INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.

Invito alla lettura

23/08/2011 - ore 15.00_x000D_ Il diritto naturale nell'età del pluralismo_x000D_ Presentazione del libro di Robert George (Ed. Lindau). Partecipano: l'Autore, McCormick Professor of Jurisprudence at Princeton University; Andrea Simoncini, Professore Ordinario di Diritto Costituzionale all'Università degli Studi di Firenze; Francesco Viola, Professore Ordinario di Filosofia del Diritto all'Università degli Studi di Palermo.

Il diritto naturale nell’età del pluralismo
Presentazione del libro di Robert George (Ed. Lindau). Partecipano: l’Autore, McCormick Professor of Jurisprudence at Princeton University; Andrea Simoncini, Professore Ordinario di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Firenze; Francesco Viola, Professore Ordinario di Filosofia del Diritto all’Università degli Studi di Palermo.

 

CAMILLO FORNASIERI:
Oggi presentiamo un solo libro, quindi abbiamo più disponibilità di tempo. Ci scusiamo del ritardo che non è dovuto a cause interne. Presentiamo un libro di Robert George proposto dalla casa editrice Lindau, Il diritto naturale nell’età del pluralismo. Lui è qui con noi, alla mia sinistra, lo salutiamo. Il Meeting è molto onorato di riaverlo tra noi dopo il suo memorabile intervento di due anni fa. Robert George è stato definito dal New York Times uno dei più influenti pensatori cattolici e conservative, come si dice negli Stati Uniti. Si è formato all’Harward Law School e a Oxford, soprattutto ha seguito le orme di John Finnis, che ha scritto quel famoso libro tradotto in italiano come Legge naturale e diritti naturali, che riguarda questo filone della ricerca nel recupero di punti comuni, di punti evidenti nell’esperienza umana, che possano dare forma ad un diritto riconoscibile e condivisibile. Vorrei subito presentare anche il professor Francesco Viola, qui alla mia destra, che ha fatto un lungo viaggio per essere tra noi. E’ professore ordinario di Filosofia del Diritto nell’università degli studi di Palermo e Presidente della Società Italiana di Filosofia del Diritto. Proprio lui tradusse il libro di John Finnis e lo inserì nella ricerca del nostro Paese. Ecco perché è qui, è autore del saggio che accompagna il libro, Per una nuova teoria della legge naturale. C’è poi il nostro caro amico, professor Andrea Simoncini, che salutiamo, docente di Filosofia del Diritto all’università di Firenze, facoltà di Economia: ha curato questo libro che raccoglie alcune lezioni che George ha tenuto all’università di Macerata, invitato – credo – dal professore Simoncini un paio d’anni fa: la sua presenza segnala questo incontro tra persone che è un fatto unico e sorge proprio all’interno di rapporti di ricerca, come ieri abbiamo visto nella presentazione del libro della Fondazione per la Sussidiarietà, anch’esso sul tema dell’esperienza elementare e del diritto naturale. Nell’età del pluralismo, siamo anche nell’età del formalismo e del relativismo: quindi credo sia importante riuscire a cogliere il contributo di George, che tra l’altro ha partecipato alla Corte Suprema americana e a varie commissioni per i diritti dell’uomo in America. Importante per noi, per il nostro cammino e comprensione, per iniziare a vivere quella che, nell’intervento del Presidente Napolitano, veniva indicata come la possibilità di argomentare sulla verità, di spiegare, di dare ragioni. Non tanto, quindi, di definire qualcosa, una nuova dottrina che metta tutto a posto, un nuovo diritto naturale riconoscibile da tutti, quanto di imboccare, nel pluralismo e nella pluralità e complessità della nostra società, una strada di evidenze costruttive. Do subito la parola ad Andrea Simoncini che introduce questo dialogo. Grazie.

ANDREA SIMONCINI:
Introducendo, Camillo Fornasieri ha spiegato qual è l’origine di questo libro, che nasce per la lungimiranza dell’ateneo presso il quale ho lavorato prima di adesso. Adesso insegno all’università di Firenze, ma per otto anni ho lavorato all’università di Macerata. E questo ateneo, con una politica molto intelligente, aveva ed ha tuttora un istituto dei corsi di eccellenza, cioè la possibilità di invitare studiosi stranieri, di chiara fama, in un periodo di tempo anche lungo – non la solita conferenza di un giorno -, per una settimana, per instaurare un dialogo su temi rilevanti. Durante la mia permanenza a Macerata, ho avuto l’opportunità di promuovere due corsi di eccellenza, il primo con il professor Joseph Weiler, altro professore ben conosciuto al Meeting, e il secondo con il professor Robert George dell’università di Princeton. Il libro è nato dal dialogo forte, vivace, attento, a volte anche un po’ spigoloso ma molto appassionato, che in quel tempo – 2007 – nacque con gli studenti che avevamo invitato a questo corso. Molti di loro sono ancora qui e questo dimostra quanto, non solo il tema ma l’occasione del dialogo col professor George sia stata proficua, abbia fondato rapporti e relazioni che poi sono proseguiti in diverso modo. Alcuni di questi giovani studiosi sono andati poi a Princeton a studiare, altri hanno mantenuto un legame. Come mai tutta questa vivacità, tutta questa attenzione? Il tema che avevo scelto – e questo è l’altro aspetto forse intrigante nel libro – era suonato allora, nel 2007, come sconosciuto ai più.
Un tema nuovissimo, poco battuto, il tema del diritto naturale. Ora, voi direte: è una battuta ironica, perché il diritto naturale è in realtà un tema fondamentale nel pensiero giuridico, nel pensiero filosofico. Introducendo l’incontro, Camillo Fornasieri mi ha promosso a filosofo del diritto: io non sono un filosofo del diritto, soprattutto in presenza del presidente dell’associazione Italiana dei Filosofi del Diritto – il professor Viola – non vorrei essere citato per danni, per questa attribuzione di qualifica. Io sono molto più modestamente un professore di Diritto Costituzionale, cioè mi occupo di diritto positivo, di leggi, costituzioni, regolamenti. Poi, nella particolare formazione che ho avuto, molto contano le fonti del diritto, vedo qui alcuni giovani studenti dell’università di Firenze, che sanno di cosa parlo: la nostra è proprio una scuola dedicata alle fonti del diritto, alla legge, al regolamento. Quindi, non sono un filosofo. Ma come mai ho scelto questo tema? Proprio perché mi sembrava stranamente assente dalla discussione italiana. Attenzione, preciso subito: non dalla discussione dei filosofi del diritto: poi ascolteremo il professor Viola che dirà molto più da vicino e con maggior dettaglio e precisione quale sia lo stato della discussione del giusnaturalismo italiano. Lo dico come giurista positivo, cioè come professore di una materia non filosofica e come operaio dentro il sistema giuridico. Mi occupo di regole, di leggi.
Ecco, in quel mondo lì, nel mondo dei giuristi comuni, da strada, mi verrebbe da dire, il diritto naturale da tanto tempo era scomparso. Paradossalmente, come dice il professor Viola nella sua introduzione al libro, perché è proprio nel nostro continente, se non in Italia, che la teoria del diritto naturale nelle sue origini – pensiamo soprattutto a san Tommaso – ha trovato forse la patria più importante. E’ nata qui. E come mai a un certo punto è scomparsa? Più che scomparsa, è come se fosse stata relegata in un angolo della riflessione, l’angolo confessionale, l’angolo dei giuristi che hanno una certa etichetta, una certa giacca, i giuristi cattolici o i giuristi un po’ fondamentalisti, quelli che hanno una certa idea, non quelli che si spendono nel dibattito pubblico con ragioni comprensibili da tutti. Su questa curiosità, io ho invitato il professor George, perché nel 2007 era, e lo è tuttora, uno dei più autorevoli esponenti della Natural Law theory, della teoria della legge naturale, nel dibattito attuale. Voglio fare solamente un’osservazione, che è poi presente nella mia introduzione al libro. Come mai questa strana sorte per la teoria del diritto naturale? Ripeto: non nell’ambito della discussione filosofica, filosofico morale, ma nell’ambito dei giuristi. Partirei proprio da questo: qual è la formazione che oggi ha un ragazzo che si iscrive a Giurisprudenza in una facoltà italiana?
Io sono partito da lì. Il mio contributo l’ho intitolato così: “Io naturalmente giuspositivista”. Un gioco di parole per dire: se uno si iscrive ad una facoltà di giurisprudenza, normalmente l’idea che viene trasmessa, direttamente o indirettamente, come contenuto esplicito o molto più frequentemente come una sorta di implicito presupposto, è che il diritto sia essenzialmente una questione che nasce dentro la legge. Il diritto è la legge, la legge intesa come la volontà, la manifestazione di qualche potere pubblico, di qualche autorità che regola. E la forma, l’atto con cui questo accade normalmente è la legge o tutto quello che la legge autorizza (i decreti, i regolamenti, lo stesso contratto, tutto il fiorire della cosiddetta autonomia negoziale dei privati). Questa impostazione fondamentalmente si riconduce al fatto che però esiste una legge, un decreto legislativo, il Codice Civile, che autorizza tutto questo. Ieri l’ha citata don Pino nella presentazione di un altro libro: rileggo brevemente, perché è un po’ la sintesi di questa posizione, quella frase di Bobbio per cui non c’è giurisprudenza fuori della regola e del regolato e tutto ciò che sta prima della regola non appartiene alla ricerca del giurista. Io ho sempre avuto questa sensazione, dentro le facoltà di giurisprudenza, non tanto che il problema sulla giustizia delle regole, sulla loro congruità, sulla loro proporzionalità, sulla loro adeguatezza, fosse sbagliato o da non porre, ma che fosse sostanzialmente inutile.
Un giurista, per avere una formazione tecnica adeguata, deve essere in grado di risolvere questioni tecniche. Ad esempio, la domanda se una legge sia giusta – cioè se contrasti o no con un sentimento di giustizia ritenuto come qualcosa di non scritto, come qualcosa di non definito, di non tradotto in qualche regola – sono sempre stato educato a considerarla ininfluente sulla decisione, a meno che questo problema di giustizia non diventi il contrasto tra due regole. Allora, se c’è una regola che dice una cosa e un’altra regola altrettanto scritta, legalmente prodotta, che ne dice un’altra, allora, sì, c’è un problema di razionalità. Ma domande slegate da questi paragoni tra fonti, domande di questo genere, ripeto, sono sempre stato abituato a considerarle un po’ a lato. Come dice Bobbio, non fa parte del mestiere del giurista. Per carità, fa parte di altri mestieri importanti e nobili, ma con noi non ha niente a che vedere.
Allora, cosa mi è successo? Io non ho contestato questa posizione. Come succede sempre in ogni dinamica di educazione, l’ho presa per buona, cioè ho cominciato a studiare e ad analizzare ciò che avevo davanti, esattamente partendo da questo presupposto, cioè avendo questa ipotesi esplicativa della realtà, che sostanzialmente il diritto fosse riconducibile a queste forme di regolazione. Ed è lì che sono nati i problemi, tanto che io sintetizzo questa mia relazione col disorientamento del giurista contemporaneo. Questa enfasi, questa posizione per cui tutta la giuridicità, tutti i rapporti e la regolazione delle società debba essere ridotta a quello che può essere prodotto dalla legislazione o dalle regole, tutto questo mi è sembrato, a un certo punto, non adeguato a spiegare alcune cose.
Ne cito tre, velocissimamente. Ieri, il professor Nicolussi, presentando l’altro libro, ha detto che il grande cambiamento dell’Europa è stata la Costituzione del dopo Auschwitz. Questa immagine chiarisce bene: Auschwitz è stato uno dei primi grandi problemi che ho dovuto affrontare. Come si fa a ridurre tutto il diritto alla legge, se la legge è stata capace di fare questo? Perché erano leggi, quelle che hanno istituito il Ministero per lo smaltimento degli ebrei! Erano leggi e regolamenti minuziosi, quelli che disciplinavano il campo di Dakau o di Buchenwald. E dunque sono nate le costituzioni contemporanee, per carità, altre leggi, così mi sono state insegnate, sempre leggi, che però hanno un valore diverso e costringono inevitabilmente a guardare con meno assolutismo, con meno fiducia cieca la legge. Questo è uno dei primo problemi che ho trovato. Come si fa a considerare queste domande del tutto fuori dai problemi del giurista, se poi valori così forti hanno trovato delle vie nuove rispetto alla legge?
L’altro problema, l’abbiamo sotto gli occhi, é di stringente attualità. Scusate, adesso tiro fuori la mia casacca di giurista positivo della facoltà di giurisprudenza a Firenze. Se andate a contare quante leggi oggi fa il Parlamento, avrete una risposta sorprendente. Leggi vere, in cui il Parlamento fa una nuova regolazione di un qualche settore. Se togliamo i decreti-legge, se togliamo le deleghe e l’autorizzazione alla ratifica dei Trattati internazionali, quello che il Parlamento davvero fa è nell’ordine di tre o quattro leggi in periodi di due o tre mesi. E allora, tutta la regolazione, dove sta? La regolazione è tutta spostata sul Governo. E questo non è secondario rispetto a tutto quello che avevo studiato, perché la legge è espressione del Parlamento e il Parlamento è espressione della rappresentanza e della democrazia. Terzo ed ultimo problema, l’Unione europea. Quanto oggi si decide nella legge? Quanto oggi si decide in atti che vengono da altre fonti, da altri sistemi? La famosa profezia di Delors era quella che nel 2000 saremmo arrivati all’80% della regolazione interna derivante da sistemi esterni all’Italia.
Dunque, la sintesi, velocemente. Avere questa unica ipotesi di lettura, per cui tutta la formazione del giurista deve sostanziarsi e concentrarsi nella capacità tecnica di leggere, capire e interpretare correttamente testi normativi, è entrata in crisi. Abbiamo bisogno di una bussola, di un navigatore, si direbbe oggi, per districarci all’interno di questo mondo. E allora, lo spaesamento mi pare una delle sensazioni che sento più diffuse: avere enfatizzato in questa maniera il positivismo ha portato sicuramente ad avere questo sentimento. Qual è la reazione a questo? C’è un libro che mi ha sempre colpito per il titolo, Il salvagente della forma, del professor Irti. Cioè, la salvezza è appigliarsi ad una forma. Io penso che non sia l’unica strada. L’altra strada è provare a riaprire delle domande che abbiamo troppo presto chiuso. L’idea di questo libro, che riproduce le sette lezioni sul diritto naturale del professor George, è esattamente questo: non provare che la crisi del legalismo dimostra automaticamente la verità delle tesi opposte, questo no. Però sicuramente bisogna riaprire le domande. E una domanda come quella sulla teoria del diritto naturale mi sembra abbia più cittadinanza. E adesso, la parola, per entrare più nel merito, al professor Viola.

FRANCESCO VIOLA:
il mio compito è di individuare le novità e i punti rilevanti di questa nuova teoria del diritto naturale che, come si è detto, non appartiene in senso stretto all’Europa perché è stata costruita e sviluppata da intellettuali come Finnis, che è professore di Oxford ma è di origine australiana e, poi ha trovato in terra americana una grande accoglienza e un grande sviluppo. Il professor George è uno dei principali prosecutori di questa linea di pensiero, di questa nuova teoria del diritto naturale. Questa teoria ha avuto risonanza, non solo negli ambienti cattolici o comunque giusnaturalismi, ma anche presso studiosi positivisti, cioè avversari del diritto naturale. Dobbiamo dire che uno dei meriti di questa teoria è di essersi fatta ascoltare dagli avversari: è importante perché la posizione dei giuspositivisti è spesso una posizione noncurante nei confronti dell’ascolto del diritto naturale, E allora, perché questa teoria è stata così accolta? Che cosa c’è di nuovo rispetto alla tradizione del diritto naturale che, come voi sapete, risale fin dai tempi del pensiero greco di Platone e di Aristotele, ha trovato in Tommaso d’Aquino una delle sue più grandi espressioni, e poi ha trovato dei prosecutori nel pensiero moderno e nel giusnaturalismo cattolico? Cosa c’è di nuovo?
La prima novità è il modo di accostarsi al diritto. La nuova teoria del diritto naturale dice che bisogna cambiare il nostro modo di considerare il diritto. Innanzitutto, si tratta di un cambiamento di atteggiamento. Se noi infatti pensiamo a che cosa sia per noi il diritto, pensiamo alle leggi, pensiamo alle formule, pensiamo ai cavilli degli avvocati, pensiamo al formalismo per cercare di dare ragione a una persona o torto ad un’altra: il diritto per noi è visto nella luce del formalismo e dello strumentalismo, serve per realizzare i nostri interessi, i nostri fini. Cioè, il diritto si risolve in quello che gli americani chiamano technicant, cioè il tecnicismo, i formalismi. Questo è il modo in cui il diritto viene presentato anche dalla concezione positivista. La concezione della nuova teoria del diritto naturale è invece diversa: nel diritto, dobbiamo vedere dei mezzi per raggiungere beni fondamentali all’essere umano. Il diritto esiste perché ci sono certi beni fondamentali della vita umana che non possono essere raggiunti al di fuori del diritto. Il diritto esiste per questi beni. E allora, ecco che a questo punto la giustificazione del diritto non è più quella di un formalismo che può servire per qualsiasi scopo, anche per scopi abbietti, anche per scopi orribili, come abbiamo visto, com’è stato nell’epoca nazista, per esempio, e come avviene tuttora nella nostra società quando si fanno leggi ingiuste.
Il diritto in realtà è a tutela di certi beni fondamentali della persona, della realizzazione della persona: ma la realizzazione della persona non è una realizzazione isolata, non è all’interno di un’autonomia irrelata nei confronti degli altri. Essa implica dei beni che noi non possiamo raggiungere se non insieme agli altri, attraverso la cooperazione con gli altri o, come dice Finnis, in armonia, beni in armonizzazione, e questo è molto importante perché fra l’altro aiuta ad avvicinare la società occidentale a quella orientale, più sensibile alla dimensione dell’armonia. Ora, questi beni sono il cuore del diritto, il diritto è fatto per questi beni, si qualifica per questi beni. Non dovrebbe essere una novità, perché non avrebbe senso costruire un diritto che poi ci fa dannare, costruire un diritto per danneggiare noi stessi. Le cose esistono per realizzare la persona umana: vale per il diritto ma anche per l’economia e per la politica. Ma ecco che recuperare questo senso è la novità, ritrovare verità perdute è la novità, spesso, perché ci fa capire il senso delle cose. Quindi, questo primo aspetto che, come vi dicevo, non è una novità, non dovrebbe essere una novità, lo è dal punto di vista culturale. Il passo successivo importante costituisce a mio parere l’aggiunta della nuova teoria del diritto naturale al vecchio giusnaturalismo, anche cattolico, anche ecclesiastico. Un passo che comporta il dire: guardate che questi beni fondamentali, questi valori, questi orizzonti del bene che sono propri del diritto non si trovano fuori dal diritto ma sono dentro il diritto. Le concezioni positivistiche dicono che il diritto è uno strumento che può servire per dei beni esterni, la giustizia, per esempio: l’idea importante della nuova teoria del diritto naturale è dire che questi beni sono interni al diritto positivo, che il diritto naturale è il senso del diritto positivo, il vero senso del diritto positivo, è l’anima del diritto positivo, non l’obiettivo esterno a cui il diritto positivo deve tendere perché questo esternalismo crea, ovviamente, una concezione strumentalistica del diritto, che poi può essere usata per qualsiasi cosa.
Si dice quasi: guardate che i beni fondamentali sono il cuore del diritto. Se dovessi definire l’obiettivo di questa nuova teoria della legge naturale, direi che è fare una teoria del diritto positivo alla luce del diritto naturale, cioè una teoria che vuole costruire, dirci quale sia il senso del diritto positivo. Il diritto naturale è il senso del diritto positivo, mentre nella convinzione diffusa noi siamo convinti che esistano delle norme di diritto naturale che sono diciamo eterne e immodificabili, e che poi esista il diritto positivo, contingente, che si deve adattare. La nuova teoria di diritto naturale dice: no, guardate che il senso profondo del diritto positivo è il diritto naturale, il diritto naturale da cui il diritto positivo deriva in qualche modo. Ma questa derivazione non è un allentamento, uno sganciarsi, è un modo per ritrovare l’autentico senso del diritto positivo. Per questo, la nuova teoria del diritto naturale non è una teoria del diritto naturale ma del diritto positivo, per questo può discutere con altre teorie del diritto positivo, perché, se fosse soltanto una teoria del diritto naturale, i positivisti direbbero: è una teoria che a noi non interessa, parla di altre cose. E invece no: parla delle stesse cose ma in altro modo, cioè alla luce dei beni fondamentali, può discutere con i positivisti. Ed è importante avere creato un campo di comunicazione con l’avversario, cioè con chi sostiene tesi contrarie alle nostre. Questo è la seconda novità della nuova teoria del diritto naturale.
La terza novità, a mio parere, riguarda il fatto che la teoria del diritto positivo viene intesa sempre come una spiegazione del diritto positivo, ma questa spiegazione si intende completa se è una giustificazione del diritto positivo. La nuova teoria del diritto naturale mira a giustificare il perché ci sia un determinato diritto positivo, non si ferma a spiegare il sorgere del diritto positivo attraverso la dottrina delle fonti, cioè attraverso l’origine formale del diritto: vuole una giustificazione e questa giustificazione è anche morale. C’è una giustificazione morale all’interno della teoria del diritto positivo: mi pare un punto importante per la nuova teoria del diritto naturale. E credo che questo punto debba essere ulteriormente sviluppato perché investe una teoria della scelta etica: come facciamo a scegliere il bene? Attraverso quali procedimenti scegliamo il bene? Anche per la teoria del diritto è importante che la nuova teoria della legge naturale si occupi della scelta etica tra il bene e il male. E’ importante perché la scelta etica è poi anche quella del legislatore, è quella che fa le leggi. L’idea è che il diritto naturale non si trovi già compiuto ma debba essere determinato attraverso il diritto positivo. Cioè, che il diritto positivo sia il piano delle scelte, il piano della giustificazione etica, il piano della problematica morale, in sostanza, oltre che della problematica giuridica e della problematica politica; e che quindi il problema del diritto naturale sia dare forma alla società, alla luce dei principi. E questo dare forma alla società è qualche cosa di controverso, non è a senso unico, è qualche cosa di aperto al dibattito. Ecco, anche questo è un punto importante, perché il diritto naturale è un diritto che diventa una ricerca, non un diritto per cui ci sia un codice scritto nel cielo di leggi che vengono applicate automaticamente: diventa una nostra ricerca etica all’interno delle società umane.
Infine, c’è un aspetto con cui vorrei concludere, un aspetto importante, che tra l’altro permette di mostrare come questo libro sia ben adatto in un Meeting all’insegna del principio di sussidiarietà: la sensibilità della nuova teoria della legge naturale, non solo per fare il bene ma per farlo – dice George – di per se stesso, cioè con le nostre scelte. Il rifiuto di ogni paternalismo, l’idea fondamentale che il principio di sussidiarietà sia un principio giuridico strettamente connesso al diritto, perché il principio di sussidiarietà è un principio che ci dice che il bene deve essere fatto da Colui del cui bene si tratta. Questo è il fatto, lo dice san Tommaso d’Aquino quando, in un passo della Summa, dice che il più competente per giudicare un fine è colui di cui è proprio il fine, che ha il fine come proprio. Questo è alla base del principio di sussidiarietà che è stato definito anche da Finnis come un aiutare ad aiutarsi, cioè aiutare gli altri a realizzare se stessi ma con le loro forze, non attraverso un movimento paternalistico: tutto questo è connesso con l’idea del diritto naturale.
Questa idea del diritto naturale si chiama anche teoria neoclassica del diritto naturale. Perché neoclassica? Perché la teoria della scelta etica e della giustificazione morale è consapevolmente ripresa a partire da Platone, a partire dalla ricerca socratica, a partire dalla confutazione che Platone fa dei sofisti, a partire dall’etica delle virtù di Aristotele. Ricongiungersi a queste radici della tradizione del diritto naturale, è una garanzia di autenticità. Il professore George ama definirsi in questo libro un “razionalista credente”, non so se la traduzione italiana, razionalista, sia esatta, forse in italiano razionalista ha un senso negativo che nella lingua inglese credo non abbia. Ma il professor George vuole dire che la ricerca della verità, la ricerca basata sulla ragione e sulle ragioni per agire, non è affatto in contrasto con la fede: anzi, la fede, per certi aspetti, può essere una custodia dei limiti della ragione e delle sue capacità effettive.

CAMILLO FORNASIERI:
Abbiamo ricevuto una bellissima seppur sintetica esposizione, abbiamo capito ancora di più di cosa si tratta, in maniera molto chiara ed esplicita. Chiederei adesso a Simoncini di chiedere a George di entrare in questo confronto, perché possiamo capire anche il suo contributo a questa teoria.

ANDREA SIMONCINI:
Avrei qualche domanda. La prima, anche sulla base di quello che prima diceva il professor Viola: ci troviamo di fronte ad un paradosso per cui negli Stati Uniti, di là dall’oceano, negli ultimi anni il dibattito sul diritto naturale è molto fiorente. E’ un dibattito vivace, tanto è vero che, come diceva il professor Viola prima, è forse proprio Oltreoceano, a studiosi australiani, americani – e anche a John Finnis, che è inglese – che dobbiamo questo ripensamento, questa nuova versione della teoria del diritto naturale di cui oggi parliamo. Non è un caso che, da Oltreoceano, abbiamo grandi esponenti di questo pensiero sul diritto naturale. Invece qui da noi, in Europa, l’argomento sembra tabù, uno degli argomenti di cui è difficile parlare. Volevo chiedere, come prima domanda, dal punto di vista di chi si è formato in Inghilterra ma ha insegnato e studia e dibatte molto negli Stati Uniti, quale può essere la ragione di questo e cosa abbia prodotto questo dibattito così positivo per gli Stati Uniti.

ROBERT GEORGE:
Prima di rispondere a questa domanda, Andrea, vorrei approfittare di questa opportunità per ringraziare Camillo Fornasieri della possibilità che mi ha dato di partecipare a questo Meeting. Vorrei anche dire che sono veramente onorato che il professor Viola sia venuto da Palermo fin qui a Rimini, per la presentazione di questo libro. Una cosa particolarmente importante, perché il professor Viola non è soltanto il massimo rappresentante della filosofia del diritto in Italia, ma anche perché il suo contributo ai nostri studi, riconosciuto in tutto il mondo. Poi vorrei dire al professor Viola che mi sono sentito un po’ in imbarazzo a sentire la presentazione, da parte di un grande studioso, del mio libro che ha capito, credo, meglio di quanto non abbia capito io. Poi vorrei ringraziare il professor Andrea Simoncini per avermi invitato a Macerata a tenere le mie lezioni: è stata una grandissima opportunità che mi è stata offerta, non soltanto per presentare i miei libri, le mie pubblicazioni, il mio lavoro, ma anche perché siamo riusciti a stabilire ottime relazioni, sia con Andrea Simoncini, col quale ormai siamo amici, che con molti studenti con i quali è nato un rapporto che sicuramente durerà per tutta la vita.
Oltre agli amici, da Macerata ho portato altre due cose, questa cravatta e questo libro. Adesso sono veramente molto curioso di vedere quali saranno in Italia le reazioni alla pubblicazione di questo libro, quando i grandi intellettuali, gli studiosi italiani potranno approfondire ancora di più il mio pensiero: perché io stimo moltissimo la grande intelligenza italiana, a cominciare da sa Tommaso D’Aquino, e anche perché ho radici italiane, mia madre era calabrese. Andrea mi ha fatto una domanda difficile, perché non vivo in Europa e perché non sono molto impegnato con gli studiosi europei. La domanda era: “Perché il dibattito sul diritto naturale è così fiorente nei Paesi anglosassoni mentre stenta a fiorire in Europa?”. Alla fine, non langue così tanto in Italia, perché abbiamo un grandissimo studioso come il professor Viola. Se vogliamo considerare il fatto che il diritto naturale in qualche modo langua, in Italia, dobbiamo pensare che c’è una dominanza di una determinata ideologia, un certo potere ideologico che in qualche modo prevale su altri indirizzi. Probabilmente, c’è una situazione di perdita di fede, più che altro si tratta della perdita di fede nella ragione: sarebbe interessante fare un confronto fra questa perdita del potere della ragione e la laicizzazione dell’Europa, e la perdita della fede religiosa.
Probabilmente, la perdita non consiste tanto nel contrasto fra fede e ragione ma tra fede e ragione insieme, contro il nichilismo. Se la domanda che mi è stata posta da Andrea fosse stata posta da sociologi, probabilmente loro spiegherebbero questa situazione con il fatto che il XX° Secolo, il Novecento, è stato caratterizzato da due guerre devastanti, disastrose per l’Europa, che hanno causato tantissime vittime. E che queste guerre sono avvenute nel continente europeo, sul suolo europeo, mentre ciò non è avvenuto nei Paesi di lingua anglosassone. Perché è vero che anche la Gran Bretagna è stata bombardata, ma la guerra non si è combattuta direttamente sul suolo britannico. Quindi, i sociologi direbbero che questa devastazione dell’Europa ha devastato sia la fede in Dio sia la fede nell’uomo. Quando il papa Giovanni Paolo II fece un appello molto forte per il rinnovo dell’Europa, predicando e sostenendo la nuova evangelizzazione d’Europa, parlò proprio di questo dualismo, della fede e della ragione come due ali che ci possono portare verso la nuova situazione contemporanea, verso il nuovo mondo di oggi.
Quindi, Andrea, in effetti è possibile che la legge naturale sia in un certo senso una vittima secondaria del rifiuto della chiesa cattolica in Europa. La chiesa cattolica non ha certamente inventato il concetto della legge di diritto naturale, ma nell’età moderna è senza dubbio stata la più grande barriera istituzionale a questo tipo di teoria: quindi, diverse persone ritengono che se rifiutiamo la chiesa cattolica rifiutiamo anche il diritto naturale. A questo punto, la domanda che ci dobbiamo porre è questa: se non è stata la chiesa cattolica ad inventare la teoria del diritto naturale, chi è stato ad inventarla? Il professor Viola ha già dato una risposta a questo interrogativo: tutto ha inizio ai tempi dei grandi filosofi greci, alle riflessioni di Socrate, di Platone e di Aristotele, e al più grande interprete della filosofia di Aristotele che, ovviamente, è stato san Tommaso D’Aquino. Dopo la seconda guerra mondiale, nel Regno Unito e in particolare negli Stati Uniti, incominciò a diffondersi una profonda insoddisfazione nei confronti della secolarizzazione, dal punto di vista filosofico: ad esempio, l’utilitarismo di Kant. E l’inadeguatezza di queste filosofie di fronte al male che era derivato dal nazismo, dal comunismo, di fronte alla tragedia della prima guerra mondiale, spinse gli intellettuali, i filosofi, a ritornare indietro ad Aristotele, e quindi al diritto naturale.
Il ripensare la filosofia aristotelica, da parte di grandissimi filosofi come McIntyre, come John McDowell e come il mio maestro John Finnis, in un certo senso ci ha portato a trovare un’alternativa al pensiero della dicotomia tra giusto e sbagliato, tra il bene e il male, per arrivare a giudicare cosa sia giusto per definire una situazione nella quale l’uomo possa veramente evolversi e svilupparsi. E se alla lista che ho appena fatto di filosofi vado ad aggiungere il nome di Philipp Food, allora avremo il nome di filosofi neoaristotelici, alcuni cristiani, altri tre laici, che hanno portato alla ripresa della filosofia aristotelica. Quello che trovo veramente interessante è che, di questi sei grandissimi filosofi del XX° Secolo, i tre cattolici si sono convertiti al cattolicesimo, non sono nati al suo interno. Sembra una eventualità che si ripete, cioè sono sempre i cattolici convertiti che riescono a recuperare i più grandi tesori della filosofia cattolica del passato. Un’ultima considerazione: tutti coloro che, come me, si occupano del diritto naturale tradizionale e della ripresa della filosofia aristotelica, hanno dovuto rendersi conto che non basta riprendere la filosofia aristotelica o quella di san Tommaso D’Aquino e pensare in questo modo di aver risolto tutti i nostri problemi. Il professor Viola ha perfettamente ragione nel dire che questa è una tradizione che si sta evolvendo e che deve continuare a svilupparsi. Aristotele ha stabilito questa idea, che il nostro giudizio di ciò che è il bene e di ciò che è il male è sempre collegato a ciò che porta ad una evoluzione positiva dell’essere umano. Aristotele aveva riconosciuto che dovevano esserci dei principi di ragione pratica, alla base del nostro giudizio, poi però non aveva definito nessun tipo di metodologia per arrivare alla definizione, alla comprensione di questi principi.
Questo compito fu svolto da uno dei suoi più grandi, per così dire, seguaci, o comunque da chi ha saputo raccogliere al meglio la sua eredità in termini filosofici, cioè Tommaso d’Aquino che ci ha fornito la base per la definizione di questi principi. Ma poi, Tommaso D’Aquino passa a quella che è la sua più grande preoccupazione, vale a dire le virtù necessarie per rispondere a quelli che sono i nostri obblighi morali, senza però spiegare o definire in quale modo queste virtù possano portarci a far fronte a questi obblighi morali. Così come Tommaso D’Aquino ha portato a compimento il lavoro rimasto ancora da svolgere da Aristotele, ora tocca a noi, che lavoriamo nei tempi moderni in questo settore, portare a compimento quanto Tommaso D’Aquino ha lasciato in sospeso: forse, Andrea, se faremo bene il nostro lavoro, riconquisteremo l’Europa al diritto naturale.

ANDREA SIMONCINI:
Ringrazio e provo a fare altre due veloci domande con risposte rapide. Prendo la prima da uno dei saggi: abbiamo acquistato questa difesa del diritto naturale ma viviamo in Italia, con una sorta di giudizio negativo sul diritto naturale che, per gran parte, deriva da un certo studioso che forse ai più qui è ignoto, meno male: si chiama Hans Kelsen, qualcuno invece lo conosce, non è un centravanti dell’Amburgo, è un giurista austriaco, centro- mediano, diciamo. Allora, questa è la frase: “Il diritto naturale implica che sia possibile dedurre dalla natura, vale a dire dalla natura dell’uomo, dalla natura della società o dalla natura delle cose, regole certe che ci forniscono una prescrizione generale morale”. Dice Kelsen: il diritto naturale ha questa pretesa, dedurre dalla natura delle cose o dalla natura dell’uomo regole certe. Secondo lui, questo è sbagliato perché la natura delle persone, delle cose, è del tutto soggettiva, non c’è una natura. E soprattutto, tra l’essere e il dover essere, siamo su campi diversi. Cosa risponde la teoria del diritto naturale a questa obiezione di Kelsen?

ROBERT GEORGE:
Credo che il contributo di Kelsen abbia creato malintesi in generale, per quanto riguarda il diritto naturale nel processo che ci porta da Aristotele a Tommaso D’Aquino ai tempi moderni. Consideriamo il fatto che Kelsen ritiene che non esiste la natura umana. Se Kelsen si fermasse a riflettere su questa affermazione, capirebbe che lui è un essere umano, quindi ha una natura umana e non ha sicuramente la natura di una banana. C’è stata poi una rappresentazione errata del diritto naturale, da parte di Kelsen, perché in qualche modo veniva affermato che i teorici del diritto naturale definivano delle norme morali dal diritto naturale stesso: in qualche modo, quindi, veniva creato un quadro, una visione teorica della natura umana incoerente con ciò che viene definito nel diritto naturale da Aristotele a Tommaso D’Aquino a Philip? Allora io direi, Andrea, che in qualche modo l’antidoto a queste affermazioni potrebbe essere trovato nel mio libro, non tanto nel capitolo dedicato a Kelsen quanto nel primo capitolo dedicato al diritto naturale in cui, in qualche modo, considerata la nostra posizione di neoaristotelici, rispetto alla ragione pratica, rispetto alle norme morali, in qualche modo ci rifacciamo a quello che era già stato stabilito da Aristotele e da Tommaso D’Aquino per quanto riguarda il diritto naturale.

ANDREA SIMONCINI:
Prima il professor Viola ha fatto un’osservazione molto interessante e, penso, cara a molti dell’uditorio, come lui stesso ha detto: può ritenersi il principio di sussidiarietà parte della teoria del diritto naturale? In che senso?

ROBERT GEORGE:
Il principio di sussidiarietà, che ci consente di avere una sorta di dottrina formale, in realtà non ha radici così antiche, che risalgano ad Aristotele o a Tommaso D’Aquino, anche se in effetti possiamo vederne un primo nucleo già nei primi anni Trenta. E’ proprio perché la nuova teoria del diritto naturale è in continua evoluzione che è possibile andare a recuperare qualche cosa di nuovo da qualche cosa di vecchio. Il diritto naturale va al di là della politica, però include in se stesso delle questioni specifiche che sono di natura politica in quanto sono questioni che riguardano il modo, con cui noi regolamentiamo il nostro vivere insieme, in comunità. Quindi, diciamo che la giustificazione del diritto, quindi dell’autorità politica, è praticamente il bene di tutti, e che il bene di tutti è insito nel diritto stesso, lo giustifica e ne è il motivo. Ovviamente, il diritto naturale deve includere un insieme di aspetti relativi alla teoria della giustizia, e quindi i pensatori, gli intellettuali del diritto naturale, che pensano al bene di tutti gli esseri umani e della loro convivenza, hanno dovuto stabilire come questa convivenza potesse essere esplicitata attraverso il diritto. In questo modo, sono arrivati al principio di sussidiarietà. Il professor Viola ha giustamente riportato un pensiero di Finnis, dove dice che le persone devono fare ciò che è il bene loro e della loro famiglia, non soltanto perché sono le persone più adatte a farlo ma anche perché questo porta al benessere di queste persone e delle loro famiglie. Ma laddove l’individuo di per sé, la famiglia di per sé, come unità, non riesce a fare tutto quanto è necessario per il proprio bene, allora e solo allora può intervenire una unità sociale più grande che può fare in modo che questo bene venga raggiunto nel modo più appropriato, più corretto.
E questo principio può essere portato ai livelli superiori, fino ad arrivare al livello degli Stati-nazione e delle organizzazioni internazionali. Quando queste unità superiori in termini di grandezza, per così dire, siano gli Stati-nazione o le organizzazioni internazionali, usurpano il diritto delle entità più piccole – come l’individuo, come la famiglia – di agire e produrre il proprio bene, ecco che questo è un atto di ingiustizia. La teoria del diritto naturale rifiuta e respinge due estremi. Il primo dei concetti che la teoria del diritto naturale rifiuta è l’individualismo, cioè la teoria in base alla quale conta solo l’individuo, e le relazioni tra individui sono strumentali solo all’individuo stesso. L’altro estremo, opposto, è quello del collettivismo che riduce il ruolo dell’individuo a quello di un ingranaggio nella macchina, per il raggiungimento degli obiettivi dello Stato, i Fuhrer del passato o l’utopia comunista. Anche qui, Andrea, siamo riusciti in un certo senso a trarre il meglio dal punto di vista della dottrina aristotelica, trovando il giusto mezzo.

ANDREA SIMONCINI:
Avrei voluto porre un’ultima domanda, quali sono le ragioni per comprare questo libro anche da parte di chi non è giurista. Ma penso che la risposta sia già stata data sufficientemente.

CAMILLO FORNASIERI:
Molto chiara, mi pare. Tra l’altro, la genesi del libro ha avuto il contributo anche dei dialoghi con gli studenti di Macerata, per cui è esposta in maniera non accademica, in modo raffinato ma anche molto comprensibile e divulgativo. Vorrei solo fare un accenno: andate a rileggere il discorso di Ratisbona di Benedetto XVI, proprio in quel suo allarme sulla de-ellenizzazione, cioè lo staccare la lettura e la consapevolezza cristiana dell’antico. La consapevolezza dell’uomo che si è accorto della sua esperienza in una maniera così originale che costituisce un punto di non ritorno, apre la comprensione all’importanza di questa narrativa del diritto naturale, della riflessione sul tema della legge. Forse, una voce che può ancora parlare per scoprire delle novità per l’uomo contemporaneo a cui neanche la Chiesa a volte parla più, se non di cose spirituali. Questa narrativa fa parte del fatto cristiano e del fatto umano. Grazie, professor George, grazie moltissimo a Viola per la sua chiarezza e militanza e ad Andrea Simoncini, per aver creato l’occasione.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

23 Agosto 2011

Ora

15:00

Edizione

2011

Luogo

eni Caffè Letterario D5
Categoria
Testi & Contesti