L’ABBRACCIO DELLA CHIESA ALL’UOMO CONTEMPORANEO

L'abbraccio della chiesa all'uomo contemporaneo

Interviene S. Em. Card. Pietro Parolin, Segretario di Stato di Sua Santità. Intervento di saluto di Julián Carrón, Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione. Introduce Emilia Guarnieri, Presidente della Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.

 

EMILIA GUARNIERI:
Eminenza, credo che questo applauso che ha accompagnato il suo ingresso dica già di tutta l’attesa che c’è nei confronti della sua persona, della sua visita, della sua parola. Un ringraziamento che ha dentro anche la coscienza che lei è arrivato qui dopo un intenso viaggio in Russia, che noi abbiamo accompagnato e seguito con il cuore e con la preghiera in questi giorni e di cui abbiamo respirato il clima di dialogo in esso accaduto, che abbiamo percepito incontrando il Metropolita Hilarion. Lei oggi ha scelto come titolo “L’abbraccio della Chiesa all’uomo contemporaneo”. Vorremmo dirle che i primi a sentirci abbracciati siamo proprio noi; questa Chiesa che abbraccia l’uomo contemporaneo, ab-braccia innanzitutto noi. Veramente viviamo questo abbraccio come qualcosa che ci pre-cede e che ci rende desiderosi di abbracciare gli altri, come è stata l’esperienza di questi giorni di Meeting; giorni nei quali non abbiamo parlato del dialogo ma lo abbiamo vissuto, nell’incontro con musulmani, ebrei, ortodossi, buddhisti, in questa storia carica di affetto e di stima che continua a crescere e a rinnovarsi con tanti amici, anche provenienti da identità e storie diverse. Tante persone e tante immagini di tutto questo, lei ha potuto vedere già questa mattina, attraversando il Meeting. Cito solo come esempio, perché ci ha molto colpito e riempito di gratitudine, una battuta arrivata attraverso WhatsApp dal direttore della biblioteca di Alessandria, Mostafa El Feki, che è stato in visita al Meeting in questi giorni e che è intervenuto ieri sera. Il direttore della biblioteca di Alessandria diceva: “L’Egitto è la terra del cristianesimo, e tutti noi in Egitto siamo figli di cristiani. Gli estremisti possono rinnegare il cristianesimo ma non possono escludere il cristiano dalla nostra vita quotidiana o dalla nostra storia personale”. E ci ha invitato ad andare a fare il Meeting alla biblioteca di Alessandria. È un piccolo esempio di quello che accade qui e che sorprende innanzitutto noi, proprio perché il Meeting non smette di essere questo luogo concreto di vita, dove per tanti accade di incontrare una possibilità, un accento di speranza, una possibilità in più, un dialogo magari insperato quando non addirittura l’incontro con una proposta che possa illuminare la vita. È con grande libertà che dico queste cose: perché non le sento come autocelebrazione, perché credo che nessuno come noi, sicuramente nessuno come me, è certo, certissimo che tutto quello che accade non è in forza delle nostre energie, non è in forza delle nostre capacità. Noi proviamo solo a seguire quello che scorgiamo accadere, queste trame di rapporti, di incontri che anche qui al Meeting accadono. D’altra parte, don Giussani una volta disse, a chi gli chiedeva la ragione di questo successo del Meeting: “È un successo che ognuno dei miei amici sente come favorito da Dio”. È il favore di Dio che fa che queste cose … [applauso]. Sì, a Dio l’applauso ci sta. E siamo grati perché il Meeting resta, innanzitutto per ognuno di noi, una grandissima occasione di verifica della fede e di aperta e ragionevole conoscenza della realtà di cui possiamo solo ringraziare. Come ulteriore fatto che ci riempie di gratitudine, questa mattina è con noi don Juliàn Carrón, il Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, che ora le porge il suo saluto.

JULIÁN CARRÓN:
Eminenza carissima, appena tornato dal viaggio in Russia lei ha accettato ancora il sacrificio di essere qui. Noi la ringraziamo veramente di cuore. La sua presenza ci fa sperimentare l’abbraccio della Chiesa, nostra madre. Il messaggio che ha inviato a nome del Santo Padre ha accompagnato queste nostre giornate, vissute con il desiderio di essere «testimoni affidabili della speranza che non delude (…) con gli incontri, le mostre, gli spettacoli, e innanzitutto con la (…) stessa vita».
Io e i miei amici vogliamo cogliere l’opportunità che questo cambiamento d’epoca rappre-senta per tutti per comunicare la gioia che ha provocato in noi l’incontro con Cristo, l’Unico che risponde all’attesa del nostro cuore dentro la vita della sua Chiesa, nella quale la Tradizione rimane viva attraverso la voce dello spirito.
Don Giussani diceva che «ciò che si sa o ciò che si ha diventa esperienza se quello che si sa o si ha è qualcosa che ci viene dato adesso: c’è una mano che ce lo porge ora, c’è un volto che viene avanti ora, c’è del sangue che scorre ora, c’è una risurrezione che avviene ora. Fuori di questo “ora” non c’è niente! Il nostro io non può essere mosso, commosso, cioè cambiato, se non da una contemporaneità: un avvenimento».
Cristo è ciò che abbiamo di più caro. In Sua compagnia «non abbiamo spazi da difende-re», come il Papa ci ha detto nel suo messaggio, ma avanziamo disarmati incontro agli al-tri, per offrire a tutti il contributo che la fede può dare al cammino di ciascuno in questo tempo travagliato, ma soprattutto entusiasmante per ogni cercatore della verità.
Che cosa c’è di più desiderabile per un uomo – qualunque sia la situazione in cui si trova – dello sguardo di un uomo libero che lo abbraccia così come è, incondizionatamente? È la testimonianza più commovente che papa Francesco sta dando al mondo: con le sue parole e soprattutto con i suoi gesti rende contemporaneo lo sguardo di Cristo ai poveri del Vangelo. Per questo siamo qui ad ascoltare da lei – così vicino al cuore di Papa Francesco – il racconto di questo abbraccio all’uomo contemporaneo.
Le chiedo di riferire al Papa che non passa giorno senza che rivolgiamo al Padre che è nei Cieli una preghiera per lui. Grazie, Eminenza!

S. EM. CARD. PIETRO PAROLIN:
Vi saluto tutti con cordiale affetto, a cominciare da don Carrón che ringrazio anche per le parole che mi ha appena rivolto, la professoressa Guarnieri, i vescovi, i sacerdoti, religiosi e religiose e tutti voi partecipanti a questo Meeting e a questo incontro del Meeting. Ed è naturalmente un saluto che vi porto non soltanto a nome mio ma anche a nome di Papa Francesco, al quale ho avuto occasione ieri di comunicare che oggi mi sarei trovato qui con voi. E come sempre uno si aspetta tanta gente, ma non tanta come quella che è qui presente. Però io sono anche un po’ abituato, anche se è la seconda volta soltanto che vi incontro, perché mi pare che qui abbiamo celebrato la messa a conclusione degli Esercizi spirituali di qualche anno fa, 3 o 4 anni fa. Penso che le manifestazioni di affetto, gli ap-plausi che avete fatto siano veramente diretti al Papa, a Papa Francesco e, al di là di Papa Francesco, a Colui che Papa Francesco rende presente. E, attraverso la Sua parola e i Suoi gesti, al Signore Gesù Cristo che è il centro di questo Meeting, no? Siamo tutti al suo servizio, gli dobbiamo una testimonianza di vita perché il Signore Gesù è stato davvero la scoperta più importante che abbiamo fatto nella nostra vita, il senso fondamentale di tutto quello che siamo e che facciamo.
Io ho sentito molto la Sua presenza, la presenza del Suo Spirito anche durante questo viaggio che ho fatto in Russia. Vi posso dire – queste sono confessioni che si possono fare – che sono partito con qualche apprensione, con qualche timore. Ma ho sperimentato davvero, in questa come anche in molte altre occasioni, la forza della preghiera. Grazie anche per la vostra preghiera. Ho sentito che tanti accompagnavano questo momento di dialogo così importante, anche a livello delle autorità civili, alla ricerca di una possibile pace, in questo mondo così lacerato da tante tensioni, da tanti conflitti. E poi anche con le autorità della Chiesa ortodossa russa. Ecco, ho sentito davvero che c’è stato l’accompagnamento della preghiera. E continuiamo, continuiamo a pregare perché evidentemente si è conclusa la fase del viaggio, che quello che è stato seminato possa davvero crescere e fruttificare per opera del Signore.
Sono davvero lieto di essere qui tra voi e assieme riflettere su questioni che riguardano la testimonianza della nostra fede nel mondo di oggi. Il Meeting credo abbia proprio questa finalità. C’è un bellissimo clima, almeno io ho respirato, fin dal momento in cui sono arrivato, un clima di gioia, un clima di letizia, un clima di serenità. Ma credo che lo scopo, l’obiettivo sia proprio quello di aiutarci – lo scrivevo nel messaggio che ha ricordato anche don Carrón – nel soffermarci sui temi «che il ritmo incalzante delle giornate spesso fa met-tere tra parentesi. Tutto sembra scivolarci addosso, presi dall’ansia di voltare pagina in fretta», con il rischio che la vita si frammenti e si inaridisca.
Il titolo che avete dato a questa edizione è fortemente evocativo: «Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo». La citazione è tratta dall’opera che forse più di ogni altra rispetta la sintesi drammatica della vita del suo autore, il Faust di Goethe. Goethe iniziò quest’opera nel 1772 e la portò a termine (se così si può dire) nel 1831. Un anno prima della morte. È l’opera della vita; Faust è Goethe; è il suo tempo e forse, per alcuni aspetti, ancora il nostro.
La natura è per Goethe il luogo autentico della gloria, «purezza e bellezza in cui si manifesta la divinità», la «forma formata che rivela in sé l’infinitamente misteriosa idea di Dio», come sottolinea Von Balthasar. Porre la questione del Dio-natura significa porre la questione dell’uomo. Della sua libertà, della sua decisione. Si tratta di scegliere: o il titanismo che ricorre alla magia mefistofelica per carpire il segreto intimo e potente della natura, o l’accettazione del mistero dell’umano. «Potessi dal mio cammino la magia rimuovere […] e come uomo soltanto starti a fronte, Natura» dice Faust in faccia alla morte, comprendendo la sciagura della sua prima decisione.
Come Faust, l’uomo è posto sempre, nuovamente, di fronte alla scelta: il titanismo della pura azione, di un fare assoluto che diventa, nelle sue potenzialità, incontrollato, o la contemplazione del mistero, la comprensione della libertà come responsabilità e non solo come possibilità. La tentazione del sovrumano, o l’inquietudine dell’umano.
Allora come oggi, credo che non si possa fare a meno della categoria “mistero”, che defi-nisce la dimensione profonda dell’umano del quale Dio partecipa. Il mistero non è ciò che blocca il pensiero, ma l’arco dell’orizzonte storico-esistenziale tra trascendenza e interiori-tà. «Tu eri dentro di me più del mio intimo e più in alto della mia parte più elevata» dice sant’Agostino del mistero di Dio e del mistero dell’uomo nelle sue Confessioni.
Ma quella espressione iniziale del Faust, circa la necessità di riconquistare-ricomprendere sempre e nuovamente la nostra eredità, ci rivela, nel passaggio successivo, un ulteriore aspetto. Continua Faust: «Ciò di cui non ci serviamo ci è di grave peso, e ciò che il momento crea, serve al momento».
Oggi quelle parole le pieghiamo un poco al significato del rapporto tra generazioni, tra pa-dri e figli; in relazione al peso della storia, al passato del nostro presente e al futuro del nostro passato, a ciò che non si compie finché non si ricomprende; a ciò che non diventa per noi una lezione e dunque non si guadagna, senza un uso critico della memoria o in assenza della memoria stessa. Guardando all’uomo di oggi, al suo mondo, sono queste alcune delle sollecitazioni, delle sfide con cui siamo chiamati a confrontarci.

Eredità come memoria e contemplazione
Quando Papa Francesco nella sua esortazione apostolica Evangelii Gaudium, affronta, nel capitolo IV, intitolato “Dimensione sociale dell’evangelizzazione”, il tema del bene comune in relazione alla pace sociale, e tematizza la necessità del primato del tempo, della sua “superiorità” sullo spazio, introduce una figura rischiosa e necessaria per l’oggi. Rischiosa perché il primato del tempo è figura che esige di essere filosoficamente e teologicamente continuamente ripensata, ma certamente necessaria di fronte all’attuale frammentazione sociale della nozione di tempo. Alla sua atomizzazione, e insieme alla sua «vuota durata», come la chiama Adorno, così somigliante alle notti insonni, nelle quali «il tempo si contrae e scorre infruttuosamente». Sia l’esperienza personale, sia la condivisione sociale hanno bisogno di continuità, di sedimentazione, di un tempo processuale, orientato, narrativo. Affermare il primato del tempo sullo spazio significa dare memoria alla vita, permettere «di lavorare a lunga scadenza», aiutare «a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite». «Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica» – dice il Papa – «consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta […] a tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi».
Oggi proprio la dissociazione tra i tempi, togliendo memoria alle cose, apre a spazi nuovi e incontrollati di potere. L’uso scorretto dei social media [tanto per fare un esempio su un terreno fondamentale per la nuova generazione, ma potremmo allargare il discorso anche ad altri campi delle nuove tecnologie], non rischia forse già di creare, nella inevitabile inter- realtà dei sistemi informativi, un sistema di irrealtà o, come è stata chiamata, una post-verità? Quando per massimizzare i profitti si creano algoritmi che selezionano unicamente il potenziale di condivisione sociale e di mercato, senza alcuna verifica della veridicità delle cose, di fatto si è già minata la libertà individuale e si è introdotto il principio pratico che è possibile creare una simil realtà che ha effetti sociali reali, tendenzialmente diversa o persino contrapposta alla realtà oggettiva. Le conseguenze antropologiche, sociali e politiche, sono enormi.
Se si toglie la memoria alle cose – come sostiene un filosofo sudcoreano [Byung-Chul Han] – «esse diventano informazioni, o anche merci, che vengono spostate in uno spazio temporalmente vuoto, astorico. La registrazione dell’informazione è preceduta dalla can-cellazione della memoria… E quando il tempo si frammenta nella mera sequenza dei pre-senti puntuali perde anche ogni tensione dialettica».
Si perde l’orizzonte temporale, l’intreccio dei piani, tra il già e il non-ancora, il non-ancora del già.
Qui torna per noi cristiani anche il tema della vita contemplativa. La contemplazione non significa mancanza di azione o rinuncia alla vita attiva, ma possibilità, capacità di ripresa della misura del tempo, della narrazione dei giorni, della distanza e gerarchia delle cose. È quella che Agostino chiama «l’attitudine di conoscere la verità». Contemplazione come preghiera, come riposo spirituale, come meditazione, discernimento e conoscenza. «In vi-ta contemplativa quaeritur contemplatio veritatis inquantum est perfectio hominis» ci ram-menta Tommaso d’Aquino. Negli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, la contemplazione porta a rivivere in termini personali gli episodi più significativi della vita di Gesù e il vissuto di chi prega diventa il luogo di incontro con Dio in Cristo in una prospettiva di presenza storica, di incarnazione.
La contemplazione ci richiama a riconoscere il primato di Dio e il mistero della persona. Ricordo che proprio nella sua prima lettera pastorale, il cardinal Martini tematizzava come la presenza del cristiano nella città secolare dovesse ripartire dalla contemplazione di Dio. La contemplazione è «l’essere stesso dell’uomo che si pone in trasparenza alla luce di Dio». Nell’affermazione che solo Dio è Dio noi ritroviamo la presenza e la trascendenza di Dio nella storia e i criteri di discernimento della nostra responsabilità storica.
La vita contemplativa non equivale per noi a una fuga mundi, che sa di indifferenza, a un disimpegno, a un mancato esercizio della responsabilità. Questo nel cristianesimo non sarebbe possibile. Negherebbe la decisione divina dell’incarnazione. Solo nell’amore incondizionato per il prossimo (l’unico in grado di farci superare l’inferno del nostro egoismo); solo nell’amore per gli altri (nelle diverse figure che esso può assumere), noi possiamo ricevere, trovare e testimoniare la grazia liberante di Dio. E dove esiste questo amore è all’opera lo Spirito di Gesù, come ci insegna il testo apocalittico di Matteo 25: quando ero affamato, assetato, nudo, straniero, ammalato, prigioniero… voi mi avete o non mi avete riconosciuto e accolto. Qui è la differenza radicale, quella che decide del nostro rapporto con Dio.

L’indifferenza come crisi dell’identità
Certo occorre chiedersi oggi chi sono coloro che incontriamo nelle nostre città, nel nostro Paese, nelle contrade del mondo; quale umanità di donne e di uomini chiama l’umanità di Cristo. Si legge nel salmo 147: «Il Signore libera i prigionieri, il Signore dona la vista ai ciechi, il Signore rialza chi è caduto, il Signore ama i giusti, il Signore protegge i forestieri, egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie dei malvagi».
Se penso che una parte non piccola del dibattito civile e politico, in questo ultimo periodo si è concentrata su come difenderci dal migrante! Certo per il potere politico è doveroso mettere a punto schemi alternativi a una migrazione massiccia e incontrollata, stabilire un progetto che eviti disordini e infiltrazioni di violenti, disagi tra coloro che accolgono; giusto coinvolgere l’Europa e non solo essa; lungimirante affrontare il problema strutturale dello sviluppo dei popoli di provenienza dei migranti che, qualora si avvii, richiederà comunque decenni prima di dare frutto. Ma non dimentichiamo, almeno noi, che queste donne, questi uomini, questi bambini sono in questo istante nostri fratelli. E questa parola traccia una divisione netta tra coloro che riconoscono Dio nei poveri e nei bisognosi e coloro che non lo riconoscono.
Eppure anche noi cristiani continuiamo a ragionare secondo una divisione che è antropologicamente e teologicamente drammatica, che passa tra un “loro” come “non-noi” e un “noi” come “non-loro”. Abbiamo bisogno di ricomprendere, senza superficialità, il tema della diversità, della sua ricchezza, in un quadro di conoscenza e di rispetto reciproci.
Questa reazione, spesso indotta dalla paura, che presenta sul piano culturale e sociale fenomeni che vanno compresi e governati, attiene a un più generale smarrimento dovuto ai processi di globalizzazione, soprattutto economici. Nessuno Stato-nazione moderno controlla più da tempo pienamente ed esclusivamente la propria economia nazionale. In assenza di un’economia nazionale di cui gli Stati moderni possano rivendicare la guida, non sorprende la tendenza generale, soprattutto nei Paesi autoritari, ma anche in molti leader e movimenti «populisti» (di destra e di sinistra), a declinare la sovranità nazionale nei termini di supremazia culturale, identità razziale, nazionalismo etnico e a trovare spesso in questo le ragioni di una repressione del dissenso interno.
Come dimenticare che nella nostra stessa esperienza storica abbiamo già visto la nostra civiltà prendere commiato e per lunghi periodi dal valore della libertà. Ciò che per il pensiero storico era divenuto un «dogma», perdette per molti valore, assumendo nella condotta generale dei popoli, il carattere di «spregevole egoismo borghese».
La perdita di sovranità economica spinge a enfatizzare, in maniera surrogatoria e strumentale, un ritorno a una supposta sovranità culturale. Salvo poi di fatto praticare le forme spesso più dure di politiche neo-liberiste, che aprono a ben altri esiti proprio sul piano della globalizzazione. Si tratta di illusioni strumentali che finiscono per minacciare la qualità della democrazia interna ai diversi Paesi e la convivenza pacifica internazionale.
In nessun settore della vita sociale troveremo un singolo Paese che possa oggi portarsi a una altezza autosufficiente di fronte a un problema globale; né è immaginabile la riduzione dei problemi globali alla misura delle singole nazioni, per quanto grandi esse siano. La globalizzazione va governata, nei suoi diversi aspetti, regolamentandola sul piano delle relazioni internazionali, secondo una visione che faccia perno sul bene comune. Su questo punto, nel quale sono in gioco i valori più profondi della giustizia e della pace, realtà come gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno un ruolo e una responsabilità decisivi. E troppo spesso ne sentiamo la mancanza.
La crisi dello stato liberale in atto da tempo, manifesta oggi assai bene la nota tesi di Böc-kenförde, per la quale le democrazie liberali non sono in grado di per sé di garantire la ri-producibilità dei presupposti di valore da cui nascono e su cui si fondano. Esse si regolano dall’interno e si fondono sulla sostanza morale del singolo e sulla omogeneità della società. Se fino a qualche decennio fa la storia sembrava sottolineare l’autonomia delle identità religiose e culturali, oggi, in una sorta di crocevia globale, ogni identità deve come fare i conti con le altre. Sotto la pressione della crisi economica e della progressiva scomparsa di questo ethos collettivo, omogeneo e condiviso, le democrazie occidentali rischiano di mettere, «democraticamente», in discussione se stesse, senza ritrovare più i presupposti di una loro rivitalizzazione.
Il tema dell’identità culturale in un mondo globalizzato è problema urgente, che tuttavia non può essere affrontato sulla base di una ragione strumentale. La Chiesa cattolica è storicamente sensibile a questo tema. Per questo il magistero post-conciliare ha costante-mente insistito sul tema dell’evangelizzazione delle culture e dell’inculturazione della fede. La Chiesa ha il compito di innestare il Vangelo in ogni cultura, esaltando ciò che di vero e di buono in esse si trova ed acquisendone i tratti fondamentali.
Pur con sottolineature e preoccupazioni volta a volta diverse, tutti i Papi del post-concilio hanno assunto nel loro magistero questo tratto decisivo in termini sia di rinnovamento delle culture storiche fecondate dal cristianesimo e oggi coinvolte nella crisi, sia di riaffermazione dell’universalismo intrinseco al Vangelo. Si pensi in particolare alla Evangelii nuntiandi di Paolo VI (1975) e alla Redemptor hominis di Giovanni Paolo II (1979).
Su questo stesso tema, in particolare, Benedetto XVI ha proposto la tesi che proprio il cri-stianesimo abbia qualche cosa di irrinunciabile da offrire alle democrazie pluraliste, atte-stando che di fatto il rapporto storico tra cristianesimo e democrazia è più pregnante e ne-cessario di quel che si è creduto. Egli lo ha fatto soprattutto dal lato critico, stigmatizzando l’autosufficienza di una ragione che è diventata in Occidente ideologicamente chiusa: un sapere assoluto, progressivamente auto-separatosi da ogni sfondo culturale nel quale è sorto. A fronte di ciò egli ha proposto «un allargamento del concetto di ragione e dell’uso di essa» come indispensabile per pensare adeguatamente tutti i termini del quadro sociale (Cfr. Caritas in veritate, n. 31).
Papa Francesco ha chiesto una nuova globale spinta missionaria alla Chiesa cattolica; quella che egli ha chiamato «la Chiesa in uscita», nella quale e attraverso la quale il cor-pus dottrinale deve riprendere vita nello stile pastorale. Risituare la dottrina all’interno del processo kerigmatico dell’evangelizzazione (Cfr. GS n. 44), rappresenta una riaffermazio-ne radicale dell’identità cristiana. Non una sua negazione.
Certo la Chiesa non può «uscire» da sola o per se stessa. Non per sola iniziativa umana. Il fondamento di questa fuoriuscita è nella narrazione biblica del movimento trinitario di Dio, che nell’incarnazione del Figlio, una volta per tutte, «esce» da sé, si svuota, andando verso l’umanità e assumendola (Cfr. Gv., 1,14 e Fil., 2,7). Solo nella «Kenosi» del Figlio troviamo il fondamento teologico di ogni evangelizzazione e di ogni umanizzazione, cioè di ogni percorso concretamente possibile verso la restituzione della dignità umana nei contesti, nei luoghi, nelle situazioni in cui viene negata. Questa uscita da sé di Dio manifesta la sua natura amante e misericordiosa.
Analogamente, la Chiesa fuoriuscendo da uno schema puramente auto conservativo e coinvolgendo in questo processo di conversione-riforma tutto il popolo di Dio come soggetto comunitario, può essere nuovamente «il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possono sentirsi accolti, amati, perdonati, incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo (EG. N. 114).

La cultura dell’incontro e del dialogo come eredità e come futuro
«Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. […]. È urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere “una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro”, portando avanti “la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni” (EG. N. 239).
La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, in-segniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione. […].
Oggi ci urge poter realizzare “coalizioni” non più solamente militari o economiche ma culturali, educative, filosofiche, religiose. Coalizioni che mettano in evidenza che, dietro molti conflitti, è spesso in gioco il potere di gruppi economici. Coalizioni capaci di difendere il popolo dall’essere utilizzato per fini impropri. Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro».
Sono questi alcuni passaggi dell’intervento che Papa Francesco ha letto di fronte ai capi di stato e di governo dell’Europa, all’atto di ricevere il Premio Carlo Magno, il 6 maggio 2016. Il contesto non casualmente era quello europeo, ma la visione è universale. Il riferimento pedagogico all’eredità dei figli, al progetto educativo che occorre avere, dirimente per la Chiesa e la cultura europea.
Proprio in un’ora come questa, nella quale l’umanità è attraversata da violenze, minacce, paure e ingiustizie, il dialogo è l’unica strategia che possiamo adottare. E la Chiesa non può che farsi parola, messaggio, supplica, colloquio in questa strategia.
Dopo la fine della Guerra fredda siamo ben lontani dall’aver raggiunto un nuovo ordine internazionale positivo e sostenibile. A partire dal 2001, la situazione internazionale com-plessiva si è persino aggravata. Nel mondo globale e interconnesso, si sono consumati nuovi conflitti, spesso del tutto ingiustificati.
E come in un triste rosario, altri da essi sono scaturiti. In una catena di lutti, di sofferenze, di povertà che non si è ancora spezzata. La pace sembra davvero un dono divino che gli uomini stentano ad accogliere.
Quando Papa Francesco stigmatizza l’insieme degli attuali conflitti come «una terza guer-ra mondiale a pezzi», descrive non solo uno scenario di violenze, ma indica diverse tipologie di conflitti, localizzati e concomitanti: guerre dirette, guerre per procura, guerre civili, guerre solo congelate e rimandate. Si tratta di conflitti che divengono ben presto transnazionali. Non fosse altro per il flusso di denaro e di armi che li sostengono e li alimentano.
Tra le cause, il Papa annovera questioni geo-politiche e di potere, l’odio razziale, e soprat-tutto le questioni economico-finanziarie, gli affari legali e illegali che proliferano attorno alle guerre. Il tutto spesso strumentalmente giustificato da motivazioni storico- culturali e persino religiose, come il recente terrorismo islamista ci ricorda.
Ho detto in più occasioni che confondere la natura reale e multiforme dei conflitti con la loro giustificazione ideologico-religiosa significa produrre un cortocircuito che impedisce di riconoscere le diverse responsabilità storico-politiche, sociali, culturali. A ciascuno viene presentato il proprio conto.
Certo anche alle religioni quando non intraprendono un percorso critico nei confronti delle parti più ambigue delle loro stesse tradizioni; quando non si distaccano o non si dissociano condannando adeguatamente le efferatezze commesse in loro nome. La violenza, in nome di qualsiasi religione venga commessa, retroagisce negativamente su quella stessa religione e sui suoi fedeli, fino a produrre elementi di perversione di quella stessa religione. D’altra parte l’incendio della violenza e dei conflitti può essere spento solo in un contesto globale di ordine nella giustizia e di sviluppo dei popoli.
Per questo il tema del dialogo è stato posto con forza al centro del pontificato di Papa Francesco: nell’ambito culturale, affinché si possa elevare «l’essere umano fino al mistero che trascende la natura e l’intelligenza umana» (EG. N. 242); in quello ecumenico, affinché la fine delle divisioni confessionali e la ritrovata unità dei cristiani contribuisca alla credibilità del cristianesimo nel concorrere alla costruzione dell’unità della famiglia umana (EG. nn. 244-246); in campo interreligioso, quasi una precondizione perché si possano superare i fondamentalismi e si possa promuovere la pace; infine nell’ambito sociale e politico, quale contributo a un nuovo ordine.

Verso una rinnovata ispirazione cristiana dell’impegno politico
In un tempo come questo, l’amore per il prossimo non può limitarsi ai rapporti per così dire privati, tra singoli. Esso bisogna che torni a realizzarsi nella responsabilità pubblica di cia-scuno di noi, nei diversi settori sociali, politici e istituzionali. Il miracolo dell’amore disinte-ressato, che appare così assurdo alla mentalità di molti nostri contemporanei, deve ripro-dursi nelle nostre società, nella nostra storia concreta. Il compito sociale e politico va rico-nosciuto e riproposto anche sul piano educativo sia al singolo cristiano, sia ai singoli gruppi cristiani, a ciascuno secondo le diverse situazioni e competenze. Ve ne è oggi una nuova necessità.
Alla Chiesa come tale va chiesto di rendere credibile il suo amore per gli uomini e le donne di oggi attraverso l’annuncio del Vangelo, il suo stile di vita e il suo esercizio critico nei confronti di ogni assetto sociale e politico. Sì, il suo esercizio critico. Poiché tutto ciò che è umano – come affermava papa Paolo VI nella Ecclesiam suam – la riguarda. Ci riguarda anche oggi, dal momento che in troppi assetti sociali e politici si manifesta la riduzione o la negazione della libertà, l’indifferenza verso la democrazia, la negazione della giustizia.
Se non può mai mancare la collaborazione leale della Chiesa ai diversi ordinamenti nella costruzione di una società migliore, essa non può non mantenere la propria “differenza” critica. Tutti i cristiani, anche i pastori sono chiamati ad avere cura nella costruzione di un mondo migliore. «Sebbene il giusto ordine della società e dello Stato sia il compito princi-pale della politica, la Chiesa non può né deve rimanere ai margini della lotta per la giusti-zia” (Benedetto XVI, Deus Caritas est n. 28).
La Chiesa non è una società umanitaria. Se così fosse tradirebbe la propria natura e la propria missione. Essa nasce dal costato aperto di Cristo, ed è chiamata a testimoniare la dignità divina di questo amore che Dio ha per l’uomo. La differenza cristiana nasce dalla fedeltà a Cristo e al suo Vangelo secondo lo stile dell’amore. Ma nulla è più esigente e ri-schioso dell’amore. È quanto testimonia la famosissima Lettera a Diogneto: “Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, ma da tutti sono perseguitati”.
Per questo, per amore, la Chiesa e i cristiani non possono non interagire criticamente nei confronti di ogni realtà. Oggi Papa Francesco dice di preferire una Chiesa «ferita e spor-ca» per essere uscita per strada, piuttosto che una Chiesa chiusa in sé stessa, narcisisti-camente. È un appello a riprendere le strade del mondo.
Cari amici! Siamo alla vigilia di un nuovo sinodo, dedicato, per volontà del Papa, al tema: «I giovani, la fede, il discernimento». Il titolo del vostro Meeting richiama anche alla tra-smissione della fede tra generazioni. Alla conquista che la nuova generazione deve fare del tema della fede nel mondo contemporaneo.
Come Chiesa, nei prossimi anni abbiamo di fronte una grande scommessa educativa. Ma noi per primi dobbiamo farci educare da Dio. Dobbiamo lasciare aperta allo Spirito la porta del nostro cuore. È lui il maestro interiore. Dobbiamo interrogarci su quale eredità di stili, di azioni, di pensieri, di testimonianze stiamo lasciando alle nuove generazioni.
Poi, dopo avere cercato di creare comunità più accoglienti, più fedeli e più autentiche, dobbiamo correre il rischio della libertà. Dobbiamo avere il coraggio della libertà dei Figli. Sapendo che Dio risuona sempre e continuamente nelle coscienze. E i nostri giovani lo troveranno. Lo vedranno negli occhi di coloro che ameranno; lo ascolteranno nel silenzio che turba di fronte alla malattia; lo sentiranno nella fame e nella sete di giustizia; lo udranno come un «no» inderogabile di fronte allo scandalo della violenza e dell’odio; lo conosceranno come un fuoco che arde senza spegnersi. Grazie per il vostro ascolto!

EMILIA GUARNIERI:
Obbedisco a sua Eminenza. Eminenza, le dicevo che gratitudine, che commozione sentirla parlare così della fede, della Chiesa, di Gesù. Che possibilità grande che è nella nostra vita e che oggi credo re-incontriamo, ognuno di noi ha re-incontrato. Le siamo proprio grati di questo. Io vorrei dirle – e vorrei anche che di questo lei si facesse portavoce a Papa Francesco – che noi proprio non desideriamo null’altro che essere a servizio di questo abbraccio all’uomo che lei oggi ha mostrato e ha testimoniato. A tutti noi che siamo qui, do appuntamento agli incontri di oggi pomeriggio. Come sapete, il Meeting chiude alle 23: vedremo tra l’altro la presenza del Cardinale Zenari, Nunzio Apostolico a Damasco, che ci racconterà della Siria. Ma soprattutto do a tutti – mi permetto questo piccolo rito, Eminenza, in sua presenza – il titolo del prossimo anno: anche lei così lo sentirà in anteprima. Do appuntamento a tutti al prossimo Meeting che, credo possiamo dire, mai come quest’anno stiamo veramente costruendo insieme. E credo che abbiamo anche sperimentato il gusto di costruirlo insieme. L’appuntamento è dunque dal 19 al 25 agosto e il titolo del prossimo Meeting sarà: Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice.

S. EM. CARD. PIETRO PAROLIN:
Soltanto una parola ancora di ringraziamento, non l’ha citata, la professoressa, ma questa frase è di Monsignor Giussani, mi ha detto che è sua questa frase molto bella. Grazie di cuore e vi chiedo di rimanere uniti nella preghiera per il Papa e anche per me, che collaboro con lui nel suo ministero. Grazie, tanti auguri a tutti.

Data

26 Agosto 2017

Ora

12:00

Edizione

2017
Categoria
Incontri