INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.

Invito alla lettura

26/08/2011 - ore 15.00_x000D_ Cosa tiene accese le stelle. Storie di italiani che non hanno mai smesso di credere nel futuro _x000D_ Presentazione del libro di Mario Calabresi (Ed. Mondadori). Partecipano: l'Autore, Direttore de La Stampa; Alessandro D'Avenia, Insegnante e Scrittore._x000D_ A seguire:_x000D_ Emilia e i suoi ragazzi. L'opera civile della fede_x000D_ Presentazione del libro di Emanuele Boffi (Ed. Lindau). Partecipano: l'Autore, Giornalista e Scrittore; Stefano Giorgi, Direttore di In-presa.

Cosa tiene accese le stelle. Storie di italiani che non hanno mai smesso di credere nel futuro
Presentazione del libro di Mario Calabresi (Ed. Mondadori). Partecipano: l’Autore, Direttore de La Stampa; Alessandro D’Avenia, Insegnante e Scrittore.
A seguire:
Emilia e i suoi ragazzi. L’opera civile della fede
Presentazione del libro di Emanuele Boffi (Ed. Lindau). Partecipano: l’Autore, Giornalista e Scrittore; Stefano Giorgi, Direttore di In-presa.

 

CAMILLO FORNASIERI:
Un caro benvenuto a tutti. Siamo agli sgoccioli, con l’ultima giornata di Invito alla lettura: anche oggi abbiamo due proposte. Chiedo a tutti di considerare la possibilità di fermarsi. La prima proposta è di Mondadori, della collana Strade Blu, riguarda un libro di Mario Calabresi: Cosa tiene accese le stelle. Dal calore e dall’affetto dell’applauso, si capisce che non è solo un anno che ci distanzia dall’incontro con lui, ma c’è una lettura che intercorre: lui è direttore de La Stampa, giornalista e scrittore. É con noi a parlarne Alessandro D’Avenia, anche lui scrittore, insegnante. E c’è una similarità, perché D’Avenia è scrittore perché è insegnante, e anche Calabresi, credo che sia scrittore perché è giornalista. Perché dico questo? Perché il libro di cui ascoltiamo oggi un’introduzione mette bene in luce quello che Calabresi cerca da tempo: trovare, in alcuni fatti della nostra esistenza, e non fa differenza tra il presente e il passato, la galoppante ansia, la instabilitas loci – cioè, il non sentirsi mai soddisfatti di nulla – che determina molta della comunicazione odierna, del contenuto dei discorsi nostri o che ci circondano. Lui parte da dei fatti per cercare qualcosa di cui sente l’esistenza, di cui vede l’esistenza. Infatti, il libro racconta delle storie italiane ma muove dal desiderio – guardando un tempo difficile come il nostro -, di capire quali siano i fattori, le cose che hanno tenuto insieme generazioni di uomini, padri, madri, i nostri nonni. E sente che c’è una differenza, e vuole capire qual è, vuole tracciarne la discontinuità e nello stesso tempo scoprire, appunto, che cosa tiene accese le stelle, questo bellissimo titolo che ha dato al libro.
La partenza è ardua perché pone il poeta di Recanati in testa, che ci parla dell’oggi e dice: “Questo tempo è gravido di avvenimenti, non lo sprecate. Quando ci libereremo dalla superstizione, dai pregiudizi? Quando trionferà la verità, il diritto, la ragione, la virtù, se non adesso? Quando risorgerà l’amor della patria, quando? Ora è il tempo. O in questa generazione che nasce o mai”. Questo sentimento del presente è perché Mario ha un grande senso della memoria, non so se per una biografia personale ma sicuramente per un senso e gusto dell’esistenza. E’ proprio questo che ne fa per noi una persona cara, e con questo vogliamo entrare nel suo lavoro, perché è il filo che collega ogni cosa. Siamo al penultimo giorno del Meeting, e molti nodi iniziano a collegarsi: siamo partiti con un grande appello sui valori che viviamo, sulla vita che viviamo, a portarli ovunque, che abbiamo ascoltato dal Presidente Napolitano. E abbiamo sentito tante testimonianze nei libri, negli incontri, dove è stato spiegato il tema della certezza: ecco, lui è in questa traccia e chiedo a D’Avenia, tenendo questo filo, di raccontare cosa vi ha trovato.

ALESSANDRO D’AVENIA:
Allora, intanto buonasera, grazie del calore che si trova sempre qui, mi piacerebbe parlare con ciascuno di voi a tu per tu ma non è possibile, tra l’altro vedo alcuni volti noti. E’ un libro, quello di Mario, pericolosissimo, perché è come prendere il caffè per un iperteso. Io già sono uno che ha voglia di fare un milione di cose, quindi, quando ho letto il tuo libro per preparare questo incontro, ho detto: mamma mia! Mi veniva voglia di uscire di casa e costruire una piramide, non lo so, quindi è un libro che consiglio di leggere perché ti mette l’adrenalina addosso. La cosa che ho apprezzato di più, Mario, però è questa, vorrei andare dietro le quinte del libro. Si vede che tu sei appassionato a questo mestiere perché sei appassionato alle persone: fondamentalmente le sai ascoltare, che è un tratto che io trovo molto comune al mio mestiere, quello dell’insegnante, che ha il suo fascino quando stai dietro la cattedra ad assistere a questo miracolo di un ragazzino di 13, 14 anni che a poco a poco, crescendo, trova la sua vocazione, il suo posto nel mondo. Tu di questo, parli: cos’è che tiene accese le stelle? Che ci siano persone che, con le loro qualità, la loro capacità di costruire qualcosa di positivo, facciano di questo mondo un mondo illuminato da queste stelle. Allora, una cosa che mi è venuta in mente leggendo, è questa: io faccio un po’ il professorino, insegnando latino, abbi pazienza. Tutti sappiamo che questa parola, stelle, ha a che fare con il desiderio, desiderare. Cambiamo un attimo il pre-verbo, de-siderare. Sì, guardare questo spazio del cielo in cui si vedono queste stelle, ma avete provato a metterci davanti il prefisso con? Considerare, perché forse, oggi, quello che dobbiamo imparare a fare, prima di desiderare è considerare. Abbiamo degli spazi, tu ad un certo punto dici che oggi non c’è spazio per i sogni perché non c’è uno spazio interiore in cui coltivarli e non si riesce neanche a raccontarli a se stessi. Allora, prima ancora di guardarle, le stelle, troviamo uno spazio per poterle guardare? Cioè riusciamo a con-siderare, a poter stare con loro?
Io, poi ho chiesto al mio nipotino di quasi tre anni la risposta a questa domanda, perché i bambini ne sanno molto più di noi. Ho chiesto a lui, magari te lo dico, dopo. Adesso però ti vorrei fare una domanda: sembra che tu sia uno che riesce a con-siderare, ti metti lì e ascolti le persone, ma ad un certo punto hai il coraggio di dire che ogni epoca ha una forma di resistenza e la forma di resistenza della nostra epoca è quella di non lamentarsi, dovrebbe essere quella di non lamentarsi, che è diventato uno sport nazionale. E usi questa frase che, se io la usassi in classe, verrei bacchettato, dici: “Perché è bello vivere delle proprie sfighe, è molto rassicurante”. Allora, ti vorrei chiedere: io, l’anno scorso, per la prima volta dopo dieci anni da quando ho iniziato ad insegnare, ho avuto il contratto a tempo indeterminato. Prima guadagnavo mille euro, contratto a tempo indeterminato, mille euro, se non avessi scritto un libro di successo sarei nella stessa situazione di prima, quindi sono stato anche fortunato. Allora, ti chiedo: certo, hai un bel coraggio a dire che non ci dobbiamo lamentare, ma uno, dopo dieci anni per mille euro, un minimo di lamentela può anche farsela uscire dalla bocca? Ti vorrei chiedere se questa non è una posizione un po’ troppo ottimista, un po’ buonista, o se invece possiamo veramente usare come forma di resistenza la non lamentela.

MARIO CALABRESI:
Innanzitutto, grazie e buon pomeriggio a tutti. Ho scritto questo libro per una sensazione di urgenza, perché sentivo questa cosa che hai ben spiegato, sentivo questo ripiegarsi del Paese e questa idea, che il primo dovere è quello di lamentarsi, sacro, come qualche cosa che sta diventando troppo pericolosa, soprattutto come messaggio ai più giovani, a tutti quelli che sono qui. Ho un po’ questa cosa, in tutte le interviste che faccio, la gente mi dice: “Lei è un grande ottimista, è un buonista”. E sorridono, però sono cosciente che ottimista e buonista sono diventati un po’ due insulti. Uno ti dice: “sei ottimista”, ed è un po’ un sinonimo di uno così, che ha le fette di prosciutto sugli occhi, o “buonista”, un cretino. Allora, io non mi sento ne’ ottimista ne’ buonista, nel senso che i problemi li vedo benissimo, i curricula che mi arrivano ogni giorno, sul computer, di ragazzi disoccupati, ragazzi che ormai hanno 35, 37, 39 anni, hanno figli e fanno i giornalisti e sono disoccupati e magari laureati, hanno un master, parlano tre lingue, e sono in una situazione difficile, li vedo benissimo.
Il punto però è se è opportuno che un Paese intero, di fronte alle difficoltà, pensi che il massimo che può fare è quello di gridare a alta voce la difficoltà. La difficoltà va espressa, cioè, chi prende mille euro deve dire no, mille euro per questo lavoro che faccio sono troppo pochi, non potete lasciarmi anni e anni in questa precarietà, oppure, datevi da fare, classi dirigenti, per costruire, per darci delle possibilità. Però, non è neanche possibile immaginare che poi uno, per il resto, stia ad aspettare e si culli sul fatto “in che Paese disgraziato viviamo, che Paese in declino!”.
La cosa che mi ha più spaventato è questa: ricevo un sacco di lettere, da un anno e mezzo, e-mail e lettere che arrivano alla rubrica dei lettori de La Stampa, a cui rispondo tutti i giorni. E ricevo un sacco di lettere di persone diciamo tra i 50 e gli 80 anni che mi dicono, ogni giorno: “Non avrei mai pensato che l’Italia sarebbe finita così, avevo sperato di vedere un altro Paese, invece, oggi, che delusione, come stavamo meglio prima”. In parte, queste lettere le ho trovate sempre comprensibili, e poi ho 41 anni, ma mi accorgo adesso di avere dei rimpianti, perché poi uno rimpiange il passato, gli amici, le persone che non ci sono più, delle situazioni, gli anni che non ha più. In un certo senso, è comprensibile. L’allarme mi è venuto quando ho incominciato a ricevere con costanza lettere di ragazzi dai 17 ai 22 anni, che mi dicevano: “Tanto, è inutile che studio, perché tanto non c’è futuro, non c’è possibilità”. E questa frase, che è andata tanto di moda negli ultimi mesi, che io trovo terrificante: “Ci hanno rubato il futuro”. Allora, scusatemi, io sono un po’ tranchant, secondo me su certe cose è inutile stare lì a fare della letteratura. Ai ragazzi, a chi ha 17 anni, 18 o 20, il futuro non gliel’ha rubato nessuno, il futuro è lì, è vostro, anche dal punto di vista anagrafico, è vostro, ve lo dovete prendere, ve lo dovete conquistare. E allora, penso che il più grande dei delitti che stanno facendo oggi i genitori, i nonni, gli zii, sia quello di dire ai ragazzi, con una sorta di atteggiamento, da una parte protettivo, dall’altra di comprensione: “Poverino” e “Capisco, siete condannati alla precarietà”, “Riduci un po’ le tue aspettative, se no resti deluso”. Quando vengono dei ragazzi che si stanno iscrivendo all’università e mi dicono: “Sa, avevo pensato che mi sarebbe tanto piaciuto fare il giornalista ma mi hanno spiegato che ormai non c’è più nessuna possibilità”, io gli dico: “No, ci sono un sacco di difficoltà, è indubbio, ma non solo a fare i giornalisti, a fare un sacco di cose. Ma domani, tra dieci anni – l’età media dei giornalisti oggi è intorno ai 51, 52 -, ci dovrà essere ancora qualcuno che scrive i giornali, i siti Internet, che manda avanti le radio, le televisioni, e sono quelli della tua età”.
Allora, il punto non è fare un passo indietro per paura di rimanere delusi, ma investire il doppio. E qui rubo una frase a te, Alessandro. Perché dovete sapere che uno degli stimoli di questo libro, per cui sono felice di presentarlo con D’Avenia, è che il signore qui presente, in autunno, ci ha invitato a Milano a un incontro che partiva dalle poesie di Montale. E lì D’Avenia ha detto che “bisogna dare ai ragazzi, ai giovani, una nostalgia di futuro”. Una frase che mi è rimasta nella testa e mi si è aperta nella testa.
Lui è un professore di latino, frequenta i classici per cui dice “nostalgia di futuro”: io invece la banalizzo e dico che ai ragazzi bisogna ridargli un po’ di fame, fame di andare a riprendersi le cose, a riconquistarsi le cose, fame di costruirsi una vita, di inseguire i propri desideri. La persona che più mi sta a cuore in questo libro – dove faccio una serie di incontri per parlare dell’Italia che è stata e dell’Italia che può essere, e ci sono persone che vanno da Benigni a Jovanotti, a Veronesi, l’oncologo, professori universitari – è una persona di 13 anni, Amal, si chiama, che ha finito la terza media e adesso inizia il liceo classico. E’ ligure, cioè, è marocchina, nel senso che è nata a Rabat, in Marocco, ma è arrivata in Liguria, a Taggia, Provincia di Imperia, quando aveva 3 anni, ed è sempre stata lì.
Quest’anno, per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, c’era una cerimonia a Montecitorio con il Presidente della Repubblica e tutti i parlamentari, i senatori, ed era invitato un rappresentante per ogni Regione italiana, e si era pensato che il rappresentante sarebbe stato il miglior studente delle scuole medie di ogni Regione. Viene individuata una scuola che ha un livello molto alto, che è questa scuola di Taggia, e viene chiesto al preside, o come si chiama adesso – adesso tutti i nomi sono cambiati, tipo dirigente scolastico, non esiste più un nome uguale. Ho chiamato la scuola e ho detto: “posso parlare con il preside?” e loro: “il preside non c’è più”. E io dico: “in che senso, non c’è più, è scappato, l’hanno rapito?”. “No, si chiama dirigente scolastico”. “Ah, ho detto, perché il Provveditore mi ha segnalato…”. “No, il Provveditore non c’è più”. Dico: “Anche il Provveditore è andato con il preside?”. Mi dice: “No, adesso si chiama Dirigente Scolastico Provinciale”. Dico: “Va beh, ho capito, comunque quello che faceva il preside un tempo, che è in carico della scuola, me lo può passare?” – di segnalare il migliore studente o studentessa della scuola. Lui parla con tutti gli insegnanti e dice: “Ah sì, c’è Amal che ha un solo 9, tutti gli altri sono 10, il 9 è in Educazione Fisica, mandiamo Amal”. Compilano il modulo e, quando arrivano a “cittadinanza: marocchina”, il preside e gli insegnanti e il Consiglio d’Istituto dicono: “Come facciamo a mandare a rappresentare l’Italia alle celebrazioni dell’Unità, una ragazza marocchina?”. E poi il preside dice: “Sì, ma come faccio, tutti lo sanno che è la più brava della scuola, come faccio ad andare da lei a dirle:
“Tu saresti la più brava della scuola, io all’inizio dell’anno vi ho fatto un discorso e vi ho detto che qui premiamo il merito, che siete tutti uguali e che premiamo l’impegno e la passione delle persone; però, siccome sei nata nel posto sbagliato, scusa, facciamo passare uno che ha dei voti più bassi dei tuoi”. Allora, dice, l’abbiamo mandata anche se c’era scritto: Rabat, Marocco. Nessuno ha detto niente e l’hanno chiamata, e lei è andata davanti al Presidente Napolitano a presentare la scuola.
Allora, io sono andato a trovare questa ragazza, ho conosciuto i genitori, il padre che ha fatto il muratore, il camionista, adesso fa le pizze, la mamma che faceva la badante, adesso cura i figli, perché lei è la figlia più grande, poi ha due bambini, due fratellini più piccoli. La loro casa ha una camera da letto dove dormono i genitori coi bambini, una stanza che fa da salotto, da pranzo e da camera da letto di Amal, perché il divano diventa un letto, un cucinino e un bagno. Amal durante il giorno studia in bagno perché, come mi ha detto lei, “i fratelli fanno troppo casino e non riesco a studiare”. Amal mi ha detto due cose fondamentali, ti faccio inorridire, professore. Le ho chiesto: “che libri leggi?”. E lei, forse per farmi contento, mi ha detto: “Ho letto tutto Harry Potter, e poi ho letto Il diario di Anna Frank, adesso sto leggendo L’eleganza del Riccio, però mi piacciono soprattutto le scrittrici inglesi di fine Settecento, inizio Ottocento, per esempio, non so, la Radcliffe”. Io ho scritto Radcliffe così come ho sentito, poi a casa sono andato a vedere su Google come si scriveva, e lei mi dice: “Vero che è bellissima, la Radcliffe?”. Io, tra me e me, ho detto: “Questa sta parlando al direttore de La Stampa, uno che scrive dei libri, e allora mi vergogno”. Però adesso a voi lo dico, ho detto: “E’ bellissima”. Magari un giorno, in una libreria, cerco qualcosa della Radcliffe per sanare questa bugia che ho dovuto dirle.
E allora… gli insegnanti mi hanno detto: “E’ bravissima, è bravissima”. Lei studia tutto il giorno, studia tutta la sera, il padre torna dalla pizzeria a mezzanotte e la trova seduta in salotto, con la porta socchiusa, e fanno questo gioco. Il padre dice: “Io apro la porta senza che lei se ne accorga e la guardo, e lei è seduta per terra, sul tappeto, in quello che lei chiama il suo mercatino dei libri, circondata dai suoi libri e legge”. La figlia mi ha detto:
”Tutte le sere mio padre arriva, apre la porta, mi guarda ma io, per non imbarazzarlo, perché lui pensa che mi sta guardando senza che io lo so, faccio finta di niente per non dar nell’occhio, faccio finta di non sapere che mi sta guardando”. A lei ho chiesto: “Ma perché studi?”. E lei mi ha detto: “Perché il mio destino sarebbe già scritto, sono nata in Marocco, mi chiamo Amal, ho una carnagione olivastra, non ho il passaporto italiano, posso pensare di far che cosa? La badante…”. E poi ha guardato sua madre come per dirle: “Non ti offendere, non è una critica nei tuoi confronti”. La madre le ha fatto segno con la testa, come dire: “No, non ti preoccupare”. “… potrei lavorare in un ristorante, fare la cameriera, cioè, bene o male l’infermiera in un ospedale”, dice. “Non è che queste cose mi facciano schifo, però questo è il destino che sarebbe, secondo me, segnato e scritto per me. Invece, ho pensato che voglio avere un altro destino, ma siccome non siamo ricchi, come può vedere, non conosciamo nessuno, non abbiamo agganci, raccomandazioni, non abbiamo niente…” e poi ha guardato il papà di traverso, e dice: “Non voglio fare la fine di mia cugina che ha smesso di studiare e lo zio l’ha rimandata a Rabat, a 17 anni, per un matrimonio combinato, a sposarsi con un lontano cugino”. Ha guardato il padre e gli ha fatto segno. E il padre ha detto: “No, no… io sono diverso da mio fratello, non ti preoccupare”. E lei: “Sarai diverso, ma sappi, te lo metto chiaro qui, io matrimoni combinati con cugini tuoi non ne faccio”. E allora, lei mi ha detto: “Io, l’unica cosa che ho è puntare su me stessa, è studiare, essere la più brava, e allora… studio, studio più che posso, sono la prima della classe, voglio andare al liceo classico di Sanremo dove ha studiato Dulbecco, dove ha studiato Calvino”. E ce l’ha fatta ad andarci, ci va con la borsa di studio: “Voglio andare lì, poi voglio studiare Medicina e diventare un cardiochirurgo”.
Io, conoscendo l’Italia e sapendo che di cardiochirurghi donne, in Italia, non so neanche se ce ne siano, comunque pochissime, ho fatto un po’ come dire: “Eh..”. Lei mi ha fulminato e mi ha detto: “Ma perché non posso sognare, desiderare di fare il cardiochirurgo?”. Io sono rimasto un attimo interdetto, e lei mi ha detto: “Perché oggi va di moda dire ai ragazzi che devono anche sognare col freno a mano tirato, che si può sognare ma fino ad un certo punto, e ti devi fermare lì?”. E mi ha guardato e mi ha detto:
“Ma almeno lasciateci sognare un po’, se poi non diventerò cardiochirurga farò la pediatra, farò un altra cosa, andrò a fare il medico di base, ma almeno i sogni, quelli lasciateceli intatti”.
Questa è la fame di Amal, che mi ha spinto a dire: “Faccio questo libro”. Perché penso che bisogna restituire un po’ di questa fame, un po’ di questo desiderio, e soprattutto bisogna smettere di dire ai ragazzi: “No, potete desiderare e sognare ma fino ad un certo punto”. Molti genitori lo fanno, pensano di farlo a fin di bene, perché dicono che ‘se poi non riesce ci resta male, e allora è meglio rinunciare in partenza’. E invece io dico: “No, lasciate dei sogni pieni, dei desideri pieni perché, anche se poi falliranno, avranno tenuto compagnia, avranno dato energia, saranno stati dei compagni di strada. E’ questa la cosa che bisogna fare, penso sia la cosa fondamentale che va restituita: in Italia, bisogna restituire il desiderio.

ALESSANDRO D’AVENIA:
Ok, mi hai convinto. Ti è andata bene con la Ratcliffe, perché a me una volta è successo, inizio anno in prima scientifico, di sentirmi dire: “Il mio libro preferito è Geronimo Stilton”. Io credevo che fosse un autore inglese che mi sfuggiva, poi invece ho scoperto essere un topo che fa le puzze durante gli spettacoli. Buonismo, ottimismo, su questo ci troviamo. Mi è piaciuto in quello che hai raccontato il fatto che lei ti abbia rimbrottato quando ha visto che tu con gli occhi dicevi: “No ma stai esagerando, stai sognando troppo, tieni i piedi per terra”. Allora, ritorno al discorso di prima. Noi siamo in una società in cui diventiamo ciò che guardiamo. Allora mi chiedo: in quali occhi questi ragazzi possono vedere questa possibilità di sognare? Perché è dagli occhi di un adulto che crede nella loro vita che può partire questo slancio di cui tu parli. Ad un certo punto, nel libro, dici una frase bellissima: “il più bel regalo che si può fare oggi a un bambino è quello di incoraggiare ciò che ha nel cuore”. Allora, ritorno al discorso del mio nipotino. Io ho chiesto: “Senti, Giulio” – fa tre anni ora, a settembre, sa benissimo che ho scritto un libro. “Ma se tu dovessi scrivere un libro, come lo intitoleresti?”. Visto che ho scritto un libro che ha a che fare con i colori, lui mi ha detto: “Lo intitolerei Azzurro come il cielo e giallo come il sole”. Ho detto: “Sei sulla buona strada, avrai un grandissimo successo!”. Gli ho chiesto: “Senti, Giulio, ma secondo te – eravamo all’aperto, c’era il cielo stellato – “chi ce le ha messe le stelle lì, li sopra?”. E lui mi ha risposto, con il suo italiano un po’ titubante: “E’ che quelli sono tanti bambini che poi entrano nella pancia delle mamme, e siccome non ci sta tutta quella cosa nella pancia della mamma, scoppia e così sono venuto io”. Cioè, cos’è che tiene accese le stelle? Il fatto che c’è un’energia che, ad un certo punto, viene catalizzata da un progetto d’amore e comincia a esistere. Gli ho chiesto: “Senti, Giulio, ma questa qui chi te l’ha detta?”. E lui mi ha detto: “Questa me l’ha detta la nonna”.
Mi è piaciuto, perché poi la nonna è mia mamma, che si capiscano due generazioni, mia mamma ha quasi 70 anni, Giulio ne ha due. Cos’è che tiene accese le stelle? Perché mia mamma riesce a dialogare con un bambino di due anni dicendogli esattamente una cosa che lo convince? Perché per far precipitare una stella ci vuole che qualcuno qua sotto abbia un progetto per quella stella. Allora, ritorna il discorso: vorrei chiedere ai ragazzi: per poter desiderare, che cosa devono considerare? Chi possono guardare? Tu parli ad un certo punto di padri, di maestri, questa è un’altra grossa battaglia nel libro che sto scrivendo, che uscirà a novembre. Si parla fondamentalmente di questo, di questa nostalgia di futuro che è nostalgia – se posso aggiungere un sinonimo – di padri, cioè di persone, guardando gli occhi delle quali io possa dire: ok! Anche se ci saranno difficoltà, vedo che la mia vita è una vita che merita di esistere, come Giulio è convinto che sia per le stelle.
Mi viene in mente questo adesso, visto che professorino? Quando i soldati romani facevano una battaglia, alla fine della sera tornavano nell’accampamento e c’era una serie di soldati che erano addetti ad aspettare quelli che erano andati a combattere. E alcuni non tornavano, dovevano fare il conteggio di quelli che non tornavano. Questi soldati che non tornavano erano chiamati i desiderati, perché erano coloro che venivano attesi fino a che le stelle non sorgevano e poi, quando faceva buio, era ormai troppo tardi. Allora io mi chiedo: chi è che sta aspettando questi ragazzi? A un certo punto del libro, tu parli di lavoro come servizio: se non cambiamo l’idea che c’è oggi di lavoro questi ragazzi non li desidera nessuno. Parli ad un certo punto, con De Rita, del fatto che l’individualismo ormai ha tirato la corda, non va più avanti, eppure molto spesso è impossibile desiderare perché non si hanno occhi da considerare. Allora ti chiedo: noi, dove li troviamo questi maestri, questi padri?

MARIO CALABRESI:
Ma chi l’ha deciso che lui fa le domande e io devo dare le risposte?

ALESSANDRO D’AVENIA:
Tu mi hai invitato

MARIO CALABRESI:
Mica a far domande, doveva essere dialogare, capisci? Adesso chiuderò con una domanda io, però devo trovarla difficile. Innanzitutto, una cosa è sbagliata, l’idea che non ci sia più niente da guardare, niente da osservare. Banalizzo, c’è una domanda classica che si fa sempre: si dice, per esempio, che la classe politica, la classe dirigente è specchio di un Paese. Nei vari Paesi, storicamente, la gente fa questa domanda: è la classe dirigente specchio del Paese in questo momento? Tanti anni fa, se non sbaglio, Salvemini disse: “Il Parlamento italiano, la classe politica italiana è specchio del Paese, nel senso che il 40% è peggiore dei cittadini, il 40% è migliore, il 20% è identico”. Io ho sempre pensato che una classe politica fosse sostanzialmente corrispondente al Paese, nel bene e nel male. Oggi, senza fare del qualunquismo, penso invece che la classe politica sia peggiore del Paese che c’è e penso anche della rappresentazione del Paese che danno gli organi di informazione. E lo dice uno che fa il giornalista, fa anzi il direttore di un giornale, quindi, per la percentuale che mi riguarda, me ne assumo la responsabilità. La rappresentazione che si fa del Paese non corrisponde alla realtà del Paese. In questo senso, io penso che nel Paese – e questo me ne accorgo andando in giro nelle scuole, andando in molti luoghi di difficoltà – ci siano dei giacimenti di energia e di passione che molti di voi conosceranno, incontreranno tutti i giorni, vedono: sono i vostri insegnanti, sono i vostri educatori, sono le persone con cui avete fatto una vacanza, con cui avete condiviso un progetto, con cui fate delle cose.
Ci sono persone che possono essere esempio, basta iniziare ad essere capaci di guardare, di osservare. Il problema del Paese è tirare dei fili che mettano insieme, che costruiscano reti tra le energie che ci sono e soprattutto diano un’agenda politica. Tante volte si dice: “Ah, per salvare l’Italia, ma dov’è un Obama italiano?”. Adesso Obama è un po’ in declino, quindi non si usa più Obama. Ci sarebbe bisogno di un Obama italiano, cerchiamo un Obama italiano che ci risollevi. Io non penso che ci voglia un Obama italiano, io non penso che dobbiamo essere ancora qui ad aspettare un personaggio carismatico che arriva e salva il Paese. Il Paese lo salveranno gli italiani, lo salveranno le persone, il futuro lo costruiranno i ragazzi, non è che deve arrivare qualcuno che gli dice: “Toh, questo qua è il tuo futuro, prendilo e portalo a casa, te lo incarto”. Il problema però è avere qualcuno – classi dirigenti, maestri, insegnanti – che alzi lo sguardo e che incominci a pensare non a sei mesi, non a un anno, ma a cose che hanno un orizzonte di cinque anni, dieci, venti. Se pensate al progetto dell’alta velocità che deve passare in Italia e anche in Val di Susa, e che sta provocando grandissime polemiche e scontri… Ci sono persone che mi dicono: “Ah, ma poi è una roba che sarà pronta nel 2025, ma stiamo qui a discutere una roba del 2025!”. Se pensiamo al 2025 o al 2050, pensiamo a una roba lontanissima. Chiunque abbia compiuto 40 o 50 anni, sa che arrivano in un momento. A me il tempo delle scuole non sembra una roba così lontana, certo, è passato del tempo ma è volato. Allora, chi avrà 50 anni nel 2050 non solo è già nato, va in prima media. Allora, a un genitore e agli adulti bisogna dirgli: dovete preoccuparvi dell’Italia del 2025, del 2050. Iniziare a dire: attenzione, devi pensare a quello che servirà a tuo figlio quando sarà adulto, è tra un attimo. Queste cose vanno declinate così, e allora è tra un attimo. Bisogna rifarsi carico di alzare la testa e progettare sul lungo periodo, non pensare al minuto dopo.
In un certo senso, bisognerebbe recuperare un po’ di saggezza contadina, perché i contadini non è che pensavano di piantare sempre qualche cosa che veniva fuori tre mesi dopo, piantavano degli alberi sapendo che il raccolto sarebbe arrivato dopo, non lo so, Massobrio, quanto tempo ci vuole perché un albero di pesche faccia le pesche, quanto ci vuole da quando lo pianti? Almeno cinque anni, non me ne intendo, però Paolo Massobrio queste cose le sa. Allora, uno dice: piantavi un albero e non pensavi che dopo mezz’ora ne avresti goduto i frutti. Ormai siamo in una società in cui uno fa una cosa e deve vedere i risultati in 20’. Invece, bisogna riconquistare un’idea, che le cose devono avere un orizzonte lungo, che ci vuole una pazienza, che ci vuole fame e ci vuole pazienza. E poi, l’ultima cosa, ci vuole, quando la gente mi dice: “Eh no, ma oggi però sono tempi difficili”, quasi come giustificazione a non combattere. Ma è nei tempi difficili che bisogna combattere, mica in quelli facili. Allora, adesso che c’è la crisi, che ci sono le difficoltà, che è più difficile trovare lavoro, è adesso che bisogna combattere il doppio, è adesso che bisogna mettersi in gioco, perché nei tempi facili si poteva fare il sufficiente, invece oggi non è richiesto il sufficiente. E allora, la cosa che io sento, l’urgenza che io sento è alzare la testa e guardare lontano e dire: devo costruire e combattere perché quel futuro lì deve essere il mio futuro, non me l’hanno rubato, il futuro, me lo devo conquistare.

ALESSANDRO D’AVENIA:
Non mi hai fatto la domanda: posso dire una battuta finale ? Hai usato la parola magica, patire. Una cosa che vorrei dire a questi ragazzi che sono seduti per terra – a te ti conosco – è questa: quante cose nella vostra giornata voi portate al livello del patimento? Perché oggi, per potersi appassionare a voi, bisogna ricordarvi che occorre anche patire, perché la parola passione non è solo il trasporto erotico che si ha verso una cosa, è anche il patire per questa cosa. Allora, vi lascio con questa domanda: quante sono le cose che nella vostra vita raggiungono questo livello di trasporto, che è anche un poter e dover patire? Saranno quel pezzettino di anima che dovete salvare e che vi consentirà di fare quello che ha detto Mario, cioè sopportare le frustrazioni di ciò che non riesce, di ciò che non viene. E ve le dovete trovare adesso, questo è il momento di farlo.

MARIO CALABRESI:
Io vi lascio con una suggestione un po’ estrema. C’è un blog, sul sito de La Stampa, di una ragazza che si chiama Anna staccato Lisa. Il blog si chiama: “Ho il cancro”. E’ una ragazza giovane che ha un tumore ormai da anni, pensava di averlo sconfitto, si è ripresentato e oggi è un tumore con un sacco di metastasi: ormai è in un reparto di cure palliative dell’ospedale di Livorno. Mi hanno raccontato la sua storia e mi avevano segnalato il suo blog. L’ho visto, l’ho contattata, le ho parlato e abbiamo messo il suo blog sul nostro sito. Io ho un rapporto con lei, vi invito ad andarlo a leggere. Quel giorno in cui tornerete a casa e la vostra amica del cuore vi avrà irritato, oppure non vi sentirete capiti dai genitori, oppure a scuola avete preso un brutto voto e dite: non mi capiscono, il mondo non mi capisce. O il fidanzato che guardavate guarda un’altra: nel momento in cui una cosa vi sembrerà terribile, andate a leggervi questo blog. Io leggo questo blog perché mi sta insegnando un sacco di cose, racconta una ragazza che sa che le resta poca vita ma, anziché disperarsi, ha la sensazione che ogni minuto di vita sia un minuto che vale la pena di essere vissuto. E lei lo vive, cercando di apprezzare le persone, gli amici, una lettera, un messaggio, una nuvola che passa fuori, una luce, un fiore che le hanno portato. Il suo fidanzato, la domenica precedente a questa, l’ha sposata in ospedale. Si è sposata con la bombola d’ossigeno, su una sedia a rotelle, però le infermiere le hanno fatto tutta la sedia a rotelle con i fiori bianchi e con il velo. Lei ha detto: mi hanno fatto una sedia a rotelle bellissima, è stato un matrimonio bellissimo. C’erano 200 persone, 200 pazienti dell’ospedale che sono andati nella cappella per stare vicino a lei, le hanno fatto una torta meravigliosa e lei era felice. Allora, leggete e rileggetela ogni volta che pensate che la vita vi sia terribilmente avversa, perché vi hanno dato un sacco di compiti o il compito in classe è andato male. Leggetelo e capite che, veramente, ogni minuto che uno ha da vivere è un minuto che vale la pena di essere vissuto. In bocca al lupo.

CAMILLO FORNASIERI:
Grazie davvero a Mario Calabresi, vorrei chiedere ad Alessandro D’Avenia se vuole dare uno spunto che ci connetta con il libro successivo ma anche con tante parole che abbiamo ascoltato. Mario ha detto: “Dare fame di desiderio o restituire il desiderio”. La cosa più terribile è interrompere questo desiderio. Abbiamo avuto testimonianza, nelle storie che lui ha raccolto ma soprattutto nel desiderio che lo muove a cercarle, a riconoscerle, che nella vita è contenuta la traiettoria intera dell’umano. Non dobbiamo pensare che ci sia una risposta che si sovrappone: se non c’è fame di desiderio, è perché non c’è contatto con la vita, perché c’è chi non vuole che la sfida della libertà inizi, perché la sfida della libertà inizia quando c’è rapporto con il reale. Questo rapporto col reale può essere impedito, costretto, messo in vetrina da mille motivi e discorsi: è il grande tema dell’educazione. Io sono molto amico dell’ insegnante di Amal: questa possibilità di maestri esiste, il dramma è quando l’io è solo. Spesso, quelli che dicono che il futuro non vale più la pena, che non vale più la pena di studiare o fare niente, è perché hanno tutto e di tutto si può soffocare. Ci riempiono – come diceva Vittadini l’altro giorno, parlando di Portofranco – come si riempie l’oca di mangime, perché venga poi un fegato utile alla società. Ecco, il mangime vero, è l’aria della vita e l’impatto col reale: e questa è la traiettoria che ci mette insieme a Calabresi. Credo che lui rimanga con noi a sentire il prossimo incontro: dopo, per chi vuole, scriverà dediche al libro qui in libreria. Grazie ancora.

CAMILLO FORNASIERI:
Per questa seconda proposta di Invito alla lettura abbiamo un libro edito da Lindau e dalla Fondazione Emilia Vergani: il libro è stato scritto da Emanuele Boffi, giornalista di Tempi. Lo salutiamo, con lui c’è il direttore di quest’opera, In-presa, che la Fondazione Emilia Vergani gestisce e coordina, Stefano Giorni, già insegnante e oggi direttore di questa straordinaria e bellissima In-presa, impresa umana e impresa di fede. Il luogo è alle propaggini di Milano, della Brianza, il libro ha già qualche mese di vita ma, sia per la carissima vicinanza con la famiglia Cesana – Emilia era la moglie di Giancarlo Cesana -, sia per il significato che quest’opera rappresenta, la sua genesi, la sua origine ed il suo sviluppo oggi sono uno dei punti importanti ed interessanti che abbiamo visto in questo ciclo di incontri di opere e di testimonianze. Emilia e i suoi ragazzi. L’opera civile della fede: c’è una intervista ad Angelo Scola, Patriarca di Venezia al momento dell’intervista ed oggi Arcivescovo di Milano. Do subito la parola ad Emanuele perché racconti cosa ha inteso fare con questo libro. Dico solo che siamo di fronte al punto profondo, non nel senso che richieda chissà quali conoscenze, ma il punto decisivo, che sta al fondo dei racconti che abbiamo sentito prima, senza i quali ultimamente il coraggio – perché c’è paura anche nel vivere – e il rischio sulla libertà sono impossibili, possono non reggere la sfida del tempo. Ieri abbiamo ascoltato Hadjadj che diceva che in questa post modernità il senso del tempo non c’è più, è finito, perché l’orizzonte normale con cui si vive è che non c’è più nessuna cosa che valga la pena. E proprio per questo la vita si incarta, si storta ed è proprio per questo che la nostra vita è stata risuscitata da qualcuno. Emilia è una croce, un punto di incrocio di queste due dinamiche. Ma vorrei che loro lo raccontassero anzitutto a voi. Grazie.

EMANUELE BOFFI:
Quando qualcuno mi chiede di descrivere questo libro, la prima cosa che mi viene in mente è che questo è un libro corale, cioè un racconto fatto di tanti racconti. Infatti, la storia di In-presa, questo piccolo centro che oggi è diventato molto più grande, è raccontata da tutte le persone che, in qualche modo, ne sono state toccate, alcune tangenzialmente, altre perché gli ha modificato la vita, gli ha fatto fare delle scelte di vita. E’ un racconto fatto di racconti e, come diceva giustamente Camillo, un racconto che ha un’origine, come un fiume che nasce da una montagna e poi scende a valle, tocca le rocce, tocca i terreni, e alcuni ne vengono semplicemente lambiti, altri vengono invece presi in pieno. La cosa impressionante è che qualunque persona sia stata anche solo toccata, solo sfiorata, oppure – è il caso di Stefano Giorgi ma anche di Franca Scanziani ed altri – sia entrata in questa storia, tutti hanno percepito – e lo raccontano nel libro – una grande positività per sé. E anche le persone (e forse è proprio questo il fatto che più mi ha impressionato) che, magari per circostanze della vita, per problemi, per screzi, per piccole miserie umane, a un certo punto hanno interrotto questa storia, sanno che quando In-presa è entrata nella loro storia personale, quello è stato un bene. Il riconoscimento del bene è oggettivo e non viene schiacciato neanche sotto la pressa del risentimento. Per cui, a me viene da dire che la storia di In-presa è stata un’occasione per cambiare la storia personale di molti, e quindi anche della società. Con una parola più profonda, dovremmo dire che la storia di In-presa è stata per tanti un’occasione di conversione, cioè di scegliere un’altra strada, di cambiare.
Due parole sulla struttura del libro, in modo tale che vi rendiate conto anche di quale sia la storia di In-presa: c’è una prima parte dove vengono raccontate le origini di In-presa. Emilia Vergani era un’assistente sociale di un piccolo paese della Brianza, Carate Brianza. Si racconta poi di come, successivamente, lei abbia coinvolto i primi amici per aiutare i primi ragazzi di cui ha iniziato a occuparsi. E poi, tutto lo sviluppo di questa storia, con la morte di Emilia, il funerale. E il fatto che da questo piccolo embrione sia nata, si sia sviluppata una cosa sempre più grande. Oggi è una grande scuola, Giorgi vi racconterà meglio. Nella seconda parte si dà la parola ai protagonisti di In-presa, cioè i ragazzi, gli imprenditori da cui questi ragazzi vanno a fare degli stage, e poi gli assistenti sociali, perché Emilia era un’assistente sociale e a volte c’è bisogno anche del loro aiuto. Nella terza parte, c’è un’intervista a Scola, il sacerdote che ha sposato Emilia con Giancarlo e che ha detto la Messa del funerale. Poi, un breve ricordo, una decina di righe scritte da Giancarlo, in cui parla della moglie.
Chi sono i ragazzi di cui si occupa In-presa? Sono ragazzi che di solito hanno le mani in tasca, cioè abituati a non fare. Alcune volte vengono definiti i ragazzi del divano, cioè quelli che passano la giornata sul divano, oppure i figli dei bidelli (perché passano più tempo a scuola coi bidelli che non in classe): tutte definizioni poco simpatiche. Scola, nell’intervista, li chiama a un certo punto “gli adolescenti della prima generazione incredula” e poi, utilizzando un verso di Eliot, dice che noi viviamo in una società di “uomini impagliati”: da uomini di paglia, è inevitabile che ci siano figli di paglia. Oggi, il modo di definire questi ragazzi è drop-out, cioè ragazzi a rischio di emarginazione sociale. Emilia ha iniziato ad occuparsi di drop-out prima che esistesse la definizione sociologica, quando addirittura, nel campo dell’assistenza sociale, nessuno si occupava di loro perché ci si occupava delle famiglie disagiate, un po’ a compartimenti stagni. Lei invece ha visto che, nei confronti di questi adolescenti, serviva un intervento specifico per recuperare i cosiddetti irrecuperabili. Emilia si occupò di loro nella sana pretesa che la fede – questo è il punto centrale del libro – fosse un metodo adeguato ed efficace per rispondere a tutto, non solo a una parte. Non mi occupo di te soltanto perché ti devo trovare un lavoro, non mi occupo di te soltanto perché non vai d’accordo con tua madre, mi occupo di te su tutto. Hai bisogno di un lavoro, facciamo in modo di trovare un lavoro. Ma hai bisogno anche degli amici, facciamo in modo di stare con gli amici. Hai bisogno di tornare a scuola perché devi recuperare certe nozioni che possono essere importanti? Facciamo in modo, attraverso il lavoro, di recuperare queste nozioni. Uno sguardo globale sull’umano, non soltanto su un settore.
Emilia era una madre, un’assistente sociale, un’operaia di carità. La definizione “operaia di carità” secondo me è la più bella, non è mia ma del mio direttore, Luigi Amicone. È la più bella perché dà l’idea del fare, dell’operare ma con dentro uno sguardo più grande, appunto quello della carità, l’amore più grande. Io sono un brianzolo di Carate, sono stato in classe alle elementari, alle medie e alle superiori con il figlio di Emilia, a casa Cesana sono stato spesso: ma la cosa che non sapevo di Emilia è che lei si occupava veramente di tutti. Non diceva: mi devo occupare di quelli lì perché la mia vocazione sono loro, si occupava di ragazze madri, di adolescenti, di moribondi. A un certo punto, nel libro, viene raccontata questa scena per cui Emilia si recava spesso a casa di un moribondo che era arrabbiato con la vita. Questo moribondo non riusciva a muoversi ed Emilia lo imboccava: il moribondo bestemmiava e le sputava in faccia quello che lei gli dava da mangiare. C’era con lei un’altra assistente sociale che era un po’ traumatizzata da questa situazione. Quando uscivano, Emilia diceva: mi dispiace doverlo imboccare con i guanti perché il guanto crea distanza. Ecco, lei aveva questo sguardo sulle persone, per cui bisognava dare tutto e la persona era guardata secondo tutto quello che era.
In-presa è nata per caso, perché i primi ragazzi Emilia non li ha cercati: lei faceva l’assistente sociale, era abituata ad andare nelle famiglie che le erano assegnate, così li conosceva. E si accorgeva che questi ragazzi andavano a scuola e, la maggior parte del tempo, lo passavano in corridoio. E si chiedeva: la scuola non è adeguata a loro, c’è bisogno di qualcos’altro, per loro, c’è bisogno di trovare un modo, un aggancio per stare con loro che non passi attraverso la scuola, bisogna fare in modo che loro riscoprano la passione per la scuola attraverso il lavoro: di qui l’idea del lavoro, delle borse lavoro. Emilia aveva compreso che, per educare questi ragazzi, avrebbe dovuto trovare un percorso nuovo, che non era semplicemente quello scolastico. Attraverso il lavoro e le borse lavoro, attraverso il fare, avrebbero recuperato anche il pensare. Per lei, ogni ambiente, ogni ambito doveva diventare educativo: la famiglia, la bottega e anche gli amici. Per cui, In-presa, quando nasce e ancora oggi, propone qualcosa in tutti questi ambiti. Non propone semplicemente di trovare un lavoro, non propone semplicemente di passare un po’ di tempo, ti propone tutto, soprattutto di scoprire assieme il significato della vita.
Questa era un’espressione che in Emilia tornava sempre, che era come il suo faro, il suo obiettivo, da cui lei partiva poi per dettagliare metodologicamente tutti gli interventi nei confronti di questi ragazzi. Per cui, lei si arrabbiava moltissimo con le altre assistenti sociali quando dicevano: dobbiamo fare da qui a qui, poi se ne occuperà qualcun altro. Lei diceva: voi dovete guardare questi ragazzi come guardate i vostri figli, nessuna madre dice davanti al proprio figlio: adesso basta, fin qui ho fatto. Non bisognava mai fermarsi, non si può dire ai figli: adesso basta, non ti aiuto più. Così faceva Emilia, anche nell’assistenza sociale, nell’aiuto dato agli altri, e oggi In-presa fa la stessa cosa, cioè educa. E il lavoro non è inteso soltanto come promozione dell’umano ma come un metodo per scoprire questo senso della vita. All’inizio era veramente una piccola opera, molto embrionale, nel tempo è sempre cresciuta, una piccola Sagrada Familia di provincia dove oggi rivivono maestosi gli intenti che in Emilia si esprimevano in maniera naturale e quotidiana.
Come è stato possibile che accadesse questo? In maniera sintetica, lo dice Giancarlo a un certo punto del libro: “Mia moglie proponeva la vita della comunità nella quale viveva”. E se leggete il libro, se andate a incontrare i ragazzi di In-presa, se sentite parlare Giorgi, Jan, tutti quelli che la fanno, vi accorgerete che è così. Emilia proponeva quello che era già una sua esperienza, quello che già lei viveva in casa sua, con i suoi amici. Così è nata In-presa, senza un progetto a tavolino. A un certo punto, Giancarlo dice della moglie: “Aveva un giudizio chiaro su cose e persone ma, paradossalmente, senza misura. Il giudizio, cioè, non terminava mai nella definizione ma nella dedizione”. E questa dedizione è il tesoro di In-presa, perché è un tesoro che ognuno di noi desidera. Quando servivano i soldi per costruire la prima grande casa di In-presa, venne fatta un’asta di vini, un’asta eccezionale, vennero raccolti moltissimi soldi, un record. Prima dell’asta, fu chiesto a Giancarlo di dire due parole e Giancarlo disse che noi chiamiamo questi ragazzi i ragazzi del bisogno, ma in realtà anche noi siamo gente che ha bisogno. E di che cosa abbiamo bisogno? Abbiamo bisogno di tutto. Sempre durante quella serata, parlarono i ragazzi nella loro maniera semplice, elementare ma non banale. Alla richiesta di dire cosa era stata per loro In-presa, chi era per loro Emilia, usarono la parola più bella – mamma -, la parola più concreta per esprimere l’amore incondizionato. Passo la parola a Giorgi.

CAMILLO FORNASIERI:
Avevi finito?

EMANUELE BOFFI:

CAMILLO FORNASIERI:
Applaudivo alla frase che hanno detto quei ragazzi. Vai, vai.

EMANUELE BOFFI:
L’ultima cosa che volevo dire è questa: il libro è introdotto da uno scritto di Giovanni, figlio di Emilia. Secondo me, solo quell’introduzione vale il prezzo del libro. A un certo punto, Giovanni dice questa frase, ve la leggo e concludo: “In-presa si è sviluppata per restituire a questi ragazzi, e ricordare a tutti noi, la consapevolezza che la nostra natura umana è di diventare protagonisti della storia”. Secondo me, questo è il grande fascino di In-presa, che non propone a questi ragazzi il minimo sindacale ma di diventare protagonisti della storia, cioè di sfidare il mondo. E per questi ragazzi che sono abituati, a scuola, nelle loro amicizie, a essere spesso schiacciati, questo è esaltante. Ma la cosa interessante, secondo me, è che non accadeva soltanto nei confronti dei ragazzi. Quando Emilia andava dagli altri imprenditori, andava da Giorgi, andava dalle assistenti sociali a dire “io faccio questa cosa qua coi ragazzi”, questi si sentivano partecipi dello stesso entusiasmo. Un’opera può funzionare se c’è dentro questo entusiasmo. Grazie.

CAMILLO FORNASIERI:
Continuiamo con Stefano Giorgi, direttore di In-presa, cercando di andare al fondo di questi temi.

STEFANO GIORGI:
Sì, devo innanzitutto ringraziare Lele per quello che ha fatto, non solo per quello che ci ha detto adesso ma per quello che ha fatto con questo libro. Io sono a In-presa, bene o male, dagli inizi, sono più di 11 anni. Ma il libro del Lele ci ha aiutato a riscoprire quello che ha originato quello che adesso stiamo facendo. Poi ringraziamo il Meeting perché permette di raccontare a tutti questa esperienza. Fra l’altro, è assolutamente straordinaria la coincidenza tra l’origine di In-presa nell’esperienza dell’Emilia e il titolo di questo Meeting. Quando abbiamo presentato il libro in Cattolica, una cosa di un nanosecondo, è emerso che tutto nasce perché Emilia vuole rispondere ad un ragazzo. Adesso sono 370, i ragazzi che seguiamo, sono 60 le persone che ci lavorano, tra educatori, tutor, insegnanti, 50 i volontari, più di 400 gli imprenditori che ci aiutano tenendo i nostri ragazzi in stage, che è il lavoro preziosissimo che fa Jan, il nostro Ministro degli Esteri, perché ha il compito di incontrare gli imprenditori e proporre loro un gesto di carità. “Prendili”, come diceva l’Emilia. Mia moglie, uscendo dall’incontro, diceva: “Pensa te, tutto questo ambaradàn viene fuori per uno solo”. L’attenzione a uno è la verità che le forze che muovono la storia sono quelle che veramente muovono il cuore di uno che incontra.
Ma l’esperienza dell’Emilia era sintetizzabile in questa espressione che lei ricordava, a partire da questo primo ragazzo che aveva in affido. Lei diceva: “Era un ragazzo che aveva un’ansia tale per cui l’unica possibilità di risposta era dirgli di stare tranquillo: la tua ansia non mi manda in crisi perché io sono salda, poggio su un terreno solido: se ti attacchi alla mia mano, ti tiro dalla mia parte e ce la puoi fare”. Questa saldezza, questa solidità, questo terreno solido è quello che in questi dieci anni si è fatto metodo, quindi opera. Perché poi Emilia sosteneva questo: non basta l’accoglienza con i ragazzi, occorre l’educazione come opera assistenziale. Lei insisteva: io sono un’assistente sociale ma noi non facciamo assistenza, noi facciamo educazione. Per questo, vale prendere un ragazzo in affido, che è stata l’avventura iniziale con cui poi ha coinvolto altre famiglie, prenderlo in azienda per insegnargli il mestiere, come vi dicevo, oppure costruire una vera e propria scuola, perché da sei anni a questa parte l’In-presa è diventata una scuola, un centro di formazione professionale dove si può acquisire la qualifica di aiuto cuoco, più il quarto anno di tecnico della ristorazione. E quest’anno facciamo anche l’IFTS, il post diploma per difensori del Made in Italy nell’ambito ristorativo. Tutto questo non è per risolvere i problemi ma per far rinascere un io.
Il Lele racconta molto bene nel libro quella famosa cena. Prima ho visto passare Massobrio, io e Jan gli dobbiamo la vita, perché facemmo questa cena con l’asta dei vini, e si alzava il dito per il rilancio. Non so più per quale ragione, a un certo momento io mi sono grattato la testa e il battitore ha segnato cinque milioni: ero morto, mia moglie mi avrebbe ucciso. Massobrio ha fatto in modo che un altro rilanciasse subito, la cena è raccontata nel libro ed è bellissimo, val la pena andarla a rivedere. Quella cena servì per iniziare quel mare di carità che ha permesso che quello che era un appartamento diventasse poi uno stabile grande. Abbiamo acquisito e ristrutturato in tre momenti diversi una vecchia officina, scelta apposta perché l’Emilia l’aveva vista. Io ruppi il vetro, tanto era disabitata e abbandonata, perché potessimo guardare l’interno, e l’abbiamo ristrutturata per farla diventare proprio una scuola. All’entrata della scuola, da settembre, tutti quelli che arrivano saranno accolti da un grande cartello, che ha due espressioni che, a mio avviso, indicano il senso della fatica che vogliamo fare facendo In-presa. E’ un quadro di Van Gogh, I primi passi, a me è carissimo, perché indica il compito di noi adulti, far sì che i ragazzi che ci vengono affidati incomincino un cammino loro.
E Davide Bartesaghi, che è il nuovo amministratore delegato, ha suggerito che il commento di questo quadro fosse una frase bellissima di don Giussani in Si può vivere così. Dice: “L’uomo incomincia un cammino e questo cammino desta stupore perché il termine è la felicità. Dio vede l’uomo fatto per la felicità e, insieme, in preda a debolezze, a confusione, che gli attardano il cammino e glielo rendono più difficile. Allora la compassione verso l’uomo diventa commozione”. Gli va vicino e gli dice: “Dai, coraggio, vengo anch’io con te”. E’ l’espressione dell’Emilia: “Se ti attacchi alla mia mano, ce la puoi fare”. Infatti, in tutte le occasioni – brevi, purtroppo, perché il buon Dio l’ha voluta con sé in modo rapido – in cui lei ha avuto modo di esprimere pubblicamente il cuore di quello che andava proponendo, diceva che noi non possiamo riproporre nient’altro che quello che abbiamo imparato da Il rischio educativo di don Giussani.
E quando facevamo gli incontri con gli assistenti sociali, gli psicologi, quelli del Comune, eccetera, diceva: “Non dobbiamo aver paura di proporre questo, perché questo è vero e questo costruirà. E la prima condizione perché possa avvenire un cammino educativo è che ci sia un adulto che dica Vieni dietro a me“. La certezza, la saldezza è questo “vieni dietro a me”. E’ Dio che dice: “Dai, coraggio, vengo anch’io con te”, come in Giobbe di Hadjadj, bellissimo. Il primo amico dice: “Ti risolvo i problemi!”. E Giobbe dice: “Ma come, non vuoi stare con me?”. Ecco, l’esperienza nostra è questo: “Io sono con te”. Puoi fare mille disastri, lo dico perché ho qua davanti la mia carissima amica Claudina, che è quattro anni che è con noi e che è la mia coscienza critica. Puoi fare mille disastri ma non ci molliamo. Infatti, a un genitore di questo ragazzino che era con noi, dei suoi amici hanno chiesto: “Ma dove va tuo figlio a scuola?”. E lui: “Va ad In-presa”. “Va ad In-presa? E che cosa vuol dire?”. Lui ci ha pensato su un po’ e ha detto: “Vuol dire: non ti mollo”. Ecco, In-presa è questa esperienza, un adulto che dice: “Non ti mollo”.
C’è una storia emblematica che vorrei raccontarvi. Ve la racconto perché non c’è, nel libro, perché la bellezza del libro è anche questa, una vita che deborda, che continua. C’è questo ragazzo del Brasile, adottato. Dal febbraio di quest’anno, Deson è assunto a tempo indeterminato in una gastronomia di Seregno. Deson arriva ad In-presa tre anni fa, in seria difficoltà: brasiliano, adottato, come coloro che hanno subìto il dolore dell’abbandono, il suo orizzonte di impegno era quello dei tornei virtuali alla xBox. Era impegnato a gonfiare il proprio fisico, anche in termini artificiali, si bombava, sostanzialmente, era l’unica strada che aveva per vincere la rabbia che si trovava addosso. Gli abbiamo proposto un percorso di orientamento attraverso un’esperienza di stage. Sono stati momenti difficilissimi, perché anche i rapporti con gli adulti per lui erano carichi di diffidenza e puramente virtuali. Nulla gli destava interesse. Ma c’è quel “non ti mollo” che vuol dire: “Deson c’è, per noi è tutto, non possiamo mollare, vale la pena prendere sul serio lui e i suoi desideri confusi”. Allora lo abbiamo accompagnato in diverse esperienze finché non ha trovato una pasticceria dove ha cominciato a dire: “Ostrega, questa è una cosa interessante”, anche perché il pasticcere continuava a dirgli: “Io ti voglio qui con me, ho bisogno di te”. E quindi gli si è destato il primo interesse, con un limite. Qual era il limite? Deson ha le mani grosse, le dita cicce, per lui il lavoro di fino della pasticceria non poteva andare. E’ stato l’inizio, la scoperta del proprio limite, l’accettazione, con l’idea bellissima della carità come l’acqua, per cui non c’è un muro e se c’è un muro, l’aggiro, chi se ne frega, proviamo un altro cammino.
L’interesse è l’ambito gastronomico? Proviamo in un ristorante. La manualità magari arriva, con la medesima impostazione. Abbiamo trovato un tutor aziendale che diceva: “Però, guarda che ho bisogno di te”. E lui ha incominciato poco a poco ad affezionarsi al tutor aziendale, a imparare la manualità. Però c’è un altro problema, secondo limite, non lo vogliono brasiliano. Un episodio, in un nanosecondo. La prima volta che andammo in fiera a fare il ristorante con i nostri ragazzi, alla Fiera dell’Artigianato – perché noi ci giochiamo veramente così, se andate a Il chicco e il grano, facciamo i turni, ma chi ha mangiato lì a mezzogiorno, il risotto l’hanno fatto Gasgas e Mariotto, la pasta l’hanno fatta la Maria e Marco, gli involtini se li è fatti tutti in solitudine, velocissimamente, la Claudina, le patatine le ha fatte, avanti e indietro per quattro ore, la Chiara, è da stamattina alle otto che siamo lì a padellare. Allora, facciamo il ristorante, arriviamo, apro il camioncino, io sono in testa, lui è in fondo. Dico: “Mi dai una mano?”. “Sì”. Tra il suo sì e il suo palesarsi, avevo già tirato giù tutto. E’ chiaro che c’è un po’ di lentezza, no?! Ok. Quindi, immaginatevi il ristorante e i ritmi di lavoro del ristorante! Per Deson, il ritmo di lavoro era impensabile, però aveva imparato la manualità: non lo molliamo, non possiamo mollarlo. Allora cerchiamo un altro ambito, sempre della medesima situazione: la gastronomia. E’ stato perfetto, un incontro eccezionale, quell’interesse scoperto, quella manualità acquisita, tempi di lavoro più adeguati a lui.
Insomma, tre anni di stage, assunzione a tempo indeterminato. Ed è la medesima storia di Adriano, anche lui brasiliano, anche lui con varie difficoltà: quando io e la Chiara, che era al tempo la sua coordinatrice e tutor, andavamo a cercarlo sul posto di lavoro per dialogare, scappava, non dalla stanza ma dal posto di lavoro, per non farsi trovare da noi. Anche lì, il non mollare ha fatto sì che lui a giugno sia stato assunto a tempo indeterminato, in un’azienda, una ditta elettrica. E quando abbiamo interpellato il suo datore di lavoro, per chiedergli: “Ma come mai, signor Cavallaro, lei ha preso questa decisione?”, la sua risposta è stata: “Adriano è un ragazzo di solide basi, su cui vale la pena costruire”. Quel terreno saldo dell’Emilia è diventato l’esperienza di Adriano, è diventata l’esperienza dei ragazzi.
Dove vanno ragazzi che hanno problemi? Non è una cosa così semplice, anche perché, quando dicono “Vado a In-presa” – Claudina, come viene definita? – è come dire: “La scuola degli… sfigati”. Vi leggo il tema di Riccardo. Riccardo quest’anno si è diplomato al quarto anno, con successo. Per chi conosce il ristorante Pierino Pennati, un ristorante di alto livello, i risotti li fa questo ragazzo, in assoluta autonomia. Dice così: “Il primo anno, gioia, fervore, interesse. Appena misi piede ad In-presa, però, tutto mi sembrò cupo, brutto, triste”. Perché? “Tutto fatto per ragazzi con problemi. E io, cosa c’entro? Con questa domanda dentro andai dal direttore, che ha tagliato subito corto, dicendomi: “Se non conosci le cose, non puoi giudicare”, e mi ha cacciato fuori dal suo studio. Il giorno dopo, con il broncio in viso e la tristezza che affiorava da tutte le parti, tornai a scuola, mi diressi subito in aula per non farmi vedere più di tanto, ma una volta entrato, venni accolto a braccia aperte da chi il giorno prima mi aveva cacciato. Ecco, allora in me si aprì una gioia, una passione per quella persona e per la scuola stessa. Seduta stante, mi diede un foglio appena stampato apposta per me, dove riportava il racconto di una donna semplice, dalle buone maniere, dotata di semplici gesti quotidiani, ed emerse il rapporto che questa donna aveva con i ragazzi. Era l’Emilia. Da questa esperienza” scrive Riccardo “Emilia incominciò a creare quello che tutt’ora noi stiamo portando avanti. Noi, perché anch’io mi sento una di quelle persone, anche se in minima parte, che ha potuto dare una mano al continuo sviluppo della scuola, facendo solo quello che mi veniva chiesto”.
Quella mano salda dice: non ti mollo, non sei solo, assume la connotazione di una casa. Noi, alla fine dell’anno, ai ragazzi facciamo sempre scrivere una lettera ad Emilia, perché vogliamo che questa origine sia conosciuta da loro. Non c’è una lettera che non finisca: “Mi dispiace di non averti conosciuto, saresti fiera di vedere che cosa hai realizzato”. Questo ragazzo qui scrive: “Cara Emilia, questa lettera è volutamente anonima. La motivazione di questa scelta è semplice, perché so che chi la leggerà saprà riconoscermi. E’ questo il bello di quello che hai creato: hai a che fare con persone che sanno chi sei, ti capiscono, non per il dovere della loro professione, ma per l’interesse verso di me”. L’italiano è da correggere ma il concetto è molto chiaro: “E’ proprio per questo che venire a scuola non è più un dovere ma un interesse. Grazie, Emilia”. Oppure questa ragazza qua, la Claudina, che appunto è qui insieme ad altri sei a far da mangiare, che ha finito il quarto anno. Verso la fine dell’anno arriva da me e mi infila, con il suo solito modo abbastanza gentile, un biglietto stropicciato nella tasca, dove c’è scritto questo: “Peccato, anche l’ultimo anno se ne va via. Se si potrebbe -va beh! – ritornare indietro, sceglierei In-presa. Prima di dire che In-presa è scuola da sfigati, dovete frequentarla e poi capirete che le persone che ogni giorno si danno da fare per mandare avanti la scuola è una cosa stupenda. Dovete passare un po’ di tempo con le persone che lavorano dentro la scuola e poi scoprirete che tutti sono speciali a suo modo. E’ questo il bello di questa scuola! Mi dispiace un casino di lasciare casa mia”.
Credo che questa sia l’esperienza che loro ci aiutano a capire, ed è una cosa non solo per i ragazzi ma anche per gli adulti. Vi chiudo con due cose. Uno. Noi facciamo aiuto allo studio per i ragazzini delle medie inferiori, dove cerchiamo anche di prepararli per il conseguimento della licenza media, perché su questo l’Emilia era irremovibile, la licenza media è il traguardo minimo per poter entrare nel mondo. Il nostro scopo è che i ragazzi abbiamo il loro posto nel mondo. E che se lo trovino loro. Certo che la base è la terza media, per cui piuttosto ci tagliamo le vene, però loro devono averla. La Elena è una delle insegnanti di questi percorsi delle medie. Arrivano ragazzi. Dice: “Oh, ciao! Come vai?”. “Sono stato bocciato per la quarta volta in prima media”. La scuola fa anche queste cose! Lascio a te, Camillo, eventuali commenti! Gli mettiamo lì un motore, abbiamo portato dei motorini che non funzionavano più. Li ha rimessi in sesto. Suo fratello ha fatto una catapulta medioevale con il legno. Elena è un’insegnante di questi corsi e così racconta la sua esperienza: “Ho iniziato nel 2003 come volontaria, per l’aiuto allo studio pomeridiano, poi al mattino per la preparazione per la licenza media. All’inizio avevo un po’ paura, perché sapevo che erano ragazzi difficili, e io temevo di non essere in grado. Poi è stato molto semplice perché in realtà questi ragazzi hanno bisogno innanzitutto di essere voluti bene. Hanno bisogno innanzitutto di non essere misurati”.
Non c’è lo standard! Quando si dice che la realtà è positiva… lo è veramente, in tutti i sensi! Lei dice: “L’esperienza non è positiva solo per loro ma anche per me. Lavorando con i ragazzi delle medie, sono riuscita di più a conoscere me stessa”. E questo tocca anche i genitori. Questa l’ho ricevuta questa estate dalla mamma di un ragazzino che ha finito il suo percorso triennale: “Le scrivo per ringraziare lei e tutti quelli che in questi tre anni hanno accompagnato mio figlio nel suo percorso scolastico. E’ stato evidente a tutti, a voi come a noi genitori, che Stefano in questi anni sia cresciuto e abbia fatto grandi passi. La cosa che mi rende più felice è vedere come si sia appassionato a questo lavoro, grazie al quale ha potuto sperimentare che anche lui, con tutte le sue difficoltà scolastiche, può essere capace di fare qualcosa di bello e di buono. Vedere che gli altri lo apprezzano e gli fanno i complimenti per quello che ha cucinato, è un’esperienza che lo ha reso più sicuro di sé, più capace di guardare le cose in modo positivo, e soprattutto lo ha aperto nell’affrontare nuove esperienze. Ci stupisce quando a tavola racconta di come si conservano gli alimenti o di come si prepara quel piatto imparato a scuola, con un entusiasmo mai visto sul suo volto quando in passato si parlava di scuola. Grazie al Signore, che attraverso la figura di Emilia e il carisma di don Giussani, ha permesso che nascesse questa scuola. Vi auguriamo di continuare con entusiasmo e passione in questa vostra opera”. E poi la mamma di Adriano, che scrive invece alla Chiara, la coordinatrice dell’alternanza scuola-lavoro: “Mi sento di doverla ancora ringraziare per come ha saputo prendere per mano Adriano e soprattutto seguirlo in questi tre anni, e della forza che vedo in lei, che ha saputo trasmettergli. Mai mi sono sentita sminuita per il fatto che lei sia riuscita laddove noi non ce la stiamo facendo, anzi, sono convinta che i figli non siano propri ma, come dice sempre lei, abbiano bisogno ed è giusto che sappiano trovare persone valide di riferimento al di fuori dei genitori”.
Insomma, il terreno saldo dell’Emilia è l’orizzonte del lavoro che facciamo tra noi operatori, insegnanti, tutor, addetti alla segreteria, amministrativi. Ed è per questo che noi cominciamo la settimana tutti insieme, con un momento comune, mettendo a tema la prospettiva delle azioni che andiamo poi a svolgere nel nostro specifico, che sono le lezioni, i colloqui, le visite aziendali, con lo scopo di aiutarci, sostenerci ad essere, ciascuno di noi, quel terreno saldo, quel luogo in cui si parla del senso, quel senso che solo può tenere insieme i pezzi di ciascuno. C’è un episodio bellissimo che racconta l’Emilia nel libro, per cui non ve lo dico, proprio a proposito di questo, il dramma del senso, il puzzle della vita. L’Emilia ci diceva: “Guardate che il nostro scopo è offrire ai ragazzi una possibilità di comprendere quale è il significato delle cose”. Chiudo con una citazione di Éric-Emmanuel Schmitt, perché dice molto di quello che è l’esperienza che abbiamo potuto raccontarvi. In Oscar e la Dama rosa, in una delle ultime lettere che Oscar scrive a Dio, fa questa brevissima cosa che è straordinaria: “Caro Dio, grazie di essere venuto a trovarmi. Era mattina e tu cercavi di fabbricare l’alba, facevi fatica, ma insistevi, il cielo impallidivi, tingevi l’aria di bianco, di azzurro, respingevi la notte, risvegliavi il mondo, non ti fermavi. E’ stato allora che ho capito la differenza tra te e me: tu sei un tipo infaticabile, uno che non si stanca”.
E’ per dire che questa solidità non è una particolare capacità perché l’Emilia, nel suo diario, che è stato scoperto dopo che è morta, a un certo punto, nell’unica citazione riferita ai ragazzi, dopo aver detto “C’è da fargli provare di più della bellezza della vita”, dice questo: “Non sono io ma è il mio Dio la sede incondizionata del mio amore, a cui attingere per riempire il mio vaso. Non è che mi metta ad amare di più, è che io ho bisogno di essere amata di più”. Ed è questa proprio la nostra esperienza. Grazie.

CAMILLO FORNASIERI:
E’ bellissimo quello che abbiamo ascoltato. Mi chiedevo: uno nasce ed è un avvenimento straordinario, la vita è un avvenimento straordinario, ma a un certo punto si interrompe, perché non si ha più la forza e la voglia di vivere. E’ necessario ed è drammatico pensare a come sia necessaria una nuova nascita. Io credo che oggi abbiamo sentito dei pezzi di un’esperienza che sono come tanti aggettivi che si aggiungono al metodo di don Gius, ma quello che cambia veramente è l’avvenimento di un altro, non dobbiamo mai dimenticarlo. Non possiamo pensare che basti la bellezza della vita per dare veramente il desiderio di vivere io, di essere protagonista della storia, come ricordava Emanuele Boffi prima. Questo scarto è l’unica spiegazione che permette di dire: “Tutto è iniziato, non solo da Emilia ma dall’incontro con uno”. Chiediamoci la ragione per cui è possibile che da uno siano trecento, o che da un incontro ci siano centinaia di migliaia di persone qui. Occorre rendersi conto che l’unica ragione che muove tutto è questo mistero che ci fa compagni di strada di tanti, come abbiamo sentito prima, per cui la scoperta del desiderio è una avventura nuova che noi vogliamo sostenere con loro. Ma come questa passione possa permanere è appunto il passaggio dall’accoglienza all’educazione, perché l’educazione non è un fare, è scoprire che negli occhi di un altro, nel destino di un altro, c’è il senso di tutto il mondo e anche il mio. E questo è solamente Cristo che lo rivela. Quindi, grazie di questa passione. Ricordiamo questo punto decisivo che tutto muove. Il libro è in libreria e auguri per la ristampa.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

26 Agosto 2011

Ora

15:00

Edizione

2011

Luogo

eni Caffè Letterario D5
Categoria
Testi & Contesti