LA RICERCA IN MEDICINA: UNA UTILITÀ PER TUTTI

La ricerca in medicina: un'utilità per tutti

La ricerca in medicina: una utilità per tutti

Partecipano: Pier Alberto Bertazzi, Professore all’Università degli Studi di Milano; Mario Giovanni Melazzini, Assessore alle Attività Produttive, Ricerca e Innovazione della Regione Lombardia, Direttore Scientifico del Centro Clinico NeMo Milano e Presidente AriSla (Agenzia per la Ricerca sulla SLA); Massimo Scaccabarozzi, Presidente di Farmindustria. Introduce Domenico Coviello, Direttore del Laboratorio di Genetica Umana all’Ospedale Galliera di Genova e Co-presidente dell’Associazione Scienza e Vita. In occasione dell’incontro proiezione del video-intervento di Beatrice Lorenzin, Ministro della Salute.

 

DOMENICO COVIELLO:
Buongiorno a tutti, ringrazio gli organizzatori del Meeting per l’invito a introdurre l’incontro di questo pomeriggio dal titolo La ricerca in medicina, una utilità per tutti. È sempre un piacere essere qui con voi al Meeting, sono lieto di condividere questo momento di riflessione e dibattito con illustri ospiti che rappresentano quattro istituzioni, le più importanti per la ricerca.
Devo annunciare che una di queste persone, il ministro della salute Beatrice Lorenzin, non ha potuto partecipare perché, come avrete sentito dai telegiornali, Renzi ha convocato proprio per questo pomeriggio il Consiglio dei Ministri, il primo dopo l’estate. Quindi guarderemo un video che ci ha inviato. Le istituzioni sono il governo nazionale, rappresentato dal Ministero della Salute, il governo regionale, rappresentato dall’Assessorato alle Attività Produttive, Ricerca e Innovazione della Regione Lombardia, con il dott. Mario Melazzini, lo conoscete tutti, il medico, oncologo per professione, con una brillante carriera, che ha cambiato il suo percorso con la diagnosi di Sclerosi Laterale Amiotrofica che lo ha impegnato come paziente ma anche come Presidente dell’associazione AriSla. Attualmente porta il suo contributo in ambito istituzionale nella Regione Lombardia. Il terzo attore è l’industria, rappresentata da Farmindustria con il suo presidente Massimo Scaccabarozzi, una persona con grande passione ed esperienza nella gestione aziendale farmaceutica multinazionale. È già presidente dell’Italian American Pharmaceutical Group, già ospite del Meeting nel 2011. Ultima ma non meno importante, anzi, forse la più importante, l’accademia, in questo caso rappresentata dall’Università di Milano con il professor Pier Alberto Bertazzi. Il professor Bertazzi è noto alla maggior parte del pubblico del Meeting, Professore Ordinario di Medicina del Lavoro e Rettore del Dipartimento di Medicina Preventiva della Fondazione IRCCS Ca’ Granda, Ospedale Maggiore Policlinico di Milano.
Insieme affronteremo alcuni degli aspetti che caratterizzano la ricerca e cercheremo di capire da quattro angolature diverse come la ricerca possa essere applicata in medicina e come possa essere un’utilità per tutti. Istintivamente la parola ricerca evoca immediatamente l’immagine dello scienziato e nel secolo scorso, pensando allo scienziato, forse poteva venire in mente la figura di un chimico che per esempio, in un sotterraneo, sperimentava pozioni segrete o di un matematico che, di fronte ad una lavagna piena di formule incomprensibili, cercava di trovare la soluzione ai suoi problemi. Queste persone, seppure molto affascinanti, rappresentavano gli scienziati con i loro specifici problemi, pallini, del tutto assorti nelle loro complesse ipotesi, un po’ distanti e disinteressati dalle problematiche della vita quotidiana e quindi lontani da noi. Oggi, nel nuovo millennio, lo scenario è completamente cambiato: l’enorme sviluppo delle tecnologie ha rivoluzionato tutto. Da un lato, gli scienziati lavorano in gruppi multidisciplinari e partecipano a grandi reti, il pubblico è costantemente informato dai media, purtroppo a volte anche disinformato, ma partecipa molto, è interessato a capire sempre di più cosa sia la ricerca e in particolar modo è interessato alla ricerca in medicina. Dall’altro, a che cosa serva la ricerca e come i risultati di questa vengano poi applicati e utilizzati. Quindi, per capire cosa intendiamo per ricerca, mi piace riportare quanto trovato sul sito del Ministero della Ricerca: “Ricordiamo che per sua natura l’essere umano si pone sempre alcune domande sia rispetto ai fenomeni che osserva quotidianamente, sia di fronte alle manifestazioni più misteriose della natura”. Sono tre le domande che vengono riportate e che possono essere indicative: come funziona? Perché accade? Come si potrebbe migliorare? Quando la curiosità e l’intuizione vengono applicate con un approccio sistematico, per rispondere a domande di questo tipo, facendo tesoro dell’esperienza e delle conoscenze già acquisite, si sta facendo ricerca. Noi tutti nella quotidianità esploriamo, investighiamo e inventiamo, risolvendo problemi nel lavoro, sperimentando variazioni di ricette in cucina, trovando il modo più giusto per potare una pianta o giocare con i bambini. Chi sceglie di dedicare alla ricerca la propria vita fa dello studio e della sperimentazione la sua professione e finalizza questa attività all’acquisizione di nuove conoscenze e quindi viene definito uno scienziato.
Un altro esempio che mi fa piacere portarvi è stato riportato sul Foglio il mese scorso, 16 luglio. La domanda era: a cosa serve la ricerca? A questa domanda hanno provato a rispondere dei ricercatori americani: lo studio è stato pubblicato qualche mese fa dal professor Andrea Ballabeni della Harvard University, il quale ha posto questa domanda a 300 scienziati americani. In questa introduzione non vi presento naturalmente lo studio, ci saranno tracce sicuramente del sito: questi ricercatori americani che vengono definiti blue sky research, ricercatori di base, cercano di capire i meccanismi di base della biologia, sebbene partecipino al puro avanzamento delle conoscenze. Di fronte a questo questionario, risulta che una delle maggiori motivazioni a fare ricerca è proprio il fatto che qualsiasi avanzamento delle conoscenze alla fine avrà una sicura ricaduta pratica. Sta all’uomo saperla utilizzare. Quindi, la conclusione dell’articolo è che la ricerca serve a migliorare la vita. Passando al dibattito con i nostri ospiti, toccheremo una serie di punti che poi verranno più o meno sviluppati dagli ospiti qui presenti, che riguardano la ricerca in medicina. Le tematiche sono moltissime, sicuramente non le toccheremo tutte ma cercheremo magari di focalizzare alcuni aspetti che possono essere rilevanti soprattutto per i giovani. Tra queste problematiche, alcune sono rilevanti perché hanno occupato le recenti cronache, altre sono importanti proprio per l’organizzazione della ricerca. Tra queste, la prima di tutte è la serietà della ricerca in Italia e i meccanismi di verifica. Poi, il lavoro dei giovani, sia in Italia che all’estero, la necessità di una programmazione nazionale dell’attività di ricerca, in particolare per le nuove tecnologie. Abbiamo visto i recenti, enormi progressi che dalla genetica ci hanno portato alla genomica, alla bio informatica, che sono entrate ormai in ogni settore della medicina. Sentiremo alcuni esempi di applicazione di farmacologia, i nuovi mezzi di comunicazione e la robotica stanno entrando nelle case di tutti. La razionalizzazione delle risorse con incoraggiamento al lavoro multidisciplinare, alla condivisione di risultati tramite la costituzione di reti, la partecipazione alle infrastrutture europee, quindi l’utilizzo dei fondi europei come è avvenuto, come sta avvenendo nel caso delle bio banche in Italia, ma anche l’equità di accesso alle cure per i cittadini. Questo è l’altro aspetto della medaglia. La ricerca come riscoperta dell’uomo tramite la medicina narrativa, la riscoperta del medico e del malato come persone che collaborano nell’attuazione di un piano terapeutico. Questa era un po’ un’introduzione, adesso lascerei il saluto al Ministro Lorenzin che non è qui presente ma ci ha mandato un video.

BEATRICE LORENZIN:
Buonasera a tutti, sono veramente dispiaciuta di non essere lì con voi in questa meravigliosa giornata che avete organizzato per discutere di scienza, innovazione, sviluppo e salute, e soprattutto per parlare delle persone che sono le protagoniste della nostra vita quotidiana, ma soprattutto i protagonisti dell’attività del Ministero della Salute, perché poi il nostro unico scopo è quello di garantire un sistema sanitario che possa mettere al centro la persona e che possa garantire quell’assistenza a cui tutti noi abbiamo aspirato e lavorato per generazioni. Sarebbe stata per me una bellissima occasione per raccontare quello che è stato fatto nell’ultimo anno e mezzo, da quando sono diventata Ministro, con una serie di riforme importanti per il sistema sanitario. Abbiamo realizzato corsi standard, poi abbiamo fatto il patto della salute, un patto molto innovativo che cambia anche il rapporto tra Stato e Regioni e soprattutto il rapporto con il cittadino, mettendo al centro la trasparenza, l’efficienza, il servizio del sistema, un patto che è stato approvato in primavera ma che ha bisogno di un’implementazione molto forte da qui a dicembre, che è importante tanto quanto essere riusciti ad arrivare a questo accordo. Poi avremo in autunno un altro pezzo importante in quello che io immagino il sistema sanitario nazionale, cioè la rivisitazione delle nostre agenzie, una nuova legge sui fondi integrativi e quindi sull’assistenza integrativa e poi la nuova norma sulla ricerca scientifica.
E qui entriamo nel tema del giorno, e sono veramente dispiaciuta di non essere con voi. La domanda che mi è stata fatta è: “Quanto è importante la ricerca per la sanità?”. Non è la domanda giusta, la ricerca e la sanità sono insieme, sono esattamente la stessa cosa, sono due facce della stessa medaglia che ha come scopo produrre il benessere delle persone, quindi nuove scoperte, nuovi passi in avanti che ci permettono di guarire da malattie che fino a pochi anni fa ci sembravano incurabili. A fianco, ci deve essere anche un altro aspetto che noi abbiamo messo al centro del semestre europeo e cioè l’innovazione della cura, l’innovazione della ricerca e l’uomo al centro, la grande scommessa di riuscire ad aumentare il benessere delle prossime generazioni, tenendo conto però anche della necessità di unione tra l’umanità, tra l’approccio nel momento più difficile in cui l’uomo versa e cioè quello della sofferenza, insieme alla ricerca e all’innovazione. Sulla ricerca, ho sentito oggi anche le parole del Presidente di Confindustria: penso che la ricerca sia, per il sistema biomedico ma soprattutto per l’Italia, un nuovo petrolio. Noi abbiamo la possibilità di mettere a sistema le grandi capacità culturali e scientifiche del sistema industriale, per sviluppare nell’innovazione, e quindi in un settore ad alto livello valoriale, umano, ad alto livello di specialità: sviluppare un’asse anche industriale e quindi posti di lavoro e quindi una nuova economia che si basa su quello che già c’è. Ricordiamo che intorno al sistema sanitario nazionale, italiano, si muove l’11% del nostro Prodotto Interno Lordo. Quindi, con misure di semplificazione, di razionalizzazione, di incentivo alla ricerca e all’innovazione, noi possiamo facilmente recuperare una spinta anche di lavoro, di occupazione e di crescita in un settore in cui già siamo all’avanguardia. Saluto con affetto tutti i partecipanti a questo focus, i tanti ragazzi che sono presenti, mi dispiace veramente non essere lì perché avrei potuto raccontare personalmente le esperienze straordinarie, umane che ho fatto in questa mia attività di Ministro e le tantissime buone cose della sanità italiana, buone cose che non vengono mai raccontate e che noi dobbiamo veramente esibire con orgoglio nel nostro Paese e all’estero.

DOMENICO COVIELLO:
Bene, ho accennato allo sviluppo delle biotecnologie e al cambiamento della medicina in questo nuovo millennio. Abbiamo visto come il singolo ricercatore riesca a fare sempre meno da solo ma debba unirsi in rete: il grosso cambiamento che ci viene indicato anche dall’Europa nella richiesta dei fondi europei che i ricercatori fanno, è la collaborazione con l’industria, quindi in questa scaletta pensavo di partire proprio da questo punto, dalla collaborazione tra ricerca e industria. Darei allora la parola al Presidente di Farmaindustria Massimo Scaccabarozzi che è, come ho detto all’inizio, una persona che ha sempre partecipato nell’industria a livello nazionale e internazionale. Porrei questa domanda un po’ provocatoria, l’immagine del ruolo dell’industria e del farmaco nella ricerca: a volte ci si pone la domanda se prevale il proprio profitto, e quindi, quanto ci si spinga al consumismo o quanto ci sia un vero interesse per il bene di tutti. L’Europa ha investito molto nelle malattie rare, proprio perché, essendo rare, l’industria non aveva interessi a fare farmaci per poche persone. Sappiamo che lo Stato da solo non ha abbastanza capacità organizzativa e finanziaria per lo sviluppo di nuove terapie, in particolar modo le nuovissime terapie personalizzate, sappiamo che hanno bisogno di una stretta collaborazione tra ospedali, ricercatori universitari e industria. Quale iter viene proposto e come viene documentato questo processo oggi? Grazie.

MASSIMO SCACCABAROZZI:
Grazie per l’invito, è la seconda volta che mi trovo qui su questo anfiteatro negli ultimi tre anni e devo dire che è sempre un momento emozionante essere qui. Ricordo ancora l’ultima volta come una cosa molto bella, quindi, grazie ancora per avermi invitato anche quest’anno. Vorrei partire proprio da questa provocazione per parlare di una cosa importante che è la vita. Ho sentito parlare di quotidianità della sperimentazione: noi sperimentiamo tutti i giorni, anche per crescere nel nostro settore, sperimentiamo per migliorare la vita, per migliorare la qualità della vita. Spesso però non riusciamo a far passare questo concetto, perché c’è un pregiudizio sul profitto. Allora abbiamo pensato di lanciare un’iniziativa, un paio d’anni fa, che si chiamava “orologio della vita”, spesso un nome comunica più di tremila spiegazioni. Che cos’è l’orologio della vita? Siamo andati a misurare la vita che noi guadagniamo ogni giorno grazie al progresso, grazie alla medicina, grazie a tutto quello che è stato fatto negli ultimi anni nell’ambito della ricerca.
Pochi sanno che, dagli anni ’50 ad oggi, ogni tre mesi di vita ne abbiamo guadagnato uno, proprio in termini di quantità: significa che ogni anno viviamo quattro mesi in più ma anche questo dice poco. Trasferiamo il conto sulla giornata: vuole dire che noi, per i progressi che sono stati fatti nella medicina, nel trattamento, negli stili di vita, ogni giorno guadagniamo sei ore di vita rispetto al tempo che aveva avuto mio nonno. Anche questo, però, non fa capire abbastanza: forse dovrei dire che stasera a mezzanotte è come se tornassi indietro alle tre del pomeriggio, ho sei ore per fare tutto quello che mi piace perché ho più vita rispetto a quella che avevano i miei nonni e i miei genitori. Per quanto riguarda l’allungamento della vita, è stato importante anche il contributo che ha portato il settore farmaceutico, pensate alla riduzione del tasso di mortalità. Vi do qualche numero: la riduzione del tasso di mortalità, dal ’94 a oggi, è spaventosa, 30%, il 30%. In vent’anni, per le malattie dall’apparato digerente e cardiovascolare, la mortalità è stata ridotta del 45%: sono dati notevoli. Pensiamo anche al fatto che, rispetto a 10 anni fa, oggi noi abbiamo un milione e mezzo di persone over 65 in più, anche grazie agli stili di vita e alla ricerca farmaceutica. Vi do qualche dato anche per le singole patologie: io uso sempre un esempio, nonostante siano stati fatti grandi passi in avanti soprattutto nel diabete, dove la mortalità è diminuita del 23%, per danni cardiovascolari e per infarto la mortalità è diminuita addirittura del 40%. Bene, nonostante questi progressi, pensate a una delle malattie più giovani nella storia della medicina, l’Aids. Negli anni ’90, un malato di Aids si sedeva davanti al proprio medico e aveva solo da aspettare qualche mese. Oggi un malato di Aids si siede davanti allo stesso medico con accanto un malato di diabete, e la sua aspettativa di vita è superiore. Ecco cosa significa quello che dicevamo prima, crescere nella quotidianità della ricerca. C’è stata anche la provocazione delle malattie rare: oggi noi abbiamo più di 900 prodotti biologici in sviluppo perché la ricerca sta cambiando. In Italia ci sono 173 imprese che lavorano nel Biotec: ci sono già 110 farmaci disponibili e altri 900 che stanno arrivando, e di questi 900, pensate che ce ne sono moltissimi in fase tre, vuol dire che a breve saranno disponibili per l’uso su grande scala. In Italia le cose stanno andando bene perché abbiamo oltre trenta aziende che stanno lavorando su 63 progetti: il 59% di questi progetti – li chiamo così perché poi diventeranno farmaci solo alla fine della progettualità – è già in fase tre, quindi molto vicino all’essere chiamato farmaco.
Sviluppare un farmaco oggi costa: se 10 anni fa richiedeva un investimento ingente pari a 300 milioni di euro, oggi sviluppare un farmaco costa 1 miliardo e mezzo di euro. Ci vogliono 10 anni per sviluppare un farmaco e uno su 10mila tra quelli scrinati arriva sul mercato, quindi riesce a compensare gli sforzi fatti come tempo e investimenti. Oggi non ha più senso dire che non si investe perché i farmaci sulle malattie rare non danno ritorno, perché comunque anche sui farmaci biologici per patologie più estese gli investimenti sono gli stessi alla fine. Stiamo andando sempre di più verso la medicina personalizzata, non entro nei dettagli tecnico-scientifici, da addetti ai lavori, ma siamo già nell’era in cui, prima di dare un farmaco, si fa un test per vedere se è utile su quel paziente; è un po’ come trattare un malato raro perché la tendenza sarà sempre di più nel futuro di dare al paziente giusto il farmaco giusto. Non è un problema prettamente economico: il problema è riuscire a reinvestire in nuovi prodotti di ricerca quello che si ricava dalla vendita di un farmaco quando arriva sul mercato, perché il 90% della ricerca in ambito farmaceutico oggi lo fanno le industrie private. La ricerca sta cambiando non solo nei costi ma anche nella produttività. Faccio un esempio banale: oggi i farmaci in via di sviluppo, nella grande maggioranza, sono di tipo biotecnologico e non di sintesi chimica, che sembra una sciocchezza però se andate a guardare quanto pesa o quanto è grande un farmaco di sintesi chimica, vedete che il farmaco di origine biologica è grande così, perché viene utilizzata una cellula vivente per sintetizzarlo.
Ovviamente, visti quelli che sono i costi della ricerca, anche l’iter sta cambiando notevolmente. Nascono i centri, le partnership pubblico-privato e privato-privato perché la ricerca costa e ha due livelli di costo: il primo nello screening, perché un farmaco su 10mila arriva sul mercato, il secondo perché, quando si è capito che un progetto può diventare farmaco, questo richiede ingenti investimenti per portarlo su una grande scala di sperimentazione. Allora, ecco che stanno nascendo e dovranno nascere sempre di più queste partnership perché le aziende più piccole possono lavorare su alcuni progetti e arrivare allo screening, ma a quel punto hanno bisogno di stringenti finanziamenti. E questi finanziamenti li può mettere a disposizione il grosso gruppo industriale privato, con la sua esperienza, per portare il progetto fino al suo sviluppo definitivo che vuol dire fino alla casa del paziente, per produrre per quel paziente vita in più o qualità di vita in più. Ecco, questo è ciò che auspichiamo e che pensiamo debba essere fatto. Ci sono questi fondi che sono tutti da aggredire, spesso diciamo: “Non abbiamo abbastanza fondi per la ricerca”. Noi in Italia stiamo cercando di fare la nostra parte, abbiamo 6mila ricercatori nell’industria, investiamo ogni anno 2 miliardi e mezzo nella ricerca, di cui uno e due nella ricerca clinica, e stiamo vedendo anche i primi risultati in termini di produzione. Però ci sono parecchi fondi a disposizione, sapete quanto vale la ricerca industriale a livello mondiale? 100 miliardi: sono lì da andare a prendere e vanno ai Paesi che hanno creatività, voglia, passione, attrattività, che non sono ostili nei confronti dell’industria. Ci sono poi fondi europei che però ancora non abbiamo capito a livello procedurale come andare a prendere. L’indirizzo che io do è di lavorare insieme, facendo ognuno la propria parte perché nessuno di noi può fare tutto da solo e lasciando da parte i pregiudizi perché la ricerca, come dicevamo prima, produce vita. Volevo chiudere, dato che parliamo spesso di parabole, con una parabola, è la storia dell’asinello, del signore anziano e della bambina, per dire che ognuno può fare la sua parte. Noi possiamo fare molto ma non tutto e spesso ci troviamo davanti dei pregiudizi che non ci aiutano, non aiutano i rapporti col pubblico. E allora racconto questa storia perché ho cominciato a vedere che inizia a sollevare, se non altro nelle persone che la sentono, un atteggiamento più positivo, meno negativo. Immaginate un asinello, una bambina e un anziano che camminano. Chi li osserva dice: “Guarda quei due, hanno un asino a disposizione e vanno a piedi, sono matti!”. Nell’immagine successiva c’è il signore anziano sull’asinello e chi li guarda dice: “Quell’adulto non ha rispetto per quella piccola bambina, lui potrebbe camminare”. Poi c’è la terza immagine, con la bambina sull’asinello e l’anziano: “Quella bambina non ha rispetto per gli anziani, perché invece che andare sull’asino potrebbe far andare l’anziano”. L’ultima immagine è quella bellissima, del signore anziano e della bambina sull’asino, e tutti a dire: “Povero asino!”.
Ecco, questa è la nostra situazione, non siamo mai contenti di niente! Io penso però che sia venuto il momento di essere positivi, ottimisti, portare un’immagine positiva del nostro Paese. Oggi sono usciti dei dati – sentivo il Presidente Squinzi che li commentava – abbastanza negativi, ma noi dobbiamo portare un modo positivo fuori da questo Paese perché l’Europa creda in noi, l’Europa torni a investire su questo Paese: questi investimenti sono possibili se non c’è ostilità, se c’è collaborazione, se c’è partnership. Io ho promesso anche per i giovani, non più tardi di due mesi fa, al Primo Ministro, per il prossimo anno, un miliardo e mezzo di investimenti in ricerca e sviluppo, 2000 posti di lavoro all’anno se verrà garantita stabilità e certezza di regole. Penso che si possa fare, penso che il dovere di ognuno di noi, ricordando la parabola dell’asinello, sia portare fuori dal nostro Paese segnali di fiducia, di ottimismo, perché siamo un grande Paese e solo insieme possiamo uscire da questa situazione. Grazie.

DOMENICO COVIELLO:
Bene, grazie per questa panoramica, credo che possiamo cogliere da questi spunti che ci sono stati dati l’idea che la collaborazione pubblico-privato è importante e questo riguarda soprattutto l’aspetto del sistema. Infatti, la ricerca ha due componenti: il sistema da una parte e le persone dall’altra. Dalla parte del sistema, deve migliorare la progettualità dell’industria, che stimola di più l’utilizzo dei risultati che devono essere trasformati in prodotto, dall’altra parte, c’è la componente delle persone. Come affrontiamo questa seconda parte? Parlando delle persone, io mi riferisco soprattutto ai giovani, ai ricercatori che intendono fare ricerca, avendo naturalmente come punto di arrivo, come ci ha ricordato il Ministro, la persona malata. Però, parlando di persona, è importante la formazione che deve essere non solo tecnica, credo sia stato uno dei problemi di questo decennio: c’è stato molto impegno ma si è perso qualcosa che riguarda la persona e la passione di questo lavoro. Il compito di formare i ricercatori è ovviamente dell’università: quindi adesso sentiremo il contributo del prof. Alberto Bertazzi, un esempio della possibilità di fare ricerca, come e perché, quali sono le motivazioni. Grazie.

PIER ALBERTO BERTAZZI:
Grazie a te, Domenico, l’università è uno degli ambiti di questa ricerca, come dicevi nell’introduzione, ma un ruolo essenziale lo riveste la formazione. Ho pensato utile portare come contributo a quest’incontro non una mia analisi del tema – considerata anche l’autorevolezza di chi ne ha parlato e ne parlerà – ma di portare, più semplicemente, un’esperienza di ricerca in medicina cui ho avuto modo di partecipare. Un’esperienza è inevitabilmente particolare ma ha il vantaggio di mostrare in atto e non solo astrattamente quali siano le questioni in gioco: come una ricerca può produrre utilità per tutti e cosa è di ostacolo a tale ricerca. Dico subito che l’avere affrontato in pratica questi problemi ha permesso di costatare che di fronte a essi esiste sempre una possibilità, e che è su questa possibilità che bisogna lavorare. Lamentele ed analisi di ciò che non va suonano sempre più superficiali e ripetitive. L’indignazione, da sola, è pura vacuità; e si rivela talora il modo, consapevole o meno, con il quale si cerca in realtà di assolvere se stessi. L’esperienza cui mi riferirò riguarda un piccolo gruppo nel Dipartimento che dirigo all’Università degli Studi di Milano. Questo gruppo si è trovato in anni recenti ad aggiudicarsi, in una severa competizione internazionale, un contratto di ricerca con la principale agenzia di ricerca medica negli Stati Uniti, il National Institutes of Health, per un importo di 7 milioni di dollari, giunti poi a 10 e che tuttora sta producendo ulteriori sviluppi.
Com’è stato possibile tutto questo a un gruppo, non di fenomeni ma di giovani e meno giovani, per così dire, normali? E cosa ha insegnato circa le condizioni necessarie a fare ricerca e a farla con successo e utilità, nonostante le difficoltà da tanti considerate insormontabili? Lo sappiamo bene: ci vorrebbero più fondi, strutture, sostegno ai giovani, tutto dannatamente vero. Ma c’è altro, ugualmente importante, e forse ancora più decisivo. In primo luogo, un’educazione. Questo è il primo fattore. E’ interessante notare come proprio in questi giorni sia finita sui media un’analisi sulla preparazione scientifica impartita nelle più importanti università statunitensi, secondo la quale quel sistema educativo, il migliore del mondo, a giudizio di tutti, sta creando giovani intelligenti, con talento e seriamente impegnati, certo, ma con poca curiosità intellettuale e senza il senso di uno scopo. Vanno tutti nella stessa direzione, facendo benissimo quello che fanno ma senza avere idea del perché lo facciano. Ma, cosa ancora più grave, “cosa significhi educazione e perché abbia un senso riceverla, non è una domanda che ci si pone”. Ed è fondamentale porsela, proprio nel campo della ricerca. Educazione a cosa? Educazione a una curiosità come passione al reale: è una delle due raccomandazioni che Papa Francesco ha inviato al Meeting, e non potevo certo prevederlo! Illustro il punto con una citazione di don Giussani, una personalità che in lunghi decenni di sua personale ricerca, oltre che di insegnamento, nelle scuole e nelle università ha fatto innamorare della realtà e appassionare al vero moltissimi, in tutto il mondo. Diceva: “C’è una evidenza prima e uno stupore del quale è carico l’atteggiamento del vero ricercatore: la meraviglia della presenza mi attira, ecco come scatta in me la ricerca”.
Ed è così: sempre la ricerca nasce dallo stupore di fronte a qualcosa che mi precede, dal fascino pieno d’interrogativo di qualcosa che mi sta davanti. In questo campo, l’educazione non può riguardare soltanto una tecnica: quella, comunque, la si può acquisire. Deve anche saper introdurre a uno sguardo sul reale capace di abbracciarne con meraviglia tutti gli aspetti, quelli visibili a occhio nudo come quelli visibili al microscopio o al telescopio e quelli meno immediatamente apparenti, da scoprire. In medicina, oggetto privilegiato e predominante di questo sguardo è la persona del malato, il bene suo, vero metro di giudizio dell’utilità della ricerca. Come diceva Benedetto XVI nel suo discorso non pronunciato: “Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene". Ed è particolarmente in questo campo che tale definizione di ricerca si applica: la ricerca del vero è inestricabilmente connessa alla ricerca del bene, se si ha come scopo l’utilità per tutti. Un secondo fattore essenziale lo chiamerei “il campo è il mondo”. Quella internazionale, infatti, è, non da oggi -in particolare lo è stato nel Medioevo, e non solo all’interno dell’Europa ma anche con il vicino e Medio Oriente asiatico – la dimensione unica e inevitabile di ogni ricerca seria in medicina, che è tale in quanto persegue un duplice scopo: fare avanzare le nostre conoscenze dei fenomeni e trovare l’applicazione tecnica di tali conoscenze al bene della salute. “Il campo è il mondo”: l’aspetto su cui desidero porre l’accento non è quello, ovvio, delle indispensabili relazioni internazionali che devono essere permanentemente coltivate da ogni gruppo di ricerca, bensì quello del frequente trasferimento da centri italiani a centri esteri altamente qualificati delle menti più brillanti, spesso malamente definito “fuga dei cervelli”. Un punto di forza del gruppo cui mi riferisco è stato proprio che alcuni, i più brillanti, in forza di collaborazioni in atto, si erano trasferiti in centri ancora più avanzati negli Stati Uniti per dare ulteriore respiro e prospettiva al proprio lavoro. Ma quest’allargamento di respiro e di prospettiva è avvenuto anche per il gruppo da cui provenivano: la loro partenza si è tradotta in un potenziamento, non in un indebolimento. Se si lavora in un certo modo (potremmo anche dire: partendo da una certa educazione) si diventa reali compagni di avventura, il cammino e il lavoro diventano impresa comune e non c’è più alcuna ‘fuga di cervelli’ ma, se mai, ingegni brillantissimi in missione, in missione anche per il gruppo e il Paese da cui provengono.
Un terzo fattore fondamentale è che la ricerca si fa per trovare: superficialmente, anche il mito del viaggio che tanto spazio ha nella letteratura e nella filmografia è il mito della ricerca di una meta, di qualcosa che c’è anche se non lo si conosce, non della sua negazione. E chi cerca trova: è una certezza a guidare il lavoro di ricerca. Non la certezza supponente di chi pensa di sapere (e che perciò, in realtà, non ha motivo di ricercare) ma la certezza umile di chi sa di non sapere, ma altrettanto sa che c’è qualcosa da trovare, da scoprire, da incontrare e che per questo vale la pena cercare. Comunemente, si dice che per fare ricerca non si devono avere certezze. Ma è un non senso. Non è la certezza il nemico della ricerca, bensì il preconcetto. Preconcetto è mancanza di lealtà verso ciò che si ha di fronte, è la volontà di affermare una propria visione o opinione, senza farsi guidare, e anche giudicare, dal dato. E’ un’incontestabile affermazione di Galileo in una lettera al giovanissimo amico Federico Cesi, che fu fondatore all’inizio del ’600 dell’Accademia dei Lincei: “Noi non doviamo desiderare che la natura si accomodi a quello che parrebbe meglio disposto et ordinato a noi, ma conviene che noi accomodiamo l’intelletto nostro a quello che ella ha fatto, sicuri che tale essere l’ottimo e non altro” (Galileo Galilei, 1612, Lettera a Federico Cesi). Ed è solo la lealtà verso il dato (che sia un numero, un’immagine, una persona con tutta la sua storia) che permette di riconoscere e di accogliere anche ciò che è inatteso. Eraclito diceva: “Non troverai mai la verità se non sei disposto ad accettare ciò che non ti aspettavi”. Con altre parole, potremmo dire: “l’imprevisto è la sola speranza”. Questo è il motore della ricerca. Da moltissimi, invece, è il dubbio a essere citato come motore. Di là da ogni nominalismo, c’è un aspetto per cui questo è vero, là dove il dubbio sia inteso come apertura a un interrogativo, come elemento dinamico che stimola la ricerca e la conoscenza del vero e non come ombra gettata su una possibilità. E’ l’interpretazione che ne dà Dante. “Nasce per quello, a guisa di rampollo, / a piè del vero il dubbio; ed è natura / ch’al sommo pinge noi di collo in collo”.
Il dubbio è inteso qui come interrogativo, sete di conoscenza, desiderio di raggiungere il vero. E perciò, dice Dante, nasce ai piedi del percorso verso il vero, per arduo che sia, ed è capace di spingere la ricerca, di colle in colle, di asperità in asperità, fino a giungere al culmine. In maniera semplice e diretta, anche uno scrittore contemporaneo, Cormac McCarthy, ci aiuta a cogliere che il dubbio aiuta la ricerca del vero se corrisponde a un’apertura piena d’attesa e non a una chiusura scettica: “Nero: «Non sono uno che dubita, però sono uno che fa domande». Bianco: «E che differenza c’è?». Nero: «Beh, secondo me chi fa domande vuole la verità. Mentre chi dubita vuole sentirsi dire che la verità non esiste»”. Bisogna essere certi che c’è qualcosa da trovare ed essere leali verso il dato così come esso si presenta.
Mi è piaciuto molto, nella sua semplice materialità, il modo in cui questo atteggiamento viene descritto nella storia della vita di Lazzaro Spallanzani scritta da Giorgio Prodi: “La sua vita è ora una sequenza di fatti di cui egli è critico e archivista. Li scopre, li isola, li collega uno all’altro. Li aspetta al varco. La meraviglia fa parte della loro comprensione… Li vede arrivare sudati ed impolverati verso di lui, a partire dalla loro tana” (Giorgio Prodi, Lazzaro. Il romanzo di un naturalista del ’700 , Camunia 1985, p.35). Potremmo forse titolare questo quarto passaggio “Bussate e vi sarà aperto”, se non suonasse irriguardoso. Sulla base di una serie di fattori e circostanze su cui non c’è tempo di entrare, ci siamo così trovati a compiere un tentativo praticamente disperato: un bando USA per una ricerca che fosse capace di affrontare in modo originale lo studio dei fattori ambientali e genetici, numerosissimi, associati allo sviluppo di tumore polmonare che nei Paesi occidentali ancora oggi rappresenta, tra i tumori, la principale causa di morte. A questo bando partecipavano i più importanti e agguerriti centri internazionali di ricerca. Prima selezione: concludiamo mesi di lavoro per preparare la documentazione necessaria con due giorni e tre notti di lavoro ininterrotto. All’alba di domenica a Malpensa, due partono per Washington con quattro pesanti valigie di documenti da consegnare entro il mezzogiorno di lunedì. La prima selezione viene passata con successo. Si arriva alla seconda conclusiva selezione: qualcosa di simile la preparazione, anche se su scala più ridotta. Restano alla fine tre gruppi in lizza: un consorzio USA, uno danese e noi. Il conteggio finale dei diversi scores ci da’ vincenti. Silenzio, stupore e qualche imbarazzo, ci verrà più tardi riferito, nella severissima commissione. Vengono di nuovo verificati tutti i punteggi ma è proprio così. Ci siamo aggiudicati il grant e il nostro progetto prende avvio. Quattordici ospedali e quattro università, oltre 120 persone direttamente all’opera, duemila nuovi casi di tumore polmonare identificati e duemila controlli selezionati random nel corso di tre anni dalla popolazione servita dagli stessi ospedali dei casi, questionari e prelievi a domicilio, un laboratorio costituito per il primo trattamento, entro 4 ore dei campioni biologici provenienti da tutta la Lombardia, area di storaggio a -20, -80 e azoto liquido, imponenti database, ecc. Una complessità di cui lo schema in figura vuole dare unicamente un’impressione generale. Dettagli sul progetto e sui risultati ottenuti e pubblicati fino ad ora sono reperibili, per chi fosse interessato, sul sito www.nci.gov.eagle. Bisogna crederci. Avere la certezza che si possono conseguire certi obiettivi. Una certezza che si alimenta, anziché ridursi, nella coscienza dei propri limiti; nella disponibilità a imparare per superarli; nella fiducia che le capacità di ciascuno vengono potenziate entro un gruppo solidale e guidato con lealtà (direi anche con amore, se non fossimo così disabituati al significato di questa parola); nel desiderio dell’impresa, perché l’uomo è più grande di quanto sa e può dire di se stesso.
E per chiudere, vorrei solo menzionare un risultato che potremmo anche definire collaterale, che mette però molto bene in luce come il lavoro della ricerca abbia utilità per tutti, non solo perché produce conoscenze e tecniche ma anche perché costruisce occupazione e con questo società. L’attività di ricerca rappresenta una reale e importantissima possibilità di ingresso nel mondo dell’occupazione per i tanti giovani che vi si dedicano con serietà e passione; questo va riconosciuto e in tutti i modi favorito. Un’occasione di occupazione che può permettere loro anche di dar corpo, ad esempio, al desiderio di costruire una famiglia e di far crescere quindi la società, un’utilità per tutti, come è avvenuto nel nostro gruppo. Ci sono vite salvate grazie alla ricerca, e ci sono vite generate grazie alla ricerca, come queste. Dieci bimbi e diciannove bimbe nati nel periodo di questo progetto e una bimba in arrivo che le ragazze hanno voluto definire, scherzosamente, in press. Senza che il lavoro del laboratorio ne risentisse, anzi: la solidarietà cresceva e con essa è cresciuta la produttività. Anche per questo, noi non cesseremo mai di cercare – sulla scorta delle parole di Eliot, “We shall not cease from exploration”. Perché tutte le cose, alla fine, vanno conosciute per la prima volta, come nuove.

DOMENICO COVIELLO:
Bene. Ringrazio il professor Bertazzi per la sua presentazione che è stata sulla ricerca ma anche una lezione di vita. E mi permetto solo di fare un piccolissimo commento. Io sono ricercatore, dirigo un laboratorio di giovani. E quello che sottolineo, nella scrittura di questi progetti, penso sia quello che ha animato anche lo spirito di questi giovani: la persona deve partecipare senza pretese, cioè senza pretendere di avere immediatamente risultati, altrimenti rimane deluso, si brucia e non continua più. Ma questo deriva da una educazione. Quello che ci ha detto prima il professor Bertazzi, cioè l’educazione a un modo di pensare, non a pretendere ciò che noi pensiamo si realizzi, ma a prendere tutto quello che viene come un dono ci aiuta anche nella ricerca. Bene, ora passiamo all’ultima parte, direi che è una parte rilevante. Abbiamo sentito alcuni risultati ottenuti a livello del governo centrale, quindi del Ministero della Salute. Adesso vediamo come a livello di governo regionale può avvenire questa organizzazione della ricerca e il poter utilizzare il sistema sanitario nazionale come strumento che aiuta la ricerca. Sicuramente l’Assessore Mario Melazzini è una persona che può dare un giudizio ed è quello che chiediamo: quale giudizio dà di questo aspetto, avendo vissuto tutti gli aspetti, come operatore, come medico, come paziente e, adesso, come politico? Vediamo qual è la sua esperienza e qual è il suo suggerimento. Grazie.

MARIO MELAZZINI:
Grazie a voi. Buon pomeriggio a tutti. E prima di iniziare, permettetemi un grazie, un grazie veramente a tutto il popolo del Meeting, a quelle volontarie e a quei volontari che quotidianamente permettono di far sì che incontri come questi, che vogliono essere momenti di conoscenza, momenti di riflessione, possano tradursi poi, potenzialmente, in azioni e in opere concrete. Quindi, veramente un grazie di cuore. Io annualmente, quando vengo al Meeting, non finisco mai di stupirmi, cioè di ripetermi quella grandissima frase di don Giussani sull’educazione: lo stupore e la meraviglia diventano un incontro, sia nel passaggio attraverso gli stand che, soprattutto, nei momenti come questi di conoscenza e di cultura. Quindi, veramente un grazie di cuore rispetto a tutto ciò che fate e mettete a disposizione.
Ho ascoltato con molta attenzione le parole del Ministro e del Presidente Scaccabarozzi e con altrettanta attenzione la testimonianza dell’amico Pier Alberto, perché ciò che tu hai fatto è veramente una testimonianza che ci deve portare a riflettere molto a fondo su ciò che noi ipotizziamo e che vogliamo, di conseguenza, raggiungere. E mi permetto adesso di citare quattro parole: la prima è persona, a partire dal Ministro, dal Presidente di Farmindustria e poi anche dal professor Bertazzi, la persona lungo tutto il percorso, sia come destinatario finale di quanto può essere il lavoro, il prodotto della ricerca, sia come promotrice e protagonista iniziale del percorso della ricerca. La persona è il fulcro, il nucleo su cui tutto si va a incentrare. E se voi andate a vedere nella storia di chi fa ricerca nei diversi campi, in particolare in campo biomedico, chi eccelle, spesso parte da una motivazione e da uno stimolo personale. Poi vi citerò alcuni esempi. Le altre tre parole, che non sono state citate ma che devono essere ben tenute in considerazione, perché se no si corre il rischio di dire che siamo bravi, facciamo tante belle cose, senza guardare al risultato finale, partono da realtà: essere estremamente realisti rispetto al momento in cui ci troviamo. Realtà nella crisi, che è l’altra parola. E infine, una parola che non ho sentito citare ma che, secondo me, è il collante rispetto a quanto può essere tutto il percorso di ricerca: speranza. Ecco. Sono stato chiamato in causa con tanti vestiti, no? Quindi, parto da quello che è, non oso dire il più difficile per me, ma un vestito nel quale a volte faccio un po’ di fatica ad adattarmi, perché io sono un anarchico in tutte queste cose, il vestito istituzionale. Parto dall’esperienza di amministratore di Regione Lombardia, un vestito nel quale mi sono calato, cercando di tradurre quell’opportunità legata all’esperienza come operatore, anche come portatore di interessi, cercando di tradurre, con la metodica dell’ascolto e del coinvolgimento, azioni concrete a favore di chi quotidianamente, soprattutto i nostri giovani gruppi di ricercatori, trasformano le idee in azione concreta. Ciò che diceva il Presidente Scaccabarozzi è una grandissima realtà. Ha detto che in Regione Lombardia noi abbiamo tra il 50, 60% degli insediamenti farmaceutici produttivi a livello nazionale. Quindi, l’industria, la Big farm è per la maggior parte sul territorio regionale. E vi dico alcuni numeri che ha prodotto, per esempio, a partire dalla fine del 2011 e nel 2012, il personale impiegato in ricerca e innovazione in Regione Lombardia: 4.591.920 ore lavorate.
Un altro dato percentualmente rilevante, per farvi capire quanto la nostra Regione sia altamente trainante rispetto all’attività di ricerca, è che più del 20% del personale impiegato in ricerca lavora in Regione Lombardia. Abbiamo sentito dei numeri che a me fanno indubbiamente molto piacere per Farmindustria, che dice: “Abbiamo investito più di un miliardo e andremo ad investire quasi due miliardi…”. Perché la ricerca non è un costo ma un grande investimento, ma la ricerca costa. E la ricerca deve essere sostenuta. Quindi, il ruolo delle istituzioni – concluderò con una proposta abbastanza provocatoria anche nei confronti del Ministro del governo centrale – diventa fondamentale perché la ricerca è globale e noi dobbiamo fare squadra, per cercare finanziamenti e sostegno a livello mondiale, come questa bellissima esperienza che l’università e il Dipartimento di Medicina del Lavoro hanno avuto con il professor Bertazzi. Dobbiamo essere realisti, se pensiamo a livello nazionale, per la ricerca biomedica abbiamo già istituito quelli che sono istituti di ricovero e di cura a carattere scientifico, verso i quali vengono allocati l’un per cento di risorse del Fondo sanitario nazionale. Se andiamo a calcolare quello di quest’anno, del 2014, sono 107 miliardi allocati per la ricerca in tutti gli IRCCS, una cinquantina circa a livello nazionale, tra pubblici e privati. Sono tanti soldi, ma in ricerca sono veramente pochi: 100 e passa milioni per fare ricerca sono estremamente utili ma non sono sufficienti. Di conseguenza, diventa strategico in un momento di crisi come questo trovare un’opportunità di reperire risorse perché la ricerca sia sostenibile e permetta una tranquillità di percorso rispetto alla persona che inizia la progettualità. Riguardo agli IRCCS, gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, che come compito istituzionale hanno l’obbiettivo di fare ricerca per arrivare poi al letto al paziente e migliorarne la qualità della vita, se vogliamo che funzionino come veramente stanno funzionando, dobbiamo però metterli nelle condizioni di poter agire in maniera diversa rispetto al momento attuale.
L’istituzione e la politica devono avere il coraggio di prendere delle decisioni, perché gli IRCCS sono i soggetti su cui riponiamo le più grandi speranze, per far sì che ci possa essere il vero trasferimento, la vera traslazione. La ricerca “traslazionale”, infatti, non è un surplus, nasce così perché tutto ciò che deve essere fatto a partire dalla ricerca di base fino a creare un risultato deve avere l’obiettivo mirato di garantire in maniera concreta un risultato. Questo diventa fondamentale. Se ci fosse stato oggi il Ministro, l’avrebbe sicuramente accennato: l’ha fatto solo larvatamente, parlando del programma e di una progettualità, di una norma che riguarda i percorsi di ricerca. Tutto ciò è fondamentale anche rispetto alla riorganizzazione degli IRCCS, perché per avere questo surplus, per essere catalizzatori rispetto alla progettualità dei percorsi di ricerca, occorre un riconoscimento diverso: non possono essere trattati anche dal Servizio Sanitario nazionale alla stregua della aziende ospedaliere che sono, per l’amor di Dio, perfette nel garantire ottimi risultati assistenziali e anche di ricerca, ma l’IRCCS per definizione ha uno status totalmente diverso. Di conseguenza su questo bisogna lavorare attentamente e la ministra mi ha coinvolto in una progetto per rivisitare il percorso di ricerca e innovazione. Con la parabola, con la storia dell’asinello, dell’anziano e della bambina, il presidente Scaccabarozzi, nella conclusione del suo elaborato, ha messo in evidenza una delle criticità più forti di questo sistema: la difficoltà di fare squadra. Se non si riesce a fare rete, difficilmente riusciamo a garantire una risposta concreta. E per garantire una risposta concreta, bisogna far sì che il percorso della ricerca venga in qualche modo inizializzato costruendo una filiera, istituzionalizzando la figura del ricercatore, la figura accademica universitaria, la figura istituzionale e la figura industria. Questo è fondamentale, perché i nostri ricercatori producono tantissimo: in Regione Lombardia, noi produciamo veramente parecchio, siamo anche ai primi posti a livello nazionale per quanto riguarda il trasporto del trasferimento tecnologico, dall’idea progettuale alla brevettazione. Abbiamo sentito da tutti, dal ministro fino a Bertazzi, che la ricerca produce benessere, però per produrre benessere la ricerca deve essere tradotta in qualcosa di concreto che poi è la produzione. Per arrivare alla produzione, ci deve essere chi è in grado di garantire il percorso dalla brevettazione in poi, si tratti di un farmaco o di materiale biotecnologico, strumentale, ecc. Su questo noi ci dobbiamo veramente interrogare, le istituzioni, soprattutto a livello centrale, devono arrivare ad avere un approccio manageriale alla ricerca. Noi stiamo lavorando a livello ministeriale per suggerire i cardini di questo percorso. Uno dei punti importanti consiste nell’identificare quegli strumenti che permettano in maniera concreta di avere risorse a disposizione. E’ possibile farlo coinvolgendo e costruendo quella partnership per il pubblico-privato, o per il privato-privato, che abbiamo sentito citare, grazie alla nascita di fondi pubblici, finalizzati alla sottoscrizione di quote di fondi gestiti anche da privati che possono investire. Sentiamo parlare di venture capital, piuttosto che di altre formule e strumenti di reperimento risorse: questo ci permetterebbe di far sì che la ricerca potesse essere sostenibile, soprattutto in ambito biomedico. La ricaduta positiva è fondamentale, rispetto al fatto che noi dobbiamo partire dalla convinzione che l’attività di ricerca non deve essere appannaggio esclusivo dei ricercatori ma soprattutto un investimento strategico, tanto per lo sviluppo economico del territorio, quanto per i benefici, in termine di benessere collettivo, che può generare, soprattutto in aree a forte domanda sociale.
Qui mi riaggancio a quanto si diceva prima: grazie alla ricerca, ai nuovi farmaci e alle nuove molecole, abbiamo ottenuto un aumento della durata della vita media. Questo presuppone sicuramente un miglioramento, ma anche, grazie alla ricerca, la stabilizzazione di molte condizioni che diventano forme croniche e vanno a impattare in maniera forte rispetto alla sostenibilità. Io porto il nostro esempio di Regione Lombardia, dove il 70% delle risorse del servizio sanitario regionale serve a coprire i bisogni e l’assistenza di persone affette da patologie croniche, che impattano per il 30%. Questo deve farci riflettere, rispetto alla sostenibilità e alle scelte di una terapia sempre più evoluta verso una medicina personalizzata. Su questo bisognerebbe aprire una parentesi molto importante, perché sono scelte che il sistema deve proporre e fare in accordo con l’industria. Non voglio entrare in termini tecnici ma pensiamo a una molecola, un farmaco biologico molto importante che viene utilizzato per il trattamento del melanoma metastatico: statisticamente ha migliorato la durata della malattia di quattro mesi, con un impatto di costo estremamente importante. O rispetto all’utilizzo, in una patologia cronica molto conosciuta, ad esempio l’epatite cronica da epatite C., dei nuovi farmaci antivirali che, soprattutto per un genotipo particolare, fanno regredire completamente la patologia, annullando la possibilità di insorgenza dell’epatocarcinoma e migliorando la prognosi di cinquanta mesi, rispetto ai quattro mesi, ma con dei costi esattamente uguali. Vuol dire che, per sostenere e rendere accessibili le cure, dobbiamo far sì che un paziente con melanoma metastatico non abbia il farmaco mentre un paziente con epatite C possa averlo perché la durata di vita è superiore? No, perché l’esperienza di vita è unica. Questo significa andare a reperire risorse in un altro modo, con scelte strategiche. Ad esempio, si diceva prima, per abbattere la mortalità cardiovascolare sappiamo benissimo quanto abbiano influenzato le statine, cioè i farmaci ipocolesterolizzanti. Nell’evoluzione della ricerca, si sono trovate altre molecole, estremamente efficaci ma estremamente costose rispetto alle prime utilizzate. Questo vuol dire che si potrebbero dare delle indicazioni, con parità di efficacia, di utilizzare, nella prevenzione cardiovascolare, delle statine che sono parimenti efficaci ma con un costo nettamente inferiore.
Questo per farvi capire che diventa importante e fondamentale fare ricerca, sviluppare, però dobbiamo essere estremamente realisti perché, in un momento come questo, tutto si può dire ma non tutto si può fare. Bisogna avere il coraggio, a volte, di dire “sì, si può fare” oppure “no, non si può fare”. Un ruolo istituzionale ha anche questo compito. Mi avvio alla conclusione, rispetto a quello che Regione Lombardia può fare. Noi abbiamo messo a disposizione quest’anno, per la ricerca, rispetto a ciò che fa lo Stato centrale, circa duecentodiciassette milioni, di cui abbiamo bloccato trentun milioni di euro, per la ricerca biomedica, nel 2013/2014. Questo significa che Regione Lombardia sta cercando, come istituzione, di trovare risorse ma, soprattutto, di essere strumento semplificante. Ciò che l’istituzione deve fare è essere strumento semplificante per chi fa ricerca. Abbiamo creato, e io personalmente ci credo tantissimo, per questa mia provenienza dal mondo scientifico, la Fondazione Regionale per la Ricerca Biomedica, un soggetto giuridico in cui noi possiamo e dobbiamo far sì che chi vuole fare ricerca la possa fare nel modo più semplificato possibile, ma con la certezza e con la correttezza di un’erogazione di fondi in maniera trasparente, lineare ma soprattutto meritocratica. L’altro aspetto molto importante è il merito. Uno dei punti fondamentali di Regione Lombardia per la ricerca, sul quale non vogliamo transigere, sono i pilastri della strategia regionale: valorizzare il capitale umano, implementare l’attrattività anche internazionale, soprattutto di risorse del nostro territorio e, soprattutto, prestare maggiore attenzione alla domanda piuttosto che all’offerta. Questo è qualcosa di fondamentale, su cui noi dobbiamo interrogarci. La validità della produzione scientifica si misura sulla produzione stessa. Non occorre dire che in Regione Lombardia siamo ai primi posti della produzione scientifica, l’IRCCS Fondazione Ca’ Granda è al primo posto, tra i primi dieci abbiamo sette IRCCS di Regione Lombardia. Abbiamo figure che producono scienza ai primi posti: chi di voi ha visto quel lavoro comparso sull’European Journal of Investigation? Fra i primi quattrocento scienziati al mondo, al primo posto ci sono sei italiani, cinque dei quali lavorano in Regione Lombardia. Quindi abbiamo un potenziale di produttività molto forte.
Però una cosa della quale non ci dobbiamo mai dimenticare è il percorso della persona, soprattutto in un contesto di realtà e di crisi, e soprattutto di speranza. La speranza molti la definiscono come qualcosa di non tangibile ma è ciò che stimola il ricercatore, perché il ricercatore non deve dimenticare l’obbiettivo e guardarlo con quello sguardo che permetta di fare si che la speranza possa diventare strumento reale e concreto per raggiungerlo. Perché lo sguardo con cui raggiunge quell’obbiettivo, che si chiama persona malata, riguarda quella persona, è rivolto a quella persona. Questo diventa veramente fondamentale affinché, per chi fa ricerca ma soprattutto per chi è destinatario di quell’obbiettivo, la speranza diventi uno strumento di vita. Ritorno alla parola “vita”: per allungare la vita, diventa fondamentale che quella speranza venga alimentata. Per garantire istituzionalmente questo percorso di ricerca, poi, bisogna far sì che il MIUR, il Ministero della Ricerca, della Salute e anche il Mef operino in sinergia, perché noi ci rendiamo conto che spesso chi ci permette di fare è chi ha i cordoni della borsa, anzi, penso che sia un dovere del Ministero Economico dirci fin dove possiamo arrivare. Però, nella ricerca, non possiamo permetterci che siano altri, non i tecnici, non coloro che sono professionalmente competenti, a dirci cosa si può fare e cosa no. A volte abbiamo avuto esperienze estremamente negative nel nostro Paese. Infine, si citava prima con Domenico come fare buona ricerca ma soprattutto come allocare bene le risorse. Grazie alla raccolta ma soprattutto allo sguardo con cui, nella mia veste di portatore di Interesse, ho cercato di comprendere ciò che poteva essere utile in una patologia unica e rara come la Sclerosi Laterale Amiotrofica, abbiamo identificato e voluto fortemente unire insieme quattro enti filantropici fra i maggiori, perché, come vi dicevo, è l’esperienza della persona che ti porta a fare qualcosa e a raggiungere l’obbiettivo. L’Agenzia per la ricerca sulla SLA, l’unione di Fondazione Cariplo, Telethon, AISLA e Fondazione Vialli e Mauro, è un nulla rispetto al bisogno concreto, però l’abbiamo fatto. Traslato in grande, guardate l’esempio che ha fatto Mauro Ferrari, da cosa è nato tutto il meccanismo della nanotecnologia, delle nanomolecole, da un’esperienza personale, voluta dal nulla e creata. Guardate cos’è adesso. Vedete, è il risultato della persona al centro. Ma soprattutto, dobbiamo avere il coraggio di credere, osare e fare scelte strategiche, che permettano poi alla persona di avere tutti questi risultati. Senza dimenticarci di come siamo e che l’autoreferenzialità molto spesso è padrona. Bertazzi ha detto una cosa importante: “Pubblichiamo perché poi ci sentiamo soddisfatti di quello che abbiamo fatto”. Un’autosoddisfazione. Dovremmo avere il coraggio di produrre e pubblicare anche i dati negativi, perché nella ricerca servono anche queste cose e, soprattutto, onde evitare dispersioni, il coraggio delle scelte. La scelta fondamentale è credere nella persona: una grande squadra in cui devono emergere delle personalità, ma soprattutto i giovani, perché i giovani ricercatori sono il nostro futuro. Tutto il percorso formativo che lega università, istituzioni e industria potrà garantire delle risposte. Personalmente ci credo e invito tutti a crederci, soprattutto a credere in tutto ciò che la ricerca può fare per rilanciare il nostro benessere e il nostro tessuto produttivo. Grazie.

DOMENICO COVIELLO:
Bene. Naturalmente questo incontro potrebbe durare moltissimo ma, come sappiamo, il valore aggiunto del Meeting, oltre al messaggio che viene dato durante la conferenza, è quello che c’è dietro, che si stabilisce un rapporto di amicizia fra le persone che vengono qui e molte altre che entrano in contatto con loro e continuano a costruire dopo. Come conclusione, io ho segnato pochissimi punti e ci metto tre minuti ad elencarli. L’industria, abbiamo sentito qual è il messaggio da portare a casa, è pronta ad aiutare le istituzioni pubbliche e l’accademia a trovare fondi e ad ospitare giovani ricercatori, facendo rete con l’università e gli ospedali. L’industria da sempre ha fatto ricerca ed è pronta a svolgere questa parte. Per quanto riguarda l’università, abbiamo visto che la formazione deve ripartire dall’educazione della persona, quindi educazione a fare ricerca, perché solo con l’educazione a fare ricerca e a fare squadra si possono ottenere certi risultati. Nell’ultima relazione, ho segnato qualche punto in più, in cui vediamo come l’istituzione, partendo dal reale, quindi dalle persone che operano, sia operatori sia pazienti, si trova di fronte questa realtà in cui, pur tenendo conto della crisi, non va persa la speranza, che dev’essere uno strumento concreto. L’istituzione può reagire, come abbiamo sentito dal Ministro e dall’Assessore, con delle riforme istituzionali e strumenti semplificanti. Questo è quello che cerchiamo di ottenere. L’altro punto che ho segnato è che l’istituzione deve anche andare verso un approccio manageriale che può funzionare solo se unito ad un approccio solidale. Non basta lo Stato, non basta l’istituzione manageriale, serve che tutto il popolo abbia un approccio solidale. È stato citato, fra le istituzioni, e ne faccio un esempio perché come ricercatore ne ho usufruito ed è stata una bellissima esperienza, Telethon, che non è un’istituzione burocratizzata ma riesce a raccogliere fondi e a distribuirli a tutte le istituzioni, pubbliche e private, basandosi su due aspetti: la trasparenza e il merito. Direi che queste sono le ultime parole con cui vorrei chiudere questo incontro e ringrazio tutti per la partecipazione. Grazie.

Data

29 Agosto 2014

Ora

15:00

Edizione

2014

Luogo

Sala Neri CONAI
Categoria
Incontri