattivi di come eravamo una volta.

BERNARD SCHOLZ:
Bene, tra l’altro è stato riconosciuto anche da Amartya Sen, che è stato uno dei critici più feroci del FMI, che si stanno ammorbidendo. Andiamo quindi al tema centrale di questo pomeriggio, che riguarda l’economia globale ma soprattutto i Paesi mediterranei, l’Eurozona e l’Italia. Prima abbiamo visto che lei ha una visione ampia di questo problema, poi faremo delle domande.

CARLO COTTARELLI:
Sì, volevo parlare un attimo della situazione in Europa e soprattutto nell’area dell’euro. L’area dell’euro non sta attraversando un periodo facilissimo. C’è stato un miglioramento rispetto alla situazione del 2011/’12, quando si pensava che alcuni Paesi sarebbero usciti dall’area dell’euro, che ci sarebbe stato un fallimento del progetto dell’euro. Però non è una fase facile per l’Europa e in particolare per l’area dell’euro, perché la crescita è ancora bassa, più o meno la metà del tasso di crescita negli USA, c’è la questione greca per cui è stato trovato nei giorni scorsi un accordo, ma ci sono ancora molte incertezze compresa la sostenibilità del debito pubblico greco. Questa vicenda della Grecia ha chiaramente creato un conflitto tra Nord e Sud dell’Europa, anche se alla fine si è raggiunto un accordo. In questa situazione di bassa crescita, poi, credo ci sia in qualche modo la tendenza a dare la colpa all’Europa per tutto quello che non va, perché non funziona. In qualche modo, il capro espiatorio del momento è l’Europa. In particolare quando si parla di austerità, è l’Europa che ce la impone. E non c’è da stupirsi se in questa condizione diversi movimenti politici sostengano che l’Italia starebbe meglio al di fuori dell’area dell’euro. In realtà, io credo che occorra guardare le cose in prospettiva, anche in una prospettiva storica. L’euro è stato creato 15 anni fa, che in una prospettiva storica è molto poco. Per creare una nuova moneta ci vuole parecchio tempo. Nel 2008, otto anni dopo la creazione dell’euro, l’Europa è stata colpita dallo shock economico più forte dagli anni ’30. Shock che non si è originato in Europa ma che ha colpito una moneta che è ancora debole dal punto di vista di una moneta nuova e dal punto di vista di una prospettiva storica. Dietro l’euro, c’è anche un progetto politico, forse di una unità politica nel medio e lungo termine. E sapete quanto è difficile creare una nuova entità politica! Pensate agli USA, 90 anni dopo la loro creazione come nazione indipendente, 90 anni dopo la Guerra di Indipendenza, c’è stata la Guerra Civile americana. Quindi, non bisogna essere sorpresi se l’area dell’euro sta affrontando delle difficoltà. Si dice che la bassa crescita in Europa e in Italia sia dovuta alle politiche di austerità che ci vengono imposte. Io credo che la realtà sia un po’ diversa. Siamo sicuri che se l’Italia non fosse nell’area dell’euro, potrebbe davvero avere meno austerità? Prima degli ultimi anni, il deficit pubblico è rimasto più o meno costante e non c’è stato nessun impulso restrittivo che venga dalla finanza pubblica. Certo, uno può dire: se non ci fossero le regole europee, l’Italia potrebbe avere un deficit pubblico molto più alto del 3%, spendere di più, costruire più ponti, più strade, ridurre le tasse. Siamo sicuri che questo sarebbe il caso? In realtà, il problema è che l’Italia ha un debito pubblico molto elevato, superiore al 130% del PIL, il terzo più grande al mondo tra i Paesi avanzati e quindi diventa difficile in queste condizioni prendere a prestito dai mercati. Uno può dire: i tassi di interesse sono così bassi, perché non possiamo prendere a prestito di più? Il problema è che i tassi di interesse sono bassi proprio perché siamo parte dell’area dell’euro. L’area dell’euro ci fornisce questa rete di protezione senza la quale l’Italia dovrebbe pagare tassi di interesse molto più elevati. Le regole di finanza pubblica europee tra l’altro sono abbastanza flessibili, consentono un margine di flessibilità che è stato usato nel 2015 e, come leggerete sui giornali, si spera possa essere utilizzato anche nel 2016. In assenza di questo, nel 2016 ci sarebbe una riduzione del deficit che in un solo anno è abbastanza forte. Ma ci sono i margini di flessibilità per i Paesi che introducono riforme strutturali. Detto questo, è chiaro che esistono ancora delle debolezze intrinseche nell’area dell’euro e quella fondamentale è che al momento stanno insieme Paesi che sono abbastanza diversi l’uno dall’altro. Un’area monetaria funziona bene se le economie sono abbastanza simili l’una all’altra. Se ci sono in un’area monetaria Paesi in cui il costo del lavoro cresce al 10%, e altri in cui cresce al 2% o allo 0%, è difficile tenere l’area monetaria insieme. Quindi, quello che senz’altro è necessario continuare a fare è rendere le varie componenti dell’area dell’euro, le varie economie, più simili. Come fare? La risposta tipica è quella delle riforme strutturali, si tratta di fare riforme come si stanno facendo, che serviranno a rendere i vari Paesi dell’area dell’euro più simili tra di loro. Di quali riforme stiamo parlando? Credo che la cosa fondamentale sia creare, e questo vale per l’Italia come per gli altri Paesi, ma parliamo dell’Italia perché è più vicina, un terreno per gli investimenti privati migliore di quello che esiste attualmente. Gli investimenti privati in Italia sono caduti dal 2007 a oggi di un importo molto elevato, del 30%. Un Paese che non investe è ovviamente un Paese che cresce poco ed è un Paese in cui c’è anche poca domanda per beni di investimento ma anche per consumi, perché poi gli investimenti comportano un aumento dell’occupazione e chi è occupato consuma di più. Quindi, c’è il problema fondamentale di creare un clima per gli investimenti privati che sia migliore di quello attuale. Il che richiede diverse cose, per esempio di continuare l’azione di riduzione della tassazione che è iniziata nel 2014, che è proseguita nel 2015 e spero possa proseguire nel 2016. Attualmente, se si riducono le entrate allo Stato occorre ridurre anche la spesa pubblica, perché è da lì che devono derivare le risorse per ridurre la tassazione e quindi è necessario portare avanti quell’azione che io ho condotto quando in Italia ero Commissario per la Revisione della Spesa che sta andando avanti, la spending review. Da lì occorre trarre risorse per poter ridurre la tassazione. Non è l’unica cosa che occorre fare, occorre riformare la Pubblica Amministrazione. Una legge molto importante che il Parlamento ha approvato nelle ultime settimane è la Legge Delega sulla Riforma della Pubblica Amministrazione, che fa tante cose. Questa è una Legge Delega, quindi autorizza il Governo ad emettere dei Decreti Legislativi per fare certe cose ma le aree coperte sono molto importanti: la riforma dei dirigenti pubblici, per trasformarli in veri manager del denaro pubblico. C’è la riforma della presenza sul territorio dello Stato, quante prefetture ci devono essere in Italia, quanti uffici deve avere in Italia un certo Ministero, cosa molto importante per semplificare la struttura dell’amministrazione. C’è la riforma delle partecipate, delle forze di polizia. Si tratta di attuare questa legge che è molto importante. Quando abbiamo visitato l’Italia nel maggio scorso – io accompagnavo la missione del FMI -, il Ministro Madia ci ha comunicato che i Decreti Legislativi sarebbero stati emanati nel giro di poche settimane, al massimo qualche mese dopo l’approvazione della legge. C’è la riforma della giustizia: ci sono già stati progressi negli ultimi 18 mesi. Un Paese in cui la giustizia è lenta ad operare è un Paese che è poco efficiente, è un Paese in cui è più difficile svolgere un’attività di impresa. La riforma del mercato del lavoro è stata molto importante, è stata giudicata molto positivamente a livello internazionale. Il FMI ha detto che ci sono altre cose che potrebbero essere fatte, in particolare forse rendere più correlati gli aumenti salariali con gli aumenti di produttività a livello di singoli impianti. Ci sono ancora tante cose da fare, ci sono tante cose che sono state fatte e tante cose che si possono ancora fare. Una cosa essenziale è che, nel fare queste riforme, tornando al tema della distribuzione del reddito, bisogna evitare che ci siano alcuni strati della popolazione che siano colpiti da queste riforme. Ci vuole quello che in inglese si chiama Safety Net, una rete di protezione per essere sicuri che le riforme non abbiano effetti indesiderati. Credo che però questa sia la strada giusta da seguire se si vuole avere in Italia un recupero della crescita, che è positiva – e questa è una buona notizia – ma che è ancora abbastanza bassa. E se si vuole avere un’area dell’euro che funzioni meglio di quanto abbia funzionato negli anni precedenti al 2008.

BERNARD SCHOLZ:
Andiamo un attimo sulle diversità dei Paesi cui lei ha accennato. Ci sono diversità eclatanti dal punto di vista fiscale, pensionistico. Quanto è realisticamente pensabile che con Paesi così diversi come la Svezia e il Portogallo, per non citarne altri, ci sarà in futuro un certo adeguamento di questi sistemi? Secondo, e connesso direttamente: è possibile pensare una cosa così senza che ci sia prima un Governo abbastanza centrale, europeo, che realizzi queste riforme?

CARLO COTTARELLI:
Dunque, è senz’altro possibile fare dei passi avanti anche in assenza di un Governo centrale europeo, tornerò su questo tra un momento. Si possono comunque fare passi avanti, si sono fatti dei passi avanti nonostante le diversità che esistono ancora nelle diverse economie europee. Non c’è dubbio che dal 2008 ci sia molta più Europa di quanto ci fosse prima. Un esempio: è stata creata una unione bancaria, fino al 2012 i sistemi bancari nell’area dell’euro operavano in maniera indipendente. C’erano una supervisione bancaria in Italia, una supervisione bancaria in Francia, e così via. Questa è una cosa che prima del 2008 si riteneva impensabile, quindi ci sono esempi concreti di cose che si riesce a fare insieme e che prima non si facevano. Non esisteva, prima del 2008, un sistema europeo per sostenere i Paesi in difficoltà: è stato creato ed è quello che viene utilizzato adesso per sostenere la Grecia. Anche questa è una cosa che si diceva non si potesse fare, una cosa che richiedeva un livello di concordanza, di interessi che si riteneva impossibile. Quindi, questo è stato superato, non vedo perché non si possa andare avanti su questa strada. Detto questo, è una strada però difficile da percorrere, non c’è dubbio, ci sentiamo ancora in qualche modo diversi come cittadini rispetto agli altri membri dell’Unione Europea, dell’ala dell’euro, in particolare e in generale dell’Unione Europea: è una cosa naturale e potrà essere superata soltanto nel tempo. Come detto, la Guerra di Successione americana è successa quasi un secolo dopo la creazione degli Stati Uniti. Questo vi dà un’idea di quanto sia difficile, di quanto siano lenti questi processi: ma occorre continuare. Io credo che una cosa, prima o poi, occorrerà fare: centralizzare molto più di quanto si faccia attualmente la gestione delle politiche di spesa e di tassazione pubblica. Il bilancio dell’Unione Europea è molto piccolo, rappresenta circa il 2% delle spese pubbliche, delle entrate pubbliche dell’area dell’euro Se guardiamo a una federazione fiscale, agli Stati federali, anche quelli più decentrati come gli Stati Uniti o il Canada, la quota di spesa che è accentrata è circa il 40% della spesa pubblica complessiva. Se prendiamo la media degli Stati federali, la spesa centrale è di circa il 60% della spesa pubblica, pochissimo. 60% contro il 2%. Vuole dire che negli Stati federali la spesa pubblica è 30 volte più accentrata di quanto attualmente avvenga in Europa. Io credo sia necessario superare questa anomalia, le aree a moneta comune sono caratterizzate da un bilancio centrale molto più grande di quello che esiste attualmente in Europa e per buoni motivi, perché con un bilancio centrale si possono fare tante cose che i singoli Paesi non possono fare. C’è un problema di scarsità di domanda in Europa, per esempio. Però i Paesi che più avrebbero bisogno di una maggiore domanda, di spendere di più, non se lo possono permettere, per esempio, perché hanno un debito elevato. Ecco, un bilancio centrale può sopperire a queste necessità, si gestiscono dal centro cose che i singoli Paesi non potrebbero gestire. Non solo, centrando certe politiche si rendono le varie economie dell’area dell’euro più omogenee. Se in Europa esistesse un solo sistema di sussidi per la disoccupazione, questo renderebbe i mercati del lavoro dei vari Paesi più simili tra di loro. C’è anche chi ha detto – anche qui, mi pare – che invece bisognerebbe partire dall’avere un sistema di difesa europea comune. Nella storia, lo Stato è considerato tale quando ha una moneta comune e un esercito comune. Negli anni ’50, si era arrivati molto vicini a creare un esercito europeo, a livello di Governi la cosa era stata approvata, poi c’è stato un Paese, la Francia, che non ha rettificato l’accordo ed è saltato tutto. Ma fin dall’inizio si pensava che l’Europa dovesse essere caratterizzata da un esercito comune. Soltanto dopo si è sviluppata l’idea che dovesse essere caratterizzata anche da una moneta comune. Io credo che se crediamo davvero nell’Europa sia necessario tornare a pensare in questi termini, mettere insieme non soltanto delle regole ma fare insieme certe cose. Mi rendo conto che la popolazione dell’area dell’euro non crede abbastanza all’Europa ma questo passerà, passerà anche con la ripresa economica che spero possa esserci.

BERNHARD SCHOLZ:
Andiamo adesso su questa credibilità dell’Europa. In questo momento è come se il caso Grecia fosse onnicomprensivo per tutti i problemi europei: il destino Europa è legato al destino greco e il destino greco è legato al destino dell’Europa. Ma i problemi della Grecia sono un caso circoscritto, non dico isolato ma circoscritto, o è veramente un problema che riguarda in profondità tutta l’eurozona?

CARLO COTTARELLI:
Sono vere tutte e due le cose, nel senso che alcuni problemi che si sono manifestati in Grecia si sono manifestati anche in altri paesi dell’area dell’euro, il problema è che in Grecia si sono manifestati molto più che in altri paesi. Cosa vuole dire? Vuole dire che un problema di deficit pubblico molto elevato, c’era anche il Portogallo, non c’era soltanto in Grecia, però in Grecia, prima dell’aggiustamento che è stato fatto negli ultimi due anni, c’era, a parte quello che pagava sugli interessi, un deficit primario pari al 10% del PIL. Quindi, un livello elevatissimo, il che voleva dire che se anche la Grecia non avesse avuto nessun debito avrebbe comunque dovuto fare un aggiustamento pari al 10% del PIL, perlomeno per eliminare il deficit primario. Le sue entrate non erano sufficienti a coprire le spese, esclusi gli interessi, per un importo pari al 10% del PIL. Lo stesso vale per il deficit del conto con l’estero della Grecia. La Grecia aveva esportazioni di beni e servizi inferiori, più basse delle importazioni, intorno al 10, 12%: voleva dire che la Grecia aveva un tenore di vita molto più elevato di quello che si poteva permettere. E questo voleva dire che prendeva a prestito per consumare, indebitandosi. Questo valeva anche per altri Paesi, il Portogallo, per esempio, ma non valeva in Portogallo il deficit pubblico, il deficit estero era più basso di quello greco. Sistema bancario: altri sistemi bancari avevano problemi, l’Olanda aveva problemi, però i problemi del sistema bancario greco erano forse più severi. Quindi, quello che è successo in Grecia è qualche cosa di simile a quello che è successo in altri Paesi, ha una natura molto simile. Le economie dell’area dell’euro rimanevano troppo diverse tra di loro, alcune avevano un deficit troppo elevato, nonostante le regole europee che si riusciva ad evadere, altre erano molto più produttive, avevano una crescita del costo del lavoro molto più basso. Il problema fondamentale della crisi 2008/2009 è che le economie dell’area dell’euro erano ancora troppo diverse. Si stanno facendo riforme per eliminare queste anomalie, ancora non ci siamo ma piano piano credo che ci si arriverà.

BERNHARD SCHOLZ:
Andiamo un attimo ancora su queste differenze. Con il Fondo Monetario voi dovete valutare come abbiamo detto una diversità di Paesi incredibile. Una delle accuse che vengono fatte al Fondo Monetario è di essere troppo standardizzato nei suoi criteri. Uno dei criteri che utilizzate, che utilizziamo tutti, è quello del PIL, l’abbiamo appena utilizzato: è chiaro che se hai un debito devi crescere in un tot per poterlo pagare, a parte che si ricorda poco che l’avanzo primario dell’Italia al netto degli interessi per il debito è sempre positivo: questo è la forza del Paese che spesso non viene ricordata, però torniamo alla domanda. Il PIL sembra diventare il criterio universale su tutte le questioni che affrontiamo. C’è il famoso discorso di Robert Kennedy nel ’68, dice non è che il PIL adesso ci dica lo stato di salute complessivo di un Paese, non dice nulla sulla qualità dell’educazione, non dice nulla sulla qualità della vita, non dice soprattutto dell’equità perché possiamo avere un PIL molto alto però con tanti ricchi e tanti poveri, non dice come sta veramente un Paese. Come vede questo PIL, evidentemente inevitabile come criterio, utilizzate anche altri criteri per misurare, per valutare le prospettive dei Paesi?

CARLO COTTARELLI:
E’ chiaro che per un economista il PIL è una cosa fondamentale: il punto di partenza deve necessariamente essere il PIL, che dà l’idea dell’insieme di risorse che ogni anno vengono prodotte. Concettualmente è il reddito di una famiglia, ovviamente il reddito di una famiglia è importante, quindi il reddito di una nazione, il PIL, è ovviamente importante. Però non può essere l’unica cosa importante per due motivi: uno, c’è una questione di distribuzione del reddito e lì il Fondo Monetario negli ultimi anni, come già sottolineato, ha aumentato l’attenzione sulle questioni di distribuzione, anche perché si è vista l’evidenza statistica di un organismo in qualche modo positivo: quanto migliora la distribuzione del reddito, tanto più, alla fine, nel lungo periodo, arriva la crescita. Quindi, non sono cose incompatibili, ottenere un elevato tasso di crescita ed avere una migliore distribuzione del reddito. Guarda queste cose come guarda ad altri indicatori quali la disoccupazione, il cui livello è molto importante. Più di recente, il Fondo Monetario ha affrontato questioni di genere: il ruolo delle donne in economia, per esempio, che il Fondo Monetario ha considerato una variabile molto importante. Detto questo, sinceramente penso che qualche volta si possa fare di più, delle volte siamo un po’ troppo, come Fondo Monetario, ossessionati dalla crescita misurata dal PIL, anche perché quello che si vuole avere è una crescita sostenibile, non una crescita che dura un anno, due anni, e poi se ne pagano le conseguenze con una crisi economica. Esiste al momento una certa tensione tra mantenere un livello di crescita elevata misurata dal PIL e il rischio che possa portare a delle crisi più avanti. La crisi mondiale del 2008, 2009, secondo me, è stata almeno in parte dovuta al fatto che negli anni precedenti si era cercato in qualche modo di tenere la crescita del PIL a livelli che non erano sostenibili, in qualche modo era una crescita drogata dal fatto che gli interessi della Banca Centrale americana erano molto bassi: si incoraggiavano le famiglie a prendere a prestito senza vedere se poi avrebbero potuto ripagare i debiti. Quello è un rischio. Adesso c’è un po’ lo stesso rischio in maniera più attenuata, spero, ma un po’ di rischio permane perché queste politiche sono al momento negli Stati Uniti di fortissima espansione monetaria. In Europa sono necessarie, il Fondo Monetario ha sostenuto che sono necessarie, ma comportano qualche rischio: bolle speculative, la possibilità che alcuni settori si stiano indebitando troppo. A parte il fatto che altre variabili oltre al PIL sono rilevanti, bisogna anche chiedersi se quello che si vuole avere è soltanto la crescita in PIL o piuttosto una crescita sostenibile: bisogna essere sicuri che le cose che vanno bene nel breve periodo, e che quindi consentono di avere più crescita quest’anno e il prossimo, non siano però cose che si pagano nel lungo periodo.

BERNHARD SCHOLZ:
Vediamo un attimo se è possibile affrontare la questione della crescita sostenibile con investimenti in educazione. C’è una fase iniziale nei Paesi emergenti dove gli investimenti in educazione non sono così decisivi, perché si va sulla stagnazione, sulla mass production. Però, andando avanti, diventando sempre più parte di settori competitivi, gli investimenti in educazione diventano sempre più importanti. Ci può dire qualche cosa su questa relazione?

CARLO COTTARELLI:
Sono cose di cui mi sono occupato anche quando facevo il Commissario sulla revisione della spesa qui in Italia. Abbiamo fatto dei confronti internazionali, le uniche due aree in cui non era appropriato fare tagli alla spesa erano la Pubblica Istruzione e la Cultura: in Italia non si spende troppo in queste aree. Ma oltre a questo, quando ero Capo al Dipartimento per la Finanza pubblica del Fondo Monetario Internazionale, avevamo fatto degli studi statistici in cui si mostrava che la voce di spesa pubblica più associata alla crescita di lungo periodo è proprio la spesa per l’istruzione. Altre spese saranno importanti per altre cose, ovviamente, la difesa, la sicurezza sono importanti, ma se l’obiettivo è investire soldi per crescere di più la spesa per l’istruzione è quella che rendeva di più per ogni 100 euro investiti. Quindi, sono completamente d’accordo. C’è anche la questione di questa differenza tra la prima fase, come ha detto lei, e la seconda fase, ma in generale noi avevamo trovato questa evidenza in PIL in cui la spesa pubblica per l’istruzione era quella che più era associata a una crescita dell’economia nel lungo periodo.

BERNHARD SCHOLZ:
Cambiamo tema. Lei è Responsabile dei Paesi più esposti dal punto di vista europeo sul Mediterraneo: la Grecia, l’Italia, Malta. L’area mediterranea adesso è diventata una zona molto problematica perché è la zona nella quale ci arrivano ogni giorno tanti migranti che fuggono da Paesi perché ci sono situazioni di guerra, situazioni di fame, di mancanza di sicurezza da ogni punto di vista. E’ possibile immaginare che quell’area mediterranea, dal punto di vista europeo, possa trovare un sostegno, non dico i soldi, per incominciare ad affrontare in modo costruttivo questi problemi che si pongono?

CARLO COTTARELLI:
Prima di tutto, la cosa da ricordare è l’importanza attuale del rapporto tra l’Europa e gli altri Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Il Fondo Monetario ha pubblicato dei lavori in proposito e vorrei citare alcuni dati: la correlazione tra la crescita in Europa e la crescita dell’area Middle East e North Africa European Region è la seconda più elevata di tutte le area di questa regione, se guardiamo i Paesi non esportatori di petrolio. Se guardiamo i Paesi esportatori di petrolio, di nuovo è la seconda più importante, è andata crescendo negli ultimi 15 anni in misura molto forte. I legami sono particolarmente stretti tra Europa e i Paesi del Maghreb, tanto che, per citare alcune statistiche, una riduzione dell’1% del PIL in Europa causa una riduzione del 2% delle rimesse degli emigranti dall’Europa ai Paesi del Maghreb. Una riduzione del PIL in Europa dell’1% causa una riduzione del 2,5% delle esportazioni di questi Paesi. In generale, il 70% delle esportazioni del Maghreb, escluso gli idrocarburi, è verso l’area dell’euro. E’ un legame molto forte che abbiamo con questi Paesi. Come lei ha detto, la Regione sta attraversando una fase non facile politicamente: sto pensando alla Libia, alla Siria. A parte queste aree più colpite, è una Regione che sta provando a crescere. Il Fondo Monetario prevede quest’anno una crescita intorno al 4% per l’Egitto e la Giordania, del 4,5% per il Marocco, del 3% per la Tunisia: quindi c’è crescita, l’area sta crescendo nonostante ci siano forti problemi di disoccupazione, forse la cosa più preoccupante, che è ancora molto elevata. Se guardiamo ai produttori di petrolio e di altri idrocarburi che si affacciano sul Mediterraneo, questi crescono meno. C’è stato uno shock, ovviamente, dal punto di vista dei prezzi del petrolio, ma comunque la crescita risulta positiva. Il Fondo Monetario prevede una crescita del 2,5% per l’Algeria e in generale la crescita dell’area del Medio Oriente; la crescita dei Paesi esportatori di petrolio che viene prevista per il 2015 è pure nell’ordine del 2,5%. Come ho detto, la riduzione dei prezzi del petrolio ha colpito l’area in maniera molto severa e richiede degli aggiustamenti compresi nell’aggiustamento della propria spesa pubblica, però molti di questi Paesi avevano accumulato dei forti ammortizzatori, dei forti cuscinetti per assorbire una caduta del prezzo del petrolio. Tra le cose che il Fondo Monetario ha raccomandato a questi Paesi, è di ridurre i sussidi ai prezzi dell’energia. Il prezzo dell’energia in questi Paesi produttori di petrolio è molto basso, la caduta dei prezzi del petrolio consente di ridurre i sussidi ai prodotti energetici, quindi è una situazione molto difficile politicamente, però c’è comunque una attività di crescita, la crescita rimane positiva. Vorrei aggiungere alcune parole su due Paesi: uno è l’Iran, che non si affaccia sul Mediterraneo però è un Paese comunque molto importante per l’Europa. Io credo che l’accordo che è stato di recente raggiunto con l’Iran sia potenzialmente molto importante per l’Europa e anche per l’Italia. L’Iran è un Paese di 80 milioni di abitanti, ha una struttura demografica molto giovane, è un bacino di potenziale domanda per i prodotti europei estremamente importante. Quindi l’accordo è stato molto importante da questo punto di vista. L’altro Paese su cui forse le notizie sono meno positive è la Turchia. Io ho lavorato sulla Turchia al Fondo Monetario per due anni e mezzo, dal 1999-2000 a metà del 2001. E’ un Paese che all’epoca era attraversato da una forte instabilità politica ed economica, con un’inflazione superiore al 100%, tassi di interesse al 150%. Fra l’altro, questo è l’esempio di un Paese che ha la propria moneta. Ma avere una propria moneta non risolve tutti i problemi: la Turchia degli anni ’90 ne è un po’ l’esempio. La Turchia da allora ha fatto enormi passi in avanti, anche con il sostegno del Fondo Monetario. Ha raggiunto tassi di crescita prima del 2008-2009 molto elevati, ha raggiunto una stabilità politica molto forte. Le ultime notizie, però, sono un po’ preoccupanti dal punto di vista della stabilità politica: ovviamente, come saprete, ci saranno nuove elezioni in Turchia e speriamo che non si facciano passi indietro anche dal punto di vista economico. La Turchia è un Paese molto importante per l’area del Mediterraneo, vista la sua dimensione: si parla di quasi 75 milioni di persone, di nuovo un Paese in cui la struttura demografica è molto giovane, un Paese in cui la popolazione cresce ancora rapidamente. E quindi, potenzialmente, è molto importante sia in senso positivo che in senso negativo. Conclusione: l’area dei Paesi del Mediterraneo che non fanno parte dell’area dell’euro rimane estremamente importante per l’area dell’euro stessa, e quindi i Governi dell’area dell’euro devono prestare una notevole attenzione a quello che succede in questa Regione.

BERNHARD SCHOLZ:
Sarebbe anche un compito primario dell’Italia!

CARLO COTTARELLI:
Sì, certo. L’Italia, anche vista la sua posizione geografica, ha un ruolo fondamentale da svolgere.

BERNHARD SCHOLZ:
Intanto domani parla qua il Ministro degli Esteri della Tunisia, quindi possiamo portare avanti il dialogo anche in queste aule. Torniamo a noi. Lei è stato, come si sa, il Commissario per la spending review. Non è il tema di questo pomeriggio ma le voglio fare una domanda più ampia su questo tema. Tutti i Paesi, quasi tutti i Paesi, hanno una spesa pubblica troppo elevata. Questa è una delle cause principali per la crescita del debito, quindi in quasi tutti i Paesi è nata questa forma di statalismo, chiamiamolo così, assistenzialismo, questa idea che lo Stato deve supplire a tutti i problemi che si pongono, spendendo in un modo qualificato o meno. Però non tutto ciò che lo Stato sta facendo può essere portato avanti, potrebbe anche essere sostituito da iniziative private. Lei conosce tanti Paesi diversi fra loro: esistono esempi virtuosi dove si può dire che ciò che lo Stato ha fatto viene fatto oggi dalla società civile, da corpi intermedi o da privati in un modo economicamente sostenibile? Perché, dal mio punto di vista, è l’unica strada. Non possiamo dire: “Adesso questa cosa proprio non la si fa più”, bisogna trovare un’altra soluzione per fare la stessa cosa, forse anche in un modo più qualificato.

CARLO COTTARELLI:
Non è che in tutti i Paesi la spesa pubblica sia troppo elevata, però è senza dubbio un tema molto presente. La spesa pubblica in Europa è più elevata della spesa pubblica degli Stati Uniti, più elevata di quella del Giappone. All’interno dell’Europa, ci sono pure diversità. Ci sono Paesi come quelli nordici, in cui la spesa pubblica è elevata ed è anche gestita bene. Il problema sorge quando la spesa pubblica è elevata ed è gestita male. A questo punto, c’è un problema anche di servizi che vengono forniti alla cittadinanza. Siamo in una fase in cui, per il bisogno di ridurre la tassazione, quindi di muoversi verso un modello di crescita in cui il peso pubblico sia meno presente di quanto sia stato in passato, c’è la necessità di contenere la spesa pubblica. Io credo comunque ci sia la necessità per lo Stato di fornire una rete di Safety Nets a sostegno delle classi più povere, indipendentemente dalla possibilità da parte di associazioni private di svolgere questo ruolo. Al tempo stesso, è chiaro che le associazioni private possono, devono svolgere un compito molto importante. Lo svolgono negli Stati Uniti, per esempio. Non è che questa attività sia completamente disgiunta da un possibile sostegno pubblico, nel senso che, da un punto di vista della tassazione, ovviamente, i contribuiti che vengono dati alle associazioni private tipicamente hanno un trattamento dal punto di vista fiscale agevolato. Comunque, un ruolo può essere svolto dallo Stato, ma che ci debba essere un ruolo da parte di associazioni private, un ruolo pubblico, non c’è dubbio, rimane particolarmente importante. Nella legge di stabilità del 2015 c’è stato un aumento di circa 100 milioni del sostegno che viene dato alle ONLUS. In Italia, il famoso 5×1000, se guardate agli anni passati, non era interamente versato, c’erano grossi ritardi.

BERNHARD SCHOLZ:
Lo sappiamo bene…

CARLO COTTARELLI:
Lo sapete bene… Quest’anno c’è stato un aumento, se non sbaglio, da 400 a 500 milioni nei finanziamenti che vengono dati appunto per sostenere le associazioni private che hanno un ruolo molto importante.

BERNHARD SCHOLZ:
Ma esiste un Paese in cui ci sia un mix pubblico-privato funzionante?

CARLO COTTARELLI:
La risposta sincera è no, nel senso che non c’è un mix ideale, dipende molto dalla cultura del Paese. E’ chiaro che i Paesi nordici, per esempio, avranno comunque, tradizionalmente, una presenza pubblica più forte. Diciamo che quanto più inefficiente è la spesa pubblica, tanto più c’è bisogno di un associazionismo privato che sostituisca l’inefficienza della spesa pubblica. Al tempo stesso, ovviamente, c’è anche bisogno di fare cose che migliorino l’efficienza della spesa pubblica: tra queste, appunto, la legge sulla riforma della Pubblica Amministrazione è senz’altro parte delle cose che servono non soltanto per risparmiare. Questo forse non è neanche l’obiettivo principale, secondo il Governo, della riforma della Pubblica Amministrazione, è quello di migliorare l’efficienza della spesa pubblica.

BERNHARD SCHOLZ:
Apro una parentesi: la cosa che mi stupisce molto è che proprio nei Paesi del Sud dell’Europa, l’impegno volontario è più alto che negli altri. Noi abbiamo in Italia 4 milioni di volontari che, proporzionalmente, è il più alto tasso immaginabile in Europa. E’ quindi anche un problema di organizzarsi, di strutturarsi in modo tale che questo volontariato possa diventare più incisivo?

CARLO COTTARELLI:
Sì, forse questo si spiega proprio con il fatto che la spesa pubblica non è efficiente come potrebbe essere.

BERNHARD SCHOLZ:
Infatti, il problema è lì. Perché una delle cose interessanti è capire anche la qualità della spesa pubblica, come lei ha detto, non solo la quantità, ciò che realmente arriva ai servizi. Nord-Sud: il problema della Grecia, come è sempre stato detto, non è tanto il suo debito ma il suo sistema produttivo. I mercati hanno dubbi sulla Grecia non tanto per il debito che ha ma sulla capacità produttiva di affrontarlo con una crescita sostenibile. Io voglio fare una domanda proprio su questo: i sistemi produttivi dei Paesi sono difficilmente gestibili dallo Stato, perché un sistema pensionistico, un sistema fiscale può essere gestito a livello governativo, ma cosa si può fare per rendere più produttivo, più efficace un sistema industriale, imprenditoriale? E’ possibile fare qualcosa o si deve sperare nella buona volontà dei partecipanti?

CARLO COTTARELLI:
Senza dubbio è possibile fare qualcosa, perché è vero che l’economia privata agisce come funziona un sistema privato, quindi alla fine sono i privati che gestiscono il sistema, però è vero che lo devono gestire nell’ambito di alcune regole che sono fissate tipicamente dal settore pubblico. Se un’economia di mercato non ha abbastanza concorrenza, è chiaro che non funziona molto bene, e si formano dei monopoli, dei gruppi di potere. Quindi, senza dubbio, quello che il settore pubblico può fare è, prima di tutto, avere un’economia con delle regole appropriate, dove ci sia sufficiente concorrenza. Secondo, c’è la questione della tassazione. Se la tassazione è troppo elevata, è difficile che arrivino gli investimenti in un Paese. Ci sono altre cose che lo Stato può fare. Terzo, può fornire servizi pubblici migliori. C’è uno studio del Fondo Monetario che è stato fatto nel corso dell’ultima consultazione, che confronta la produttività delle imprese private sulla base di indicatori di produttività della spesa pubblica nelle varie province d’Italia. E si vede che c’è una forte correlazione tra la produttività del settore pubblico e la produttività del settore privato. Un settore pubblico che è più produttivo è anche un sistema che fornisce dei migliori servizi al settore privato. Tante cose possono essere fatte. Proprio per questo, molte delle condizioni che l’Europa ha concordato con la Grecia, nell’ambito dell’ultimo accordo, riguardano queste regole di funzionamento dell’economia. Il sistema della giustizia pure è un sistema che deve funzionare bene, il sistema della tassazione è un sistema in cui bisogna cercare di combattere l’evasione fiscale il più possibile. Il ruolo dello Stato nel funzionamento di un’economia di mercato è essenziale, ma non consiste nel rimpiazzare l’economia di mercato, quello che deve fare un sistema privato, ma nel fare bene quello che il settore pubblico deve fare.

BERNHARD SCHOLZ:
Seguendo questa logica, evidentemente condivisibile, un Paese che vuole crescita deve in qualche modo detassare, soprattutto se il peso fiscale è molto alto. Questo vuol dire che diminuiscono le entrate. A questo punto diventa ragionevole trattare con l’Europa su questi famosi 3%. Ai tempi, c’era Monti che voleva la Golden Rule, che almeno gli investimenti in infrastrutture non venissero contabilizzati nel 3% del rapporto deficit-PIL. E’ ragionevole, a questo punto, trattare con l’Europa almeno per sforare per un certo periodo, come tanto la Germania che la Francia hanno fatto quando si trovavano in difficoltà, senza chiedere il permesso?

CARLO COTTARELLI:
Secondo me, no. Nel senso che, se noi avessimo un debito pubblico del 20% del PIL, potremmo avere anche un deficit. Pensate a una famiglia. Se io ho poco debito posso pure indebitarmi ulteriormente, nel caso in cui un certo anno io voglia spendere più di quello che è il mio reddito; ma se il mio debito è già il 130%, 132% del mio reddito annuale, beh, è difficile che, indipendentemente dalle regole che mi vengono imposte dal mio vicino di casa, io possa a prendere a prestito di più. Credo che, purtroppo, vista la situazione dell’Italia in termini di debito pubblico, bisogna cercare di evitare di avere una riduzione del deficit troppo forte in un singolo anno. Per questo penso che sia importante negoziare con l’Europa degli obiettivi per il prossimo anno, che tengano conto del fatto che stiamo facendo delle importanti riforme strutturali. Dimenticare completamente che abbiamo un debito pubblico elevato, credo sarebbe un errore che, prima o poi, pagheremmo. Non è da lì che deve venire la crescita. La crescita deve venire comunque dal settore privato.

BERNHARD SCHOLZ:
Per fare un esempio su questo, perché il Portogallo e la Spagna stanno uscendo? Che cosa hanno fatto?

CARLO COTTARELLI:
Dunque, ci sono differenze. Il Portogallo sta uscendo, il tasso di crescita è intorno all’1,5%, più elevato dell’Italia, ma quella che è davvero diversa è la Spagna. Prima di tutto ricordiamoci che questi sono Paesi che hanno un livello di reddito più basso di quello italiano, quindi c’è un processo di naturale crescita della produttività più forte di quella che c’è in Italia, perché loro partono da un livello più basso, soprattutto il Portogallo. Se poi guardiamo la Spagna, ha fatto importanti riforme negli anni scorsi, e soprattutto in qualche modo ha beneficiato del sostegno europeo per rafforzare il sistema bancario, cosa che l’Italia non ha fatto perché non ne aveva così tanto bisogno. Però, il fatto di aver ricevuto dall’Europa soldi per rafforzare il proprio sistema bancario al momento sta aiutando parecchio la Spagna. Ha anche avuto, e qui si torna al tema fiscale, una riduzione del deficit pubblico meno forte di quella che ha avuto l’Italia, però da questo punto di vista si può anche sostenere che non hanno ancora pagato il conto che l’Italia ha già pagato. Quindi, dovranno avere nei prossimi anni un aggiustamento fiscale più forte di quello che l’Italia in qualche modo ha già pagato. E comunque ricordiamoci una cosa: la Spagna è entrata nella crisi con un debito pubblico del 40% del PIL, noi siamo entrati nella crisi con un debito pubblico del 110% del PIL. Quindi la Spagna aveva molto più spazio per aumentare il proprio deficit, noi purtroppo siamo entrati in questa crisi con un debito pubblico che era già molto elevato e che quindi ci legava le mani. Quando si ha un debito pubblico così elevato si è più facilmente sotto la pressione dei mercati. Quindi occorrerà tempo per ridurre il debito pubblico: credo che sia ancora un grosso problema per la crescita italiana avere un debito pubblico così forte.

BERNHARD SCHOLZ:
Purtroppo il tempo vola e io mi avvicino alla fine. Il check-up che farete all’Italia l’anno prossimo sarà positivo?

CARLO COTTARELLI:
Quello che c’è stato quest’anno è stato molto positivo, nel senso che si sono riconosciute le riforme che si stavano facendo. Se ne sono sottolineate altre che dovevano essere fatte, però si è riconosciuto che importanti riforme erano state effettuate. Il prossimo anno vedremo quale sarà la situazione. La prossima missione sarà probabilmente nell’aprile, maggio 2016, quindi c’è ancora parecchio tempo.

BERNHARD SCHOLZ:
Visto che tutti dicono – lo ha detto recentemente anche Visco – che il problema fondamentale è investire in questo Paese, sia da privati che da pubblici, sotto tutti i punti di vista, anche dal punto di vista estero, sta migliorando il clima per investire in questo Paese, anche a livello internazionale?

CARLO COTTARELLI:
Sta senz’altro migliorando. I dati del primo semestre danno una ripresa della spesa per investimenti. Oltre a questo ci sono le cose che sono state fatte in termini di detassazione del lavoro, la riforma dell’Irap che ha escluso dalla base imponibile il costo del lavoro: credo che si stiano facendo le cose giuste. Purtroppo c’è parecchio ancora da fare e quindi rimbocchiamoci le maniche e facciamolo.

BERNHARD SCHOLZ:
Comunque, dal punto di vista della detassazione lei è d’accordo che la prima cosa da guardare è la detassazione del lavoro nelle famiglie.

CARLO COTTARELLI:
La prima cosa che farei è cercare di prolungare al 2016 le detrazioni sui nuovi contratti che sono stati fatti per il 2015. Adesso non voglio fare una classifica, però quella è senza dubbio una cosa molto importante.

BERNHARD SCHOLZ:
Bene, speriamo che succeda. Grazie mille, Carlo Cottarelli.

CARLO COTTARELLI:
Grazie a voi.

Data

22 Agosto 2015

Ora

15:00

Edizione

2015

Luogo

Sala Neri CONAI
Categoria
Incontri