LA NOSTRA AFRICA

Partecipano: Caterina Dolci, Missionaria delle Suore del Bambin Gesù in Negeria; S. Ecc. Mons. Cesare Mazzolari, Vescovo di Rumbek (Sudan). Introduce Mario Molteni, Docente di Economia Aziendale all’Università Cattolica Sacro Cuore di Milano.

 

MARIO MOLTENI:
Buon giorno a tutti. il Meeting quest’anno ha dato voce all’Africa in modo significativo fin dal primo giorno. Infatti, il primo grande incontro di domenica è stato proprio dedicato all’Africa, con il ministro Frattini, con il vice presidente della Sierra Leone, con il primo ministro del Kenya e con altri ospiti importanti. In questo incontro, come si evince anche dai molti dati che circolano sull’Africa, ci possiamo rendere conto di una situazione realmente drammatica, una situazione di cui probabilmente noi dall’Italia o dall’Occidente difficilmente ci rendiamo conto. Basta pensare che ci sono ancora 300 milioni di persone che rischiano la fame ogni giorno, che queste persone sono aumentate del 12% rispetto all’anno scorso, che negli ultimi 40 anni, a fronte di dati di crescita eccezionali in certe parti del mondo e comunque considerevoli per il nostro paese, c’è stato un tasso di crescita in Africa dello 0,2% annuo; cioè, sostanzialmente irrisorio. Soprattutto se confrontato con l’aumento della popolazione: quasi un miliardo di persone, e più del 60% non ha la luce, una disoccupazione giovanile che in certi paesi è ancora al 60%, anzi, probabilmente in crescita, un numero di guerre, di colpi di stato, come ci verrà testimoniato anche oggi, realmente straordinario, che non ha paragoni in nessun altro luogo del mondo.
In questo periodo ci sono stati dei fatti politici, dei fatti istituzionali nuovi e importanti, e sarebbe in un certo senso cinico pensare solo che i nuovi aiuti programmati avranno risultati limitatissimi come quelli dei decenni precedenti. Quindi noi non vogliamo pensare che una nuova stagione in Africa non possa iniziare. Vogliamo avere il coraggio di questa speranza. Il recente viaggio del Papa, il G8 sono testimonianze di una volontà di ripresa che le istituzioni nel mondo manifestano, e noi vogliamo dare fiducia a questo. Ma quello che noi vedremo, il passaggio del Meeting di oggi riguardo all’Africa, è che ci sono delle esperienze in atto, in un certo senso profetiche, che sono fonte di speranza. Anche se, come sentiremo, sono dentro un contesto che non è stato drammatico, ma è drammatico in questi giorni e ci sono delle attese di drammaticità anche per i prossimi mesi.
Dicevo: queste testimonianze, comunque, oggi ci fanno essere positivi e, secondo me, devono anche diventare le interlocutrici delle istituzioni, perché sono realtà che stanno educando il popolo africano. E sono nate con delle persone educate alla civiltà, alla fraternità, al lavoro, così che sarà possibile che gli aiuti effettivamente si inneschino, vadano ad alimentare un contesto positivo.
Bene, non rubo altro tempo. Oggi ci sono due testimoni di eccezione: alla mia destra monsignor Cesare Mazzolari, un bresciano con un lunga esperienza negli Stati Uniti alle spalle. Quindi ha vissuto nel super primo mondo prima di venire ordinato sacerdote e raggiungere il Sudan e in particolare il sud del Sudan nel 1981. Sono ormai 30 anni che vive in un contesto realmente straordinario in quanto a drammaticità della situazione. È stato ordinato vescovo da papa Giovanni Paolo II il 6 gennaio del ’99, è attualmente a Rumbek, la terza città del Sudan, ed è un protagonista della storia religiosa, ma anche sociale e civile, di questo contesto. Alla mia sinistra c’è suor Caterina Dolci. Lei è bergamasca per cui, si diceva venendo in qua, sono cugini dal punto di vista missionario e in clima di derby dal punto di vista calcistico. La sua vocazione sorge nel movimento di Comunione e Liberazione, diventa suora del Bambin Gesù, una congregazione promossa dal beato Nicola Barré, suora con la professione perpetua nel ’85. Va in Nigeria e sono quasi 25 anni che è presente nel nord di quel paese. Attualmente vive nel villaggio di Kona, a pochi chilometri dalla capitale dello stato del Taraba, che è nel nord-est della Nigeria.
Io a questo punto cedo la parola a loro, prima a monsignor Mazzolari e poi a suor Caterina Dolci, e vi preannuncio già che al termine della loro relazione ci sarà la possibilità, per chi vuole, di proseguire questo incontro in una stanza più piccola di questa con domande, diciamo fino all’ora di pranzo. Grazie, cedo la parola.

S. ECC. MONS. CESARE MAZZOLARI:
Il tema della mia presentazione quest’oggi si può riassumere nel titolo: il cammino lento ma genuino della riconciliazione in Sudan. Parlo soprattutto del Sud del Sudan e mi riferisco agli anni penosi della Guerra degli “Anyanya One” e dell’ultima guerra civile tra Nord e Sud, quindi dal 1964 a oggi.
Il mio tema è in armonia con l’impegno dei vescovi africani, e dei vescovi di tutto il mondo, che verranno a Roma in Ottobre per ricalcare il bisogno di giustizia e pace e riconciliazione durante il Secondo Sinodo Africano. La riconciliazione è il bisogno urgente del continente africano, ma anche dell’intero mondo, come ci insegna il Santo Padre nella sua enciclica, “Carità nella Verità”.
Il concetto di riconciliazione è quindi fondamentale e lo svilupperò nel contesto della Chiesa, sempre presente e attenta alle sofferenze del Popolo di Dio.
Vorrei perciò spiegare che cosa non è riconciliazione nella completa prospettiva Cristiana. Riconciliazione non è una semplice mediazione in situazioni conflittuali in cui ci si accontenta di barattare finché si giunge a un compromesso. Nella riconciliazione noi siamo in cerca di una vera rimarginazione, che fa rinascere e rispetta con giustizia la dignità di un uomo nuovo da rifare. La riconciliazione non è un razionalizzare esclusivamente tecnico, perché la vera riconciliazione si fonda per la sua origine nell’autore della pace e dell’unità che è Dio. La riconciliazione accoppia il penoso e coraggioso impegno umano con l’azione di Dio che fa nascere e alimenta ogni genuina riconciliazione.
La riconciliazione non è l’arte di risolvere conflitti. Al di là del “conflict resolution”, la riconciliazione è una missione che Cristo è venuto a compiere sulla terra e che chiede a noi di continuare a compiere a nome suo, chiedendoci di fondarci non solo sul suo esempio, ma anche sul suo intervento divino, necessario per poter completare ogni cammino di riconciliazione.
Il concetto di riconciliazione, velato nel Vecchio Testamento, è invece lampante nella missione di Cristo, ed è quindi annunciato in chiari termini nel Nuovo Testamento, specialmente nelle lettere di S. Paolo. Ai Corinti san Paolo dice: “Voi siete stati riconciliati in Cristo con il Padre e ora siete chiamati ad essere ambasciatori di riconciliazione” (2 Cor 5:18). Lo scenario da tenere presente per comprendere la dinamica della riconciliazione sono i suoi attori e protagonisti, la situazione reale che si sviluppa nel cammino di riconciliazione e inoltre gli atteggiamenti, che sono da curare attentamente.
Gli attori e protagonisti sono da una parte gli oppressori, dall’altra gli oppressi o vittime, e infine chi è partigiano con gli uni o gli altri, volontariamente o involontariamente. La situazione iniziale che si crea è di divisione, emarginazione e violenza che causa indicibile sofferenza, fame, sfollamento e morte negli oppressi. Gli atteggiamenti che si sviluppano sono risentimento, desiderio di vendetta, paura da parte degli oppressi, che fa perdere totalmente il senso della sicurezza e paralizza ogni fiducia in se stessi e nel mondo in generale. Si finisce in un mondo di gente sfiduciata. Il recupero e cura da questo stato di completo smarrimento è lento e penoso. Non si possono fare passi di riconciliazione, finché l’individuo non ritorna in se stesso e si riadatta (riconcilia) alla perdita della casa, di persone care, alla malattia cronica e povertà che rasenta la totale miseria nell’isolamento più deprimente. Si deve ricomporre il corpo, ribilanciare la mente, sanare la memoria dell’individuo e trovare modo di far pace con la realtà di sofferenza che causa lacrime, sangue e anche la morte giorno per giorno negli oppressi.
Cari amici, perché vi descrivo soltanto quelli che soffrono e non gli oppressori? Perché nel piano cristiano l’autore della riconciliazione è anzitutto Dio, ma in prima linea, a costruire la riconciliazione sono gli oppressi o le vittime. È stato così nel caso di Cristo, che è stato oppresso da tutte le nostre colpe e le ha portate come vittima con sofferenza, sangue e morte al suo Padre chiedendo perdono per noi. Ogni altro evento di riconciliazione deve fare lo stesso cammino sulle spalle, nel cuore, nella mente e nella memoria dell’oppresso finché sia propiziata la conversione dell’oppressore e si realizzi una vera riconciliazione.
Infatti, l’oppressore non è riconciliato dall’imprigionamento, lavori forzati o restituzione di beni. L’oppressore è riconciliato da una propiziazione lunga e penosa di umiltà, sofferenza e morte in molti modi da parte dell’oppresso che non si vendica, non lancia pietre contro l’oppressore, ma riceve da Dio la forza di perdonare e ripartire con una vita nuova di misericordia e armonia con l’oppressore. La riconciliazione è la propiziazione ottenuta con Dio dall’oppresso a costo di lacrime, sangue e morte che vanno a rimarginare il divario creato dall’inumanità e ostilità dell’oppressore.
La riconciliazione và a stadi. Nel primo stadio bisogna far guarire l’oppresso e farlo uscire dal cerchio vizioso della vendetta, portarlo ad avere il coraggio di perdonare come Cristo ha perdonato. Successivamente, l’oppresso deve disarmarsi da armi interne come l’odio, il rancore e la violenza, e imbracciare armi nuove, cioè buona volontà, perdono e impegno a ricostruire. E questo richiede tempi lunghi di conversione alla misericordia
Prima di descrivervi gli eventi pratici della nostra riconciliazione in Sudan voglio riflettere con voi sulla descrizione della riconciliazione portata a termine da Cristo, come la descrive S. Paolo agli Efesini:

“In Cristo, voi che eravate divisi e così lontani da noi, siete stati portati vicini dal sangue di Cristo. Perché lui è la pace tra di noi, ci ha portati da due a uno, rompendo la barriera che ci teneva separati, praticamente distruggendo nella sua persona l’ostilità causate dalle norme e decreti della legge. Questo era a scopo di formare un unico Uomo Nuovo in se stesso dai due esseri separati e riconquistando pace attraverso la croce, per unire entrambi in un unico corpo e riconciliarli con Dio. Nel suo corpo Cristo ha ucciso l’ostilità e ci ha portato pace e unità” (Efesini 2:13-14).

In questo ricco passaggio degli Efesini osserviamo la scena del conflitto e divisione tra Dio e l’uomo peccatore, e tra di noi. Cristo si rende l’oppresso dai nostri peccati e fa propiziazione al suo e nostro Padre, e quindi soffre lacrime, rigetto e sangue nonché la morte per ottenere dal nostro Padre misericordioso la totale riconciliazione per tutti noi. Sofferenza, sangue e morte sono il prezzo della propiziazione per ottenere il dono genuino ma lento della riconciliazione nell’unità e pace.
Ci sono stati eventi di riconciliazione in Sudan. Nel 1964 l’ostile governo Sudanese dichiarò che lo scopo di Evangelizzazione del Sudan era terminato e quindi avvenne l’espulsione di 300 missionari, suore e padri dal Sud del Sudan che furono anche oltraggiati e trattati inumanamente in questa trasferta. Ci fu angosciante sofferenza; poi un pellegrinaggio di riparazione e supplica nella Terra Santa da parte degli espulsi.
In Sudan, invece, allo stesso tempo, il clero nativo del Sud fu sfidato a separarsi da Roma e formare una Chiesa nazionale. Soffrirono l’inverosimile, ma restarono fedeli alla Chiesa di Roma. 3 sacerdoti però morirono vittime in difesa della fede: P. Arcangelo Ali, P. Saturnino Lohure, P. Barnaba Deng, missionario comboniano sudanese. Con loro morirono diversi catechisti e cristiani uccisi in odio alla fede e sepolti in fosse comuni alla periferia di Rumbek. Ma il sangue dei martiri è frutto di nuovi cristiani. I risultati di riconciliazione furono i seguenti: innanzitutto il trattato di pace che si concluse nel 1972 ad Addis Abeba, che portò serenità al popolo del Sud del Sudan. Poi, a partire dal 1975, la Chiesa, che sembrava morire nell’oppressione più crudele, rifiorì. I missionari ritornarono nel 1975 e rianimarono una Chiesa, portata avanti dai catechisti, povera di mezzi e sfinita. Si riprese con fervore una nuova prima evangelizzazione e ci fu un risveglio nella fede in tutte le 7 diocesi del Sud. Una volta ancora Dio venne a custodire la sua Chiesa con nuovo vigore attraverso la sofferenza dei martiri.
La Chiesa sotto l’egida dell’SPLA-SPLM ha goduto relativa libertà di azione e ha moltiplicato le sue opere. Nella Guerra civile tra Nord e Sud iniziata da John Garang il 16 maggio 1983, non mancarono tuttavia tensioni e atrocità tra il movimento di liberazione (SPLA-SPLM) e i civili, anche contro i membri della Chiesa. Quindi all’interno del Sud del Sudan grosse e gravi atrocità, violenze gravi crimini contro innocenti, donne e bambini avvennero ripetutamente. Tre suore e due sacerdoti furono imprigionati nel 1996, mentre altri missionari furono sequestrati per lunghe settimane e mesi: PP. Pellerino e Cefalò per 102 giorni, P. Salvatore per 62 giorni, P. James Pulikal fu detenuto per più di 18 mesi. Due seminari furono aggrediti con forzato reclutamento dei giovani seminaristi (40 a Wau e 50 a Rimenze) e i loro rettori soffrirono a lungo dopo l’attentato alla loro vita. In tutto questo la Chiesa non fece ricorsi internazionali, solo sofferse la penosa attesa affinché il suo popolo fosse più rispettato e che i missionari imprigionati fossero rilasciati pacificamente. A concludere questo cammino ci fu un “summit” di una settimana, a Kajiko (vicino a Yei) nel 1996 con la presenza di John Garang, tra le Chiese e il movimento di liberazione (SPLA). Come risultato fu formato un comitato per gli affari religiosi, composto di membri delle Chiese (NSCC) e del movimento di liberazione. Questo comitato è stato rinnovato al governo centrale di Juba a Luglio di quest’anno e ha portato più comprensione tra il movimento, i civili e i membri della Chiesa, oltre a un più severo controllo sul comportamento dei soldati verso la popolazione. Un altro percorso nel cammino della riconciliazione.
Un’altra grave scissione avvenne all’interno dell’SPLA nel Settembre 1991. Si formò il Nassir Party con Lam Akol, Riak Machar e Arop Deng Arop contro il gruppo di Torit, che era la base dell’SPLA, guidato da John Garang. Le Chiese intervennero immediatamente con il “New Sudan Council of Churches”, partecipando a numerosissimi incontri a Nassir e a Nairobi. Un processo di “power struggle” che portò i “leader” di Nassir a unirsi prima al “peace deal” di Khartoum, ma dopo solo 3 anni a ritornare al Sud per difendere l’unità del Sud contro il governo di Khartoum. La Chiesa non mancò di accompagnare con pazienza il cammino della società che era oppressa e confusa. La Chiesa pazienta anche quando le divisioni permangono, con fiducia nel Dio degli oppressi.
Le divisioni tra i “leader” delle due fazioni causarono atrocità spaventose con centinaia di morti tra le tribù, principalmente tra Dinka e Nuer, tra Dinka e Azande e tra Dinka e Lotuko. Le Chiese con assiduità si allearono con la popolazione. Nel 1998 a Loki si fecero i primi passi per riconciliare le tribù. Nel 1999 a Wunlit si fece un passo ancor più grande per riconciliare Nuer e Dinka. La riconciliazione venne chiamata “il passaporto obbligatorio” per entrare in un Sudan di pace. I primi e decisivi passi dell’intesa di Wunli serviranno come modello di riconciliazione per diversi anni nella provata zona di Wunlit, e per tutto il Sud. Ancora nel 1999 la Chiesa andò a Nassir dopo il grande genocidio tra Nuer e Dinka e di nuovo fece un fruttuoso cammino per far uscire queste due tribù dal cerchio dell’odio e della vendetta. La violenza cessò e ci si riunì per far fronte all’oppressore dominante che era il governo di Khartoum.
Nel 2003 la Chiesa si attivò per la pace e riconciliazione tra l’oppressore del Nord e gli oppressi del Sud dove la Guerra ha decimato 2 milioni di persone, ha causato 6 milioni di sfollati interni e ha distrutto culture, valori sociali e famigliari, calpestando la dignità d’una popolazione di più di 9 milioni di sudisti trattandoli come schiavi. Le Chiese si mobilitarono per la conquista della pace in tutti i modi durante i Colloqui di Pace di Nairobi. I vescovi più di una volta andarono in Sud Africa a consultarsi con la Conferenza Episcopale del Sud Africa, ben nota per aver superato l’Apartheid e il genocidio e aver ottenuto riconciliazione nella verità. In cambio, i vescovi del Sud Africa vennero in Sudan più d’una volta per comprendere in quale modo potevano dare una mano ai vescovi del Sudan per propiziare riconciliazione nel loro paese in guerra. Il loro appoggio e esperienza furono di immenso aiuto ai vescovi del Sudan.
I vescovi Sudanesi visitarono molte altre Conferenze Episcopali in Uganda, Kenya, Nigeria e in Europa, Francia, Germania, Inghilterra e Italia, come pure la Conferenza Episcopale degli Stati Uniti, che più d’una volta venne a Nairobi a coltivare il terreno di riconciliazione con i vescovi del Sudan. Allo stesso modo i vescovi, come voce degli innocenti, hanno fatto il giro delle ambasciate in Africa, Europa e Stati Uniti per convincere i potenti a un propiziato di riconciliazione e pace.
Ringraziamo l’Italia per la sua premura e coraggio nell’essere stata attivamente presente ai Colloqui di Pace di Nairobi nel 2003-2004, conclusi con il “Comprehensive Peace Agreement” del 9 Gennaio 2005 a Nairobi. Voglio far notare a questo punto che fu indubbiamente la preghiera e il sacrificio di tante mamme che persero mariti, figli e intere famiglie che di fatto propiziarono la pace e riconciliazione firmata a Nairobi attraverso l’offerta del corpo, sangue e morte dei loro cari.
Nel 2005 la guerra è finita. Non ci furono più bombardamenti. Ma il piano di pace è inconsistente e fragile. Non solo, ma la gente rimasta al Sud è un popolo aspramente traumatizzato ed esplosivo.
Quali sono gli effetti del trauma? Il trauma di un terremoto è orribile, ma il trauma dopo 22 anni di guerra devasta e permane nel profondo di ogni Sudanese del Sud. Alcuni di loro non hanno conosciuto altro che guerra per la loro intera esistenza. Il trauma deruba la persona di fiducia in sé e negli altri; spegne il desiderio di far piani per il futuro, perché le vittime non hanno speranza che ci possa essere mai più un futuro costruttivo per loro. Il trauma cammina inseparabilmente nella memoria, mente e emozioni più profonde d’un individuo, e tortura la persona con rammarico, odio, violenza, colpevolezza e profonda depressione, a volte fino a portarli al suicidio. Sì, il trauma fa d’una persona un fiammifero pronto ad accendersi pericolosamente al più piccolo accenno da un sguardo maligno, una frase offensiva, un ricordo sgradevole e allora scoppia il conflitto, la vendetta, e spesso, uccisioni violente. Tutti noi che abbiamo subito 22 anni di una guerra terroristica come la guerra del Sudan, conviviamo più o meno con le conseguenze del trauma. È un dato di fatto per cui dobbiamo trovare una terapia o guarigione come la terapia del “healing of healers” o guarigione dei guaritori, che spiegherò più avanti.
Nonostante il trattato di pace del 2005, un profondo conflitto si accese nel 2006 tra Bantù e Luo – cioè tra le tribù Dinka e le tribu Zande, con dozzine di morti da ambo i lati e distruzione di case, bestiame e persino di chiese. Le Chiese intervennero prima a Yambio, nella zona Zande, con un convegno di due settimane tra capi Zande e Dinka, e poi a Rumbek con un altro convegno tra capi Dinka e Zande con la presenza di due vescovi cattolici e tre vescovi anglicani. Fu concluso con il “Covenant” di pace e riconciliazione nel Giugno del 2006 con la presenza delle autorità governative e molti ONG internazionali.
Il cammino di riconciliazione continua e così pure continuano i conflitti. Nel Maggio di quest’anno, 2009, dopo la morte di molti innocenti e molte razzie a Yirol, Akot, Rumbek, Tonj a Abiey, le Chiese si riunirono a propiziare la riconciliazione nelle loro comunità. Dopo 4 settimane di preghiera, le Chiese convocarono i capi locali e prepararono in dettaglio un “covenant” di riconciliazione supplicando il disarmo, il coraggio di perdonare e di rispettare la vita di ogni individuo, o aspettarsi l’autodistruzione della società attraverso interminabili conflitti. Il “Covenant” fu firmato e approvato da un grande concorso di popolo il 12 Giugno 2009 nel “Freedom Square” di Rumbek. Un altro passo nel cammino della riconciliazione.
Quale è stata la strategia di riconciliazione che la Chiesa ha sviluppato in questo contesto di guerra, conflitti, e trauma? 1) Innanzitutto ha portato avanti un insegnamento assiduo e diretto. Ho qui un volume di lettere, scritte dall’episcopato sudanese negli ultimi 12 anni di guerra, che dimostra la vigilanza preoccupata e la guida chiara al popolo, come pure la denuncia aperta ai governanti, per ispirare coraggio e convinzione che solo nella verità, costruita sul perdono, sulla giustizia e sulla capacità di sofferenza, si può ottenere vera libertà e giusta pace per il Sudan. 2) Si è impegnata con una presenza costante. La presenza della Chiesa in mezzo alla gente sofferente e agonizzante ha portato speranza e volontà di disarmarsi dell’odio e vendetta, e cercare convivenza e riconciliazione nonostante lo stato di smarrimento e insicurezza. 3) La strategia più completa che la Chiesa ha sviluppato è stata l’introduzione di un programma di terapia della condizione del trauma chiamata “Healing of Healers”, o ‘guarigione dei guaritori” o “sanamento dei sanatori” o “recupero degli animatori”. Cioè una terapia basata su metodi scientifici di solido recupero mentale e psicologico, e su principi cristiani che guidano ad uscire dal cerchio di depressione, odio, vendetta, a camminare verso una visuale di fiducia in Dio, nel prossimo e in se stessi e a ricostruire il centro della propria vita.
Questo processo di terapia del trauma, fu anzitutto adottato dai Vescovi stessi in diversi seminari per il loro recupero e orientamento fisico-spirituale-psicilogico iniziato durante gli ultimi anni della guerra. Poi la terapia fu estesa ai sacerdoti, missionari e suore e infine a catechisti, maestri e impiegati nel lavoro civile. Come risultato, in tutte le diocesi del Sudan si è formata, con l’aiuto di una università del Kenya, una catena di “counsellors” certificati che lavorano assiduamente nelle loro diocesi per alleviare la situazione del trauma che ha avvilito un’intera generazione con 22 anni di guerra. Guarire e sanare fu l’opera di Cristo ed è quella della Chiesa. Con il recupero dal trauma la persona e le comunità possono disporsi con serenità e motivazione al lavoro di riconciliazione e ricostruzione. 4) La Chiesa sviluppa un’intera spiritualità della riconciliazione, perché la Chiesa riconosce che la riconciliazione deve accoppiare lo sforzo umano con l’intervento sanatorio di Dio. Quindi coltiva pazientemente la preghiera, la riflessione sulla Parola di Dio, riti commemorativi e di rinnovamento, e anche lo sviluppo dell’ascolto e del prendere tempo per rimarginare le piaghe delle persone distrutte dalla violenza della guerra.
Qual’ è la situazione del Sudan oggi? Tutti conosciamo la piaga del Darfur e tutti sappiamo che il Capo di Stato dovrà esser messo sotto processo per tanti crimini contro l’umanità. Ma ci sono molte altre zone di tensione e conflitto come il Sud Kordofan e l’Engessena. Negli Stati di Bentiu, Warrap, Lakes State e nelle zone di confine prevalgono criminalità, razzie di proprietà, bestiame e uccisione di innocenti. Il governo sta già lavorando a diversi stadi; la Chiesa è già stata chiamata e il cammino sistematico di riconciliazione è partito nel mese di Luglio.
Devo dire a questo punto che il Sudan ha bisogno di un intervento della comunità internazionale, come è avvenuto durante i Colloqui di pace a Nairobi dal 2003 al 2005, per far fronte a tutte le sue piaghe. Ne parleremo alla tavola rotonda in seguito. Al momento, il piano messo in moto dal governo, affiancato dalla Chiesa, per arginare i conflitti è come segue: 1) Riprendere proprietà e bestiame derubato e ottenere la restituzione dovuta ai proprietari. 2) Apprendere i più palesi criminali nelle zone nominate e portarli a giudizio davanti ai loro “leader” e comunità, dove, dopo dovuta ammissione di colpa e negoziato, saranno perdonati e riassunti nella società o detenuti fino al loro provato pentimento e restituzione di quanto rubato. 3) A questo scopo, dialogo e formazione dovranno essere dati ai “leader” e ai capi tribù e da loro alla gioventù, donne e capi di famiglia per formare una generazione nuova che presiederà al processo di perdono e giustizia, e poi lavorerà unita per creare una comunità libera da conflitti.
Ci dobbiamo inoltre liberare da tutte le infiltrazioni, tattiche di conflitto e criminalità che, dopo accurata ricerca, risultano essere forestiere al Sudan e alla cultura sudanese. La liberazione da queste infiltrazioni spetta al governo e alla sua premura.
Al mio fianco oggi ho l’onore d’avere presente un Riconciliatore Sudanese di prima linea, Il comandante commissario di Cuiebet, mr. Kongor Deng Kongor.
Mr. Kongor è diventato il più accettato riconciliatore in Etiopia, Kakuma, Kenya e per gli ultimi anni nel suo Sudan. È al mio fianco non per caso ma per dare testimonianza che i governanti del Sudan e i Prelati della Chiesa lavorano strettamente uniti per propiziare la pace per il popolo del Sudan. Lo ringraziamo per aver accettato di esser con noi al Meeting Rimini e a questa presentazione. Più tardi il commissario Kongor Deng Kongor sarà presente alla tavola rotonda sul Sudan.
Nel silenzio, povertà e insicurezza la Chiesa, sempre in cooperazione con lo Stato, ha moltiplicato i centri di educazione durante i 22 anni di guerra e nei 4 anni di pace. Nella diocesi di Rumbek soltanto si educano 50 mila studenti. Ci sono scuole primarie e secondarie, si è fondata un’università cattolica a Juba negli ultimi due anni. La Chiesa di Rumbek ha preparato più di 800 studenti con certificato di grado superiore che ormai sono stati assunti nei dipartimenti del governo e delle agenzie internazionali a Rumbek, Juba, Khartoum e nelle altri capitali. Con la formazione cristiana ricevuta dagli studenti delle scuole cattoliche è già evidente che i valori cristiani dell’onestà, trasparenza e serio impegno prevalgono in un mondo governativo che tende a essere egoista e corrotto. C’è una rinascita e ricostruzione nella società del Sud del Sudan attraverso gli studenti preparati negli ultimi 15 anni da tutte le diocesi. La formazione integra di individui e della società porta alla riconciliazione e alla rinascita.
La Chiesa continua ad aumentare i centri per la salute con ospedali, dispensari e servizio nelle zone rurali. Questo porta impiego, miglioramento e attenzione a grosse epidemie frequenti in Africa, con speciale riguardo all’HIV/AIDS.
La donna sta ricevendo speciale attenzione dalla Chiesa. In ogni diocesi lo sviluppo della donna, la non considerata vittima nella società, ora riceve istruzione, addestramento in arti e mestieri e la capacità di sostenere la famiglia. Con la donna si sta ricostruendo la società. L’educazione della ragazza ha fatto passi notevoli con scuole e collegi a livello primario e secondario, creando preparazione di “leadership” nella donna sudanese. Già diverse giovani formate dalla Chiesa hanno raggiunto posti prestigiosi nel lavoro governativo e sociale ad alti livelli. La donna ci porta a sanare la radice della società e nutrirla con vitalità nuova.
I vescovi, impegnati e consci del bisogno di creare un risveglio, hanno stabilito negli ultimi due anni una radio trasmittente in ogni diocesi nella lingua franca e dialettale del posto. Questo è uno strumento di incalcolabile beneficio per l’informazione, l’educazione scolastica e sanitaria, per l’intrattenimento della gente. Ma nella mente dei vescovi, la radio diocesana ha lo scopo di promuovere, in tutti i modi, giustizia, pace e riconciliazione, per portare alla luce un popolo rinato che senta e difenda la sua dignità e il suo destino
Nelle loro lettere i vescovi del Sudan richiamarono il popolo sudanese a un risveglio, a rimarginare il passato e costruire di nuovo il loro mondo con nuova fiducia. Allo stesso tempo i vescovi si rivolsero anche al mondo dei donatori e benefattori del Sudan per implorare cooperazione nel lavoro di ricostruzione. Questo appello è stato sentito e accolto favorevolmente. Nel caso della diocesi di Rumbek fummo grandemente benedetti.
Prima di tutti, la protezione civile ci aiutò costruendo 4 anni fa un ponte vicino alla missione di Yirol, chiamato “Ponte Italia”. A costruirlo venne la compagnia ICOP di Udine che si innamorò della povertà di conoscenza di arti e mestieri dei lavoratori sudanesi, e decise di costruire quello che è ora “Irineo Dud Vocational Training Centre”. Una scuola d’arti e mestieri in grande stile per falegnameria, muratura, meccanica per i giovani sudanesi e per sviluppare il lavoro sociale, domestico e imprenditoriale della donna sudanese. Un ricreare favoloso nella gioventù finora senza ideali. Un cammino verso la fiducia in sé, negli altri e un futuro che guadagna un vivere onesto.
Poi la protezione civile e, a suo tempo, il Ministero degli Affari Esteri, ottennero e sostennero il CUAMM e vennero a costruire un ospedale a Yirol, che era in deperimento dal 1937. In un baleno il CUAMM ha cominciato a ricostruirlo e a farlo funzionare come ospedale chirurgico. Da allora il CUAMM si sta impegnando per altri tre luoghi nel Sud del Sudan, ma ancor più sta facendo molto per aumentare la stima e il rispetto che ha contribuito ai bisogni di un popolo incapace di ritrovare la forza per ripartire. Un sanare e rinascere di primo grado.
In terzo luogo il Ministero degli Affari Esteri concesse fondi al CISP per una scuola infermieristica, che per ora ha la sua base nella nostra missione dei Mapuordit dall’Aprile di quest’anno. Qui giovani sudanesi ricevono la cultura medica e una formazione cristiana del cuore, come dice Benedetto XVI nell’enciclica “Dio è Carità”, per curare e per far ripartire la loro comunità con amore e professionalità verso i loro fratelli e sorelle ammalati o sofferenti. Un passo gigante in un mondo che era smarrito.
Il cammino continua lento, ma sta raggiungendo l’anima e va alla radice di persone che si erano inaridite e deluse. Lentamente ritornano l’energia, l’istruzione, la motivazione e la voglia di vivere, rimarginare il passato e ricostruire.
Mi avvio alle conclusioni. Nella sua enciclica Benedetto XVI chiama il mondo intero a garantire il vero sviluppo ai nostri fratelli e sorelle, rispettando in loro l’immagine di Dio in cui sono stati creati e ristabilendo in loro la dovuta dignità e il loro innato desiderio di “essere di più”. Questo è il compito base che diventa radice su cui far crescere la riconciliazione. Questo è il cammino lento ma genuino cha la Chiesa col vostro aiuto si è impegnata a fare per la riconciliazione e rinascita dei nostri fratelli e sorelle in Sudan. Nonostante le nostre angosce, crediamo che Dio come sempre veglia sugli innocenti e li proteggerà. Chiudo citando dalla lettera dei Vescovi Sudanesi dell’Agosto del 1999 intitolata “Verso una Pace Giusta in Sudan”, un appello a tutte le persone di buona volontà: “Noi Vescovi Sudanesi abbiamo implorato aiuto e cooperazione da numerosi paesi del mondo, da Conferenze Episcopali, da Donatori internazionali e da intere diocesi. Questo avvicinamento a tutto il mondo esprime la nostra profonda convinzione che la Pace NON verrà in Sudan a meno che tutte la persone di buona volontà metteranno la mano all’aratro con noi per coltivare alacremente il solco in cui faremo crescere assieme la riconciliazione e una giusta pace. La nostra speranza è che tutti coloro che si sentiranno chiamati all’appello a propiziare il dono della riconciliazione in Sudan, si dedicheranno ad aiutarci nella nostra conquista della pace e a ottenere il benessere delle nostre popolazioni sudanesi.
Vi benedica il Dio che è Pace e che ci ha ottenuto il dono della Riconciliazione.

MARIO MOLTENI:
Grazie, cedo immediatamente la parola a Suor Caterina Dolci.

CATERINA DOLCI:
Vi saluto e ringrazio chi mi ha invitato a partecipare a questo momento. Quello che vi racconto io è una cosa molto semplice: io sono in Nigeria da 24 anni, e ho visto accadere, anche dentro realtà difficili, cose semplici però belle che mi hanno fatto vivere questi anni con speranza. Per cui quello che vi racconto sono proprio queste piccole cose. Però, prima di questo, vorrei dirvi due parole su come mai mi sono ritrovata in Nigeria. L’inizio del mio cammino lo faccio sempre coincidere con un incontro avvenuto quando ero ancora studente e mi trovavo a Bergamo, quando facevo difficoltà a capire che senso avesse la mia fede. Non capivo che nesso ci fosse tra la mia vita e la fede, e guardandomi attorno, mi sembrava che quelli che vivevano la propria fede non fossero contento. Quindi mi domandavo se Cristo fosse veramente utile alla vita, e a un certo punto incontrai alcuni amici di Comunione e Liberazione. Fui invitata ad una vacanza in Liguria e lì, scoprendo delle persone piene di vita, contente, io ho scoperto che dentro questi amici c’era la Presenza vera di Gesù Cristo. E dentro di me mi sono detta: “Io non lascerò mai questo”, perché dicevo “adesso finalmente ho scoperto chi è Cristo”. Sempre nelle chiese sentivo dire di seguire Gesù Cristo, ma non riuscivo a capire dov’era. Incontrando queste persone, per me Gesù Cristo è diventato qualcuno di concreto. Poi, dentro questo cammino, ho scoperto anche la mia vocazione: dare la mia vita, dedicarmi al Signore, e incontrando la congregazione delle Suore del Bambin Gesù, di cui adesso faccio parte, mi sono sentita attratta perché questo piccolo gruppo di suore erano molto semplici, molto libere e avevano un grande spirito missionario. Così mi sono detta: “Questo è il luogo dove vorrei vivere la mia vita dedicandomi al Signore”. Poi sono andata a vivere in Calabria e lì ho vissuto alcune belle esperienze, anche con dei ragazzi, dei giovani. Ricordo che una volta, mentre facevamo un incontro con loro, ho letto su quello che era allora “Litterae communionis”, l’esperienza di alcune persone in un Uganda. Questo mi ha colpito tanto perché mi sono detta: “Allora se il Movimento c’è anche in Uganda, anche gli africani hanno il nostro stesso cuore, hanno gli stessi desideri di felicità, eccetera”. Questa cosa mi ha molto colpito.
Poco tempo dopo una congregazione ha aperto una comunità nel nord della Nigeria e cercavano delle persone disponibili a partire. Io ho detto: “Posso andare a vivere là quello che vivo qua”. Quindi mi sono offerta e sono partita. Adesso sono in Nigeria da 24 anni. Mi trovo in un villaggio che si chiama Cona, nello stato del Tarada, uno dei 36 stati della Nigeria. La Nigeria è una nazione molto grande, tre volte l’Italia, 150 milioni di abitanti. Di solito è conosciuta per i suoi tanti problemi: si parla del problema del delta del Niger, il problema dell’integralismo islamico nel nord della Nigeria, c’è il traffico di donne. È conosciuta anche per la corruzione, che c’è un po’ dovunque. Sono problemi reali, concreti e anche molto difficili da risolvere. Però nella Nigeria ci sono anche molte realtà positive, c’è tanta gente che, proprio incontrando l’esperienza di Cristo, vive una vita dignitosa, con una speranza. Io dentro questa realtà mi sono sempre sentita chiamata a contribuire a questa speranza. Per cui vi racconto alcune piccole cose che per me sono significative. Per 10 anni, per esempio, ho visitato il carcere di Ciallingo, la città vicino al villaggio dove abito, e questi carcerati vivono in 100 in uno stanzone, con una temperatura sempre sopra i 40 gradi, senza acqua. È una situazione molto difficile. Io sono andata lì dicendo: “La mia presenza vuole essere un piccolo segno che il Signore non li ha abbandonati”. E insieme ad altre persone in quel carcere sono nate tante cose belle, ho visto tante persone ritrovare e venir fuori dallo scoraggiamento a causa dell’incontro con noi e alcuni amici che andavano a trovarli. Una volta mi ricordo che il Vescovo della nostra diocesi aveva fatto un appello a tutta la diocesi per costruire la cattedrale. Avevo deciso di dirlo ai carcerati, giusto per informarli, perché il Vescovo doveva venire qualche settimana più tardi a celebrare la Messa. Quando il Vescovo è arrivato, dopo aver detto la Messa, i carcerati gli hanno presentato una busta con i soldi che corrispondevano circa a una decina di mattoni per la costruzione della Cattedrale. Il Vescovo era molto commosso, anche io ero molto colpita, però ho detto: “Come hanno fatto questi a trovare i soldi? Loro non hanno soldi”. Allora dopo ho chiesto: “Come avete fatto?”, e loro mi hanno risposto: “Eh sister, no problem”. “Come?”. “In questi giorni abbiamo tolto dalla minestra che ci davano quei pezzettini di carne, e li abbiamo venduti alle guardie carcerarie”. E così hanno raccolto dei soldi per comprare i mattoni. Loro avevano fatto questo perché si erano sentiti voluti bene sia dal Vescovo, che da quelli che andavano a trovarli, e dentro questa accoglienza si sono sentiti protagonisti anche della costruzione della cattedrale.
Io però vivo in un villaggio che si chiama Cona, un tipico villaggio africano con le capanne, tetti di paglia, mura fatte di fango, niente corrente elettrica, strade non asfaltate e così poca acqua che verso la fine della stagione tutti i pozzi sono prosciugati. Quindi si lotta un po’ per la sopravvivenza. Quando ho deciso di andare là, vent’anni fa, l’ho fatto perché mi sono sentita accolta da alcune persone del villaggio proprio come se fossi stata un’amica, e mi sono detta: “È un segno, voglio continuare a stare con questa gente”. Però circolavano molti pregiudizi sul villaggio. Dicevano: “Sister, non andare lì perché hanno la testa dura, non ti seguiranno. Questi non capiscono niente”. Però la mia esperienza era diversa, e allora ho pensato: “Io mi fido di quello che ho visto”. E ho cominciato ad andare. Il cristianesimo c’era da quarant’anni, quindi le tradizioni locali erano ancora molto vive: c’era la poligamia e tante altre cose che ho scoperto un po’ alla volta. La gente viveva anche con molte paure. Io ho cominciato a fare degli incontri con le donne per insegnare un po’ a leggere e a scrivere, e ad alcuni uomini, quelli che capivano l’inglese, ho proposto di fare la Scuola di Comunità. Facevamo questo lavoro di approfondimento della fede: abbiamo cominciato a trovarci sotto un albero, io donna con questi uomini, in un villaggio dove le donne non sono valorizzate, non sono ascoltate. Però gli uomini erano contenti e l’amicizia con loro cresceva. Nel villaggio c’era la chiesa ma non c’era neanche un prete, e a un certo punto mi sono detta: “Ma in un posto così bisognerebbe aiutare il cammino di fede mettendo anche dei segni concreti di una presenza”. Ho messo da qualche parte, su una collina, una Madonnina e ho deciso di fare un pellegrinaggio per iniziare una tradizione nuova, per sperimentare l’appartenenza a un qualcosa di grande. Ho fatto la proposta a quegli uomini e mi hanno risposto: “Ma non abbiamo mai fatto una cosa così, però sembra una cosa buona, noi ci stiamo”. Allora abbiamo cominciato, e prima di tutto abbiamo trovato un posto carino. Poi però c’era da trovare la Madonna, e noi non ci riuscivamo da nessuna parte, perché in tutta la Nigeria non c’era una statua della Madonna. Alla fine qualcuno dice di avere visto una Madonnina nella casa di un prete inattivo del villaggio: lui si trovava lontano 200 chilometri, noi lo abbiamo contattato e gli abbiamo chiesto di darci la Madonna. Lui ce l’ha data ed è venuto anche per il pellegrinaggio il 15 Agosto. Questo è successo 20 anni fa. Adesso ogni anno il 15 Agosto facciamo una processione partendo da un estremo del villaggio fino all’altro. E partecipa anche tanta gente. La gente sente il pellegrinaggio come qualcosa di proprio, per cui è stata un’esperienza molto significativa.
Poi ho anche cambiato posto, sono andata a vivere da un’altra parte dove non c’era il telefono, e dovevo fare 170 km per una telefonata. Per cui ci sono stati dei momenti in cui mi sono sentita sola e mi domandavo: “Ma io che ci sto a fare qui? Non è meglio che me ne vada?”. E trovavo sempre la risposta a questa domanda, perché queste persone, che rispondevano così alle proposte che ricevevano, per me erano un segno che rinnovava continuamente la mia speranza. Io non ero andata lì per fare chissà che cosa, ma proprio come risposta alla chiamata di un altro. E allora chiedevo: “Devo tornare o devo restare?”, e quando incontravo queste persone io capivo che valeva la pena restare, per cui la risposta la trovavo proprio in loro, che in modo semplice aderivano alle proposte. Poi cercavo sempre di mantenere vivo il mio rapporto con quelli che mi avevano dato speranza in Italia, però questi rapporti erano difficili, per cui a volte avevo soltanto qualche libro che mi aiutava. Quando mi arrivava Tracce per me era come una festa, perché mi ributtava dentro un’esperienza più grande. Io continuavo ad avere il desiderio di comunicare quella esperienza che aveva cominciato a cambiare la mia vita, per cui ogni volta riproponevo, dovunque andavo, incontri con i giovani o con gli adulti. Poi dopo un po’ di tempo sono andata ad abitare proprio nel villaggio dove vivo ora, e ho rifatto la proposta, Scuola di Comunità, eccetera, a un gruppo di giovani. Alcuni di loro, soprattutto ragazzi, avevano finito le scuole superiori, altre frequentavano il college nella città vicina, e ci trovavamo a cantare e cercare di capire chi fosse Gesù Cristo, cosa volesse dire per la nostra vita la fede. Anche lì è nata un’esperienza molto bella.
Nel frattempo, a Lagos, 1200 km da Giallingo, da Cona, erano arrivate delle amiche dall’Italia, delle Memores Domini, e questo è stato un altro grande segno di speranza. Con loro è nata un’amicizia: io andavo a trovarle quando riuscivo – due volte all’anno -, e qualcuna di loro ogni tanto veniva da me, cominciavamo a sentirci per telefono e per me è stato un grande punto di riferimento. Avevo il desiderio che anche i ragazzi incontrassero loro e l’esperienza del Movimento che stava crescendo a Lagos. Quindi ci sono stati degli scambi: alcuni Memores sono venuti da me facendo due giorni di macchina con alcuni ragazzi di Lagos. I miei ragazzi si sono commossi nel vedere che alcune persone avevano fatto più di 1200 km per venire a trovarli, quindi si sono sentiti dentro un’appartenenza più grande, dentro un’amicizia più grande e lì hanno cominciato anche a capire che c’era un legame molto più forte di quello dell’appartenenza al proprio gruppo etnico. Questa è stata una novità, tra i ragazzi del Sud della Nigeria e quelli del Nord è nata un’amicizia, e questo li ha fatti sentire molto vivi.
L’esperienza è andata avanti ancora un po’ di tempo e due di questi ragazzi una volta mi hanno detto: “Sister, adesso noi abbiamo sperimentato qualcosa di bello, noi vogliamo comunicare questa cosa ai bambini del nostro villaggio. Perché non fai una scuola materna?”. Mi hanno colto molto di sorpresa, perché io facevo altre cose e non ci avevo mai pensato, non mi ero mai messa dentro l’organizzazione di una scuola materna. Comunque ho consultato anche altre persone ma mi ha colpito che siano stati loro a chiedermelo, e allora ho detto: “Cominciamo questa sfida”. Abbiamo iniziato usando dei locali della parrocchia, li abbiamo rimessi a posto e poi abbiamo aperto le iscrizioni. Pensavamo di iniziare con una classe con qualche bambino e invece ne sono arrivati subito 77. Poi abbiamo chiesto una mano alle Memores, e ad AVSI di aiutarci con il sostegno a distanza perché le famiglie sono molto povere, hanno a malapena di che vivere, e non hanno la possibilità di pagare la retta scolastica. Ora la scuola ha 5 anni, ci sono 192 bambini ed è una cosa molto importante perché nel villaggio non c’è nessun’altra scuola materna: è un villaggio di circa 4.000 persone, nessuno era mai andato alla scuola materna. Adesso questi bambini la mattina vanno a suola con la loro divisa, orgogliosi, tutti in ordine, e la scuola è un luogo molto bello anche perché è stata costruita con l’aiuto di amici dell’Italia. In più i bambini sono abituati a vivere nelle capanne dove non hanno una sedia, dove c’è la sabbia per terra. A scuola invece hanno delle seggioline colorate, hanno i tavolini, i vetri alle finestre e i bambini sono contenti, si sentono voluti bene. Così, attraverso la scuola, abbiamo anche modo di incontrare i genitori, e facciamo spesso molti incontri con le mamme e i papà, ed è un grosso aiuto. I genitori si sentono liberi di chiedere tante cose, per cui l’esperienza sta proprio crescendo e nel villaggio si sta facendo un cammino: nella gente è anche cresciuto il desiderio di educare. Colgo anche l’occasione di ringraziare tutti quelli che dall’Italia ci aiutano con il sostegno a distanza, perché senza questo aiuto la scuola probabilmente dovrebbe chiudere. Invece ci permettete di andare avanti, di aiutare tante persone che altrimenti sarebbero destinate a rimanere come sono.
Il punto su cui ho lavorato quest’anno è cercare di rendere i genitori un po’ più responsabili verso l’educazione: nel villaggio c’è una scuola elementare che era stata fondata dai primi missionari irlandesi, quando sono venuti, poi è stata presa in mano dal governo e adesso la scuola non funziona più bene. Però io ho detto ai genitori: “I figli sono i vostri. Perché non proviamo insieme a fare qualcosa per la scuola?”. La risposta non è stata molto positiva. Per un anno abbiamo cercato di toccare questo punto ma non ci siamo riusciti. I ragazzi hanno scoperto che la scuola elementare c’era da 60 anni, e quindi, con alcuni amici insegnanti, abbiamo pensato di sfruttare l’occasione per creare l’associazione degli ex alunni di questa scuola, e adesso ci stiamo lavorando. Abbiamo coinvolto gli insegnanti, la direttrice, abbiamo fatto il primo incontro, a cui hanno partecipato 200 persone. Quello che vogliamo è che queste persone diventino capaci di muoversi, perché la situazione della scuola elementare migliori, per cui possano anche interloquire con il governo locale perché faccia qualcosa per la scuola. È un passettino in avanti. Intanto noi facciamo anche un doposcuola per i bambini che hanno terminato la scuola materna, e così è nata una collaborazione con gli insegnanti e con la direttrice. Insomma, con la scuola sta crescendo il villaggio, siamo cresciuti noi e anche i ragazzi che fanno gli insegnanti nella scuola stanno facendo un cammino.
Vi racconto un ultima cosa, anche questa molto bella. Due anni fa, per la prima volta, è venuta a trovarci dal Camerun un nostro amico, incaricato di vedere le realtà del Movimento in Nigeria. Ha fatto due giorni di macchina, ha attraversato fiumi, montagne, sabbia eccetera, è arrivato da noi e anche questo ha lasciato il segno. È stata una cosa bellissima perché i ragazzi erano sorpresi di vedere che un missionario aveva fatto tutto questo tragitto proprio per incontrare loro. Lui ci ha parlato della fede in un modo talmente chiaro, talmente semplice che i ragazzi sono rimasti davvero stupiti, e c’era uno che ha cominciato a dirmi: “Ma sister, chi è questo qui?”. “È padre Giuseppe”. “Ma chi è?”, continuava. Allora gli ho detto: “Vai a chiederglielo chi è”. Però, dentro questa domanda, era evidente che questo ragazzo aveva colto che non c’era solo una persona brava, ma c’era qualche cosa di più, c’era una presenza. Gli ho detto: “Mi sembra proprio di sentire gli apostoli che chiedevano ‘ma chi è Gesù, ma chi è, ma chi è questa persona?”. Allora ho capito che davvero la vita cambia dovunque si rinnovi l’esperienza dell’incontro con Cristo fatto carne.
Quest’anno sono stata in Italia per alcuni mesi, per motivi di salute. Con padre Giuseppe e una Memores, Rita da Lago, si era deciso di andare di nuovo nel nord della Nigeria, ma io non c’ero, avrei voluto, ma per la visita che dovevo fare non era oggettivamente possibile. Loro hanno deciso: “Andiamo noi, andiamo a Gianigo e poi vedremo che cosa troveremo”. “Andate”, gli ho risposto. Ho contattato i ragazzi dall’Italia, loro si sono mossi e quando sono arrivati i due amici da Lagos hanno trovato 34 ragazzi ad aspettarli che avevano preparato tutto. E loro gli hanno chiesto tutti contenti: “Come mai avete fatto tutto questo anche senza suor Caterina?”. “Abbiamo capito che non c’era lei, e che se non ci muovevamo noi nessuno poteva farlo al nostro posto”. Che salto di qualità hanno fatto: per me è stata una grande gioia. Quindi adesso ritornerò giù con la certezza, che diventa sempre più grande, che vale la pena rimanere lì, dentro tutte le difficoltà che ci sono, dentro tutti i problemi, proprio perché ci sono queste persone semplici, disponibili ad accogliere quel mistero che è Cristo fatto carne e che ancora continua a muovere i cuori di tutti. Grazie.

MARIO MOLTENI:
Si tratta di esperienze eccezionali, ma non sono lontane, non le sentiamo lontane perché sono frutti dello stesso albero cui siamo grati di appartenere anche noi. Quindi speriamo che questo incontro sia stato per ciascuno un’occasione di aprire l’animo, di aprire gli occhi verso una realtà lontana, e speriamo che per qualcuno di noi questo incontro sia l’inizio di un rapporto con loro, con l’Africa, perché il titolo dell’incontro è “La nostra Africa”. Vi ricordo che c’è la possibilità di incontrare i nostri ospiti e rivolgere loro delle domande davanti all’ingresso di questa sala, in sala Mimosa. Quindi, almeno per alcuni, l’incontro prosegue qui davanti. Grazie ancora e a presto.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

26 Agosto 2009

Ora

11:15

Edizione

2009

Luogo

Salone B7
Categoria
Incontri