INVITO ALLA LETTURA. GENERATIVI DI TUTTO IL MONDO, UNITEVI! Manifesto per la società dei liberi

Invito alla lettura: GENERATIVI DI TUTTO IL MONDO, UNITEVI! Manifesto per la società dei liberi

Presentazione del libro di Chiara Giaccardi, Docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Mauro Magatti, Docente di Sociologia Generale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (Ed. Feltrinelli). Partecipano: gli Autori; Davide Rondoni, Poeta. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.

 

CAMILLO FORNASIERI:
Bene, benvenuti. Cominciamo questi due inviti alla lettura del primo pomeriggio. La prima proposta del Meeting è un libro edito dalla Feltrinelli di Mauro Magatti e Chiara Giaccardi, e ha un titolo molto moderno, che riecheggia antichi slogan, ma molto interessante nel suo contenuto e punto di vista: GENERATIVI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI! Manifesto per la società dei liberi. Mauro Magatti e Chiara Giaccardi sono qui con noi a presentare il libro insieme a Davide Rondoni. Sono due docenti: Mauro Magatti è sociologo ed economista, e insegna nell’Università Cattolica del Sacro Cuore oltre a ricoprire incarichi in altre Università e a firmare diversi commenti sul Corriere della Sera; mentre Chiara Giaccardi è un’esperta di comunicazione e insieme professoressa di Sociologia e Antropologia dei Media nella Università Cattolica di Milano.
Unendosi (perché sono anche marito e moglie, quindi hanno anche un’esperienza di famiglia e d’impegno sociale) hanno voluto scrivere questo “manifesto”, proprio come viene chiamato, che parte da una descrizione della nostra società e tenta di individuare delle figure, un metodo, che valorizzi di più la persona e la società. Loro mettono al centro il tema della libertà, partendo da una descrizione molto puntuale, con parole molto interessanti, che non sempre utilizziamo qui al Meeting, un po’ perché fanno parte della Sociologia, un po’ perché sono una ricchezza di esperienza personale; partono da questa grande acquisizione della libertà di massa che c’è stata alla fine della guerra, e che ha portato un benessere sociale, culturale ed economico.
Ma via via nel passare degli anni (e forse giungiamo ben presto al nostro tempo) questa libertà si è come polverizzata, si è come staccata sempre di più da dei fondamenti, entrando come in una nuova fase di nichilismo: la volontà di potenza liberata in milioni di persone non aspira più al Superuomo e ai suoi folli disegni sociali, militari o ideologici, come era accaduto nella prima parte del secolo; pervade piuttosto l’ordinario, le relazioni affettive, il piccolo cabotaggio dei piaceri quotidiani; ad affermarsi è un nichilismo sorridente nella forma di un individualismo sempre più spinto.
Ecco, senza addentrarmi oltre, mi ha colpito il desiderio di offrire, attraverso la denotazione storica di radici della nostra società, come dei punti fermi che la persona vive. E allora la ragione di questo manifesto, all’alba del XXI secolo: la libertà che ha vinto è profondamente in crisi, non abbiamo scelta, per scongiurare i rischi di una regressione occorre guardare avanti cominciando a scrivere una nuova pagina della sua storia (storia della libertà). A partire da questi problemi hanno incrociato (e abbiamo incrociato anche noi) il ritorno di quel libro di Vàclav Havel, Il potere dei senza potere (che tra l’altro è appunto citato nell’inizio), che rende questo manifesto, questa idea di nuova libertà, o meglio, della radice della libertà, un’esperienza possibile.
Bene, è qui con noi Davide Rondoni, che ha collaborato con loro in alcuni cicli di conferenze a Milano. Darei per prima la parola a Chiara Giaccardi per raccontarci il percorso di questo libro e dell’ “uomo generativo”, come è chiamato.

CHIARA GIACCARDI:
Grazie a tutti di essere qui. Ci fa piacere raccontare questo libro, che non è un prodotto, ma è, diciamo, la frase di un dialogo: un dialogo tra me e Mauro prima di tutto, ma un dialogo che raccoglie tutte le esperienze che abbiamo incontrato in modo conviviale prima di scriverlo, e tutte le reazioni che sono state suscitate attraverso queste pagine, nelle persone che l’hanno letto.
Io volevo fare un percorso (poi quando vi vedo sbadigliare mi fermo) che parte dalla genesi di questo lavoro, dal metodo che abbiamo cercato di utilizzare, che è un metodo molto nello stile di Papa Francesco, e consiste nei processi, nel mettere in moto processi più che occupare degli spazi e dire: “Questa idea è la nostra”. E poi volevo fare un piccolo approfondimento sul tema della libertà, e su come questo tema della libertà si lega all’idea di generatività.
La genesi di questo libro io la chiamerei una fecondazione, nel senso che perché qualcosa nasca ci deve essere qualcosa di altro che mette un seme. Io credo che nessuno di noi è un creatore, ciascuno di noi casomai è immagine di un creatore, e quindi ha questa capacità di dare inizio, ma dare inizio perché ha ricevuto qualcosa da trasmettere. Oggi è Sant’Agostino, e c’è una frase di Sant’Agostino che mi piace molto, e che dice: initium ut esset creatus est homo (“l’uomo è creato per essere l’inizio”). Ma è creato! Può essere inizio in quanto creato. Allora questa dimensione del poter dare perché si è ricevuto è fondamentale per spiegare la genesi di questo libro, che parte da tante chiacchierate, dall’osservazione di tante esperienze, dalla condivisione di pensieri, di vissuti con tante persone e con tante storie che poi sono confluite nel sito sulla generatività (che digitando “generatività” su Google potrete trovare).
Quindi, questa è una prima cosa che tengo a precisare: si può essere qualcosa se si ascolta, se si è grati per ciò che si è ricevuto, se ci si lascia fecondare. Naturalmente più ci lasciamo fecondare da qualche cosa di bello, e più bello sarà quello a cui possiamo dare inizio. Circa il metodo di questo di questo libro, abbiamo cercato di cambiare un po’ prospettiva di delineare un modello ideale e cercare poi il modo di calarlo nella pratica. Anche qui Papa Francesco ci aiuta quando dice che la realtà è superiore all’idea. Allora se metodo che vuol dire strada, quale strada percorrere non tanto per poter tracciare un modello, ma per cogliere quel modello che possiamo aiutare a far fiorire? A me viene in mente la frase di Calvino che diceva “noi viviamo nell’inferno” e ci sono due modi per non vederlo: farne parte oppure cercare di dare spazio a ciò che inferno non è. Ci siamo domandati se non soltanto riusciamo a trovare delle nicchie di non inferno, ma se possiamo in qualche modo costruire il paradiso, costruire appunto qualche cosa che abbia una sua pienezza comunque qualche cosa che ha un’immagine di pienezza. E questa costruzione non può partire da un progetto, da un disegno astratto, da un insieme di principi, ma può partire dalla bellezza che già c’è. C’era un po’ di stanchezza per queste nozioni pessimiste in cui tutto va male, in cui siamo deboli, fragili, vittime, succubi, nichilisti, consumisti, è vero ma non c’è solo quello, il resto è chi lo racconta, capace di vederlo. A forza di caricarci di immagini negative, la nostra percezione si distorce, riusciamo solo a vedere il male che c’è. Allora il metodo, la via che abbiamo scelto è quella di partire dall’esperienza, dall’esperienza di che cosa è bello, di che cosa ci fa felici, di che cosa ci dà un gusto di pienezza, esperienza che ciascuno in qualche momento della vita ha fatto.
Però qui devo fare una piccola digressione di esperienza, perché è una parola tanto usata ma anche a rischio di vuoto, come tutte le parole troppo usate. Noi ormai abbiamo le nuove shooting experience, il marketing dell’esperienze, le esperienze tornano da tutte le parti. Il filosofo Giorgio Agamben diceva che la crisi dell’esperienza è una delle poche certezze dell’uomo contemporaneo. L’uomo contemporaneo è stato espropriato della sua esperienza, anzi l’incapacità di fare e di trasmettere esperienze è uno di quei pochi dati certi di cui egli disponga su se stesso. Che cos’è che ci impedisce di fare esperienza? Guardiamo un bambino piccolo: impara lo spazio, la presenza dell’altro facendo esperienza, cadendo e alzandosi, mettendo in bocca le cose. Noi impariamo camminando attraversando nello spazio, scontrandoci con altri facendone esperienza. Cosa ci impedisce oggi di fare esperienza? Io credo due cose: l’individualismo del tutto intorno a te, mentre l’esperienza è sempre esperienza di altro, l’esperienza è scontrarsi con qualcosa che non siamo noi stessi e da questo scontro o incontro scatta questa capacità di riflettere su ciò che è accaduto e di farlo nostro. Il secondo ostacolo è l’impoverimento del linguaggio, per farlo nostro dobbiamo dare un nome a quello che incontriamo, e se noi abbiamo a disposizione solo degli slogan delle parole trendy, delle parole che esonerano il nostro pensiero dal suo sano funzionamento, allora noi non possiamo neanche fare esperienza.
Sempre Agamben diceva che appunto lo slogan ha sostituito il proverbio, il proverbio è un deposito di esperienze, lo slogan è la frase a effetto che vale solo nel presente, che domani non ha più nessun significato. Ecco noi siamo pieni di slogan e siamo poveri di quel sapere che si è depositato nel tempo e che dobbiamo sempre rigenerare. Ma come dire, dobbiamo anche sapere accogliere, e poi la parola, dobbiamo nominare l’ esperienza, noi siamo abituati al linguaggio scientifico, all’esperimento, che è quella procedura replicabile che vale per tutti nello stesso modo; l’esperienza è il contrario, è qualche cosa di assolutamente personale, ma completamente replicabile, puoi solo farne dono a qualcun altro. L’esperienza ha un elemento di eccedenza che l’esperimento non ha. Infine l’esperienza conserva, l’esperienza conserva quell’elemento della parola che non è solo logos. Questa mattina si parlava di dialogo cioè di confronto tra ciò che può essere argomentato tra posizioni argomentabili, appunto attraverso le parole. Ma c’è un altro termine che indica parola in greco, che è mitos, che è una parola che dice una verità indimostrabile, una verità che è auto evidente, che non può esser dimostrata, non perché è falsa, non perché è una leggenda inventata e consolatoria, ma proprio perché non ha bisogno di essere argomentata, s’impone con l’evidenza dell’essere. Allora io credo che generatività sia una parola mitica in questo senso, cioè una parola che ci dice una verità antropologica fondamentale. Lo diceva Schelling “è vero ciò che da frutto, tutto ciò che è vivo da frutto”.
Allora questa è un’evidenza, non dobbiamo dimostrarla, lo sappiamo, questa parola ce lo dice. Generare è un’esperienza di tutti, generare non è solo biologico, non è solo mettere al mondo figli, è anche ovviamente questo. In qualche modo è l’esperienza paradigmatica di ogni tipo di generare, progenerare è anche educare, far essere l’altro, aiutarlo a tirar fuori da sé ciò che di bello ha dentro di sé. Generare è anche scrivere una poesia, generare è l’opera dell’artigiano che mette a frutto il suo sapere per fare qualche cosa di bello che rimarrà nel tempo. Generare è iniziare un’impresa, generare è mettere in movimento e in circolo delle idee, questo è generare. Tutti noi sappiamo cosa è generare, abbiamo fatto quest’esperienza in qualche momento della vita. Allora questo è un punto di vista nuovo attraverso il quale guardare la questione fondamentale della nostra contemporaneità, che è la questione della libertà e questo è il terzo passaggio. A noi ci raccontano che la libertà ha due caratteristiche, cresce col crescere delle possibilità, quindi più possibilità abbiamo, più siamo liberi, quindi quantitativa, una libertà appunto come moltiplicazioni delle opzioni, che in realtà diventano equivalenti: ci sono tante cose io scelgo quello che mi piace di più, ma si perde il valore in questa moltiplicazione di opzioni equivalenti. La seconda è quindi una libertà quantitativa o assoluta, sono tanto più libero quanto meno ho legami. Il legame è un vincolo che riduce la mia libertà. Questo è un tratto veramente ricorrente nei racconti della libertà che ascoltiamo, che ci vengono dalla pubblicità, dai film e da quant’altro. Allora il legame è il nemico della libertà, questo ci raccontano. La parola mitica generatività dice che il legame è condizione della libertà. Non soltanto l’altro non è un ostacolo alla mia libertà, ma è la condizione della mia esperienza di libertà. L’altro è colui che mi libera dalla gabbia di me stesso, ma non ogni relazione è generativa, la relazione generativa deve avere alcune caratteristiche, c’è anche la relazione perversa, c’è la relazione di oppressione, c’è la relazione di dominio, quindi non è che la relazione in sé, in quanto tale sia necessariamente buona.
Riflettere su questo punto attraverso il camminare dentro la vita alla ricerca di questi semi generativi, ci ha aiutato a mettere a fuoco una grammatica e una sintassi della generatività. Una sintassi fatta di due modi di mettersi in relazione. La sintassi è il legame, l’ordine che si creano tra le parole di una frase ma anche tra le persone che vivono nello stesso mondo. Una sintassi fatta appunto di due modalità che abbiamo chiamato transitività ed esponenza, che adesso vi spiego brevissimamente. E’ una grammatica fatta di quattro verbi, quella che noi abbiamo cercato di estrapolare da tutte le esperienze che abbiamo osservato, compresa la nostra e che sono desiderare, mettere al mondo, prendersi cura e lasciare andare. Sono i quattro movimenti che devono esserci tutti e quattro: se ne manca anche soltanto uno, la generatività si perde.
Deponente transitività cosa vogliono dire in brevissime parole? La transitività significa che quando io faccio qualcosa non lo faccio solo perché l’azione del ritorno va a mio beneficio, ma lo faccio perché mi sporgo sempre su qualcos’altro. La transitività è la capacità di lasciarsi attraversare dalla vita perché la vita vada oltre noi stessi, ci attraversi e ci oltrepassi ma questo oltrepassamento non ci cancella ma ci valorizza. E’ il contrario della autoreferenzialità. E’un movimento fondamentale, l’altro è la deponenza. Io e Mauro abbiamo fatto il liceo classico e ci ricordavamo questa forma deponente di alcuni verbi che hanno la forma passiva ma il significato attivo. E la forma deponente ci è sembrato il paradigma dell’azione umana. Ogni nostra azione non è mai né completamente attiva né completamente passiva, perché agiamo sempre in presenza di vincoli, di condizionamenti, di limiti strutturali, di incapacità nostre e tuttavia non siamo mai completamente passivi, anche quando siamo in prigione, come è stato Mandela che ha scritto pagine bellissime sulla libertà. Nessuno può renderci così passivi da non riuscire a pensare oltre la situazione in cui siamo, e ogni nostra azione è un impasto di azione e passione, di attività e passività e avere separato questi due momenti ha prodotto delle perversioni enormi. Separare l’attività dalla passività ha prodotto l’hybris, questa esaltazione di potenza che non accetta nessun limite, e dall’altra parte l’aver dimenticato di non essere mai costretti ad essere passivi, ci fa vedere la realtà come oggetto di rivendicazioni e di eliminazioni di limiti che ci renderebbero impossibile la libertà. Siamo noi che ci rendiamo impossibile la libertà. Allora ogni nostra azione è deponente, insieme attiva e passiva e questa consapevolezza ci aiuta a evitare tutte le derive in un senso o nell’altro che sono causa di sofferenza, del tanto male che c’è intorno a noi.
Desiderio è una delle parole più abusate, è ridotta appunto a ricerca di godimento, e desiderio è qualche cosa che ha a che fare con le stelle, che ha che fare con un’altezza che ci attira, che ci libera dalla prigione della contingenza e dalla reazione semplice agli stimoli che abbiamo intorno. Se noi non guardiamo le stelle siamo come il cane di Pavlov, che quando sente il campanello inizia a salivare, l’ alternativa a guardare in alto è rimanere prigionieri di una situazione di cui non possiamo che essere veramente succubi. Desiderare significa dare spazio a questo desiderio di ulteriorità, di infinito, a questa scintilla che abbiamo il dovere di coltivare dentro di noi e di coltivare negli altri. Mettere al mondo è una cosa esaltante, chiunque abbia partorito un figlio lo sa, ma anche chiunque abbia realizzato qualche cosa, abbia dato inizio a qualche cosa di bello, lo sa. Purtroppo questo mettere al mondo è banalizzato. Il miracolo della vita è qualche cosa che ci porta oltre noi stessi ed è un’esperienza generativa che ha tante facce, ma che ha questo momento, un momento qualificante fondamentale. Però bisogna prendersi cura di ciò che hai messo al mondo, questo è il terzo movimento. Se io metto al mondo qualcosa e poi non me ne curo, questo qualcosa muore, che sia un figlio, che sia una pianta, che sia un movimento, un percorso educativo che ho intrapreso e cosi via. E la cura non è semplicemente quel dispendio che esaurisce le nostre energie e quel dover essere come dover dire il senso del dovere. Noi esercitiamo perché l’altro ha bisogno di noi, ma questa non è una cura, la cura è un movimento di reciprocità, viene da “cor urat” che vuol dire scalda il cuore. La cura è il ridurre le distanze e il guardare l’altro non come oggetto di un bisogno ma soggetto in una relazione di prossimità e lasciare che da questa prossimità si sprigioni quel calore che prima di tutto fa bene a noi stessi. Allora la cura è un movimento di reciprocità che guarisce il nostro sguardo, ci aiuta a vedere l’altro non come un oggetto o come un essere mancante per il quale dobbiamo intervenire, è un movimento appunto che ci rigenera, che ci rinnova. Infine lasciare andare, poi chiudo, lasciare andare è quel movimento deponente senza il quale io rinuncio ad avere il possesso, il controllo di ciò che ho messo al mondo, senza il quale ciò che ho messo al mondo soffoca e questo movimento ha due varianti, una più maschile e una più femminile e quella femminile è il de-partorire, cioè de-partoriamo i nostri figli, accettiamo che sbaglino, che facciano una strada che non è quella che avevamo immaginato, restiamo ad aspettarli con le braccia aperte e gli facciamo capire che noi siamo lì per loro, ma lasciamo che loro taglino quel cordone, nascano una seconda volta.
Non basta venire alla luce, venire al mondo come persone, come essere unici e autonomi, questo movimento è difficile per le madri ma è un movimento fondamentale. Il figlio non è una nostra appendice, non è colui che deve rimanere lì per ricordarci chi siamo, ma è una persona, è altro da noi, e soltanto recuperando questo legame può essere sano. Per i maschi o in generale per tutti, è passare il testimone, è un modo di lasciare andare. Io ho costruito qualcosa di bello ma se non ho il coraggio, la fiducia di consegnarlo ad altri perché magari diventi un’altra cosa da quella che io avevo immaginato, questa cosa muore, questa cosa diventa un mio possesso, si chiude in una prigione autoreferenziale, diventa qualcosa di asfittico che non può generare movimento, mettere in moto processi. Allora questa grammatica della generatività che abbiamo elaborato a partire dall’esperienza, da questo metodo dell’ osservazione, dell’ascolto è, credo, un paradigma che può aiutare ognuno di noi a rileggere la propria esperienza e a darle un nome. Mi fermo qui grazie

CAMILLO FORNASIERI:
Grazie, mi pare che abbiamo colto bene il percorso e anche il tipo di sguardo e di invito sotteso al libro. Rondoni adesso e poi Magatti per due riflessioni conclusive.

DAVIDE RONDONI:
Mi permetto di fare qualche appunto per due motivi personali, perché Chiara e Mauro hanno avuto la gentilezza di inserire una mia poesia nel loro testo, tra le numerose poesie che hanno citato, ed è un onore personale, oltre al fatto che Chiara è di Forlì come me, anche se ci siamo conosciuti solo da poco, ma credo ci siano due grandi motivi per cui vale la pena che loro abbiano fatto questo lavoro e vale la pena fare attenzione a questo lavoro. Due fotografie di questi giorni, per capire che ha un senso che due sociologi, due studiosi importanti, si mettano a lavorare sul tema della libertà ed è su tutti i giornali in queste ore il fatto che da Brescia, da Bergamo partono ragazzi a fare la jihad. E uno dice che Italia è o che Europa è quella che costituendosi su una certa idea di libertà, democrazia, produce ragazzi che partono per arruolarsi nell’ Isis? Che cosa abbiamo fatto, se può essere notizia quasi normale, di cronaca, il fatto che ad un certo punto un giovane ritiene che la realizzazione della propria giovinezza sia andare a fare una cosa di quel genere lì? È un problema non da poco, quale è stata la storia della libertà che abbiamo costruito fino a questo momento.
L’altra cosa è che un mio amico, a volte somaro, Michele Serra, ieri su Repubblica, non so se avete letto, fa una sua critica al Meeting, fa la solita cosa, che dicono tanti altri, “al Meeting vanno tutti, vanno quelli di destra, di sinistra, quelli del governo di ieri, di domani, tanto i ciellini applaudono tutti”. Evidentemente non è stato qui, ma poi si ferma un attimo e dice, “però se questo trattare bene tutti passasse ogni tanto anche in qualche altro ambiente, se sul web invece di tutto questo rancore, di tutta questa mannaia, questa chiacchiera, ci fosse il fatto che uno applaude comunque l’altro, forse sarebbe un mondo migliore”. Infatti io domani gli risponderò su Avvenire dicendo “su una cosa hai ragione, perché il fatto che si applauda a chiunque, chi ha potere, chi non ha potere, chi è stato in carcere, i poeti che hanno potere oggi, ma che magari domani non avranno più potere, il fatto che si applauda, che si accolga tutti con un applauso non è un segno di stupidaggine, ma è un segno che si guarda con simpatia, ‘con simpatia totale almeno un giorno’, avrebbe detto Pavese, la vita dell’altro e quindi il fatto che uno, che tra l’altro viene da una storia, per questo lo cito, come Michele Serra, che è una storia di gente che voleva la libertà per tutti, guardi con uno strano stupore misto a invidia, misto a critica, che in un posto ci si tratti tutti bene, ti fa capire che la storia della libertà che abbiamo costruito fino a questo momento, sia un po’ almeno aggrovigliata, sia un po’ confusa”.
Citavo questi due fatti perché sono cose di questi giorni per capire che è un libro che ha la pretesa, per questo anche il titolo da manifesto e non da saggio accademico, di intervenire sul presente. Le due notazioni che volevo fare, oltre questo aspetto di inerenza con quello che viviamo e che vediamo e quindi il significato del contributo che hanno dato Giaccardi e Magatti, sta nel fatto, come Chiara spiegava, di come è nato il libro. Io vedo che c’è il mio amico Antonio Spadaro che stamattina giustamente ci ha spiegato la differenza tra un pensiero aperto e un pensiero chiuso, questa mirabile spiegazione del Papa attraverso i futuristi. Comunque non so chi c’era stamattina. Però giustamente Antonio spiegava il fatto avere un pensiero aperto, che significa un pensiero che non ha già deciso dove va a finire, che non significa essere incerti. Perché chi è certo di un’esperienza è capace di un pensiero aperto. In genere chi è incerto sull’esperienza che fa, fa dei gran pensieri chiusi. Siccome è incerto delle esperienze che fa, tende a voler definire tutto con le idee.
In questo caso cosa abbiamo? Due autori che dicono: noi, in quanto certi di un’esperienza che stiamo facendo, ci siamo messi a vedere, a riaprire il discorso su un’idea che sembrava quella definitiva: la libertà è volontà di potenza, possibilità infinita, eccetera. Abbiamo riaperto un pensiero, non sulla base del fatto che abbiamo un’altra idea migliore, ma sulla base del fatto che l’esperienza che facciamo di libertà (e non solo di libertà) ci mette in condizione di riaprire il discorso. Questo perché il pensiero aperto non è un pensiero insicuro, non è un pensiero incerto ma un pensiero che è aperto proprio perché la certezza viene dall’esperienza che fai. Dove poi l’esperienza, come diceva giustamente prima Chiara, è una prova sempre ambigua se viene lasciata alla fluttuazione della superficie, perché invece l’esperienza è quello che vivi giudicato, guardato dentro e nel profondo, come diceva anche oggi Antonio citando Giussani. In questo senso, e finisco, non è un caso che don Giussani per definire cos’è l’esperienza in un suo famoso libro, dica: “Per capire cos’è l’esperienza della libertà, bisogna guardar l’aggettivo, perché non c’è un’idea della libertà che la riesca a esaurire nei suoi infiniti e possibili significati”. La storia della libertà è talmente ricca e complessa che poi non è che arriva uno e dice: “Ho l’idea giusta”. E non c’è un’idea, cioè una pronuncia ideologica sulla libertà. Quando si sente parlare di libertà molte volte in maniera ideologica (abbiamo vari esponenti politici di vari schieramenti che lo fanno, dal Presidente degli Stati Uniti all’ex Presidente del Consiglio italiano che parla sempre di libertà) ma tutte le volte che ne parlano, suona sempre un po’ falso perché è un’ideologia, perché non esiste nemmeno un’ideologia adeguata a comprendere la libertà, a descriverla veramente. Infatti don Giussani diceva: “Per capire cos’è la libertà, guarda l’aggettivo”, cioè guarda l’esperienza.
Quando è che ti senti libero? Quand’è che puoi dire in sincerità di fare un’esperienza per cui ti senti liberato? Infatti collega due esperienze: ti senti libero, dice, quando in qualche modo ti senti soddisfatto, quando inizi a far esperienza di soddisfazione. Fa un famoso esempio: il ragazzino chiede il permesso di uscir la sera alla mamma. Non è che si sente libero perché qualcuno gli ammazza la mamma e non ha più nessuno a cui chiedere, cioè l’assenza di legame, ma quando la mamma gli dice: “Sì, puoi uscire questa sera”. La soddisfazione di questa domanda lo fa sentire più libero. È un esempio piccolo ma per far capire. Ora, perché dico questo? Perché in questo libro, che è un contributo interessante, proprio attraverso le parole sentite prima da Chiara, quello che si tende a fare non è “ragazzi, abbiam sbagliato fino adesso l’idea della libertà, ora ne abbiamo un’altra”, ma è “guardando l’esperienza di libertà già in corso (e una madre sa già cos’è essere libera: non è eliminare il figlio, ma curare il figlio) mi accorgo che ciò che fino adesso abbiam spacciato come idea chiusa di libertà, è da riaprire, da ridiscutere, da rimettere in campo”. In questo senso è un contributo anche umile da parte di studiosi, blasonati, accademici, autori di grandi libri, non voler cercare un’altra definizione di cos’è la libertà, ma aver cercato un’esperienza, generatività, che è uno degli elementi che illumina la presenza della libertà. In questo senso è uno studioso che sta attento all’esperienza invece che andarci sopra con le sue categorie.

CAMILLO FORNASIERI:
Mi unisco a quest’ultima considerazione di Rondoni sul libro, molto vera. Volevo chiedere adesso a Magatti, l’altro autore, un pensiero sintetico, magari suggerendo una domanda, che mi veniva da questo loro racconto della libertà a partire dall’esperienza, dai processi, dai modi. A un certo punto dicono: “L’io contemporaneo come un’eterna adolescenza si concepisce programmaticamente aperto al nuovo e alle esplorazioni. Di limiti non vuol sentir parlare. Essere libero significa infatti mettersi nelle condizioni di poter accedere sempre a nuove possibilità”. E poco più avanti: “Il consumo sembra l’unica via capace di metterci sulle tracce del desiderio liberato”. Volevo chiedergli che cosa invece accende la forza di seguire quella generatività che nella nostra esperienza riscontriamo in quelli vicini a noi. Il libro mi pare si concluda con un appello all’unità, nel senso profondo della parola. Ecco, un accenno anche su questo.

MAURO MAGATTI:
Grazie. L’altro giorno ero in un’edicola. Eravamo in vacanza con la famiglia a Mazara del Vallo e mi è caduto l’occhio su una rivista che si chiama Focus che so che parla di scoperte scientifiche. Il titolo della rivista era: “Siamo fatti per perdere il controllo”, che si riferisce a quanto tu ci dicevi. Perché nella fase culturale della seconda parte del 900, a partire dal ’68 come fase storica evidente, in quest’emergenza della soggettività democratica che si concepisce come autonoma, libera, abbiamo criticato la generazione precedente, quella di mio padre e di mio nonno, che aveva un’idea di libertà come controllo. Bisognava avere degli obiettivi ben precisi, sia di tipo religioso, la salvezza dell’anima, piuttosto che di tipo lavorativo, grado professionale oppure costruzione della casa. La generazione del ’68 è arrivata dicendo: “No, essere liberi non vuol dire essere ossessivamente fissati con un obiettivo, ma significa esplorare, essere aperti nei confronti di una realtà che ti deve sorprendere”. E siamo arrivati al punto di pensare che essere liberi è non voler andare da nessuna parte e a un certo punto incontrare la tua libertà.
Ecco, guardate che quest’idea poi la società dei consumi la riempie, perché tu non sai cosa fare sabato sera e quel cartellone pubblicitario t’avvisa che c’è quel bellissimo film, ti dice: “Stasera voglio proprio andare a vedere quel film”. Ma questo senso di apertura, questo senso di sorpresa, questo senso di scoperta, non è in sé negativo. L’idea di generatività è dal nostro punto di vista un contributo non ad andare indietro all’ultima stagione storica che abbiamo attraversato, ma di andare avanti. Lo diceva appunto Antonio Spadaro stamattina, raccontandoci così bene un po’ anche il modo di guardare le cose di Papa Francesco. Lui parlava appunto, l’abbiamo citato tutti, di pensiero aperto. Ecco, essere generativi è avere un orizzonte ben preciso di senso, della propria vita. Ma correre il rischio della vita, correre il rischio del mettere al mondo, correre il rischio dell’essere protagonisti, correre il rischio dell’essere liberi, sapendo che però tu non sei padrone fino in fondo nemmeno della tua stessa libertà e che la libertà chiede una fiducia fondamentale nei confronti della vita. A noi piace molto che nella parola generatività ci sia dentro la parola vita perché è una disposizione in cui noi, come soggetti liberi, ci disponiamo nei confronti della realtà, mettendoci tutta la nostra capacità, entusiasmo, creatività, ma sapendo la deponenza, che intanto siamo eredi, che poi ci saranno altri e che tutto quello che facciamo è anche perché tanto accade fuori dal nostro controllo.
Dal punto di vista sociologico noi pensiamo che la crisi delle città contemporanee – Benedetto XVI nel momento in cui scoppia la crisi finanziaria ha insistito sul fatto che si trattava di una crisi spirituale. Naturalmente adesso non possiamo illustrare le diverse dimensioni di questa crisi spirituale che è molto complessa ma certamente noi riteniamo che questa crisi che colpisce l’Occidente dal punto di vista economico-finanziario, ma anche dal punto di vista politico-istituzionale, ha a che fare con un’idea di libertà, individualistica, assoluta, sciolta da tutto, che pensa di potere dominare se stessa. Questo non è uscito e quindi mi piace sottolinearlo: il generare è il movimento speculare al consumare. Quando noi consumiamo, mettiamo dentro, ci impossessiamo della realtà e la mettiamo dentro di noi. Per cui in questo momento voi state consumando, attraverso l’ascolto, quest’incontro. E questo vuol dire che il consumare non è qualche cosa di sbagliato, di negativo, da rifiutare. Non è sbagliato consumare, noi non potremmo vivere se non consumassimo. Quando mangiamo, consumiamo; quando ascoltiamo, consumiamo; se sentite un pezzo di musica, consumate. Il consumare è uno dei modi attraverso cui noi ci nutriamo. Ma voi capite che se l’unico movimento che noi facciamo è quello di consumare, alla fine accade quello che accade, che non ne possiamo più di consumare. Diventiamo obesi o diventiamo anoressici e nulla ha più sapore, perché devi solo unicamente consumare.
Allora ci domandiamo: ma una società che ha solo questo movimento, traduce solo nel movimento del consumare la libertà, può avere un futuro? Questa crisi a nostro parere, dice: no. E allora l’idea di generatività che noi prendiamo da questo grande psicologo sociale che è Erickson, (e non abbiamo inventato niente, quindi siamo semplici ripetitori del pensiero di altri, niente di più) è il movimento speculare del mettere fuori. Per cui cosa c’è dopo la società dei consumi? La società della generazione, che mette in equilibrio il fatto che noi mettiamo dentro ma anche come liberi abbiamo pienamente il gusto e la responsabilità del mettere fuori. Noi come cittadini abbiamo la responsabilità e il gusto di contribuire alla costruzione di una società, di un’economia, di un mondo di relazioni più umano in quanto fatto dalla pluralità degli uomini che contribuiscono a questa costruzione. Erickson diceva, è stato citato, che noi interpretiamo quest’ultima stagione storica come una stagione adolescenziale, come se, diventati liberi, attraverso la democrazia, il benessere e quant’altro, avessimo pensato di essere tutti degli adolescenti. E l’adolescente ha quell’atteggiamento esplorativo, di scoperta, di rifiuto dell’autorità. Questa crisi ci sta dicendo che l’adolescenza ogni tanto va a sbattere contro la realtà, perché è tipico dell’adolescente rimuovere la realtà. E questa crisi ci sta dicendo che se le società occidentali vogliono andare avanti, devono tornare a fare i conti con la realtà, che è il debito pubblico, che è la capacità di produrre ricchezza, che è il problema della povertà, della disuguaglianza, che è il problema del senso della vita.
Questa crisi è una crisi adolescenziale. Erickson dice: “Le crisi adolescenziali conducono a un bivio: da una parte la stagnazione (bellissimo, ditemi voi se le società occidentali non sono in una stagnazione) che è la ripetizione dell’identico, far sempre la stessa cosa, essere adolescenti anche quando hai 30, 40, 50, 60, 70, 80, 90, 100 anni, pateticamente adolescente per sempre; dall’altra parte la risposta alla crisi adolescenziale è la generatività, il fatto che tu diventi un pochino più adulto, cioè capisci che non sei padrone del mondo, il mondo per fortuna non gira tutto intorno a te, che tuo padre, tua madre, i tuoi maestri, la tradizione, la memoria, per fortuna che ci sono stati perché ti hanno costituito, che tu puoi fare tutto ma alla fine devi deciderti per qualche cosa, devi misurarti con la realtà per quello che sai fare e che il tempo che hai a disposizione nella tua libertà passa e ci saranno delle future generazioni, ci saranno i figli, ci saranno i giovani, e tu non sei padrone del tempo che passa. Ecco, Erickson dice, sul piano psicologico e noi pensiamo anche sul piano storico-sociale, che viene il tempo in cui la libertà fa un passettino in avanti per essere più pienamente libera.
Per questo il sottotitolo del libro è: “Manifesto per la società dei liberi”. Perché io credo che noi non possiamo sfuggire a questa sfida della libertà. Il nostro è un piccolo contributo per provare a prendere questa crisi che riguarda l’economia, la politica, le nostre relazioni, in un modo che non è moralistico, ma che prova a sollecitare la libertà a un passo oltre. Nel libro poi questo pensiero viene ulteriormente sviluppato e lo potete trovare in maniera un po’ più precisa. Un ultimo pensiero e chiudo. Generare è questo mettere al mondo, dare la vita. Anche su questo mi piace, visto che siamo al Meeting, fare una sottolineatura. Nel Vangelo c’è questa idea del dare la vita, del donarsi. Noi normalmente tendiamo a tradurlo nel dare la vita, nel senso di sacrificare la propria vita: in qualche modo rinunciare alla propria vita per l’altro. Ecco, nel libro proviamo a dare questa sottolineatura: dare la vita, che è insieme dare la propria vita ma anche far vivere, è l’atto per eccellenza del creatore, è l’atto massimo della libertà. E quindi forse quest’idea di generatività ci può aiutare a capire che il dare la vita è un atto di pienezza, non è un atto, come nella cultura individualistica contemporanea, di rinuncia. Se abbiamo accettato questa sorta di stortura significa che la cultura occidentale, dentro cui noi siamo, è provocata da questa crisi e questa crisi, con tutti i suoi rischi e tutte le sue negatività, in realtà è una grande opportunità che abbiamo davanti. Come tutte le grandi crisi, è una lezione. Io credo che la risposta che daremo a questa crisi avrà a che fare con quella che possiamo definire una nuova epopea della libertà. Grazie.

CAMILLO FORNASIERI:
Grazie a Magatti. Raccogliamo questo invito. Vorrei riecheggiare alcune parole di Leopardi quando dice: “Stanco mio cuor e nessuna cosa degna dei moti tuoi”. E questo che crea quella differenza nell’esperienza tra qualcosa che si consuma, che continuamente ci riproduce all’infinito, senza soddisfazione, e qualcosa invece che indirizza tutti i desideri verso qualcosa che realmente tiene e che fonda, io credo, il legame tra l’io e gli altri, perché la verità degli altri non può che essere la mia e viceversa. Perché se fosse così nessuna cosa varrebbe veramente la pena. Allora la tensione e la ricerca è veramente qualcosa che fa liberi e che insieme vogliamo portare per portarla a tutti. Grazie del vostro lavoro, grazie a Giaccardi, a Magatti e a Rondoni per il loro intervento. Facciamo subito la prossima proposta di libro e invito quindi i relatori a raggiungere il tavolo.

Data

28 Agosto 2014

Ora

15:00

Edizione

2014

Luogo

eni Caffè Letterario A3
Categoria
Testi & Contesti