INVITO ALLA LETTURA

Nella casa di Cilla.
Presentazione del libro di Adriano Moraglio, Giornalista (Ed. SEI). Partecipa l’Autore.

 

MODERATORE:
Benvenuti a quest’incontro, a quest’appuntamento che costituisce un momento in cui il tema del Meeting “O protagonisti o nessuno” prende sicuramente carne in maniera estremamente concreta ed evidente.
Nella Casa di Cilla è il titolo del libro che costituisce lo spunto di questo nostro incontro. Il libro è stato scritto da Adriano Moraglio, che è qui alla mia destra e che ringrazio molto non solo per la sua presenza, ma soprattutto per aver fatto la fatica di scrivere questo testo. Insieme a lui abbiamo come ospiti Alessandro Galeazzi, fratello di Cilla, e alla mia sinistra Salvatore Albanese, amico collega ed in qualche modo erede di Rino Galeazzi nella responsabilità dell’associazione che è nata dalla vicenda di Cilla. Anche a lui siamo grati della sua presenza.
Può una ragazza di 15 anni, o giù di lì, diventare protagonista della storia? Non dico protagonista nel senso effimero che molte volte oggi si dà a questa parola, protagonista delle copertine o dei palcoscenici per esempio. Con protagonista della storia, intendo un protagonismo che non dura per un mattino o una stagione, ma che dura per l’eternità, perché la storia è il luogo in cui l’Eterno è entrato. Una ragazza di 15 anni può diventare protagonista. È accaduto 2000 anni fa, quando una ragazza, presumibilmente di 15-16 anni, ha detto sì ad un imprevisto che ha fatto irruzione nella sua vita, e attraverso di lei nella vita dell’umanità intera. E per analogia, o forse potremmo dire per sequela, similmente a tanti altri, un’altra ragazza di 15 anni ha avuto la grazia di dire un analogo sì ad un mistero che imprevedibilmente, e in forma inattesa ma certamente desiderata, è entrato nella sua vita e nella nostra vita. Vorrei anche dire che questo tipo di protagonismo non ha nulla a che fare con l’esibizionismo con cui tante volte oggi si confonde il significato della parola protagonista. Riguarda invece l’umiltà di chi, giorno per giorno, vive con il desiderio di dare una consistenza alla propria vita, alla propria giornata, alle proprie ore e, attraverso ciò che è accaduto a questa ragazza, anche tanti altri hanno avuto la grazia di sperimentare una vicenda analoga, cioè di vedere la propria vita resa consistente da qualcosa di più grande che dà forza e sostanza alla nostra esistenza quotidiana, fatta di limiti, sofferenza, dolore e gioie. Come dice Claudel, “la vita in parti eguali di gioia e dolore è fatta”.
Questo libro, Nella casa di Cilla, come ci dirà meglio il suo autore Adriano Moraglio, è un libro che evidentemente parla di Cilla, ma che parla innanzitutto di suo padre, dei suoi genitori Rino ed Elsa. È perciò una prospettiva particolare, e insieme a chi ha scritto questo libro avremo poi la possibilità di ascoltare la testimonianza di Alessandro e Salvatore che, da prospettive diverse, hanno collaborato e partecipato alla stessa avventura umana e cristiana. Mi permetto soltanto di mostrare un’altra copertina – credo che parecchi di voi, se non tutti, la conoscano. È un libro che io, come tanti tra voi, lessi quando ero un giovane studente universitario. Mi era assolutamente sconosciuta questa fanciulla e devo dire che il suo viso, con la testimonianza che dentro è stata ricostruita, mi ha per tanti motivi segnato.
Tra l’altro parlavo personalmente poco fa con Adriano che qualche anno fa,, non per mie esigenze dirette ma per esigenze di una coppia di amici che avevano un figlio con gravi problemi di salute, sono dovuto salire dalla Romagna a Milano e a Pavia per diversi ricoveri. Abbiamo avuto la ventura di essere ospiti in alcune delle case dell’associazione Cilla, e quindi sono stato personalmente, seppure in forma limitata, toccato dall’opera dell’associazione Cilla. Ma al di là di quella vicenda particolare, ci sono tanti altri aspetti della testimonianza di questa ragazza, e di tutto ciò che è nato da lei, che toccano ciascuno di noi. Io vi ringrazio dell’attenzione e cedo subito la parola ad Adriano Moraglio, che ci racconta la genesi di questo libro e il suo contenuto. Grazie.

ADRIANO MORAGLIO:
Grazie Daniele. Vi parlerò del mio libro per farvi venire la voglia di leggerlo ma non posso dire tutto ovviamente. Dirò alcune cose, e voglio raccontarvi la storia di Rino Galeazzi. Don Carrón, in un bigliettino che mi aveva mandato in occasione di un altro mio libro, aveva scritto questa frase da cui vorrei partire: “Sempre più anche la nostra umanità abbia come unica preoccupazione di guardare dove Lui accade”. Io ho scritto la storia di Rino, perché lì è evidente come Dio sia protagonista nel tempo nella storia e nello spazio, rendendo protagonisti a loro volta le persone che lo accolgono. In realtà è Rino stesso a parlare di sé in questo libro perché io ho usato dei suoi scritti, dei documenti e alcune testimonianze di altri, fidandomi anche un po’ del mio intuito e della conoscenza di fatti e vicende della famiglia.
Io faccio il giornalista e ho sempre inteso il mio mestiere come un dare voce ai fatti e alle persone, anche quando le parole sono mie, e a questo principio ho sottomesso pure le storie raccontate nei miei libri. Così è stato anche con Nella casa di Cilla. Dunque ho fatto parlare Rino, e quando non è lui a raccontarsi, è sua moglie Elsa a narrare di lui e del cambiamento che Cilla ha provocato nella loro storia. C’è uno scenario, e questo lo dice anche il titolo, che fa continuamente da sfondo a tutto quanto, a tutta la loro storia, ed è la casa e le tante case in cui Rino e la sua famiglia hanno vissuto. Uno scenario che sul finire del libro si prolunga sino alle tante case che oggi in Italia portano il segno dello slancio caritativo che ha animato Rino fino al termine dei suoi giorni, avvenuto esattamente 20 anni fa. Il libro cade anche in questa occasione. La casa è dunque il luogo dove si genera la vita, il luogo della pace e della gioia per antonomasia, eppure anche il luogo dove possono convivere dolore, sofferenza, liti e disperazione. Nelle case di Cilla, oggi come ieri, può accadere quell’imprevisto con la “I” maiuscola, che cambia in meglio ciò che può sembrare una disfatta.
È legittimo allora dire che Rino visse non nella sua casa ma nella casa di Cilla, perché quella figlia fu talmente importante da trasformare la sua stessa casa. Rino stesso aveva cominciato a scrivere la sua singolare storia, io ho trovato i dattiloscritti mai resi noti. È un Rino Galeazzi, quello che leggerete nel mio libro, sconosciuto ai più, e proprio con questi suoi scritti debitamente rivisti e valorizzati si apre il libro. Raccontare la sua storia è un’impresa che egli aveva appena abbozzata e mai proseguita, così, quando li ho trovati, ho pensato di proseguirlo io. Fatti, episodi e situazioni riportati sono tutti veri, solo proposti nella forma di un romanzo dove l’unica concessione all’invenzione letteraria, diciamo così, consiste nell’aver immaginato Rino ed Elsa che si fermano per un momento e si impegnano a scrivere la loro storia. Chi è stato Rino Galeazzi per essere indicato dal Meeting come un protagonista? Pensate, il Meeting ha dato così valore a questo libro che tra tutti gli inviti alla lettura che trovate in queste giornate sono proposti tre libri, mentre oggi viene proposto solo questo. Provo a rispondere, consapevole che troverete soddisfazione alla domanda “chi è Rino?” leggendo il libro, e così faccio anche un po’ di marketing.
Siamo nel primissimo dopoguerra, Rino è poco più che ventenne, non è molto che è andato a vivere a Genova per studiare medicina, lasciando i paesi dell’infanzia, della giovinezza, tra astigiano e alessandrino. Una sera, passeggiando per il capoluogo ligure, è profondamente inquieto e solitario mentre attorno a lui c’è aria di festa, voglia di divertirsi e di dimenticare. In lontananza si sentono le sciocce parole di una canzone, e lui commenta che erano fuori posto. “Tutto infatti in quei giorni nasceva per soffocare, per cancellare qualcosa, per fare da becchino alla realtà, ad un passato troppo recente. Ecco quello che stonava. Come si poteva altrimenti suonare, cantare, ballare freneticamente ogni sera fino a notte inoltrata, in balere costruite sulle macerie, con scheletri di palazzi che incombevano con odori di tritolo, di fumo, ancora aleggianti nell’aria. Mi sentivo prigioniero, ma qual’era la mia prigione? Erano i volti di Bruno – lui ricorda i suoi amici – di Carlo, di Enrico, che non avevo avuto il tempo di vedere impalliditi dalla morte. O il pallore cinereo dei deportati, i loro occhi grandi e tragici, il cui sguardo mi accompagnava quella sera e chissà per quanto lo avrebbe fatto. Come uscirne? Sentivo che se avessi trovato una risposta, avrei potuto in pace rivedere i volti degli amici morti, se avessi trovato una risposta – dice – avrei potuto ascoltare le note cantilenanti di quella canzone che proprio non mi andava giù senza essere atterrito, senza avere la sensazione che ogni rumore mi facesse scoppiare la testa”.
Rino cercava una risposta, qualcosa che potesse fare accettare il dolore: è stata questa la più vera domanda della sua vita. Il dolore infatti, e lo accennava prima, è come una porta sull’infinito. Voi che fate l’associazione ve ne renderete conto quando con i vostri amici, nelle case o negli ospedali, quando li accoglierete.
Nei giorni dell’occupazione nazista, fuggendo da un pattuglia, Rino aveva visto colpire a morte il suo amico Bruno, e lui disse nel suo scritto: “Mi chinai di nuovo su Bruno, aveva gli occhi sbarrati, rimase atterrito ma non era paura. Ciò che mi sconvolgeva in quel momento era l’immensità che rivela l’ultimo sguardo di uno che muore”. Rino veniva da un’infanzia travagliata, cresciuto in una famiglia di origini nobili con sopravvissute velleità borghesi, non aveva potuto vivere l’esistenza spensierata dei suoi coetanei. Ciò infatti non era ritenuto confacente ad un bambino del suo rango: “In me ed intorno a me – ricorda – non accadevano cose importanti, ai ragazzi del paese invece ne accadevano sempre tante. Parlavano di nidi, di alberi di ciliegie, di carretti costruiti da loro, del fiume, e tutto questo accresceva in me il vuoto, la triste sensazione di non valere niente”. Ma le cose della vita non bastano mai in se stesse, all’animo insaziabile di felicità di un uomo. Rino lo scoprì benissimo il giorno della sua laurea a Genova, con evidenza acuta, e ricorda: “In virtù dei poteri conferitimi la proclamo dottore in medicina e chirurgia. Il rettore aveva letto la formula di rito, ma il resto si perse in un fruscio di toghe, di scricchiolii di scranni del collegio accademico che si rimetteva a sedere dopo aver nominato le parole che mi nominavano medico. Mi ritrovai poi per il corridoio, tra gente che mi palpava braccia e spalle. Tutto qui dunque? Per 6 anni avevo sofferto, sperato, desiderato che arrivasse quel giorno. Mi avevano buttato in faccia una formula che doveva cambiare la mia vita, ed ora non succedeva niente. Perciò niente sollievo, niente gioia, niente soddisfazione e tanta solitudine e smarrimento. Non capivo le pacche sulle spalle, ricoperte dal vestito nuovo comperato per l’occasione, mi misi a camminare lungo i viali della facoltà diretto verso casa, ma nessuno mi salutò: era logico, nessuno sapeva che ero diventato dottore in medicina. E quando lo sapranno, cambierà qualcosa?”.
Rino che ci voleva ben altro che una laurea per cambiare la vita. L’incontro con Elsa fu una risposta alla sua sete di infinito, non più un infinito tragico che si coglie negli occhi di un amico che muore, ma l’infinito che muove e carica le energie di un uomo. In una lettera che ho trovato, anzi che ha trovato Chicca, e che mi ha dato da leggere, Rino, infuocato di passione, scriveva così a sua moglie, alla sua futura moglie: “In questo momento starai riposando, le tue membra affaticate comporranno quella figura armoniosa, la cui contemplazione ha risvegliato in me una gioia così intensa”. Ed immaginava: “E io entro nella tua camera, ti prendo le mani, ti sollevo fino a me, ti stringo forte forte e ti bacio, ti bacio con tutta la forza del mio amore e della mia passione, guardo i tuoi occhi, in essi leggo cose di mitiche e leggendaria bellezza, nella tua bocca leggo la promessa di tesori immensi di gioia, e ti ripeto che ti amo, ti amo più della vita”.
Elsa e Rino si sposano. Nel 1963, quando Rino aveva 37 anni, la famiglia Galeazzi va a vivere a Monte Magno, il paese che avrebbe segnato definitivamente la loro esistenza. Vi arrivano che hanno già con se i loro 3 figli ed un ideale, domandate ai vostri genitori se non è stato così: una vita prospera, serena e agiata. Ricorda Rino: “Lavoravo a più non posso, ambulatorio a Monte Magno fino alle 11 di sera ed anche oltre, e poi ad Asti, all’INPS, in un laboratorio di analisi, in uno studio dentistico, in un altro studio specialistico in oncologia, in fegato e in vie biliari. Intorno alla metà degli anni 60, in pieno boom economico, anche nelle valli dell’astigiano era così. La mia vita era quella di un professionista impegnato a tempo pieno. Una vita borghese, amicizie importanti, buoni guadagni. La nostra casa era ben arredata, ricca di mobili e di beni di antiquariato, e poi le feste, e i ricevimenti, le vacanze al mare, a Rimini ovviamente, o in Campania nel castello nobiliare di Ristagno. Mia moglie stava a casa come quasi tutte le mogli di allora, con i figli maggiori che già frequentavano le elementari, aiutata dalla mitica Adelaide”. Quindi avevano la donna di sevizio, tra virgolette, la tata. “Comparvero anche i cavalli nella nostra vita – continua Rino – era diventata una moda, come un vezzo di bella vita tra un gruppo di medici ed altri professionisti, l’andare a passeggio nelle nostre colline. I cavalli erano uno degli argomenti principali dei nostri discorsi”.
Ma l’imprevisto è già dietro l’angolo, la figlia maggiore stravolge la vita della famiglia con le sue ribellioni. Vuole libertà e comprensione, ma trova dei muri nei suoi genitori: il maschio è un tornado da gestire a fatica, la piccola, apparentemente ed esternamente più tranquilla, sviluppa, crescendo, un’inquietudine profonda e radicale. Anche lei contesta lo stile di vita dei genitori, il benessere, le convenzioni non rispondono alla sete di autenticità che porta in sé la giovinezza. Scrive Cilla: “Nella mia casa c’è sempre stata l’abitudine di non discutere mai, di non discutere nel senso vero della parola se non con gridi, strepiti e frasi del genere, del tipo ‘tu non capisci niente’. Mio padre, come del resto mia madre, quando vengono fuori cose come le elezioni del presidente o le elezioni politiche in generale o come il referendum sul divorzio, dicono ‘se la sbrighino gli altri’”. Scriveva ancora: “Penso che, al mondo, la cosa che combatterò di più sarà l’ipocrisia, ha il potere di spezzarmi il cuore. Nella mia famiglia chi non ha voluto essere ipocrita, o meglio, non è riuscito a sopportare l’ipocrisia se ne è andato con il primo mezzo che ha trovato, e adesso se ne sta scontando le conseguenze. C’è poi chi è riuscito a guadagnarsi la stima, o meglio, ha formato l’orgoglio di qualcuno, e allora vive in un chiaro mondo ovattato. Ah, lo so, non vi preoccupate, l’ipocrita in questione – parlava di Rino ovviamente – leggendo queste mie poche righe, si identificherebbe subito, e allora giù: ingrata! Dare dell’ipocrita a me, ma io la levo dal mondo. Io, io che ho dato la pelle, l’anima per lei”.
Cilla tra gli anni delle scuole medie e le magistrali, vive un profondo disagio: vuole essere veramente se stessa. “Penso di essere – scrive in un’età in cui iniziano i contatti umani più diversi, in cui vi sono i primi grossi problemi e le prime delusioni – io sono stata sempre molto restia ad arrendermi al mondo. Anche perché non trovo mai un motivo per farlo, né credo alla distruzione che lentamente il mondo esterno può attuare in me. È risaputo che esistono per tutti gli adolescenti dei momenti chiave, in quanto possono influire molto sull’assetto futuro della loro vita, io non ho certo fatto eccezione alla regola, ma purtroppo questi periodi, che normalmente sono abbastanza brevi, per me hanno avuto la durata di 3 anni. Nei quali fondamentalmente ho cercato il senso di tutti i miei atti e di tutti i miei perché, senza risposta. Quest’anno, iniziando la scuola superiore, si è aperto un capitolo nuovo della mia esistenza che sinceramente spero eterno”.
Che cosa aveva visto? Aveva conosciuto delle compagne di scuola, diverse dalle altre. Rossana e Nicoletta erano aperte agli altri studenti, interessate alla vita della loro scuola, sino a voler partecipare alle elezioni studentesche unite, con la loro faccia di cattoliche. Poi il raggio delle amicizie si è allargato: Massimo, Carola, che è qua, e i dialoghi con loro la richiamavano ad un Dio che non sta nei cieli, ma che si rendeva incontrabile nella loro unità, semplicemente questo. E Rino in tutto questo? Ecco il racconto del primo impatto, forse quello più acuto, con quella figlia che stava cambiando, Cilla. Dopo un dialogo con Carola, Cilla, al termine di una mattinata a scuola, particolarmente agitata da discussioni con i compagni di scuola, aveva invitato l’amica a pranzo a casa sua. Rino conobbe così Carola: “Ci conoscemmo, Carola era molto imbarazzata nel vedermi, ed io stesso non riuscivo a celare lo stesso sentimento. Era una cosa insolita per noi avere amici dei figli a pranzo, ma non finì lì. Cilla, prima di sedersi a tavola, disse che nella loro comunità prima dei pasti recitavano una preghiera, così prese il libro delle ore, una sorta di breviario ad uso dei laici, e lesse l’Angelus”. La memoria cioè dell’incarnazione di Gesù. “Io stavo già pranzando, posai la forchetta e guardai mia figlia e Carola in silenzio, con gli occhi pieni di meraviglia”. “Fu per me ed Elsa – questo è un ricordo posteriore – come l’inizio di un fiume in piena che avrebbe travolto, di li a breve, certezze, comodità, schemi di vita, sogni borghesi, restituendoci noi stessi”.
“Forse Cilla aveva intuito – racconta ancora Rino in un’intervista bellissima che gli fece Renato Farina sul sabato nel 1984 – che ero io il più duro della famiglia. Tanto aveva detto, tanto aveva fatto che riuscì a portarmi in un incontro di Comunione e Liberazione. Era lì che Cilla aveva incominciato a scoprire Cristo e a farsene cambiare la vita. Io invece ero scettico. Lei mi diceva, ‘ma ti sei accorto della convinzione con cui parlava Don Berna? Tu ti si sentiresti di parlare con lo stesso accento di convinzione delle cose che fai? Ci credi a quello che fai?’ Mi mise in crisi. Ripassavo mentalmente la mia giornata da medico stimatissimo: buone diagnosi, quando parlavo tutti mi ascoltavano, ed in casa fino ad allora pontificavo.
Mi potevo ritenere un uomo arrivato, ero proprio soddisfatto, eppure non credevo, non ero convinto di una vita così. Visitavo la gente e non la guardavo in faccia. Si può infatti guarire i malanni senza appassionarsi ai pazienti, facevo l’oncologo e dall’oncologo non si va come ridere, ed in famiglia mi rendevo conto che parlavo come da una barriera.
“Ero lieto di vivere? Mi pareva di no. Per questo non avevo amici, volevo bene a qualcuno, ma l’amico, l’amico devi avere passione per lui, devi avere quella cosa nelle pupille, anzi proprio nel centro. Mi mancava la passione per la vita degli altri. Con Cilla parlavamo di tutto, allora cominciai ad imparare dalla saggezza nuova che vedevo in lei. Poco alla volta volli per me quella realtà che fa nuove tutte le cose, e che riempiva il cuore di mia figlia. Per questo iniziai anch’io a starle insieme il più possibile, persino nella sua comunità, ma mi fermavo ad un attivismo: del suo Signore avevo ancora paura”.
Cilla, a poco più di 14 anni e mezzo, aveva scritto così in una lettera ad un amico dopo aver partecipato a una tre giorni di preparazione alla Pasqua: “La felicità che era e che è in me, nel sentirmi così vicina al Signore, nell’udire da Berna – il sacerdote che aveva predicato gli esercizi spirituali – la Sua grandezza e il vedermeLo ugualmente così buono, così grande nel Suo chinarsi verso me e stato uno sconvolgermi. E lo è ancora di più quando ogni mattina Lo sento nella mia felicità di iniziare un nuovo giorno. Il cambiamento radicale viene da Dio. Pensa quanto è vero questo! Pensa come il solo Signore mi abbia fatto sorridere nel pianto, come il solo Signore sia artefice della mia contentezza per questo mio essere nullità. Non penso proprio che potrei vivere senza la comunità – la compagnia degli amici di Cl – per quanto scalcagnata possa essere. E la cosa più fantastica è quando uno ci sta nella comunità, anche proprio solo col pianto, perché la comunità stessa ogni giorno si fa testimonianza della sua meschinità”.
Il cammino di Cilla è travagliato, per nulla lineare. Studia da “far schifo”, lo dice lei stessa, e non ha grandi soddisfazioni a questo riguardo. Ha momenti di sconforto nel suo cammino di fede. Si innamora ma non riesce a trovare soddisfazione a questo suo desiderio. E sente la cocente delusione che la comunità, questo pezzetto di Chiesa che lei ha incontrato, tante volte le suscita per via di incomprensioni, di contrasti. Eppure ama questa scalcagnata comunità, perché ne coglie tutto il valore oggettivo, essendo per lei il tramite misterioso della presenza di Cristo.
Cilla diventa protagonista perché mendica questa presenza nella sua vita. Vi leggo due brevissimi brani. Noi siamo stati amici per un mese e poi da quel mese per 30 anni, in un modo diverso. Lei mi scrisse, in questa sua ultima lettera, alcuni brevi passaggi che voglio leggervi: “Quando noi stiamo insieme nel Signore ci rendiamo conto che tutti i nostri casini non hanno più quel gran valore che invece hanno per il mondo. Non ci scandalizziamo più, anche perché, come diceva pure Berna, il cristiano è l’uomo della tenerezza. E la grande tenerezza del Signore, che ha messo pure tra di noi, è la tenerezza del perdono. Dio ci ama tanto e ci ha chiamato per quelli che siamo. Ed è proprio la gente che il mondo giudica male, come la Maddalena, che si innamora più profondamente del Signore. E con la gioia e la pace del suo abbraccio di amore cambia sé stessa e si rinnega totalmente per lasciarsi fare dal Cristo. Poi, qualsiasi cosa succeda, per quanto poco siamo, poco, nulla, dobbiamo essere sempre gioiosi. Essere gioiosi soltanto perché il Signore continua sempre a guardarci, ad abbracciarci, ad amarci profondamente e a colmarci di doni gioiosi, che hanno anche lo scopo di aiutarci a diventare migliori per Lui. Se uno ama Dio, si accetta anche per quello che è il Suo infinito amore, e la gente che Lui ci ha messo intorno ci aiuta senz’altro a migliorare, nella misura in cui noi sappiamo stare in silenzio e rinnegarci, per poter ascoltare ogni parola che Lui ha da dirci, per lasciare solo vivere di più la sua infinita grandezza nella nostra infinita piccolezza e nel nostro peccato”.
Mentre pensavo a questa parole mi veniva in mente l’incontro di ieri con Franco, che è uno dei carcerati che troverete qua nella mostra. Franco ha due ergastoli e ci raccontava una cosa del genere, di questa sua ripresa. E pensavo a Solzenicyn che, nel filmato che vedrete nella mostra, ad un certo punto dice: “Noi per tanto tempo possiamo pensare di non aver commesso nessun peccato, ma ad un certo punto ce ne rendiamo conto” e nel filmato lui si mette le mani nella testa, carico dei suoi peccati. E’ questo l’inizio dell’uomo che diventa protagonista. Ed è così che un padre può trovarsi ad avere una figlia per maestra di vita, una ragazzina di neanche 15 anni.
Le amiche di Cilla dicono ancora oggi che con lei avevano toccato l’apice di un’esperienza umana incredibile. Chissà dove sarebbe arrivata se il 5 luglio del 1976 un incidente stradale non l’avesse privata fisicamente ai suoi cari e a tutti i suoi amici. Eppure noi siamo oggi testimoni di una storia che non è finita, perché il destino è sempre buono. Nulla è casuale. Oggi esistono migliaia di figli spirituali di questa ragazzina attraverso le case di accoglienza per i parenti e i loro malati, che si allontanano dalla loro casa per trovare aiuto e possibilità di guarigione. Ci sono alcune centinaia di volontari che lavorano nell’Associazione nata dalla fede e dalla carità di Rino. Ci sono gli amici di Cilla, sparsi nel mondo con le loro case, ma si chiamano le “case di Cilla” per l’incontro che loro hanno avuto con lei. Questo non è solo ricordo perché chiunque oggi rifà il cammino di Cilla, segue cioè quella luce di Cristo colta nella compagnia di Comunione e Liberazione e nell’insegnamento del suo fondatore don Giussani, può fare la stessa esperienza di quella ragazzina.
Fu questa la ragione per cui Rino ed Elsa non caddero nella disperazione: loro stessi poterono fare esperienza della libertà di sentirsi amati dal Destino, la stessa che era stato dato di provare a Cilla. Come avrebbe potuto altrimenti Rino, il giorno dopo il funerale della figlia, rivolgere queste parole agli amici del movimento di Cl: “Carissimi, voglio ringraziare con tutti voi il Signore per la grazia immensa che ieri ci ha concesso. Perché il Signore ieri è sceso veramente in mezzo a noi, tangibile con la Sua luce, con la Sua immensa bontà. Solo Lui può dare un dolore così grande e contemporaneamente confortare, sorreggere adeguatamente, tanto da mutare in vita ciò che potrebbe distruggere, in promessa quanto potrebbe essere la fine. Non ringrazio voi ma il Signore per quello che voi siete, per quello che io voglio fortissimamente essere. Tenetemi vicino, amici miei, fate che questa gloria di Dio prosegua. Io vi dico che offro a Lui, per tutti, quella piccola cosa che è il mio dolore umano”.
Fu davvero un’offerta per tutti. Rino cambiò vita e si dedicò unicamente alla condotta, medico condotto, a Monte Magno. E per il resto cominciò a girare l’Italia, chiamato a raccontare la sua storia con la sua maestra, Cilla, mentre frotte di giovani e adulti invadevano il paese e il cimitero di Monte Magno per abbeverarsi a quella sorgente di vita. Rino inventò, imparando da una circostanza accadutagli, l’Associazione Cilla. Un anno prima di morire aveva seguito, di persona, 400 casi di malati che avevano bisogno di compagnia durante il loro peregrinare nel mondo per ragioni sanitarie. “Ma ormai – mi scriveva – non interessa più l’attivismo che mi aveva procurato tante bacchettate da Cilla. Lavorare nell’Associazione significa per noi scoprire chi siamo e a chi apparteniamo. Il nostro riunirci è per riconoscere la presenza di Cristo tra noi. Sia l’Associazione Cilla una realtà storica, completa attraverso cui passi l’ avvenimento che ha cambiato la nostra vita”.
La storia di Rino, e chiudo con questo, dimostra, come mi ha scritto don Carrón in risposta al regalo di questo libro, che “l’imprevisto è la nostra salvezza ed è la tenerezza del Mistero che sfonda la lontananza in cui noi lo terremmo e diventa una presenza reale, visibile, udibile, sensibile”.

MODERATORE:
Io ringrazio e l’applauso con cui abbiamo accolto la conclusione dell’intervento credo significhi che in questo ringraziamento siamo tutti coinvolti. Ringrazio molto Adriano per quello che ci ha detto perché ha sintetizzato in maniera estremamente efficace il percorso di questo libro che, perdonatemi l’espressione, lo dico per me forse anche per altri, è un libro che fa bene, letteralmente fa bene.
Fa bene al cuore, ma non in un senso sentimentale deteriore, fa bene al cuore perché fa bene alla vita, documentando come sia possibile camminare nel mondo con la testa dritta, sempre, sia di fronte ai momenti difficili, dolorosi, sia di fronte ai momenti in cui uno, ne parlava poco fa Adriano, scopre il proprio limite, scopre il proprio peccato. E forse quelli sono i momenti più difficili. Mi ha impressionato, io ho tre figli, la sincerità, vorrei dire la spregiudicatezza, con cui Rino Galeazzi dichiara i propri limiti di genitore e di padre nel trattare i suoi figli. L’autocritica spietata, con cui lui documenta la propria insensibilità schematicità e violenza, è impressionante. Che ci sia questa libertà nel parlar di sé è segno che un imprevisto è accaduto, un imprevisto positivo. Io chiederei adesso una testimonianza rispetto al proprio padre, alla propria sorella, al proprio amico e collega e alla figlia di questo amico e collega. Comincerei da Alessandro. Grazie.

ALESSANDRO GALEAZZI:
Negli ultimi 30 anni ho partecipato a moltissime ricorrenze che riguardavano primariamente mia sorella e poi mio papà, la mia famiglia. Mi scuso perché non mi sono mai commosso nella mia vita, vi chiedo veramente perdono, peraltro sono anche un uomo allenato a parlare in pubblico e a fare politica, però questo libro ha portato gli odori della mia casa, di mio padre. È la terza generazione che viene coinvolta in qualche modo dalla storia della mia famiglia.
Io molto indegnamente posso dirvi soltanto alcune cose. Non si è mai preparati abbastanza agli eventi che non dipendono dalla volontà, dall’attività o dall’attivismo degli uomini, e tutto quello che è successo attorno alla mia famiglia era una cosa inimmaginabile. Entrando in quest’aula qualcuno ha detto “come mai è così piccola?”. Normalmente nella politica c’è la strategia di prendere aule piccole per farle sembrare più piene e ricordo, e Grazia lo ricorda insieme a me, che l’Associazione Cilla partì in uno scantinato, in uno sgabuzzino di due metri per due, laddove mio padre cominciò dalla mattina alla sera ad occuparsi di questa cose e morì povero. Io con grande sorpresa, quando dovetti pagare il funerale, scoprii che non c’era un soldo. Ho pensato: “Caspita, dove li ha messi tutti i soldi? 40 anni che fa il medico e non c’è più una lira”. Io lo so dove li ha messi perché il messaggio dell’umanità, il messaggio della cristianità non ha tante tattiche: o ti togli quello che hai perché il bisogno dell’uomo è la cosa più importante ed è la cosa che colpisce di più il tuo cuore e la tua vita, oppure si resta ad essere protagonisti per quello che è il luogo comune, la mentalità comune del mondo. Allora vedo quest’aula come il cuore di un Meeting che continua a pulsare, che continua a dare coraggio, e c’è qui con me mia sorella Chicca che, essendo la dura di famiglia, non avrebbe resistito a questo impatto emotivamente devastante. Adriano, io ti ringrazio perché ogni giorno, da quando ho questo libro e da quando tu me l’hai mandato, le pagine di questo libro orientano la mia coscienza a cercare un qualcosa che si avvicini, in qualche modo, alla storia della mia famiglia. Non so se ci riuscirò ma sicuramente lo sento in modo molto più forte, all’età di 51 anni, e lo sento in modo molto più responsabile.
Grazie Daniele per l’affezione a questa storia e l’affetto per la mia famiglia; l’unico che non ringrazierei è Salvatore Albanese perché, come voi sapete, non fa niente e da tanti anni questa associazione va avanti perché la Cilla provvede. Ed è proprio così. Mi sono commosso, mi dispiace, ma non si reggono tante cose perché, vedete, il ricordo è struggente e dà un significato alla tua commozione se di fronte al lutto, alla fine della vita, all’aver perso i genitori e una sorella, riesci a intravedere che tutto questo ha un senso. Ma il senso non è la risposta, che è rituale nel mondo cattolico, nel mondo cristiano. Il senso, in questo caso, è l’opera che straordinariamente continua tramite tutti voi, l’opera che incredibilmente continua ad occuparsi del bisogno dell’uomo, al di là della volontà di ognuno di noi. Penso di poterlo chiamare Salvatore e va al di là della volontà di ognuno di noi, perché noi abbiamo provato a darci da fare, a recuperare denaro, a recuperare risorse, ma non è quello che manda avanti questa storia e questa associazione: qui c’è la Grazia. Questa associazione ha come centro il cuore di mio padre che ha sentito in modo così grande quanto il bisogno dell’uomo vede un enorme solitudine, un enorme deserto, un enorme indifferenza. Questo è il punto che rende diverso un uomo al di là delle appartenenze, al di là della sua fede, cioè quanto una persona fa suo il dolore dell’altra persona. Quindi Adriano grazie davvero, perché vi posso garantire che io ho sempre cercato di minimizzare tutte queste cose, perché poi non è che siano state così facili da affrontare. Invece questo libro ci sono degli scritti che non conoscevo. Non mi sono più occupato di quello che è accaduto nelle mie case, nelle case in cui hanno vissuto i miei genitori: non ho più voluto saperne nulla. E questo la dice lunga sul fatto che il vero protagonista, i veri protagonisti non cercano il protagonismo, non vogliono che qualcuno li renda protagonisti. Il vero protagonista è quella persona che lascia un segno e possibilmente un segno concreto. In questo momento della mia vita vi chiedo di pregare per me perché io possa, in un qualche modo, capirci un po’ di più. Grazie.

MODERATORE:
Credo che il desiderio con cui Alessandro ha concluso la sua testimonianza sia in qualche modo condiviso da ciascuno di noi. Che ciascuno di noi possa capirci un po’ di più, possa capire esistenzialmente un po’ di più il mistero della vita. Grazie ad Alessandro e ora la parola a Salvatore.

SALVATORE ALBANESE:
Io resisterò un po’ più di lui comunque. Se ho accettato di parlare alla presentazione di un libro, non è né per quello che rappresento, né perché è un libro. In fondo, quello che stiamo facendo qua non è la presentazione di un libro, ma è il racconto di una storia. Una storia a cui io sono molto grato e sono grato soprattutto al nostro Signore di essersi fatto incontrare dentro l’esperienza del movimento. Perché fuori del movimento queste cose non accadono. Sono contento che mi hai definito erede, perché in effetti non me ne ero mai reso conto. Io credo di essere il quarto figlio del Rino perché, se è vero che l’erede riceve una parte del patrimonio del padre, quello che io oggi sono, quello che oggi faccio, in parte è dovuto al lucro che io ho ottenuto da quello che Rino mi ha trasmesso. Sono grato a lui e sono grato al Signore, perché se oggi siamo qua è solo per una storia di fraternità. L’incontro con l’esperienza del movimento, senza la quale nessuno di noi sarebbe qua, e questi due nostri grandi amici senza il movimento sarebbero un ricordo devoto per qualcuno, ma per la maggior parte non esisterebbero più.
Di qualunque cosa noi parliamo o facciamo, quello che si impone è la presenza di Cristo che chiede mi personalmente: “Mi ami tu?” Credo che sia questa la grandezza di ciò che noi abbiamo incontrato. In Rino io ho potuto definitivamente, da figlio vero, sperimentare il rapporto umano con Cristo presente. Questo rapporto con Cristo dentro l’appartenenza e l’obbedienza a un qualcuno, nel tempo è diventata la radice di ogni cosa che faccio e che libera. E’ paradossale che attraverso un particolare ognuno di noi possa essere messo in connessione col tutto, con l’infinito. Non è possibile fare l’esperienza del tutto se non passando per l’esperienza di un particolare. Ed è così, in questo rapporto particolare, che tutto diventa nuovo e si diventa liberi, non più schiavi delle circostanze, non più determinati da quella apparenza per cui se la cosa va bene siamo felici, ma se ti becchi una malattia sei sfigato e non vale più la pena di vivere nel mondo.
Quindi siamo qui per un libro che non è un libro. E in questo Adriano devi essere molto tranquillo perché, finché lo leggevo, mi è venuta in mente una vecchia intervista che ha rilasciato Hitchcock. Lui amava mettersi tra i filoni dei cinema per ascoltare i commenti della gente quando usciva, e se sentiva dei commenti entusiastici sulla scenografia, la regia, il colore, la musica si stupiva perché era convinto di aver fatto una schifezza. Questo è un libro che si legge dall’inizio alla fine non perché è scritto bene, ma perché racconta dei fatti interessanti; dei fatti che, dopo 20 anni, possono ancora dirmi qualcosa, qualcosa che può cambiare la mia vita. Questa infatti è sicuramente l’esperienza di 30 anni, però, e in questo ringrazio Adriano perché alcune delle cose della vita del Rino se non le sapeva Alessandro figuratevi se le sapevo io, questa è una esperienza che è cominciata 2000 anni fa. Quella che viene raccontata nel libro è l’esperienza cristiana e la sua genesi. L’incontro con qualcuno che rivela te a te stesso e così la tua vita cambia nella sicurezza di un abbraccio, nell’esperienza dell’amore, e vieni ributtato nella vita con una certezza e con una voglia di rischiare quello che hai ricevuto.
Se l’Associazione oggi è ancora viva è proprio per la fedeltà a questo incontro fatto. Parlando con alcuni amici mi chiedevo cosa dovessi dire e uno mi ha risposto “racconta i nostri nomi”. Dalla Grazia, che è stata la prima, agli ultimi arrivati, per raccontare la storia mia personale, ma anche la storia di questa amicizia, di questa compagnia basterebbe mettere in fila i nomi delle persone che abbiamo incontrate e che poco o tanto si sono lasciate coinvolgere e commuovere da questo fatto. Perché cos’è che ci chiede Cristo per incontrarci? Non ci chiede né di essere bravi, né onesti, né intelligenti bensì di essere seri con la vita.
Se poi, quando lo leggerete, andate a rivedere un pezzo del suo diario, Cilla ha scritto un io grande così. E ci scrive anche una breve poesia sulla voglia di essere io. Senza questo desiderio di capire chi ognuno di noi è, per cosa sta al mondo, possono anche aprirsi i cieli e la vita non cambia. Infatti Cristo è la risposta a un desiderio, è la risposta a una domanda: se non mi pongo questa domanda possono venir giù anche i santi del Paradiso e la mia vita non cambia. E quand’è che cambia? Quando dentro questo sguardo qualcuno ti dice “tu vali più dei tuoi bisogni”, tu vali più di quello che credi. Perché Dio stesso è il di più rispetto alla realtà, rispetto all’apparenza delle cose.
E quindi Dio entra attraverso questo particolare per realizzare il desiderio che ti anima. In Rino non c’era solo uno che faceva le cose bene, cosa che per sua sfortuna non ha quasi mai fatto, perché ha anche fatto di quelle cose disumane dal punto di vista contabile, però era uno che ti prendeva sul serio. Lui non ha mai minimizzato un dramma, un problema di qualcuno di noi, a cominciare da Luigi, che è stato uno dei primi che l’ha accompagnato. È arrivato fino ad accogliere uno come me: la grandezza del Rino non era solo il fatto che ti ascoltasse ma che nel rapporto con lui cominciava anche ad arrivarti la risposta a questa domanda. Sono figlio proprio perché mi ha passato questa eredità. Una volta don Giussani, a un gruppetto di nostri bambini che si preparava alla Prima Comunione, ha detto: “Dio ci crea con un compito, quello di essere felici”. Noi facciamo tutto per essere felici. Tutto nella vita si fa per essere amati e la vita va spesa nel tentativo di ricambiare questo amore di cui siamo stati fatti oggetto. Questo è accaduto alla nostra grande amica. Volevo leggere alcuni pezzi del libro che sono stupendi, ma ve li leggerete poi per i fatti vostri. L’importante è che capiamo che quello che è accaduto a Cilla 30 anni fa, a una ragazzina di 15 anni, è accaduto a ognuno di noi, a cominciare da suo padre, e riaccade oggi con la stessa drammaticità e con la stessa bellezza e definitività di allora.
Cos’è che impedisce che Rino oggi sia per me una figura nostalgica? Da una parte, la coscienza del compito che lui mi ha trasmesso, perché, se mi ha lasciato un capitale, è mio dovere farlo fruttare. Voglio quindi ingrandire l’esperienza che lui aveva iniziato. Se oggi l’associazione cresce è per grazia di Dio, ma anche per la coscienza della missionarietà che ha accompagnato noi fin dall’inizio. L’importanza che un’opera come la nostra ha oggi, è quella di dare la possibilità di dire a tutti la ragione vera dell’agire e perciò aiutare la speranza delle persone che incontriamo. E’ quello che ha appena detto Alessandro: la gente arriva perché ha il cancro, ma ha la necessità di sentirsi dire che il vero bisogno è Cristo. Non sempre il cancro si può risolvere, ma se uno incontra la presenza del Mistero nella realtà, ha incontrato il destino della sua vita.
Quindi con Rino io ho imparato la commozione di fronte al bisogno, che non è un sentimento ma un giudizio di positività sulla persona che ho davanti, che fa scattare la passione per questa persona. E dalla passione non può che nascere la responsabilità, cioè il fare di tutto, lo spendersi fino in fondo per il bisogno di quella persona che ormai è tua, è come tuo fratello. Quello che facevamo prima, continuiamo a farlo ora e cerchiamo di farlo sempre meglio. E questo non per amore dell’efficienza ma perché nel poco tempo che ho passato con Rino, nell’esperienza educativa del movimento, nel modo in cui oggi cerchiamo di accompagnarci tra noi amici, è chiaro che muoversi per un uomo perché non è cosciente del destino a cui è chiamato, o perché ha bisogno di un letto, è lo stesso gesto. Non sono due cose diverse. È questo che libera dall’esito e da un altro rischio mortale delle opere, soprattutto di carità, cioè quello di dare per scontato quello che stiamo facendo.
L’altra cosa è la fedeltà all’origine. Oggi l’associazione è profondamente cambiata rispetto ai tempi del Rino. Assiste migliaia di persone ogni anno, coinvolge centinaia di volontari nella vita delle nostre sedi. Ci sono 24 case di accoglienza, ci facciamo un mazzo così perché le cose possano funzionare sempre meglio e crescere, ma il mio dovere è sempre quello di richiamare che l’origine, la ragione del fare, la ragione della nostra opera non è nell’opera in sé, ma in ciò che la precede: è nell’esperienza educativa alla fede che don Giussani ci ha lasciato, quindi nel rapporto con Cristo vissuto dentro questo metodo educativo. Perciò l’obbedienza come forma della nostra accoglienza e della nostra amicizia, obbedienza a chi guida, è anche la verifica del rischio di cui parlavo prima. Intraprendere una cosa così alla carlona non sarebbe un rischio ma un’avventatezza. Il rischio vero, invece, è quando hai la certezza di star lavorando per te, comunque vadano le cose.
Oggi la nostra associazione esiste per accogliere tutti e perché ognuno, non sto parlando solo dei malati ma anche di chi la fa l’opera, possa fare questa esperienza di carità, cioè sperimentare su di sé lo sguardo misericordioso del Signore. Su questo è successo un fatto bellissimo l’anno scorso, nella casa Paolo VI di Padova, che ha coinvolto l’Anna e la Giovanna, le persone che mandano avanti la nostra casa là, e ha coinvolto anche un gruppetto di giovani lavoratori e di universitari del Clu che fanno caritativa là. Vorrei che brevissimamente la Giovanna ce la raccontasse.

GIOVANNA GALEAZZI:
Due parole. Tempo fa ci arriva una telefonata in casa Cilla a Padova. Era Giorgiana, una nostra carissima amica rumena che già conoscevamo perché era stata da noi nel 2006 per parecchi mesi, ricoverata in ospedale per una brutta malattia. Era un suo esplicito desiderio di passare gli ultimi mesi della sua vita in nostra compagnia, ce lo ha proprio chiesto. Ci siamo realmente resi conto della grande responsabilità che avevamo. Giorgiana era una ragazza di una solarità commovente. Nonostante i grossi dolori che aveva o i pruriti devastanti che le medicine le procuravano, era sempre pronta a scherzare, e non tanto per ridere. Aveva la netta coscienza, e questo traspariva in lei, che quella malattia era la sua condizione umana e la sua concreta circostanza da accettare. Con la sua gioia di vivere era una testimonianza per tutti. Giorgiana purtroppo non ce l’ha fatta, ma anche quel giorno abbiamo assistito a un piccolo miracolo. Ormai giunta a uno stato semicomatoso, ha lottato fino alla fine per cercare di stare sveglia e lucida per attendere l’arrivo del papà che giungeva dalla Romania. Subito dopo averlo salutato si è spenta. Si sono stupiti e commossi gli stessi medici che la seguivano. Giorgiana ci manca molto, ma ci ha lasciato la sua testimonianza nell’abbraccio totale del suo dolore. E ogni mattina prego perché cresca la nostra fede e ci renda coscienti del desiderio di felicità che è in ogni persona.

SALVATORE ALBANESE:
Posso concludere dicendo una cosa che farà orrore agli economisti: il rapporto con Cristo è l’unica transazione economica in cui ci guadagnano entrambi i contraenti.

MODERATORE:
Grazie a Salvatore e a Giovanna, non solo per le cose che hanno detto ma perché attraverso le cose che hanno detto hanno documentato come la vita – così come è anche scritto in questo libro, che non è appena un libro ma una storia comunicata attraverso le parole – sia contemporaneamente dono e compito. Dono perché ci è regalata, e compito perché la bellezza, il valore di questo regalo, in qualsivoglia condizione ci sia dato di viverlo, è da comunicare a chiunque.
Che cosa è accaduto nella casa di Cilla? Qual è l’imprevisto che è accaduto nella casa di Cilla? Che cosa accade in ogni casa di Cilla? Che cosa accade in ogni casa che assomiglia a quella di Cilla, nella misura in cui condivide la stessa bellezza di quella casa? È accaduto e continua ad accadere la libertà di sentirsi amati, la libertà di riconoscere che uno mi vuole un bene smisurato. “Tu non sapevi ancora come ti avrei chiamato” recita la canzone di Claudio Chieffo così cara anche a Rino. Tu non sapevi ancora come ti avrei chiamato, come ciascuno di noi sarebbe stato chiamato, che volto avremmo ricevuto. Ecco, io credo che la coscienza di essere oggetto di un amore smisurato che si rende presente, visibilmente presente nella compagnia di volti che ci rendono positiva la vita, in qualsivoglia forma essa abbia a svolgersi, dà contenuto, senso e direzione all’esistenza.
Quando poco fa Adriano riportava le parole scrittegli da Carrón, mi è venuto in mente che, in un certo senso, forse quelle parole sono una specie di parafrasi, o comunque assomigliano fortemente alla conclusione di una poesia di Montale dove il poeta dice che “un imprevisto è la sola speranza”. Dentro l’ordinarietà dell’esistenza o dentro il tran tran di una tranquilla famiglia borghese come forse tante ce ne sono qui e altrove, l’imprevisto è l’unica speranza. Un imprevisto che accade qui, dentro uno spazio relativamente piccolo, ma, come veniva ricordato anche prima, qui siamo al cuore della storia, così come eravamo al cuore della storia in quella piccola casa di Nazareth in cui una ragazza di quindici anni disse sì al Mistero che le chiedeva una cosa assolutamente impensabile. Siamo al cuore del Mistero, al cuore della storia. Allora un imprevisto è la sola speranza veramente, ma mi dicono che è una stoltezza ricordarselo, questa stoltezza San Paolo la chiama fede, follia e stoltezza. Questa stoltezza è la fede, cioè il riconoscimento della presenza di uno che mi ama, che ci ama. Quando i discepoli chiesero a Gesù di insegnargli a pregare, cioè a parlare con Dio, con il Mistero, ad entrare in rapporto con la radice di tutto, Gesù gli insegnò l’unica preghiera che abbia mai insegnato, cioè il Padre nostro. Dio non è un essere supremo che sta chi sa dove, è un Padre, cioè uno che ci mette al mondo perché ci vuol bene, perché ci vuol far fare una esperienza di bellezza e di positività. Questa esperienza di bellezza e di positività, grazie anche alla operosità instancabile dell’Associazione Cilla, contagia tanti per i quali forse il cancro non è risolvibile, ma è forse risolvibile un problema ancor più grave del cancro. Cioè il problema di dare un senso all’esistenza, un senso al nascere e al morire. Un grazie a Cilla, ai relatori e a voi tutti. Buon Meeting.

Data

28 Agosto 2008

Ora

11:15

Edizione

2008

Luogo

Sala Mimosa B6
Categoria
Incontri