INVITO ALLA LETTURA

La crisi del dono
Presentazione del libro di Claudio Risé. (Ed. San Paolo). Partecipa l’Autore, Pscicoanalista e Scrittore.
A seguire:
Occidente: l’ineludibile incontro
Presentazione del libro di Javier Prades López. (Ed. Cantagalli). Partecipano: l’Autore, Decano della Facoltà Teologica San Damaso di Madrid; Vittorio Emanuele Parsi, Docente di Relazioni Internazionali all’Università Cattolica Sacro Cuore di Milano.
Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.

 

CAMILLO FORNASIERI:
Benvenuti a questo momento delle ore 19.00 del filone testi e contesti in cui presentiamo i libri. Questa sera ne presentiamo due, due importanti, perché riguardano due problematiche culturali complesse e a un tempo elementari, che danno proprio la fisionomia di una concezione dell’io e di una concezione della società.
Il primo libro, il primo lavoro di cui vogliamo parlare insieme con l’autore, è La crisi del dono. La nascita e no alla vita, edito dalla San Paolo Editore. Claudio Risé, carissimo amico, negli ultimi anni sempre presente al Meeting come relatore e come visitatore, è qui con noi per presentare il suo lavoro. Il libro è uscito, se non erro – mi perdonerà il rappresentante della San Paolo – verso maggio, i primi di giugno; è già stato molto recensito e va a collocarsi in uno spazio un po’ diverso da quello del Risé interprete della figura del padre o del tema dell’ospitalità. In questo lavoro inserisce la parola dono, costitutiva secondo lui, e anche secondo la nostra visione, la nostra esperienza, costitutiva dell’umano e si approccia al tema del rifiuto della vita. Io sono rimasto molto colpito da questo libro che approccia il tema dell’aborto, perché si pone a un livello che precede quello della legalità o illegalità, per chiedersi dove si colloca questa debolezza della volontà, dove si colloca questa rinuncia. E lo fa proponendoci un percorso che prende le mosse dalla storia delle religioni, dalla storia della civiltà, perché secondo lui la nascita costituisce il fatto più rivoluzionario, più nuovo, più incontrovertibile della totalità dell’esperienza umana. Se le religioni orientali sono segnate dalla nascita come una necessità di correggere un errore, di correggere un disordine, creato da un Re o da un Dio, l’esperienza giudaico-cristiana concepisce la nascita come il realizzarsi di qualcosa che manca, come promessa di colmare un attesa che si vede e si legge come esistente nella vita. Questo fatto mi fa venire in mente quello che ha detto Benedetto XVI a Ratisbona, come non si possa tornare indietro da quell’incontro tra ellenismo, mondo romano, ebraico e cristianesimo, che ha cambiato per sempre e totalmente il modo di guardare l’uomo, di concepire l’uomo. Lo ha cambiato, non nel senso che ha sostituito un immagine successiva con un immagine precedente, ma nel senso che gli uomini hanno riconosciuto dei fattori costitutivi nuovi, talmente nuovi, che l’unica spiegazione che hanno potuto dare è che fossero rivelati.
Io vorrei chiederti di fare un primo accenno al tuo lavoro, partendo appunto che cosa ti ha suscitato la necessità di voler dire queste parole e anche di articolare il discorso in questa modalità che ho voluto così riassumere brevissimamente.

CLAUDIO RISÉ:
Grazie Camillo e grazie a tutti voi che siete qui questa sera per riflettere per qualche minuto su questo lavoro, su questo libro, ma credo che una prima esperienza su cui soffermarsi è il 30° anniversario del Meeting. In poche esperienze della mia vita io ho visto una situazione di nascita, di processo di nascita continuato e ripetuto nella trasformazione individuale e del popolo che qui conviene, come appunto nel Meeting.
Il Meeting è un esperienza di nascita, di rinascita, per ognuna delle persone che vi partecipa, di profondo rinnovamento individuale, di gruppo e nel mondo esterno, e credo che noi dobbiamo cercare personalmente – mi viene naturalmente molto facile, dato il mio lavoro che è un lavoro sul cambiamento, sul cambiamento psicologico di una situazione disfunzionale che non va bene e che chiede, dall’interno della persona, di essere cambiata – di ri-nascere. Quindi il mio lavoro mi porta costantemente a contatto con questo bisogno di cambiamento, bisogno di rinascita e contemporaneamente con tutte le fortissime resistenze a questo cambiamento. Da una parte noi lo vogliamo, abbiamo bisogno di cambiare, abbiamo bisogno di rinascere, perché questo è il nostro destino: il nostro bisogno di felicità è legato a questo, il nostro corpo è legato a questo, l’essere umano cambia in continuazione tutta la sua vita, non può fermarsi ad uno stadio, così come anche mi sembra il corpo collettivo, il popolo ( anche il popolo del meeting cambia, presenta nuove esigenze, nuove domande). Tutto il processo vitale si svolge legato anche alla capacità di accogliere o no questo cambiamento, di accettare il conflitto, poiché non c’è nulla di innaturale in esso. E’ una cosa triste e faticosa che ognuno di noi da una parte voglia cambiare e dall’altra parte non voglia. Voglia difendere i vecchi equilibri, voglia difendere i vecchi appetiti dell’ego, voglia difendere le convenienze, anche le abitudini, le rendite di posizione dell’immagine, delle convenienze sociali e così via. Non è così strano, però è drammatico. Queste pagine sono state scritte per favorire un apertura al cambiamento, che aiuti ognuno di noi a rifiutare la nostra spesso inconscia consuetudine abortiva nei confronti della vita e della sua continua trasformazione. Noi abbiamo una consuetudine abortiva. Ecco, io incontro questo naturalmente nel mio lavoro quotidiano oltre che nella mia vita personale, che ormai è piuttosto lunga, molto lunga e quindi so benissimo la fatica che si fa a cambiare, la voglia di cambiare e la fatica di cambiare. Il vedere nuovo, il vedere la nascita dentro di noi e la fatica di accoglierla dentro di noi e fuori di noi, i bambini, le nuove generazioni, quello che c’è intorno. Ho visto, per la lunghezza della mia vita, per i lavori, i tipi di discipline che ho esercitato, le scienze sociali, la psicoanalisi, ho visto queste tensioni tra rinnovamento e cambiamento. Però, anche per rispondere alla tua domanda, c’è stata un esperienza concreta che mi ha mosso alla scrittura di questo libro, che ne è un po’ il compendio. Alle ultime elezioni politiche, Giuliano Ferrara aveva fatto questa lista del No all’aborto e mi ha chiesto di partecipare ed io ho accettato. Lui mi ha messo capolista in un paio di circoscrizioni, poi abbiamo preso quattro voti, come era assolutamente prevedibile. Però in questa esperienza, negli incontri, incontrando la gente, vedendo anche il tipo di dibattito che c’era intorno, io ho avuto l’impressione di una parzialità, di una parzialità perché il nucleo di tutto mi sembrava che fosse in qualche modo – al di la naturalmente della necessità di realizzare le parti di prevenzione e di informazione della legge – il fare male della donna e del suo compagno, del padre del bambino nel sopprimere questo bambino. Naturalmente questo aspetto è centrale, ma mancava, mi sembrava, l’osservazione sullo stare male di queste persone, sul malessere di queste persone, che non è solo loro ma anche il mio, delle persone che io conosco e non è solo quello che si manifesta nella soppressione del bambino abortito ma anche quello che si manifesta in quelle consuetudini abortive di cui è fatta anche la nostra vita. Noi dobbiamo riconoscerlo questo, altrimenti finiamo col gettare sull’altro l’ombra che è nostra, perché poi si finisce con l’ingigantire, criminalizzare il gesto, che certo è criminale, ma è legato anche alla nostra criminalità che si esprime in altri modi, con gesti meno evidenti, ma si esprime, vive, e vive della stessa pulsione originale che è quella della conservazione del vecchio. E’ molto giusto quello che ricordava Camillo Fornasieri, prima, sul cambiamento radicale tra le antiche religioni – particolarmente orientali o legate ai miti di creazione un po’ in tutto il mondo, dove appunto l’uccisione del nuovo avviene da parte di un vecchio sbagliato, un vecchio che vuole mantenere il suo, un vecchio Re, un vecchio Dio che vuole mantenere la sua arbitraria potenza sul mondo – e la forza come profondo rinnovamento, come motore della vita che compare con la religione ebraica e si incarna nel Gesù bambino che rinnova il mondo. Ecco per esempio questo passo, che ricordate tutti, di Isaia: “non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche, ecco faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?”.
Ecco, questa base è la base del rinnovamento, della trasformazione; una base a me molto cara, perché il destino delle persone che si rivolgono a me, dipende dalla loro e mia, naturalmente deoconcedente, capacità di tutelare questa spinta verso il rinnovamento, verso le cose nuove, verso la capacità di cambiare, crescere, rinnovarsi. Per questo ho cercato di raccogliere questa materia, che è una materia enorme, enorme e rimossa. Scrivendo questo libro che, come dice Camillo giustamente, è un libro sulla nascita, io mi sono reso conto che non ci sono libri sulla nascita, non ce n’ è assolutamente.

CAMILLO FORNASIERI:
Testori ne aveva fatto uno negli anni ’80

CLAUDIO RISÉ:
E’ bellissimo. Il senso della nascita, con don Giussani, era un libro di grandissima profondità, di grandi intuizioni, anche quello era una cosa di geniale intuizione, molto più geniali delle mie, ma non c’è un libro sistematico. Infatti anche questo è un pamphlet, in cui io cerco di presentarvi delle piste per ragionare su questo tema.

CAMILLO FORNASIERI:
Lui ha detto una cosa interessante quando ha parlato dell’esperienza politica recente, dove mi è sembrato che l’ aver messo a tema in modo centrale ed esclusivo, addirittura programmatico, l’argomento della cultura abortiva, che rimuove ciò che appare, ciò che nasce, ciò che viene, sia stato un momento riduttivo, perché sostanzialmente seguiva l’onda della scomparsa del motivo più profondo di questa nostalgia.

CLAUDIO RISÉ:
Certo non è una questione solo di centri di assistenza e di legge non realizzata. Noi dobbiamo chiederci prima perché non vogliamo che i bambini nascano, altrimenti continuiamo a sorprenderci prima per l’aborto, adesso per la pillola abortiva. C’è dietro appunto una cultura complessiva, che passa attraverso l’uccisione dei bambini, come punto di arrivo, gravissimo per carità, non voglio dire che, ma se non capiamo cos’è che ci porta lì, partiamo dalla fine del discorso, quindi non partiamo, perché in realtà partiamo da una fine che ci mette sotto gli occhi degli obbiettivi chiaramente riconoscibili fuori da noi. La donna che ha preso la pillola abortiva, quell’altra che è andata ad abortire in ospedale, quella che ha abortito per conto suo e noi ci siamo in questa storia, non siamo altri, tanto è vero che la presentazione di questa lista – ed è anche la ragione per cui io ho accettato di candidarmi – è stato un vero scandalo per tutti, per la sinistra ma anche per la destra, perché ha toccato qualcosa di anche molto personale, di cui non si deve parlare, perché ci mette in ballo da subito. Ma noi vogliamo cambiare o vogliamo mantenere le cose più o meno come sono? Noi siamo aperti all’avvenimento, alla conoscenza dell’avvenimento. Per esempio Giussani dice una cosa molto interessante in questo libro, Uomini senza patria: se uno veramente ricerca, allora si accorge del cambiamento in cui si imbarca. Ma noi vogliamo cercare? Vogliamo cambiare? O vogliamo star bene? Che poi è star male?

CAMILLO FORNASIERI:
Anche rispetto al tuo cammino personale, che in questi ultimi anni abbiamo conosciuto sia come posizione umana che religiosa, qual è in estrema sintesi, concludendo il discorso su ciò che è emerso nel cristianesimo rispetto all’antichità greca, l’aspetto di compagnia a questo desiderio di cercare e di trovare che è iscritto nell’animo umano? Nell’esperienza cristiana quali elementi permettono di non rinunciare alla vita, di affermare il positivo, di affermare la nascita?

CLAUDIO RISÉ:
Ma io credo che liberamente, come dire, questo aspetto della nascita è assolutamente centrale, primario, non solo perché Gesù nasce, s’incardina e nasce in quel modo, in una notte magica, ma perché il bambin Gesù, che è un infans cioè non parla, è figlio di Dio prima di ogni parola. Questo è molto interessante, perché ci fa vedere, ci mostra, ci fa vivere il lato profondo e infantile, proprio nel senso di prima della parola, della nostra spinta al cambiamento. Non è una cosa intellettuale, è una cosa molto razionale, ma non è affatto intellettuale, è prima della parola. Lui è il figlio di Dio ma non parla, poi parlerà, ma è già prima il Redentore. E infatti Lui quando Nicodemo, il dignitario del Sinedrio, lo va a cercare, di notte, per non farsi vedere e gli chiede cosa bisogna fare, gli dice subito: “In verità ti dico, se uno non nasce di nuovo non può vedere il Regno di Dio”. E quell’altro, naturalmente, gli chiede come si fa a nascere di nuovo, perché questo è il punto: come si fa a nascere di nuovo, chi crede veramente che si nasca di nuovo, noi ci crediamo? Se non ci crediamo, da qualche parte questo bambino che vuole nascere lo facciamo fuori. Il punto è questo. Poi tutto il resto di Gesù Cristo, il suo identificarsi col bambino che naturalmente è stato, il dire chi non accoglie questo bambino non accoglie me, io sono questo bambino, questi bambini sono con me, è tutto uno sviluppo di questa cosa, di questo discorso di nascita, di rinnovamento di tutte le cose, che per me è al centro del cristianesimo. Per me il cristianesimo nell’esperienza è stato questo, in qualche modo ha costituito, in tutta la mia vita, un lievito di cambiamento incessante – qui lo dico volentieri anche dal punto di vista anagrafico – che d’altra parte comporta l’assoluto riconoscimento e disponibilità a farsi da parte: riconoscimento tranquillo della morte come una cosa che viene, perché se non l’accetti, se non sei disposto, non puoi nemmeno cambiare, non cambi tu e non lasci che cambino gli altri. Questi temi io credo che siano dei temi costitutivi della nostra vita, ma anche della nostra comprensione del mondo, della nostra società, della nostra capacità di incidenza su di essa, nel senso di un cambiamento e di un rinnovamento. Grazie.

CAMILLO FORNASIERI:
Grazie ancora di questo lavoro e invito tutti a diffonderlo tra i propri amici. Io, per brevità, chiamo adesso gli altri due nostri ospiti. Grazie ancora.
Il dottor Javier Prades è qui tra noi, lo salutiamo, è alla mia destra e ci aiuta in questa proposta di conoscenza e lettura il professor Vittorio Emanuele Parsi, arrivato qui al Meeting in questo istante. Salutiamo anche lui. Il libro di Javier Prades ha un titolo importante, Occidente: l’ineludibile incontro, edito da Cantagalli. Si tratta di un libro che offre delle categorie profonde riguardo a quella fisionomia di società in cui ci troviamo a vivere e che riguarda l’incontro con culture diverse, con tradizioni religiose diverse, che spesso il commento dei media e degli studi mostrano come molto problematico. Ma così si va a perdere quel significato profondo che la parola convivenza esprime, alla quale Prades tiene molto e che pone in modo netto all’inizio della sua riflessione come espressione oggettiva di un bene, di un bene assoluto. E’ una categoria che ci fa intuire come il mondo dove nasciamo, le condizioni in cui nasciamo, non ce le diamo noi e che o la società e la riflessione culturale vivono di questa consapevolezza oppure emergono nuove ideologie, più sfilacciate di quelle corpose del passato, ma anche molto più insidiose, perché fanno sì che quella grande creatività che l’incontro tra l’io e un altro io, tra l’io e un noi rappresenta, perda il significato di essere segno di quell’avvenimento che è la vita del mondo, che è la vita di una società. Prima di dare la parola a Parsi, che poi presenterò, accenno al fatto che il libro è diviso in tre parti. La prima è un po’ un dibattito sulle varie teorie del multiculturalismo, la seconda va a fondo sul dialogo tra le religioni, si interroga su che cos’è una posizione religiosa e come può una religiosità aiutare o essere di ostacolo al dialogo, mentre l’ultimo capitolo tratta dell’uomo cristiano di fronte al terrorismo nichilistico, all’estrema possibilità di nullificazione dell’io e della persona che in questo tempo, nella nostra società, si prospetta. Abbiamo con noi Parsi, che è docente di relazioni internazionali nell’Università Cattolica e nell’Università della Svizzera italiana di Lugano oltre che editorialista della Stampa, di Avvenire e che ha tenuto moltissimi corsi anche negli Stati Uniti, in varie università. E’ quindi una figura di grande vivacità intellettuale, di grande lavoro e di grande passione. Siamo molto contenti che sia qui con noi al Meeting di Rimini, perché è la persona più adeguata per presentarci questo lavoro e mostrare come l’esperienza del Meeting, l’esperienza da cui nasce Comunione e Liberazione, possa dire a questo riguardo qualcosa di veramente nuovo e importante. La parola a Parsi, grazie.

VITTORIO EMANUELE PARSI:
Corro un po’ perché vorrei dire un po’ di cose ed abbiamo poco tempo. Correrò e cercherò di essere comprensibile in qualche modo. Intanto dobbiamo fare i complimenti a Javier, perché il suo libro è un bel libro ed è un libro complesso. Io sono un meccanico della politica, per cui faccio con meno frequenza riflessioni sui fini ultimi, mi occupo di come funzionano le cose, però questo è un libro interessante ed è interessante perché la frase che è stata citata prima da Fornasieri – dico subito e so bene che questa non è una platea che ha bisogno di queste rassicurazioni – è una frase che è condivisibile dal punto di vista liberale: non c’è bisogno di essere credenti per pensare che la convivenza sia un bene in sé. La convivenza è un bene in sé in qualunque società pubblica bene organizzata e quindi questa, che può sembrare una banalità, secondo me invece è un punto fondamentale, perché in questo momento ci troviamo in una situazione in cui devono incontrarsi credenti e non credenti e devono incontrarsi credenti in religioni che sono molto diverse. Mi ha colpito un passaggio del libro di Javier, quando diceva che tutto sommato, cito a braccio, ogni religione è il tentativo di universalizzare l’esperienza personale. Questa frase è molto bella in sé, perché cerca di coniugare il relativo e l’assoluto in una maniera che in qualche modo è relativa, perché per ognuno la sua religione è la religione e l’assoluto, perché per l’appunto per ognuno la sua religione è la sua, non esistono le altre. In qualche modo questo elemento oggi è un elemento molto difficile, è un elemento critico, per così dire, e ci rimanda alla umiltà con cui dobbiamo trattare, un’umiltà intellettuale, temi di questo tipo. E’ un libro spagnolo secondo me. Mi spiego meglio: se si conosce la situazione del rapporto tra potere politico e istituzioni religiose e società in Spagna in questo momento, riguardo ai temi che sono sensibili per le istituzioni religiose e per i credenti, si apprezza a maggior ragione il tono garbato, e rigoroso insieme, della polemica di Javier e si apprezza particolarmente in questi giorni in cui lo sguardo su temi importanti, considerando quello che è successo nel Mediterraneo, sembra aver colpito tutti, dentro e fuori il Parlamento, dentro e fuori le gerarchie religiose, che si lanciano in paralleli francamente imbarazzanti dal punto di vista storico, al di là delle ottime intenzioni che sicuramente le animano. Il libro però affronta temi cruciali, vado molto velocemente, e inizia ad affrontare una serie di coppie concettuali che sono considerate tradizionalmente in opposizione tra di loro: uomini e comunità, identità e particolare tradizione e, potremmo anche dire senza fare un atto di lesa maestà, fede e ragione. Cerca poi di mostrare come questa dialettica, in realtà, si può risolvere esclusivamente, dal punto di vista di Javier, attraverso il messaggio cristiano. Però è come se il messaggio cristiano, rimandando a questa trinitarietà della persona di Dio, in qualche modo incorpori un rapporto tra l’io, l’altro e un altro Altro con la A maiuscola e quindi consenta di uscire dalla dialettica oppositiva io altro e di ricomporre, ricondurre a qualcosa di più ampio. In questo modo, a mio avviso, Javier lega l’idea di Occidente, come posso dire, all’incontro che implica la continuazione di un rapporto forte tra l’occidente e il cristianesimo. L’incontro di cui parla Javier da un lato è quello con tutti quelli che la pensano diversamente, che hanno altre idee e quant’altro, però in qualche modo l’incontro ineludibile è quello tra Occidente e Cristianesimo, che deve restare un incontro vivo. E’ un incontro che evidentemente deve andare oltre il non possiamo non dirci cristiani, è qualcosa di più ed è quello che secondo me colpisce soprattutto nel primo dei tre saggi. Javier tocca poi una serie di argomenti importantissimi, sensibilissimi per gli attuali sistemi democratici. Qui mi muovo più a mio agio, con minor timore di dire cose che mi porterebbero alla scomunica. Javier tocca temi centrali tipo i limiti della cittadinanza, la cittadinanza che oggi resta la pietra filosofale della convivenza civile anche se è una pietra filosofale che fa fatica a funzionare come una volta, perché non ci crediamo più in maniera così assoluta, benché non abbiamo nessun altro strumento al posto di questa. Per continuare a credere nella cittadinanza abbiamo bisogno di un processo di riforma o di un Concilio tridentino (per evitare nuovamente di essere buttati fuori) del concetto di cittadinanza – parlo dal punto di vista politico, dal punto di vista liberale. Dobbiamo ritornarci dentro, perché così non funziona più abbastanza e però nulla la può sostituire. E’ inutile che ce lo nascondiamo, convenzionalmente noi poniamo all’origine della modernità occidentale la separazione tra politica e religione e questo è un dato di fatto. Allora è evidente che voi, noi, possiamo contestare, criticare, ritenere che non sia mai stato davvero così, però contemporaneamente, nel momento in cui noi discutiamo la separatezza tra la religione e politica, stiamo discutendo il mezzo con il quale nelle società occidentali si è pacificato questo rapporto, quindi dobbiamo essere consapevoli che non stiamo scherzando, stiamo giocando col fuoco e nuovamente tanti pronunciamenti che si sentono in questi mesi, continuamente, su queste cose da parte di tutti, sembrano non tener conto di questo fatto: stiamo giocando col fuoco. D’altra parte, non è che occorra essere delle guardie svizzere per constatare come questa separatezza, in realtà, storicamente, ha finito per essere in linea di principio subordinazione esplicita del religioso al politico. Pensate all’esperienza britannica con le chiese nazionali, altre volte ha significato irrilevanza pubblica o politica della religione come nella esperienza francese, altre ancora una forma di cooperazione tra trono e altare che è andata a detrimento della libertà dei popoli e degli individui, come nell’esperienza preunitaria dell’Italia, dato che ricorre a breve il 150simo anniversario della nostra patria. Quindi separatezza tra politica e religione e privatizzazione della religione hanno alla fine espresso storicamente lo status dei rapporti di forza tra istituzioni religiose che erano declinanti e in difficoltà e l’astro nascente dello stato moderno. Questo ci dice che lo Stato è un dato storico, quindi probabilmente frutto di una qualche vetustà, di qualche affaticamento. Questa separatezza non è stata quindi una separatezza in nome della dea ragione, non l’hanno inventata gli illuministi. La separatezza tra Stato e istituzioni religiose, tra politica e religione è un portato storico, un rapporto di centri di potere. E però, sebbene qua e là Javier tiri un po’ le orecchie ai miei amici illuministi, non va dimenticato che la deriva un po’ nichilista delle istituzioni statali o la deriva idolatra di porre le istituzioni dello Stato al posto di, come idolo da adorare, in realtà è un fatto che storicamente ancora una volta si è verificato soprattutto per quei regimi in cui la transizione liberale e democratica non è stata un successo. Non abbiamo idolatria dello Stato nei paesi anglosassoni. Sono gli unici paesi in cui quel sogno delle istituzioni liberali, che partiva giustamente dalla promessa di Hobbes così pessimistica, è stato realizzato e non tradito. Sono state le imitazioni di queste istituzioni che hanno portato malamente alla deriva nichilista delle istituzioni statali. E dove la separazione non si è compiuta perfettamente tra politica e religione, nel momento storico in cui questa andava compiuta, alla fine i risultati sono stati non positivi. L’affermazione delle istituzioni liberali repubblicane e prima o poi democratiche ha stentato di più, con effetti negativi. E qui ancora una volta purtroppo il caso dell’Italia è emblematico. Perciò leggere il libro di Javier in Italia ha un significato particolare, perché vuol dire leggerlo nella consapevolezza che l’esperienza storica italiana è molto diversa e parziale e che rischiamo di fare la fine su questo punto che potrebbe fare il sistema economico italiano, in cui si accusa il mercato delle peggiori nefandezze, ma il mercato in Italia non si è mai realizzato come quello che hanno scritto i professori di articoli di giornali, non c’è mai stato così tanto mercato. Il rischio è che guardando al pendolo che torna indietro altrove, dove il mercato c’è stato, noi buttiamo via il bambino con l’acqua sporca. Allora qui, lasciatemi essere franco ma non provocatorio: quella poca laicità che davvero c’è stata in Italia, dove c’è tanto laicismo e tanto clericalismo, e però c’è poca laicità, rischiamo di buttarla via con l’acqua sporca. Il pendolo torna indietro e si torna all’imitazione dell’esperienza cristiana, alla superficialità. Qui siamo nella Legazione delle Romagne, per cui non devo dilungarmi a lungo per far capire di cosa parlo. Oggi in qualche modo il periodo della storia torna un po’ indietro, perché ci rendiamo conto che le istituzioni statali sono stanche, non sono più sufficienti. Questo di per sé è un bene cioè è un atteggiamento critico, razionalmente critico verso la politica dello stato, è un bene. Credo che sia importante rivedere la relazione tra dimensione religiosa e dimensione politica, se siamo veramente liberali. Anche se abbiamo paura da morire, dobbiamo consentire che l’esperienza religiosa, a cinquecento anni dalla sua espulsione nel campo politico, possa tornare, senza averne paura. Questo è il punto fondamentale, perché se no siamo i liberali di Franceschiello, per così dire, guappi di cartone. Però qual è il problema? Su questo cito solo un passaggio, salto quello di Habermas sulla situazione politica, cito Prades. Dice, leggo molto rapidamente: “riscontriamo una dissociazione tra la possibilità di affermazione nel privato del valore assoluto del cristianesimo e una sua necessaria relativizzazione nel pubblico”. Questo che dice lui, questa è la ricetta liberale: non portare nella agorà politica le tue cose e discutiamo, lasciamo fuori i santi e scherziamo solo con i fanti. Questo non basta più. Quello che dice lui è giusto, è giusto nel senso che lui fa una critica giusta, ma sono curioso di sentire come risolve politicamente la cosa, perché la critica è giusta ma poi come si fa a non far saltare per aria tutto? Questo è un po’ il problema e dico una cosa breve per concludere. Dico questo perché, ancora una volta per essere franchi, ci sono tre considerazioni che devono essere fatte rispetto a questa cosa giusta che dice Javier. Javier ha ragione, se sei in buona fede non puoi dire che è sbagliato: come diavolo fai ad avere un Dio in cui credi, che fa di tutto nel tuo privato e nel tuo pubblico è come se non ci fosse. Se non ci credi benissimo, se ci credi però, credo che tu abbia qualche problema a questo punto, logicamente qualche problema. Però questa è la soluzione liberale. Allora adesso facciamo tre considerazioni che devono essere tenute in conto nell’affrontare questo tema e non ho soluzioni per mano. La prima è che la separazione tra stato e chiesa, per quanto criticabile, è essa stessa parte della tradizione politica culturale occidentale. Il cristianesimo ha fatto l’occidente, almeno storicamente. Certo che uno può cambiare tutto. Ma se uno si sposa tra volte, non è che ha ammazzato le due mogli precedenti, è stato sposato tre volte, non può far sì che la sua vita non sia stata fatta anche dalla prima moglie e dalla seconda. Allora fosse anche che voi non crediate più, non siate più cristiani, non potreste negare che come siete fatti è stato influenzato pesantemente dalla dimensione cristiana, storicamente. Però accanto a questo c’è che la dimensione, il modo in cui cristianesimo ha fatto l’occidente, è molto frutto della separazione tra stato e chiesa di mille e cinquecento anni. La libertà e la tolleranza, la conosciamo come la conosciamo, passa da quello snodo. Quindi come si fa a cambiare via senza perdere libertà e tolleranza? A questo punto da liberale io sono hobbesiano, non mi fido di nessuno, ma neanche mi fido dei rappresentanti in terra sulla questione politica, questo è poco ma sicuro. Secondo elemento. La deriva dello stato per quanto in linea di principio. la deriva idolatra. la deriva dello stato a porsi come centro del mondo, della società, per quanto in principio sia possibile già nella impostazione hobbesiana, si è compiuta veramente solo dove il liberalismo e la democrazia non hanno attecchito veramente. Terzo elemento. Aprire alla rilevanza pubblica e politica del dato religioso nel momento in cui ci sono culture religiose nel nostro paese che sono meno avvezze, non abituate al rapporto con il pluralismo, la tolleranza, la libertà religiosa, non è come confrontarsi con religioni che sono state istituzionalizzate all’interno della tradizione politico culturale occidentale. Tutte le religioni sono, come diceva Javier appunto, una universalizzazione di esperienze particolari, ma non è semplice aprire la porta al dialogo, alla possibilità che la religione entri in politica, quando ci sono fedeli e religioni che hanno un rapporto tra religione e politica che non è quello nostro occidentale di separatezza. Questo è un dato da tenere presente: non possiamo dimenticare che la stessa chiesa cristiana, la stessa chiesa cattolica, non sarebbe quello che è, se non fosse cresciuta all’interno di questo mondo. La chiesa di oggi nel mondo è figlia dell’esperienza particolare della chiesa in occidente negli ultimi cinquecento anni. Se persino nella chiesa cattolica il rapporto con le istituzioni statali, per la separatezza dei poteri con le istituzioni, è stato benefico, e non è stato così facile trasformarlo in un rapporto benefico – Centocinquant’anni dell’unità di Italia significa che abbiamo liberato il Santo Padre dal fardello del potere temporale solo centocinquant’anni fa – questa cosa qua non può essere dimenticata, non può non darci un monito di prudenza nel trattare con le altre forme religiose. Chiesa e stato sono anche istituzioni – questo è l’unico appunto che faccio a Javier – e sono in quanto istituzioni squisitamente occidentali, sia lo stato che la chiesa sono tipicamente occidentali. Questo nulla toglie al fatto che ovviamente la questione della chiesa è universale, ci mancherebbe altro. Non mi risulta però che i vescovi tra loro parlino l’esperanto, ma ricordo che parlano in latino, nella lingua dell’impero di Roma, sorta ben prima che il cristianesimo arrivasse sulla faccia della terra. Grazie a tutti.

CAMILLO FORNASIERI:
La parola Javier Prades

JAVIER PRADES LÓPEZ:
Io volevo innanzitutto ringraziare sia il Meeting che Camillo per l’invito e soprattutto Vittorio per la sua generosità e la sua disponibilità ad essere qua con noi oggi. Ha fatto il giro dell’Italia, ha dovuto fare tantissimi viaggi, tantissimi spostamenti per essere qui con noi: allora io lo ringrazio veramente di cuore. Poi se un mattone come questo può destare in te la curiosità che hai mostrato adesso, mi toglie un po’ la paura che non possa interessare a nessuno. Ero certo che il fatto che tu lo presentassi avrebbe destato per me ulteriori domande. Io provo a dire velocemente alcune caratteristiche della cosa che ho fatto e perché l’ho fatta, poi provo, se non ho dimenticato le tante provocazioni che ha lanciato Vittorio, a recuperare alcune delle cose che ha detto. La prima cosa, molto velocemente, è una cosa che si sta ripetendo molto, ma io sento di doverla ridire: noi europei, adesso in modo molto più imponente di qualche decennio fa, siamo diventati ancora una volta come eravamo un tempo, una terra di incontro e questo è un dato di fatto che non possiamo bypassare. Tutti abbiamo nel nostro condominio o nella nostra strada o sul posto di lavoro delle persone che non sono più della nostra religione, della nostra razza, della nostra cultura. Ecco, la prima cosa che sento, è che di fronte a questo dato di fatto la ragione non si fermi alle considerazioni penultime né di ordine pubblico né politiche né legislative. Sono tutte imprescindibili, sono tutte necessarie. Io so che Vittorio ci tiene molto a questo livello della realtà, quando si descrive meccanico delle relazioni internazionali ed è giustissimo. Sentire oggi i capi di stato, i ministri degli esteri africani oggi, qui al Meeting, era un esempio fantastico di questo livello della cooperazione internazionale. Io sento che la ragione umana è costretta davanti a queste cose a non accontentarsi, e a porsi la domanda se c’è un disegno buono, se c’è un disegno che può rendere anche questa situazione di presenza massiccia di persone di altre culture, l’occasione di un bene per tutti. La nostra storia di cristiani da duemila anni ci educa a leggere gli avvenimenti storici apparentemente casuali o puramente esito del gioco delle umane libertà anche alla luce del disegno buono di Dio. Questa è la prima cosa che io sento molto fortemente nel considerare la questione come contesto ed i problemi di fondo. Perché poi, alla fine, quando si và ai singoli problemi, una delle caratteristiche della nostra stanchezza europea è che questa dimensione è semplicemente cancellata. Ci sono sintomi di una ripresa della presenza della dimensione religiosa nella vita pubblica, ma appunto come tu dicevi è una cosa che ancora non si è capito verso dove va e quali implicazioni ha. Che la ragione umana, quando affronta la cultura, quando affronta le religioni o quando affronta il male ed il terrorismo possa essere aperta fino alla misteriosità del reale e fino al mistero che ciascun uomo rappresenta, per me è una delle convinzioni che ho più a cuore nel proporre questo testo. Sono persuaso che se guardare la realtà fino alla sua origine misteriosa, e dunque fino al riconoscimento del mistero, è ritenuto sempre comunque un aspetto da mettere da parte, perché foriero di problemi, secondo me non ne veniamo fuori. Mi sembra che questa sia una responsabilità soprattutto per chi crede in Dio, come è ovvio. Chi non ci crede, non sarà mica lui a dover mettere Dio nel dibattito pubblico e nella convivenza umana! Ma prima ancora che nel dibattito, nel vissuto quotidiano, perché è li che ci giochiamo tutto ed in questo senso mi pare giusta che la cosa che avevate detto voi due: sono persuaso che convivere è un bene. Chi ha l’esperienza di una società dove non c’è più la convivenza, sa benissimo da che cosa dobbiamo fuggire. Io, nella mia piccola esperienza, vedo che cosa fa il terrorismo in Spagna, e capisco come paura, violenza, morte e distruzione dell’altro certamente non giovano a nessuno, neanche a quelli che potrebbero sembrare vincitori in un certo momento. Per sostenere la convivenza è imprescindibile la comunicazione, perché la prima modalità di violenza è l’esclusione dell’altro come soggetto al quale rivolgersi; poi si può anche arrivare ad ammazzarlo con un colpo di pistola e freddarlo, ma certamente la violenza inizia là dove si ritiene già in partenza impossibile che l’altro sia interlocutore, sia uno come me, possa essere uno come me, sia diverso e sia allo stesso tempo uno come me. Io sento che questa è una delle nostre debolezze, che poi si riflette su tutti gli ambiti: pubblico, privato, cittadinanza nel senso classico liberale e nel senso della proposte multiculturaliste o comunitariste che vogliono ritoccare o rifare la nozione stessa di cittadinanza. Ma, ovviamente, la mia competenza non è la politica. Guardando l’antropologia, dico che la nostra responsabilità è un’educazione ed una proposta di comprensione dell’uomo, dove sia possibile tenere insieme la mia identità, chi sono io e dunque la mia tradizione, la mia lingua, la mia terra, tutte le etichette che si possono voler usare per questa dimensione vera dell’umano e simultaneamente – questa secondo me è la sfida – la capacità di riconoscere l’universalità dell’umano, che chi non è come me, chi non dice le cose nella stessa maniera mia, chi non ha la stessa mia cultura, la stessa mia lingua, le abitudini che ho io, è anch’egli un uomo. Questa universalità dell’umano è stata garantita efficacemente nella storia d’occidente dalla tradizione liberale, nata nella modernità: la concezione che tutti siamo uguali davanti alla legge e che si possono affermare i valori universali dell’umano e la composizione in unità di queste due dimensioni. Ora, io dico che per scomporre antropologicamente questa dualità e unità, veramente serve un tipo di antropologia che non le concepisca divise ma unite. Si può distinguere nell’unito e si può distinguere dove le due dimensioni sono riconosciute appartenenti alla stessa radice. In questo senso io sono molto contento che tu abbia detto subito che la pretesa del libro è dire “il cristianesimo porta la risposta”. Io son contentissimo. In ultima origine essa sta nella concezione trinitaria di Dio. Io sono contento che tu l’abbia intravisto, perché è la mia tesi: un Dio trinitario rende possibile ciò che hai appena detto, semmai aggiungerei che fra la concezione di Dio e l’affronto dei problemi quotidiani serve un’antropologia, serve una comprensione dell’umano. Io mi ricordo sempre, l’ho citato più volte, che quando hanno dato a Fernando Savater, che è lontano mille miglia dal cristianesimo, il premio Sacharov al Parlamento Europeo per la sua lotta civile contro il terrorismo, lui ha detto: “i giovani, che poi diventano terroristi di Eta, sono stati educati in una, diceva lui, antropologia demenziale”. E a me è sempre rimasta in testa questa sua affermazione. Perché è vero, i terroristi devono andare in galera, devono scontare le pene, la polizia deve fare il suo mestiere, non si possono fare concessioni nella politica ai partiti che sostengono i terroristi e via dicendo. Ce n’è una valanga di misure politiche giudiziarie, giuridiche in senso lato che vanno assolutamente proposte e seguite. Ma lui capiva benissimo che la soluzione stabile e duratura dei problemi non si raggiungerà se non si è in grado di proporre, di educare i giovani secondo un’antropologia che consenta a chi è basco di vivere la propria tradizione come un dono, una cosa che è un bene, senza essere esclusivista, senza essere cieco dinanzi alla presenza di chi non è come te. Io son certo che la Chiesa può educare a questa antropologia, nella quale si può tenere insieme l’amore alla propria terra, alle proprie radici, alla propria lingua e l’apertura agli altri. Ognuno di noi è entrato nel mondo in una lingua, nella sua lingua e non si può far violenza su questa cosa, né in un senso né in un altro. Auguriamoci di essere in grado di proporre un’antropologia che nel dire noi non escluda nessuno, nel dire le nostre cose sia dentro all’intera umanità. Io son convinto che questo è il contributo antropologico educativo che oggi può dare la Chiesa. E mi sembra che in questo modo – e così riprendo un’altra delle cose che dicevi tu, Vittorio – che in questo modo si può cominciare ad affrontare la questione faticosa e delicata per l’Europa occidentale, l’Occidente europeo, quella del rapporto tra privato e pubblico anche rispetto alla religione, perché tutte le forme religiose si devono sottoporre al tribunale dell’antropologia, tutte, noi cattolici compresi, al tribunale della ragione. Non va bene questo relativismo più o meno irenico o l’esclusivismo chiuso a priori di chi dice: tutte le religioni sono il problema e dunque facciamoci una bella laicità chiusa, neutra, perché lo stato deve prescindere dalle religioni. Secondo me non va molto lontano. Ma neanche l’altra posizione va bene, quella che dice che dato che adesso torna di moda il religioso, tutte le religioni sono eguali, l’una vale l’altra. Non è vero. Ogni forma di religione si deve sottoporre al tribunale della ragione, al tribunale dell’antropologia e in questo senso condivido ciò che dicevi sul singolare rapporto tra Occidente e Cristianesimo, nei termini usati da Benedetto XVI a Ratisbona. E’ vero che storicamente la ragione greca e la concezione cristiana dell’uomo e della ragione si sono incontrate ed hanno generato una cosa che è decisiva per la storia dell’occidente e che secondo me ha un valore universale. Ma non nel senso che tutti dovranno essere occidentali, quanto che tutti dovrebbero paragonarsi con l’esperienza dell’uomo così come questo incontro ha generato. Adesso concludo. Avevo lì una lunga citazione di Benedetto XVI che non leggo, per non appesantire, ma secondo me il Papa queste cose le ha veramente colte: che cosa è la ragione, che cosa è la fede, quale sia il dialogo della fede con la ragione e quale la posta in gioco per problemi che hanno a che fare con tutta l’Europa e il mondo. Grazie

CAMILLO FORNASIERI:
Grazie per questi spunti, che hanno rimesso a tema il problema della universalità dell’umano e del confronto razionale, grazie a Parsi della sua presenza e a Prades del suo lavoro. Arrivederci.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

23 Agosto 2009

Ora

19:00

Edizione

2009

Luogo

eni Caffè Letterario D5
Categoria
Testi & Contesti