La libertà in Dostoevskij

Ha partecipato Fabio Baroncini, Sacerdote e Teologo.


1. Introduzione – Come nasce in D. il problema della libertà?(1)

Per rispondere dobbiamo, brevemente, esplicitare la concezione antropologica con la quale il nostro Autore si imbatte. Essa è determinata dalla convergenza delle tre grandi correnti di pensiero che hanno dominato il secolo scorso.

Innanzitutto quella illuministica: l’uomo è definito dalla sua natura sostanzialmente positiva; se è sostenuto da una corretta applicazione della ragione alla realtà, egli può giungere all’armonia universale. L’uomo è buono purché si affidi alla forza della sua ragione: il vecchio dogma del peccato originale è ormai eliminato, non entra più a definire l’antropologia.

La concezione romantica, pur assistendo al fallimento dell’Illuminismo, ne condivide l’ottimismo collocandolo però nel sentimento umano. Il luogo in cui l’uomo coglie la pienezza della sua esistenza come incontro tra finito e infinito è il sentimento; basterà una buona “educazione sentimentale” per generare delle “anime belle alla Schiller”.

L’ultimo passaggio antropologico è quello del naturalismo deterministico: l’uomo è definito solo dalle sue condizioni materiali (le “fibrille del cervello” di Rakitin – FK 817): egli è un grumo di materia che attraverso l’evoluzione potrà raggiungere la sua liberazione.

Queste concezioni, per D., erigono contro l’uomo “un muro di pietra” che lo imprigiona, contro il quale egli cozza senza poterlo sfondare. Ed è a partire da questa percezione che D. inizia ad elevare la sua protesta.

“Ma quale muro di pietra? Ma naturalmente le leggi di natura, le deduzioni delle scienze naturali, la matematica. Quando ti dimostrano, per esempio, che tu discendi dalla scimmia, beh, c’è poco da accigliarsi, devi accettare il fatto com’è. Se ti dimostrano che una sola goccia del tuo grasso dev’esserti più cara di centomila tuoi simili, e che in questa conclusione si risolvono alla fine tutte le cosiddette virtù, i doveri e tutte le altre chimere e pregiudizi, ebbene bisogna che accetti il risultato della dimostrazione, giacché non c’è niente da fare, due più due fa quattro, questa è matematica. Provatevi un po’ a replicare” (MdS 212-213).

D. si scaglia contro questa concezione perché la sua percezione esistenziale, il sentimento che ha di sé, la sensazione geniale della propria autocoscienza, del proprio valore, lo porta a dire che “l’animo umano è immenso, fin troppo immenso”; non si può ricondurlo a semplici definizioni soprattutto consegnando queste definizioni alla pura forza razionale, perché ci sono “troppi enigmi che opprimono l’uomo sulla terra” (FK 175). Forse che tutto questo, questa complessità dell’esistenza di ogni uomo si può ricondurre dentro una misura razionalisticamente intesa? No! L’uomo non può essere ridotto ad un tasto di pianoforte o ad un pedale d’organo né la convivenza umana ad un formicaio brulicante o ad una caserma-carnaio.

Aristotele ci aveva insegnato che l’uomo è un animale razionale. In Memorie del sottosuolo D. dice che l’uomo potrebbe essere definito invece come “un animale bipede e ingrato”. Si può ridurre ad una pura misura razionalistica l’esistenza umana? No! L’uomo è più grande.

Per trovare questa grandezza che l’intelligenza euclidea (per la quale tutto si riduce a tre dimensioni: lunghezza, larghezza e altezza) ha perso, D. introduce un’altra dimensione: la profondità. È nel profondo che bisogna andare a cercare la vera e autentica consistenza, il vero e pieno significato dell’uomo. E la profondità è enigmatica, complessa, magmatica, ribollente, dionisiaca. L’animo umano, il fondo dell’esistenza umana è di una complessità articolata impressionante; allora D. scende nel sottosuolo dell’esistenza per fare emergere la vera dinamica, la vera consistenza dell’essere umano. E nella sua profondità la natura umana è forse razionale? No! Al fondo di ognuno di noi è radicata l’esigenza della libertà, sconfinata, senza limiti, fino all’arbitrio, fino al capriccio.

È dal profondo della struttura umana che si incontra la questione della libertà, e per D. questa responsabilità è respiro senza possibilità di limiti, senza possibilità di obiezioni ed ostacoli; questa è l’esigenza, questo è l’interesse reale della nostra esistenza. D. allora svela la incommensurabilità della natura umana, contro ogni razionalismo progressista, contro ogni dottrina che pretenda, attraverso il benessere universale, di risolvere il problema dell’esistenza.

“Ecco, per esempio, non mi meraviglierei affatto se all’improvviso nel modo più inaspettato, in mezzo a questa generale ragionevolezza, facesse la sua comparsa un certo signore dalla fisionomia volgare, o addirittura retrograda, e canzonatrice, si mettesse le mani ai fianchi e dicesse a tutti quanti: – Che ne dite, signori miei, se dessimo un calcio a tutta questa razionalità per mandare al diavolo tutti questi logaritmi e tornare a vivere secondo le nostre stupide fantasie?” (MdS 226).

Dove si colloca il problema della libertà, dell’esistenza umana per D.? Nel fondo della struttura di ognuno di noi, struttura ineliminabile da qualunque cultura, che addirittura trova nella possibilità della stupidità la sua formula di espressione; non si può impedire questo, perché l’uomo è anche questo. “E questo sarebbe ancora nulla, il peggio è che quel signore troverebbe sicuramente dei seguaci: così è fatto l’uomo. E tutto ciò deriva dalla più futile delle cause, così futile che sembra non meriti nemmeno la pena di parlarne, e cioè dal fatto che l’uomo sempre e dovunque e chiunque sia, ha sempre voluto agire come gli è parso e piaciuto, e niente affatto come gli comandavano la ragione e l’interesse; infatti la volontà può andare anche contro l’interesse, e talvolta anzi ciò è assolutamente necessario (queste sono idee mie). La propria volontà assolutamente libera e autonoma, il proprio capriccio, talvolta sfrenato, la propria fantasia, talvolta eccitata dalla follia, ebbene tutto ciò è soltanto quell’interesse più prezioso di tutti gli interessi, così trascurato, che non rientra in nessuna classificazione, ma per colpa del quale tutti i sistemi e tutte le teorie se ne vanno regolarmente all’inferno” (MdS 224). Tutti i sistemi, tutte le teorie, tutte le culture, inteso cultura come razionalizzazione sistematica con pretesa di spiegazione di tutto l’esistente, tutto va all’inferno per il semplice motivo che esiste la libertà. “L’uomo è fatto in modo comico”, per salvare la sua libertà arriverebbe a dire che “due più due fanno cinque”.

Ho concluso la premessa: D. si interessa alla libertà perché la libertà è il luogo in cui l’uomo è uomo: essa “sta più a cuore di qualsiasi altro interesse” (MdS 220); è “il miracolo”.

2. Figure della libertà – Ci sorge ora la domanda: che cosa è la libertà per D.?

Per rispondere a questa domanda, due avvertenze. La prima: D. non è un filosofo, quindi non possiamo andare a cercare la risposta secondo uno svolgimento logico, articolato come farebbe un filosofo, alla Hegel o alla Kant. D. è un artista e come tale le sue proposte, le sue idee sono sempre portate dalla genialità creatrice con cui presenta i personaggi, con cui gli fa vivere certe situazioni, certi avvenimenti, certe circostanze: da lì noi dovremo trarre la risposta alla nostra domanda. Occorrerà prestare attenzione al metodo letterario da lui usato: il simbolismo realista, o meglio il simbolismo iconografico. Personaggi, stati d’animo, situazioni della natura sono sempre funzionali alla comunicazione di una verità.

La seconda avvertenza già segnalata da A. Dell’Asta nell’introduzione al suo libro Il dramma della libertàSaggi su D.: tutti i critici sono tentati di formulare la propria concezione in modo dialettico a quella di D. e, perciò, non sempre ne rispettano il pensiero. Dovremo, allora, lasciar parlare innanzitutto il testo. Per identificare che cosa è la libertà partiamo dagli elementi più esterni, quelli più facilmente coglibili dalle sue opere.

a) La libertà come gioco – Per D., nell’esistenza umana la libertà si traduce innanzitutto come gioco. Nel cuore dell’uomo vibra una tensione, per cui se vuole essere libero, deve lanciare una sfida. “A un tratto ho provato dentro di me una strana sensazione, la voglia di sfidare la sorte, di darle uno schiaffo, o di mostrarle la lingua” (G. 30). L’anelito alla libertà nel cuore dell’uomo porta fino a desiderare lo sberleffo al destino. L’uomo non può rassegnarsi all’esistenza come regola. Così, “In un attimo mi sono reso conto con terrore cosa significava per me perdere”: “insieme a quell’oro io puntavo la mia vita” (G. 156).

La libertà umana così come la concepisce D., porta innanzi tutto a questa provocazione. Per essere libero l’uomo deve giocare la sua vita, la sua esistenza non più vissuta come responsabilità, ma come puro rischio, irrazionale: la libertà dentro all’esistenza umana porta fino a questo livello. “Al di là di ogni vana gloria, mi sono sentito a un tratto totalmente dominato da una folle sete di rischio” (G. 160). Se così non fosse l’uomo dovrebbe cedere ad altro da sé il potere: “Desidero soltanto chiarire l’infondatezza della supposizione per me offensiva, che io mi trovi sotto la tutela di qualcuno che potrebbe esercitare un potere su di me, limitando la mia libertà” (G. 56). Il cuore umano vuole una libertà illimitata, non accetta perciò che altri decida della sua esistenza, e porta questa inclinazione fino alle sue radicali conseguenze, spende, rischia, gioca la vita fino in fondo, anche in maniera totalmente irrazionale.

b) La libertà come indipendenza – La seconda figura della libertà è rappresentata da Arcadio ne L’adolescente, uno dei romanzi maggiori, stranamente così poco letto, forse il romanzo più riuscito dal punto di vista artistico. L’adolescente persegue “la sua grande idea” dalla quale dovrebbe scaturire “la vita vivente”. Il suo ideale consiste nell’essere un Rotschild; egli persegue accanitamente la possibilità di aver soldi per affermare la sua autonomia e la sua superiorità di fronte agli altri. “La mia idea consiste in questo: mi si lasci in pace. Finché avrò due rubli in tasca non dipenderò da nessuno, e non voglio fare nulla, nemmeno per quella eletta umanità futura per la quale dovrebbe lavorare Kraft. La libertà personale, cioè la mia propria libertà anzitutto. Il resto non mi interessa” (A. 90)(2). “Può darsi che abbia voglia di servire l’umanità e lo farò forse meglio di tutti quelli che predicano, ma non voglio che sia nessuno a costringermi, devo godere di piena libertà, anche se non ho voglia di alzare un dito” (A. 91). La libertà così concepita si costruisce il “proprio guscio di tartaruga” e si ritira nel suo “cantuccio”, nel suo angolino, a considerare l’esistenza altrui. “Io non ho bisogno del denaro (è un passo ulteriore, la radicalizzazione della sua posizione), o meglio, i denari non mi servono e neanche il potere. Ho bisogno soltanto di ciò che si può acquistare, e unicamente, per mezzo del potere, e cioè la coscienza solitaria e sicura della mia forza. Ecco la definizione più completa della libertà che il mondo cerca con tanta ansia. Libertà, ho scritto finalmente questa grandiosa parola” (A. 144). L’adolescente definisce dunque così la libertà: coscienza solitaria e sicura della propria forza. Non avere più bisogno di “gettare le braccia al collo” di qualcuno per ottenere l’approvazione, il consenso.

c) La libertà come trasgressione – Per essere liberi si deve obbedire a delle leggi morali, ci sono canoni collocati nella struttura, nel cuore, nell’animo dell’uomo a cui l’uomo è tenuto a dare assenso? Raskol’nikov, in Delitto e castigo, è dominato da questi problemi: “Io credo alla mia idea fondamentale che consiste in ciò: gli uomini, per legge di natura, si dividono in generale in due categorie, quella inferiore, gli uomini comuni, per così dire il materiale che serve unicamente per la procreazione di altri esseri simili a sé, e gli uomini veri e propri, aventi il dono e la capacità di dire nel loro ambiente una parola nuova (…). I primi sono gli uomini che vivono nell’obbedienza, e amano obbedire, quelli della seconda categoria trasgrediscono tutti la legge” (DeC 288).

Si tratta di sapere se Raskol’nikov possa essere Napoleone o un pidocchio. Per scavalcare il limite imposto alla struttura umana da una legge morale che appare come costringente, soffocante la libertà Raskol’nikov uccide la vecchia usuraia e, quale svista del progetto, anche la sorella Luzaveta. Ma che cosa è accaduto? Per provare che la sua libertà è più grande della legge morale, Raskol’nikov ha ucciso la vecchia. Ma “non è stata la vecchia, la vecchia non è stata che una malattia, io volevo scavalcare al più presto l’ostacolo”. L’ostacolo che impedisce la libertà umana per Raskol’nikov è l’esistenza di una legge morale. “Io non ho ucciso una persona, io ho ucciso un principio. Il principio l’ho ucciso, ma quanto a scavalcare non ho scavalcato niente, sono rimasto da questa parte, ho saputo soltanto uccidere e anche quello non ho saputo fare, si vede bene”. E più avanti dirà, anzi, che non ha ucciso la vecchia, ha ucciso soltanto se stesso, nel tentativo di andare al di là del bene e del male, anticipando in questo tutta la logica di Nietzsche. Nel tentativo di andare al di là del bene e del male, Raskol’nikov, con tutta la sua volontà di potenza, diventa un nietzschiano mancato. Si trova ad essere esteticamente un pidocchio, e nulla più. Il rimorso lo getta nell’allucinazione e lo fa diventare come “un ragno che si rintana nel fondo della sua tana a tessere la sua tela, per gettarla sugli altri, per succhiare dagli altri la loro linfa vitale, trascorrendo l’esistenza a pensare”. La libertà realizzata in questo modo riduce a essere dei puri parassiti della vita.

d) La libertà come repulsione – In D., la libertà si realizza come repulsione o, per usare Sartre, come nausea, come possibilità di schifo, proclamato dall’esistenza. È la stranissima figura di Ippolito nel romanzo, l’Idiota. Ippolito è un giovane tisico, ormai agli ultimi giorni della sua esistenza. Egli ammette tutto, compreso la malattia, Dio, la vita eterna ma si rifiuta di accettarlo. “Ammetto la vita eterna. Forse l’ho sempre ammesso, che la coscienza sia accesa in noi per volontà di una forza superiore, che essa abbia dato uno sguardo all’universo e abbia detto: Io sono. Che poi ad un tratto le sia stato prescritto da quella forza superiore di annientarsi, perché così occorre lassù per qualche motivo, cioè che l’uomo debba morire, anche senza che mi si spieghi per quale motivo, sia pure, io tutto questo lo ammetto. Ma ecco di nuovo l’eterna domanda: Perché, oltre tutto questo, occorre la mia rassegnazione? Non si può semplicemente divorarmi, senza pretendere che canti anche le lodi di chi mi ha divorato?” (Id 493).

La libertà diventa allora in questo personaggio straordinaria affermazione. La libertà è luogo della riserva del proprio assenso. C’è la vita, va bene; che io la debba subire, va bene, ma io sempre avrò nei confronti di ciò che esiste un sospetto, una resistenza, una nausea. Io voglio mantenere la riserva della mia accettazione, voglio mantenere la resistenza nei confronti della mia obbedienza a ciò che esiste. In questo intendo difendere la mia libertà. “Non posso rimanere in vita, se questa assume forme così strane che mi offendono. A questa mia risoluzione definitiva non contribuì né la logica, né un convincimento logico, ma la repulsione” (Id 489).

e) La libertà come ribellione o rivolta – È la grandissima figura, insuperabile per molti aspetti, di Ivan Karamazov. Come può essere libero l’uomo se esiste il male? Come si può accettare il male, soprattutto se colpisce gli innocenti? Dice Ivan al fratello Alësa, nel capitolo intitolato La ribellione o La rivolta: “Figurati, che, tirando le somme, questo mondo creato da Dio, io non lo accetto”. Ippolit accettava il mondo, senza dare il suo assenso, difendendo così la sua libertà. Ivan è ancora più radicale: “Non accetto il mondo fatto così, pur sapendo benissimo che esiste, anzi non lo ammetto proprio! Non è che io non accetti Dio, capiscimi bene, ma è questo mondo creato da lui che io non accetto e che non posso rassegnarmi ad accettare” (FK 343). Con la sua intelligenza euclidea, Ivan Karamazov non può accettare il male. Forse che il male può servire a costruire un bene futuro? No, non si può accettare la sofferenza di un bambino, fosse anche per un bene 100.000 volte più grande che verrà in futuro. “Non ho mica sofferto con i miei errori e le mie sofferenze per concimare un’armonia futura in favore di chissà chi? Voglio esserci anch’io quando il daino ruzzerà accanto al leone e il bambino metterà nel covo dell’aspide la sua mano, e il lupo e il leone e il vitello pascoleranno insieme. Voglio esserci anch’io perché se tutto accadesse senza di me sarebbe troppo umiliante” (FK 354-355).

Il mito del progresso, che il male possa servire a un bene futuro più grande, è scalzato totalmente, Ivan non accetta questo; e allora, non avendo chiesto di venire al mondo, restituisce il biglietto d’ingresso. Questa ribellione comunque porta Ivan alle sue conseguenze inesorabili. Difatti egli vede nel padre, in Fëdor, la raffigurazione di questa abiezione che non ha diritto e dignità di esistenza. E allora Ivan, l’uomo che vuole la giustizia, ispira a Smerdiakov, il fratellastro pressoché demente, o meglio larva umana, l’uccisione del padre. La colpa del delitto ricade su Dimitrij, l’altro fratello. Durante il processo a Dimitrij, Ivan Karamazov si alza e dice la frase che decide di tutta la nostra cultura contemporanea, quella che Freud farà sua. “Non è forse fatto così il cuore umano? Chi è che non desidera la morte del proprio padre?” (FK 949).

Questa frase si colloca al centro della cultura contemporanea, perché una volta che noi non accettiamo più il creato, l’esistente, per rivendicare un’autonoma libertà, siamo costretti a negare chi ha fatto tutto, cioè ad uccidere il padre, per trattenere la nostra libertà. La morte di Dio proclama che finalmente tutto è permesso all’uomo, così l’uomo potrà con tutte le sue forze lottare contro il male senza più nessuna regola, tranne quella della propria espressione libera.

f) La libertà come puro arbitrio – È la figura di Kirillov ne I Demoni. “Dio mi ha tormentato per tutta la vita”: questo grido che esprime sinteticamente la passione di D. è messo in bocca a Kirillov, solo che Kirillov non crede in Dio. Kirillov è uno di quei personaggi personaggi straordinari che solo D. ha saputo descrivere. Essi vivono sotto il segno della totalità; qualunque cosa dicano o qualunque cosa facciano, è ad una pienezza, ad un compimento, ad una totalità cui aspirano. Siccome Kirillov non crede più in Dio, ha bisogno di trovare un valore assoluto, pieno, totale, che lo sostituisca, e lo trova nell’uomo. “Se non c’è Dio, io sono un Dio” (Dem. 657) “Capire che non c’è Dio e non capire nello stesso momento d’esser diventato tu stesso Dio è un’assurdità” (Dem. 659). Nasce finalmente l’uomo-Dio. La profezia di Feuerbach si compie: “Homo homini Deus”. Finalmente l’umanità trova la sua divinizzazione.

La libertà è all’interno di questa esperienza: “Per tre anni ho cercato l’attributo della mia divinità e l’ho trovato. L’attributo della mia divinità è l’Arbitrio. È tutto ciò con cui io posso mostrare la rivolta e la mia nuova paurosa libertà. Poiché essa è assai paurosa” (Dem. 659). A partire da qui nascerà una nuova umanità, quella che c’è stata dall’inizio fino alla nascita del gorilla, e quella che a partire dalla distruzione di Dio, ricreerà completamente l’uomo. Solo che per realizzare questa trasformazione di una umanità nuova che finalmente trova la sua divinità ed è pienamente e totalmente libera nell’arbitrio, bisogna suicidarsi perché solo uccidendosi l’uomo supererà tutti i limiti e potrà uccidere la paura.

g) La libertà come negazione – “Da me non è uscita che negazione” (Dem. 716). Questo personaggio è impressionante: si tratta di Stavrogin nei Demoni. Stavrogin è rappresentato da D. come il serpente saggio, è come il serpente primordiale, quello che tenta tutta l’umanità. Si introduce nella trama del romanzo, e da lui emana una forza straordinaria che porta alla distruzione tutti gli altri. In lui, non esiste più il problema del bene, del male, del posso affermarmi, non posso affermarmi. C’è solo “l’essere o non essere, vivere o distruggermi”, la questione della libertà è solo questa. SÚatov, altro personaggio dei Demoni, gli dirà: “Voi non errate sul ciglio dell’abisso, ma vi gettate giù a capofitto” (Dem. 257). Invece di “procurarsi Dio con il lavoro, e precisamente con quello del contadino” (Dem. 259), Stavrogin si avvolge su se stesso in spire sempre più strette di noia, apatia, inerzia e si distrugge con il suicidio toccando con questo il nulla collocato in fondo all’abisso.

3. Natura della libertà – Dopo aver visto le figure attraverso le quali D. presenta il problema della libertà, tentiamo un’interpretazione che ci aiuti a cogliere che cosa sia per lui la libertà.

D. non è un moralista: la libertà per lui non è innanzitutto il problema della scelta tra il bene e il male; essa non si colloca al termine di una logorante analisi intellettuale sul valore etico dell’azione. La libertà è nella opzione di fondo che verrà a determinare il valore di ogni azione e che ogni azione successiva verificherà. Più profondamente, la libertà è giocata nell’istante in cui uno decide della sua esistenza perché prende posizione dinnanzi al destino.

C’è un episodio biblico che può aiutarci a comprendere la profondità alla quale D. riconduce l’esperienza della libertà nell’uomo: è quello della lotta di Giacobbe con l’Angelo (Gen 32). La libertà si realizza sempre all’interno di un istante tremendamente drammatico perché ci sono forze che portano l’uomo alla negazione, e ci sono energie che portano l’uomo verso la sua realizzazione. “La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. È qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini” (FK 175). Per D. non esiste una tranquilla indifferenza all’interno della quale scegliere tra ragionevoli possibilità; per lui, la libertà si gioca nel primo sottilissimo crepuscolo, nella penombra dell’impatto della coscienza con la realtà.

Per questo i personaggi dei romanzi è come se camminassero su una sottilissima lama, oppure sono condotti su di un ponte: tutto dipende dall’opzione di un istante. E per questo la trama del racconto, nei momenti decisivi, si svolge sempre in una tensione spasmodica. I suoi personaggi non lavorano mai, eppure sono sempre impegnati a risolvere problemi. Essi vengono travolti dalla tensione della libertà; sono presi da un vortice (A. 667 – G. 135), condotti sull’orlo o dentro un abisso di distruzione (Sosia 88). In ogni istante si ha la percezione che il loro destino potrebbe essere diverso, eppure non riescono mai a cambiarlo.

4. Il doppio – L’uomo sottoposto a questa tensione si sdoppia, non riesce a resistere al dramma della libertà. C’è un romanzo breve dal titolo Il sosia che è l’emblematica raffigurazione di questo metodo dello sdoppiamento, proprio di D.: è come se un’unica persona, incapace di sostenere l’urto della realtà, il peso della decisione per l’esistenza, trovasse accanto a sé un altro o più personaggi, con i suoi stessi problemi, i suoi sentimenti, i suoi pensieri, portati però alle estreme conseguenze da una energia umana più coerente, più rigorosa. C’è uno sdoppiamento psicologico (Raskol’nikov, uno vede se stesso attraverso il sogno) oppure morale (come se un altro si mettesse vicino a noi e facesse, pensasse, volesse le cose che noi vorremmo fare, ma che non abbiamo la libertà morale di fare), estetico (chissà perché “la bellezza è raffigurata tanto nell’ideale della Madonna che nell’ideale di Sodoma” – FK 176), spirituale: Ivan Karamazov si incontra con il demonio che è se stesso, ma questo demonio porta alle estreme logiche conseguenze quello che la paura dell’esistenza impedisce a Ivan di determinare. Oppure lo sdoppiamento comunionale: chi sia veramente Fëder Karamazov lo si vede nei quattro figli. Per capire chi sia Stavrogin, bisogna guardare tutti i personaggi dei Demoni che sono raffigurazione della personalità di Stavrogin. Così Smerdiakov è il doppio di Ivan perché realizza quello che lui non farebbe mai. Lo stesso dicasi per Versilev e Arcadio.

Come abbiamo visto, per D. la libertà dell’uomo essendo “illimitata”, proprio perché collocata all’interno della lotta tra Dio e Satana, porta l’uomo alla distruzione. Ma allora, dovremmo togliere all’uomo la sua libertà per evitare la tragedia?

5. Tentativi di togliere la libertà – Certo, la libertà rappresenta un dramma per l’esperienza umana, ma la vera tragedia sarebbe il toglierla o con una limitazione esterna o con una costrizione imposta.

Per D. è meglio che l’uomo faccia il male liberamente piuttosto che il bene essendovi costretto. Eppure nella storia si ripresenta sempre la tentazione di negare la libertà. Come?

a) La correzione dell’opera di Cristo – È la leggenda del Grande Inquisitore. Il Grande Inquisitore rimprovera Cristo di “aver posto la libertà al di sopra di tutto”, e di averne fatto dono agli uomini. “Invece di impadronirti della libertà umana, l’hai moltiplicata, e hai oppresso per sempre col peso dei suoi tormenti il regno spirituale dell’uomo. Tu volesti l’amore libero dell’uomo, volesti che Ti seguisse liberamente, incantato e conquistato da Te. Al posto dell’antica legge fissata saldamente, da allora in poi era l’uomo che doveva decidere con libero cuore che cosa fosse bene e cosa fosse male, e come unica guida avrebbe avuto davanti agli occhi la Tua immagine: ma possibile che Tu non abbia pensato che alla fine avrebbe discusso e rifiutato anche la Tua immagine e la Tua verità, se lo si opprimeva con un peso così spaventoso come la libertà di scelta?” (FK 369). Per questo il programma del Grande Inquisitore sarà quello di alleggerire l’uomo da questo insopportabile peso, di tranquillizzarne la coscienza, di dargli principi sicuri, sostituendo la libertà con il mistero, il miracolo e l’autorità; l’umanità sarà così ridotta a un gregge felice; la felicità è pagata con il prezzo della libertà.

b) L’organizzazione della felicità sulla terra – Questa tentazione è rappresentata come l’utopia del palazzo di cristallo (MdS): grazie alla razionalità del progresso storico, alla bontà della natura umana, allo sviluppo della scienza che toglierà la sofferenza, l’umanità giungerà alla piena felicità. Contro questo D. protesta: piuttosto la libertà della follia che la schiavitù della ragione.

Questa utopia si ripresenta ne I Demoni con la teoria del paradiso terrestre socialista di SÚigalev, deciso, costi quel che costi, a organizzare il benessere generale: “Propone, in forma di soluzione finale della questione, la divisione dell’umanità in due parti disuguali. Una decima parte riceve la libertà della personalità ed ha un diritto illimitato sugli altri nove decimi. Questi devono perdere la personalità e trasformarsi in una specie di gregge e per mezzo della illimitata obbedienza raggiungere attraverso una serie di rigenerazioni l’innocenza primordiale, qualcosa come il paradiso primordiale” (Dem. 408). Ma la lucidissima conclusione di SÚigalev rende giustizia della sua teoria: “Partendo da un’assoluta libertà, concludo con un assoluto dispotismo” (Dem. 407).

Una terza modalità per evitare il dramma della libertà è quella rappresentata dal mito dell’età dell’oro. Il rito dell’eterno ritorno a una condizione originaria paradisiaca, dove tutto è armonia e felicità. È il quadro di Lorrain: Aci e Galatea, più volte riproposto da D.; ma è, soprattutto, il racconto Il sogno di un uomo ridicolo.

Quanto sia impossibile la realizzazione di questa utopia lo si vede nel destino dei personaggi che la sostengono: Stavrogin (il cui nome in russo significa Ücolui che porta la croce’) spezza il crocifisso; Versilov un’icona (come Fëder Karamazov e Kirillov); l’uomo ridicolo (non dimentichiamo che per D. il ridicolo è una modalità di realizzazione dell’inferno) è straniero nel suo stesso sogno.

Ma, forse, il racconto che più di ogni altro distrugge la possibilità di un’armonica uguaglianza tra gli uomini è Bobok.

6. Libertà: tragedia o dramma? – Nessuno è stato capace come D. di descrivere come la libertà ridotta ad arbitrio annienti se stessa, porti alla schiavitù, dissolva l’uomo. Ma questa esperienza infernale che si dispiega nelle tenebre, attraverso l’abisso, lo sdoppiamento, la tragedia non è per D. se non la via attraverso la quale l’uomo può diventare pienamente libero.

D. non è un pensatore o uno scrittore pessimista o nichilista; tutto l’inferno dello spirito umano è da lui descritto perché si apra la strada del purgatorio e del paradiso.

In Dante Dio è una realtà oggettiva collocata di fronte all’uomo (“mi parve pinta della nostra effige” Par. 33, 131) dentro la quale entrare attraverso la via della trascendenza. Per Cervantes, don Chisciotte dovrà vagare dentro l’estensione spaziale per ritrovare i valori dell’uomo. Shakespeare indagherà la psiche. D. sceglie la strada dell’immanenza dello spirito; si spinge fin nel suo profondo per ritrovare la possibilità della salvezza. Tutta la distruzione della libertà è analizzata perché l’uomo ritrovi l’oggetto proprio della sua libertà: possa ritrovare la giusta tensione verso il suo destino, cioè verso Dio.

In un mondo dominato dal nichilismo, Dio non è più un valore che si possa ricevere per abitudine da una antica tradizione. La persona deve riscoprirLo nella drammatica tensione della libertà, attraverso il tormento (“Dio mi ha tormentato tutta la vita”), il dubbio (“in fatto di dubbio non sono secondo a nessuno” e “il mio osanna è passato attraverso il crogiolo del dubbio”), l’ateismo (“il perfetto ateismo si forma all’estremità della scala, sul penultimo gradino che porta alla fede perfetta” così Tichon ne I Demoni).

Provato da queste esperienze, “saggiato come l’oro nel crogiolo” come direbbe la Bibbia, l’uomo può aprirsi all’amore di Dio realizzando la sua libertà. Più precisamente: per D. la libertà si realizza come amore a Cristo: “Tu volesti il libero amore dell’uomo, volesti che Ti seguisse liberamente, incantato e conquistato da Te” (cfr. la citazione riportata sopra.

Per questo la possibilità della purificazione (cioè del purgatorio) è sempre legata in D. all’incontro con le figure che ripresentano Gesù Cristo: sono le miti (Sonia, Sofia) o gli starcs (Zosima, Tichon, Macario).

Ma dove conduce questo incontro? Riesce a introdurre la libertà umana in paradiso, cioè nell’esperienza evangelica del centuplo quaggiù (Mc 10, 30)?

Al di là di alcune affermazioni che lasciano intravedere una possibilità di esperienza naturalistico-estatica del paradiso nel presente (FK 414; Dem. 240) D. non ha mai risposto a queste domande: “Ma qui comincia ormai una nuova storia, la storia del graduale rinnovamento di un uomo, la storia della sua graduale rigenerazione, del graduale passaggio da un mondo in un altro, della conoscenza con una nuova, finora assolutamente ignota realtà. Questo potrebbe costituire il tema d’un nuovo racconto, ma il nostro odierno racconto è finito” (DeC 601).

Ma questo racconto D. non l’ha mai scritto, nonostante l’intenzione di continuare i Fratelli Karamazov con un ciclo di romanzi dal titolo L’Ateismo o La vita di un grande peccatore. La morte glielo ha impedito, ma probabilmente non ne sarebbe stato capace.

7. Nota critica – Mi sia concessa una nota critica finale.

Per D. la possibilità di realizzazione della libertà è solo escatologica. Non c’è in lui l’esperienza, anche se iniziale, del compiersi della libertà nella storia; c’è in lui una evidenza della fede (Cristo come salvezza dell’uomo) che non diventa mai e certezza della possibilità di un cambiamento e di una costruzione storica. Anzi, molti dei suoi personaggi “positivi” finiscono in un fallimento storico (il cadavere di Zosima si decompone; Myskin, comunque lo si voglia intepretare, ritorna nell’idiozia). Oppure per altre figure: si ha sempre l’impressione di una sorta di depotenziamento (Alioscia è il personaggio meno riuscito dei Karamazov; e per quanto riguarda le miti, la mia simpatia va a Nastassia Filippovna de L’Idiota).

L’attuarsi della libertà umana sarà solo alla fine per opera del giudizio e della misericordia di Dio, come si vede in Marmeladov (DeC 38-39).

A D. è mancata la possibilità di una esperienza della permanenza della presenza di Cristo nella storia. La sua feroce polemica contro il razionalismo, da una parte, e l’assenza di una compagnia cristiana vivente, dall’altra, gli hanno impedito di sperimentare la convenienza storica del rapporto con Cristo: “Se vi avessero matematicamente dimostrato che la verità è all’infuori di Cristo, avreste preferito restare col Cristo piuttosto che con la verità” (Dem. 252; ripreso da D. come dichiarazione propria in una lettera).

“Porgere l’altra guancia, amare gli altri più di se stessi, non perché è utile, ma perché mi piace, di un senso che brucia sino alla passione. Cristo si sbagliava, è stato dimostrato. Ma quel senso che brucia mi dice: preferisco restare con l’errore, con Cristo, piuttosto che con voi” (D. inedito citato da Dell’Asta).

Il paradosso del suo cuore totalmente innamorato di Cristo porta D. a distaccare Cristo dalla verità, e perciò si impedisce la verifica storica del significato e del valore della proposta di Cristo. D. diventa così il geniale narratore della tragedia in cui la libertà umana precipita allontanandosi da Dio e da Cristo, ma non ci ha descritto il dramma in cui la libertà umana si trova collocata quando, cadendo nelle mani del Dio vivente, si trova a seguire Cristo come ragione del presente.

Ma questa non vuole essere una dichiarazione di minor stima o affezione verso D. Lo sentiamo e lo sentiremo sempre come maestro e compagno di viaggio nell’avventura umana, anche perché gli dovremo essere sempre grati almeno di una cosa; la lettura delle sue opere ci impedisce di rimanere tiepidi dentro la realtà e di venir vomitati dalla bocca di Dio. Per terminare con una citazione biblica che tanto gli fu cara: “E all’Angelo della Chiesa di Laodicea scrivi: questo verbo lo annuncia l’Amen, il testimone fedele e verace, principio della creazione di Dio; conosco le tue opere, non sei né freddo né caldo. Oh se tu fossi freddo o caldo! Ma finché tu sei tiepido, e non caldo né freddo, io ti vomiterò dalla mia bocca” (Ap 3, 14-16).

Leggendo D., ci nasce una passione per l’uomo, un amore a Cristo e un gusto per la libertà che ci impedisce di rimanere tiepidi. E questo non è cosa da poco.

 

NOTE

(1) Legenda:

D. = Dostoevskij

MdS = Memorie del Sottosuolo (Feltrinelli)

FK = Fratelli Karamazov (Garzanti)

G. = Il giocatore (Garzanti)

A. = L’Adolescente (Frassinelli, Torino)

DeC = Delitto e Castigo (Sansoni)

Id = L’Idiota (Bur)

Dem. = I Demoni (Garzanti)

(2) Il citato Kraft assurge, come già detto, a simbolo; Kraft è in tedesco: forza. È forse con la forza che si risolve la convivenza umana? No, è sempre nell’esercizio della libertà, perché nel fondo del cuore umano questo anelito non può essere soffocato da nessuna potenza.

 

Data

29 Agosto 1991

Ora

15:00

Edizione

1991
Categoria
Incontri