INVITO ALLA LETTURA

Nel cuore della famiglia.
Presentazione del libro di Oreste Benzi(Ed. Sempre Comunicazione)
Partecipano: Paolo Ramonda, Responsabile Comunità Papa Giovanni XXIII; Francesco Zanotti, Direttore de Il Corriere Cesenate.

 

MODERATORE:
Buona sera a tutti, credo che possiamo dare inizio a questa conversazione, a questo dialogo, a questo caffè letterario, così come è stato intitolato questo spazio del Meeting 2008. Sono con noi questa sera due persone che ci aiuteranno a far memoria, nel senso più forte del termine, di un grande amico del Meeting e cioè don Oreste Benzi. E mi riferisco a Francesco Canotti, direttore del Corriere Cesenate e Paolo Ramonda che ha in un certo senso raccolto la eredità, l’impegnativa eredità di don Oreste Benzi quale responsabile della comunità papa Giovanni XXIII, dopo che don Oreste l’anno scorso ci ha lasciato, ma in realtà non ci ha lasciato, come dicevamo anche poco fa conversando tra noi. In realtà don Oreste è certamente qui a godere con noi, se posso usare questa espressione, di questo nostro incontro, di questo nostro dialogo, di questo nostro lavoro di costruzione della Chiesa e di una società più umana. Lo spunto per l’incontro di questa sera è questo libro. Un libro che ha un titolo particolarmente significativo: Nel cuore della famiglia. Non semplicemente la famiglia, non semplicemente l’importanza della famiglia, dico semplicemente per dire in realtà una cosa già comunque impegnativa, ma nel cuore della famiglia. Allora noi vorremmo cercare di capire insieme questa sera, con l’aiuto dei nostri due amici, che cosa significa per don Oreste, che cosa significa per noi oggi il cuore della famiglia. Qual è questo cuore della famiglia? Questo libro è un libro scritto da don Oreste, è un libro postumo ma era praticamente pronto. Se voi leggete, se qualcuno ha già letto, nella presentazione troverà a cura del curatore appunto un’osservazione particolarmente suggestiva, emblematica e cioè la mattina stessa nella quale don Oreste è stato chiamato al cielo, egli aveva fissato un appuntamento per mettere a punto le ultime correzioni, le ultimissime correzioni. Quindi il libro era pronto, occorreva soltanto un ultimo ritocco. In questo testo don Oreste ci consegna una passione umana e cristiana, una passione di padre, una passione di pastore per la famiglia, che sicuramente è qualcosa di straordinario, commovente, con una ampiezza di cuore che ha da insegnare a ciascuno di noi. Io lascerei per primo la parola a Francesco Canotti, a cui chiederei innanzitutto di aiutarci a capire la genesi, l’origine di questo libro e anche il nesso, il rapporto di don Oreste con questa realtà: il Meeting. Mi faceva vedere poco fa Francesco, e penso possa farlo vedere a tutti, un piccolo particolare che ha qualcosa dell’aneddoto, che lega appunto la esperienza, la persona, la storia di don Oreste e di quello che lui ha generato alla storia che ha in qualche modo generato il Meeting. Prego Zanotti. Io inviterei tutti in ogni caso a un gesto di accoglienza dei nostri due ospiti con un applauso.

FRANCESCO ZANOTTI:
Io ringrazio moltissimo Daniele Celli per questo invito da parte del Meeting che ho raccolto con un piacere immenso. Essere qui quest’anno a parlare di don Oreste senza la presenza di don Oreste Benzi, è una cosa del tutto straordinaria che mi riempie di commozione, di emozione e di grande responsabilità. Quindi sono doppiamente grato al Meeting, perché il Meeting vissuto con don Oreste Benzi è parte della mia vita. Abbiamo vissuto diverse esperienze e diverse presenze e la gente del Meeting ha sempre fatto sentire il suo calore a don Oreste Benzi e indirettamente un po’ anche a me che l’ho accompagnato in queste sue numerose presenze. Io ne conto quattro e mezzo personali, poi magari vi spiegherò perché quattro e mezzo. Mi diceva adesso Daniele che questi sono gli appunti dello scorso anno che io mi ero fatto per l’incontro di don Oreste Benzi. Sulla carta del settimanale che dirigo, che è Il corriere cesenate, il cugino de Il Ponte per chi è di Rimini, dopo le domande don Oreste, non mi ricordo a che punto dell’incontro, quando c’è stato un attimo di vuoto, mi ha detto: “Mi raccomando Francesco per quest’altr’anno, fatti invitare ancora. Quando lui mi chiamava, quelle poche volte che mi chiamava a casa, i miei si agitavano moltissimo: “C’è don Oreste al telefono!”. Non capitava tutti i giorni. Le prime volte, anzi, non credevano i miei familiari che don Oreste potesse telefonare a casa nostra. Chiamava solo per dirmi: “Mi raccomando l’incontro del Meeting”. Allora io mi mettevo in contatto con Marco, Luigi e gli altri dell’organizzazione del Meeting per farlo venire e devo dire che l’accoglienza è sempre stata ottima, non hanno mai fatto storie, anzi si sono sempre fatti in quattro per portarlo al Meeting. Allora io ho, dopo due fogli di domande, questo appunto che ha dell’incredibile: “Per la famiglia libro, per Meeting 2008” che io mi sono fatto durante l’incontro dello scorso anno. E oggi, a distanza di un anno, siamo qui a parlare di questo libro. Ecco perché non potevo mancare. Perché in concomitanza, in questo momento, c’è Ennio Morricone che fa la prima mondiale a Sarsina di una sua opera nella quale io sono doppiamente coinvolto, ma l’ho lasciata per venire, per onorare questo impegno, perché dopo una cosa di questo genere non potevo mancare. Lo faccio molto volentieri. Io credo che per parlare di famiglia e nel cuore della famiglia da parte di don Oreste, Paolo Ramonda sia molto più adatto di me, perché lui ha tre figli suoi e nove figli affidati, quindi ha una casa famiglia. Io mi sento solo di dire, e scusate se sono veramente un po’ emozionato, che ciascuno di noi che ha a cuore la famiglia veramente non può esimersi dal leggere questo libro, perché è una guida per tutte le difficoltà che noi ogni giorno possiamo incontrare. E’ una guida per gli educatori, per chi ha a che fare con i nonni, con i bambini, nei rapporti di coppia, tra fidanzati, tra marito e moglie, nel cercare di trovare una risposta per come mi devo porre con mio figlio che ha tre anni, con mio figlio che ne ha quindici, venticinque, come devo agire con i suoceri, con i genitori, con i nonni, con gli zii, con tutti. E’ una bussola che ci guida nel nostro rapporto quotidiano. Non sappiamo come trattare un nonno? Don Benzi ci dice che cosa dobbiamo fare. Non sappiamo come trattare un bambino? Ci dice che cosa dobbiamo fare. Non solo, involontariamente, io questo mi diverto a dirlo ai miei amici che ho incontrato in questi mesi, in queste settimane dopo la lettura di questo libro, dico che don Oreste traccia di ciascuno di noi il profilo, cioè ci giudica in base ai nostri comportamenti, ci dice quale età evolutiva abbiamo raggiunto. Oggi abbiamo una maturità media molto bassa. Probabilmente era così anche nelle generazioni precedenti. Siamo tutti presi dal fare, dal successo, dalla carriera, dalla casa, dalle belle ferie, dalla bella macchina e tralasciamo l’essenziale. In questo don Oreste ci aiuta. Ci aiuta a capire quello che vuole essere la nostra vita, che va vissuta per qualcosa che vale, a cominciare dalla famiglia. Il titolo “Protagonisti o nessuno”: se ci fosse stato don Oreste avrebbe, penso, speso mezz’ora solamente a lavorare attorno al titolo, che quando è stato lanciato l’anno scorso l’ha subito sposato. Vogliamo fare della nostra vita qualcosa che ha senso o ci vogliamo far condurre da altri? Chi meglio di don Oreste ha reso la sua vita protagonista? Io che l’ho seguito in molte occasioni, ho scoperto, anche mio malgrado perché ci faceva fare dei tour de force incredibili, che praticamente lui nel suo letto non dormiva mai. Perché? Perché forse non ne valeva la pena. Vuoi prendere la tua vita da protagonista? Vivila fino in fondo. In fondo basta dedicare al sonno quel tempo necessario per ripartire il giorno dopo. Bastano pochi minuti, basta un’ora in macchina, bastano due ore in aereo e poi via, protagonisti attivi della nostra vita da dedicare a chi ha dato la sua vita per noi. Perché questo è il fulcro della testimonianza di don Oreste Benzi. In tanti incontri che ho vissuto con lui non ha mai indicato se stesso, ha sempre indicato un altro. Ci ha sempre indicato Gesù Cristo sulla cui strada noi ci dovevamo incamminare. La testimonianza che indicava era quella di Gesù Cristo e la sua comunità, che oggi qui rappresenta Paolo. Ci indica ancora questo. Prima Paolo ci diceva nel salotto: “Se prima don Oreste era molto visibile, oggi è visibile?…la comunità”. Quindi adesso in questo mio primo giro direi che non rubo altro spazio e lascerei a Paolo il timone della serata. Grazie.

MODERATORE:
Io, se posso permettermi, nel ringraziare Francesco delle considerazioni che ha appena fatto, se posso permettermi uno spunto iniziale, è questo: questo libro trasuda umanità. E’ evidente che è scritto da una persona che è dentro la carne della realtà, che è dentro le pieghe dell’umanità ma che è dentro le pieghe dell’umanità con un amore grande, l’amore a Cristo, l’amore alla Chiesa. Io ho un ricordo personale, mi permetto citarlo, di un incontro con don Oreste. Ero un ragazzino, avevo quindici sedici anni, facevo il liceo ed era l’epoca in cui si facevano gruppi di studio e una volta invitammo, io ed altri studenti, a scuola in due ore don Oreste per dialogare con lui su una serie di questioni che riguardavano i giovani. Ad un certo punto il discorso cadde sulla Chiesa. Che cos’è la Chiesa, qual è l’immagine più adeguata per descrivere la Chiesa. Don Oreste se ne uscì con questa osservazione, un’osservazione che ho sempre portato con me, disse: “vedete, la chiesa molte volte la si paragona a un edificio in costruzione, ma non è del tutto giusto perché una casa uno a un certo punto potrebbe anche finire i soldi e non riesce a terminarla o per lo meno non riesce a terminarla subito. La lascia lì, quando rimedia altri soldi riprende la costruzione una anno dopo, due anni dopo ma quello che ha lasciato, sostanzialmente, resta lì in piedi. La Chiesa non è così, la Chiesa, piuttosto che a una casa in costruzione, va paragonata a un fiore e un fiore tu non puoi lasciarlo lì, non te ne puoi dimenticare neanche per una giornata. Devi innaffiarlo tutti i giorni, perché è una realtà viva. Non è qualche cosa di statico, è una realtà viva, dinamica che chiede il tuo sì ogni giorno”. Allora questo sì che a me, ragazzino, ragazzo di quindici, sedici anni colpì moltissimo, don Oreste ha continuato a dirlo tutti i giorni e ha invitato tanti a dirlo. Credo che, questa è la prima cosa che chiederei a Paolo, credo che il sì alla vita, il sì alla fede che certamente nell’incontro con don Oreste lui ha potuto dare, sia stato come lo spalancarsi di un orizzonte nuovo. Chiederei proprio di partire, se è possibile, proprio da questo incontro che lui ha vissuto con don Oreste, credo ormai un po’ di anni fa, per arrivare poi a raccontarci come, nell’incontro con don Oreste, l’esperienza, la sua esperienza della famiglia si è rinnovata, si è dilatata, si è allargata e cambiata. Poi naturalmente dirà quello che crede di dover dire.

PAOLO RAMONDA:
Grazie per l’invito. L’incontro è stato trent’anni fa con l’opportunità di fare servizio civile alternativo a quello militare. Gli anni 19 erano, quindi, un desiderio di sognare, di incontrare la vita, di incontrare il vangelo, di incontrare una comunità viva, una Chiesa viva. Il desiderio era questo nei nostri cuori. Partivamo dal Piemonte, io ed alcuni altri giovani, e abbiamo incontrato don Oreste. La Provvidenza ci ha fatto incontrare quest’uomo un po’ assonnato a volte ma che ci ha fatto capire subito che la vita con Cristo era la vita con una persona viva. Non con una ideologia, non con una filosofia. L’incontro con Cristo doveva essere un incontro come innamorati non come facchini, la comunità doveva essere una comunità che pulsava, una comunità molto umana, una comunità dove si cercava di vivere il vangelo senza se, senza ma, senza riduzionismi, con quell’entusiasmo, con quella voglia di incontrare la povera gente là dov’è. Quindi l’incontro con don Oreste è stata la risposta ai nostri desideri, cioè la possibilità di costruire una comunità e per me è stato con mia moglie Tiziana, sposati da ormai venticinque anni, la possibilità di aprire la nostra famiglia, la nostra comunità, la nostra vita a questa esperienza di condivisione con i piccoli, con i giovani, con i figli che il buon Dio ci mandava, sia quelli naturali che sono arrivati dopo il matrimonio, sia quelli rigenerati nell’amore che via via sono arrivati. Oggi siamo una famiglia di tredici persone, dai dieci anni agli ottant’anni della nonna Agnese, però sempre per incontrare il volto vivo di Cristo. Don Oreste ci diceva che bisognava passare parola con Cristo, non si poteva studiare Cristo solo sui libri o sulle teologie, che sono pure importanti, ma bisognava passare parola su tutto e Cristo doveva essere il centro della nostra vita perché diventasse il centro del mondo, il centro dell’universo. Questa era la sua passione, veramente per conoscere don Oreste, l’importanza della famiglia per don Oreste, bisogna entrare nel cuore di don Oreste. Dicevo loro prima che don Oreste lo scopriremo da adesso in avanti, perché abbiamo avuto lui per ottantadue anni, la ricchezza della sua umanità, l’icona del suo sorriso, della sua purezza di cuore, di questa infanzia spirituale che colpiva tutti, credenti, non credenti. Lui aveva questa capacità di entrare in comunicazione viva con tutti ma lo scopriremo adesso don Oreste. Dicevo che gli ultimi mesi forse presagiva qualcosa e ci diceva: “Quando sarò arrivato a casa non starò in pace, tranquillo, non crediate che mi potrete mettere là in una nicchia, in una chiesa come una statua. Io continuerò ad essere vivo, ad essere presente e lui continua veramente ad essere presente nella sua comunità. La comunità Papa Giovanni sarà sempre la comunità di don Oreste, sarà sempre la comunità che continuamente farà riferimento alla sua vita, alla sua passione, al suo vivere Cristo ma continuamente dovrà interpellare lo Spirito Santo, cogliere i segni dello Spirito Santo per rispondere alle novità, ai poveri che continueranno a gridare di essere amati, di essere accolti. Questa era la sua forza, questa relazione con Gesù, povero servo che prende su di sé il peccato del mondo. Questo suo consumarsi, dicevano bene loro prima, il non dormire, l’essere continuamente disponibile, questo logorarsi, strapazzarsi. Diceva: “Ci dobbiamo strapazzare per le anime, perché l’incontro dell’anima con Cristo è la cosa più grande che ci possa essere su questa terra”. Questa era la sua forza, questa unione intima con Cristo, che lo portava nelle discoteche, che lo portava nelle strade, che lo portava coi giovani, che lo ha portato ad aprire le missioni della comunità a partire dall’84 nelle varie parti del mondo, dallo Zambia e via via fino alla Cina, fino all’Australia, in Argentina, in Ciad eccetera. Era questo cuore a cuore con Cristo che lo faceva essere contemporaneo alla storia e tutti venivano conquistati da lui, anche coloro che magari non erano d’accordo con lui. Se posso, ancora due o tre passaggi. Lui ci insegnava che tutto è grazia, che tutto è guidato dalla sapienza e dalla provvidenza di Dio. Ci diceva che anche le difficoltà, soprattutto le difficoltà rientrano nel piano di Dio, nella pedagogia di Dio. L’unica cosa che Dio non vuole è il peccato, tutto il resto è un disegno stupendo. Ci parlava sempre di sua mamma che ricamava un punto qua, un punto là. Lui non capiva quando era piccolo e poi quando finiva il disegno aveva capito il progetto della mamma. Così è il disegno di Dio su di noi. Anche la comunità Papa Giovanni, diceva, si formerà nelle difficoltà. L’identità spirituale, il carisma spirituale, la condivisione coi più poveri che sempre dovrà splendere, verrà forgiato dalle difficoltà, dalle prove. Più saremo immersi nei problemi della povera gente, più il carisma sarà vivo e quindi questa grande capacità che lui aveva di cogliere il bene che c’era in ognuno. Nei ragazzi che arrivavano da venti trenta anni di tossicodipendenza, ragazzi feriti nella propria psiche, nella propria mente, lui sapeva cogliere l’identità profonda, il bene profondo. Questa era la meraviglia, la rinascita di tante persone, decine e decine di persone. Un altro elemento importante dicevo: don Oreste ha costruito una comunità, un popolo, la comunità Papa Giovanni. Ma non solo, don Oreste non è solo della comunità Papa Giovanni, è della Chiesa, ma non è solo della Chiesa, don Oreste è di tutta la comunità, perché lui ha saputo costruire un popolo. Però era anche innamorato della chiesa. Diceva, forse non sempre capito, che la Chiesa cattolica è l’unica vera Chiesa di Cristo, è il popolo santo di Dio che deve avere una sua identità e deve annunciare Cristo come popolo. Da come vi amerete sapranno che siete miei discepoli. Lui evidenziava questa costruzione di popolo, in cui le membra più deboli sono le più necessarie. I più piccoli sono i più importanti, sono i più utili nella costruzione del regno di Dio e quindi bisognava agire come popolo in cui le membra, i bambini con gravi handicap, i malati di mente, le ragazze di strada, non sono oggetti di assistenza ma protagonisti di storia. Non solo oggetto di pietà ma protagonisti della nuova vita sociale, dei mondi vitali nuovi. Quindi dove passava don Oreste veramente creava queste cellule vitali, questi mondi vitali nuovi. Ed era anche in dialogo con i non credenti. Lui diceva sempre che non esiste nessun ateo ma molti che possono avere dei problemi su Dio e quindi dialogava, con la sua grande umanità, soprattutto coi giovani, i quali voleva portare ad avere un incontro simpatico con Cristo. Ultimo e poi mi fermo per dare di nuovo la parola a voi. Don Oreste citava sempre Giobbe e diceva, citando Giobbe: “Se da Dio accettiamo il bene, perché non accettiamo il male?” L’unico male da cui rifuggire era il peccato. Diceva che anche ciò che è un apparente disordine in realtà è un infinito ordine. Tutto ciò rientra nell’amore di Dio. Ma tanto era accogliente, tanto era fermo sui principi. Tanto era affabile tanto lottava contro l’ingiustizia e una cosa che l’ha contraddistinto sempre è che non si è mai piegato di fronte ai potenti. Non ha mai piegato le ginocchia di fronte all’ingiustizia. Questo è don Oreste.

FRANCESCO ZANOTTI:
A proposito di fermezza, come diceva adesso Paolo, qui risponde a una lettera: “Come educare i figli alla gratuità”. Pagina 74 per chi ha già il libro. “I figli vanno ascoltati con grande serietà, mai con leggerezza, pensando tanto sono bambini, tutte le volte che si rivolgono a voi”. Poi a proposito di fermezza: “la fermezza non è cattiveria, né durezza né essere senza affetto, non è comandare a distanza, è vivere nell’amore di Cristo”. Vedete che indicava sempre a chi riferirsi. Indicava Gesù Cristo. Aveva sempre lo sguardo rivolto su Gesù Cristo e diceva a tutti quanti quelli che incontrava di seguire Lui. Guardate che a volte l’hanno fatto passare, la cosa mi è dispiaciuta moltissima, l’hanno fatto passare per un prete alla buona, perché a volte rischiava di passare per ingenuo. Ma lui, come diceva adesso Paolo, non aveva paura di nessuno. Se Cristo, per l’uomo di oggi, è la risposta alle domande dell’esistenza, vale la pena di dirlo a tutti, dal primo della terra all’ultimo che gode di considerazione zero. Vale per tutti, ecco dove stava la grandezza di don Oreste. Vi leggo un altro brano, perché chi pensava che lui fosse un utopista sbaglia completamente, perché concreto come don Oreste, e non era per nulla uno da prendere alla buona, penso ce ne fossero pochi. Pagina 159, sull’adulterio che va molto di moda e fa tremare i polsi a noi che siamo sposati. Perché qui attorno sembrano crollare moltissimi matrimoni. Allora leggiamo questo: “La donna normalmente prima tradisce con il cuore poi con il corpo. L’uomo spesso cerca l’avventura materiale senza dare il proprio cuore a colei dalla quale cerca il piacere. La donna viene a trovarsi in una situazione più tragica dell’uomo ma il male è enorme in tutti e due i casi. La scappatella dell’uomo ne indica l’immaturità, egli è il centro di se stesso. L’egoismo, la ricerca della propria irrazionale soddisfazione, l’incapacità di dirigere una famiglia, il tradimento pone la donna in uno stato di ipocrisia difficilmente superabile e che marca tutta la vita perché non riesce a partecipare il proprio errore. Il tradimento del marito scoperto dalla moglie, specialmente se preceduto da un rapporto affettivo, molte volte pone la donna in uno stato di malessere che non riesce più a superare e che segna tutta la sua vita. Talora neanche altri figli generati cancellano in lei l’errore del marito, che rimane per sempre colui che l’ha tradita. L’uomo e la donna sono veramente una cosa sola. Il tradimento crea una ferita difficilmente rimarginabile ma la fede dà i mezzi per ricostruire l’unione, fa rifiorire l’amore e rende possibile il perdono”. Vedete che dall’analisi si arriva anche a una via d’uscita. Questa è la grandezza di don Oreste Benzi che va nel concreto, nelle situazioni di tutti i giorni. Qui, sempre nel libro scrive: “Non ha paura di andare contro le mode?” Gli chiedono: “I rapporti prematrimoniali?” Lui risponde secco: “La tomba dell’amore”. Guardate che oggi questo è uno scandalo. Lui risponde secco: “La tomba dell’amore”. Chi ha il coraggio di dire più così? Noi genitori abbiamo il coraggio di dirlo ai nostri figli oggi adolescenti, ventenni o venticinquenni o che hanno le fidanzate? Un’ultima cosa, poi passo di nuovo la parola. Don Oreste e il Meeting. Ho raccolto, sarà uno dei capitoli in una breve pubblicazione che mi hanno chiesto e uscirà nei giorni dell’anniversario di don Oreste Benzi e in cui ha fatto l’introduzione Paolo, un capitolo dedicato al Meeting. E fra le cose che racconto del Meeting, c’è anche un piccolo aneddoto dell’anno scorso. Fra l’altro devo dire che l’anno scorso don Oreste era particolarmente stanco, aveva un filo di voce, si sentiva appena. Quindi qualche segnale già lo dava. Eravamo nel salottino, come eravamo questa sera, ad aspettare e ci eravamo scambiati un po’ le opinioni su quello che poi avremmo detto durante l’incontro e don Oreste, mancavano ancora dieci minuti, guarda l’orologio, mi chiede quanto manca. Dico: “mancano ancora dieci minuti”. “Allora cosa dici Francesco”, mi dice e fa questo gesto, va in tasca, tira fuori la corona, “cosa dici Francesco se diciamo un po’ di rosario?”. Guardate che nel salottino non è che eravamo da soli eh? C’erano fior di ministri e amministratori delegati di banche internazionali e io ho detto: “Certo don Oreste” Ho tirato fuori la corona del rosario e ci siamo messi a pregare prima del nostro incontro. Perché così si preparava un incontro. E così ci si preparava ogni volta che si andava ad incontrare qualcuno. Perché solo Gesù Cristo e anche con l’aiuto della Madonna, ci poteva dettare quello che poi avremmo detto, come sta capitando anche questa sera

MODERATORE:
Una delle cose, Paolo, che mi hanno colpito di più di questo libro, ne faceva adesso riferimento anche Francesco, in relazione al titolo Nel cuore della famiglia, è, e ti chiedo da questo punto di vista una tua testimonianza, è la tenace, insistente, appassionata sottolineatura della centralità della coppia coniugale come fulcro della famiglia. Mi ha impressionato anche nelle risposte che lui dà ad alcune lettere che gli stono state inviate, questa sua insistenza a vedere la possibilità della ripresa della famiglia anche in momenti di gravissima difficoltà. Una volta una suora mi ha detto, mentre conversavamo sulla famiglia: “E certo che per sposarsi ci vuole proprio una bella vocazione”. Io sono rimasto un po’ così, perché di solito si pensa che per fare il prete o la suora ci vuole una bella vocazione. Dice: “No, no. Per sposarsi ci vuole una bella vocazione. Perché vede, molte volte anche noi suore, che siamo persone come tutti, litighiamo e però abbiamo un vantaggio: che se una mattina abbiamo la luna storta con una, siccome siamo una comunità, possiamo stare di più con un’altra oppure con quell’altra e poi la nostra regola prevede che dopo un po’ di anni ci cambiano convento e quindi cambiamo aria. Ma stare tutta la vita sotto lo stesso tetto, con la stessa persona, deve proprio richiedere una bella vocazione”. E don Oreste insiste ripetutamente sul fatto che l’uomo e la donna che si incontrano, che si amano e che si sposano, lo fanno nella profonda verità di questo rapporto in faccia ad un altro, altrimenti si sfarina tutto. E anche quando i genitori, marito e moglie che generano dei figli, vogliono essere bravi genitori, lui sottolinea il fatto che si può essere un bravo padre e una brava madre a condizione di essere e rimanere ad essere soprattutto bravo marito e brava moglie. Non si può saltare questo cuore, questo centro, questa radice che lui sottolinea essere usata da nostro Signore come analogia dell’amore che Cristo porta alla Chiesa. E non è un caso che Don Oreste chiuda con quelle pagine poeticamente stupende che sono contenute nel Cantico dei cantici. Allora questo cuore della famiglia è realmente, anche per la tua esperienza anche nell’incontro con Lui, la relazione tra il marito e la moglie.

PAOLO RAMONDA:
Grazie. La comunità Papa Giovanni XXIII è stata spregiudicata perché dopo la morte di Don Oreste, al di là della mia persona, ho scelto come successore di Don Oreste uno sposo e molti sono stati stupiti nella Chiesa, generalmente i sacerdoti. Invece penso sia un altro segno che evidenzia che Don Oreste ha costruito col suo grande cuore sacerdotale una comunità dove la maggioranza sono famiglie, anche se ci sono consacrati, singoli, sacerdoti, ma la maggioranza della comunità Papa Giovanni XXIII sono gruppi di sposi. Questo per evidenziare che è il tempo, dicevamo prima, della comunità, è il tempo della laicità, è il tempo della vita cristiana che nasce dal Battesimo, che nasce dalla scelta feriale, da quella che noi abbiamo visto vissuta nelle nostre famiglie, dai nostri genitori che magari avevano poca istruzione. Io sono ultimo di sette figli, mio papà e mia mamma hanno fatto la terza e la quinta elementare; però ho visto in loro che mio papà voleva bene a mia mamma, che mio papà lavorava per mantenere sette figli e mia mamma stava a casa per educare i figli, e si volevano bene, in quel contesto, in quella cultura dei primi del Novecento. Don Oreste racconta anche lui questa sua passione per l’umanità, che ha percepito nella sua famiglia, dai suoi genitori. Quando lui racconta di sua mamma, di suo papà, allora veramente la famiglia è la via, il crocevia per ritornare ad una nuova umanità. Qui Don Oreste s’innesta sul filone di ciò che la Chiesa da secoli dice, che il Papa, i vari Papi hanno sempre confermato: che la solidità della struttura sociale dei popoli nasce dalla famiglia, è costruita su questa complementarietà dell’uomo e la donna, maschio e femmina li creò, perché non basta essere in coppia, anzi bisogna stare attenti perché oggi parlano molti di essere in coppia, mi capite: due donne, due uomini. Non è solo la coppia, è l’alterità maschio e femmina, è questa complementarietà che non è solo spirituale, è una complementarietà in cui ci deve essere un dono totale tra i due, che parte dal cuore, che parte dalle relazioni, dagli affetti, dai sentimenti, dalla fisicità, dal linguaggio del corpo. In questo Don Oreste credeva, in questo Don Oreste, nella sua esperienza di sacerdote, una grande esperienza di ascolto della vita della gente, delle famiglie, concreta, ha percepito sempre di più, e ha dato la risposta attraverso l’esperienza della comunità Papa Giovanni XXIII, che la famiglia è il luogo pensato da Dio per la crescita di ognuno di noi, e a maggior ragione il luogo pensato da Dio per l’accoglienza dei poveri, dei piccoli. Lì i piccoli e i poveri possono rinascere, possono essere accolti e possono essere amati concretamente.

FRANCESCO ZANOTTI:
Pagina 145. Un altro brano per capire ancora di più Don Oreste.
“Il lavoro della donna. Se la donna andasse a lavorare fuori di casa perché diversamente si sentirebbe inferiore all’uomo, ci troveremmo di fronte ad una forma di alienazione mentale. Se la donna andasse a lavorare fuori di casa perché altrimenti si sentirebbe soffocata, bisognerebbe fare una cura speciale al marito e ad i figli che non accolgono il dono della madre”.Guardate che sono parole dure come pietra! “Se la donna dovesse andare fuori perché vuole la sua indipendenza economica, dovremmo dire che si potrebbe fare anche a meno di quella madre. Se invece la donna sente il lavoro fuori casa partecipazione dell’attività creatrice di Dio è cosa buona. Oggi però dobbiamo confessare che la presenza della madre in casa è uno degli elementi più indispensabili per l’equilibrio dei figli e del marito”. Forse di questo oggi si sente una grande mancanza, e non solo di questo, mi raccomando. Non me ne vogliano le donne e neppure ne vogliano a Don Oreste. Però, come diceva Paolo, nella sua visione della famiglia ognuno ha un ruolo, ha una sua parte. Uno dei tratti più diffusi, e termino, in Don Oreste è questo: spesso nelle separazioni delle coppie ciascuno si ritaglia uno spazio da dedicare ai figli, per mettere a posto sé, la propria coscienza e i figli, il rapporto coi figli. Guardate che Don Oreste, in questo per me è stato assolutamente un maestro, fa capire che non è questo che i nostri figli vogliono da noi, anzi non lo vogliono per nulla. Vogliono, come raccontava anche Paolo prima, vogliono che i genitori, marito e moglie, si stimino a vicenda, si vogliano bene tra di loro. Come conseguenza i figli vorranno bene al babbo e alla mamma, se marito e moglie si amano e si stimano a vicenda. Diversamente sarà difficile che i figli stimino e vogliano bene al padre e alla madre, anche se dedicano loro le vacanze, si ritagliano uno spazio: non è sufficiente, non è questo che i nostri figli chiedono a noi. In questo oggi credo che noi genitori abbiamo una responsabilità molto grande. Don Oreste ci richiama a giocarci sui ruoli di ciascuno e sull’essenziale, cioè sull’andare a quello che vale la pena. Quindi non sprecare energie per correre a destra e a manca, per portare a destra e a manca i nostri figli. Impiegate il vostro tempo, siate protagonisti anche nella famiglia, vogliatevi bene tra di voi come è chiesto a voi mariti e a voi mogli, perché quello è il vostro ruolo anche nelle difficoltà, ma anche nella consapevolezza che quello è il meglio per noi, e poi di conseguenza anche per quelli che ci stanno vicini.

MODERATORE:
Io chiederei, visto che è stato anche citato, di parlare del rapporto genitori-figli, in un tempo in cui rischiamo di vivere, come direbbero gli psicologi, in una società puerocentrica, in cui i bambini sono al centro, e magari un solo figlio, tutto per il figlio, rischiando perciò di caricarlo di pesi che non è in grado di portare né chiede di portare. Che cosa significa in una esperienza familiare di famiglia allargata – sono tante oggi le forme di “famiglie allargate”, alcune assolutamente degeneri, ma alcune assolutamente esemplari, quella di una casa-famiglia – che cosa significa essere figura autorevole, genitori autorevoli in una esperienza come quella che la Papa Giovanni ha proposto a tanti e che anche Paolo vive?

PAOLO RAMONDA:
Nell’esperienza della casa-famiglia c’è la grande novità, penso anche a livello sociale, storico, della compresenza dei cosiddetti figli naturali e figli rigenerati, cioè non biologici. E questo penso sia un’esperienza unica. C’era stata in Belgio nel ’700 un’esperienza transitoria di famiglie che si erano aperte soprattutto a persone con sofferenza psichica. Però l’esperienza della comunità Papa Giovanni, quello che colpisce, è che è oramai un’esperienza di 40 anni, che si è sviluppata in Italia ma si sta radicando in tutte le culture, dall’Asia, India, Bangladesh, Africa, America latina, Europa dell’est. La genialità di Don Oreste, che è frutto dell’opera di Dio, è che la famiglia risponde al bisogno profondo dell’uomo, che nelle varie culture si manifesta in forme diversissime, ma è quello. Un bambino gravemente disabile non può, come ho visto in questi mesi girando dal Bangladesh al Cile, dalla Bolivia all’India, non può vivere perché lo Stato riesce a metterlo in una struttura pubblica, in un ospedalino, in un repertino in cui gli danno il biberon da pochi mesi; li ho visti io disabili gravissimi, gli viene cambiato il pannolino perché l’assistenza che riescono a fare è quella. Voi mi capite, la dignità della persona non può avere solo quel tipo di risposta; il tipo di risposta che parte dal cuore di Dio, ma è una risposta ragionevole, è una risposta pienamente umana, è quella di dare un papà e una mamma, è quella di dare delle relazioni, è quella di dare degli affetti, è quella di dare un cammino insieme, una vita insieme. E allora noi in questo abbiamo visto davvero dei bambini con gravi patologie rinascere, bambini cerebrolesi, bambini che ci dicevano fossero in uno stato vegetativo, riprendere a comunicare. Il problema qual è, come diceva bene Don Oreste, è che noi dobbiamo capire i loro linguaggi, noi dobbiamo decodificare i loro messaggi. Allora se c’è questa comunicazione, questa alleanza, c’è una vita che nasce, non solo, ma loro hanno un posto nella società, un posto nella storia. Ecco perché noi lottiamo, non solo qui in Italia dove c’è una legislazione avanzata. In tanti stati, soprattutto dell’America latina, dell’Asia, dell’Africa, i bambini disabili non vanno a scuola, o vanno al massimo in scuole speciali, perché viene vista più la patologia, ciò che manca, piuttosto che ciò che loro hanno, la risorsa, il dono che sono. La scoperta è stata questa, è stata di questa compresenza di figli. I più grandi genitori e anche educatori, io ritengo, non sono quelli che fanno tutto loro, ma sono quelli che sanno scoprire in coloro che gli stanno attorno, altri figli, altri allievi, le risorse educative capaci di entrare in relazione con quel ragazzo, allora lì la sfida educativa è vinta. Questo è l’educatore. Diceva bene Don Bosco: l’educazione è cosa del cuore, cioè parte da un’intelligenza, Don Oreste parlava di un’intelligenza d’amore che è unica, viene da Dio ma fa emergere tutte le potenzialità umane. Noi genitori dobbiamo fare questo, con tutti i nostri limiti, perché il genitore perfetto non esiste, la coppia perfetta non esiste, ma esiste la coppia, il papà e la mamma che sanno scegliere di diventare genitori responsabili, che accolgono i figli che il buon Dio gli manda e, se il cuore e lo spirito si allargano, anche di far entrare altri figli nella loro vita, perché questo sarà il ricordo che i nostri figli avranno di noi, di ciò che hanno ricevuto.

MODERATORE:
Una battuta conclusiva prima di salutarci. Conversando, prima, hai raccontato un brevissimo aneddoto in riferimento a quello che da un figlio hai sentito quando dedicavi molto tempo ad un certo lavoro, quello di fare un libro. Poi magari lo racconti tu se credi questo aneddoto. Sul piano dell’ esperienza personale, in relazione a questo episodio, che cosa conservi nel cuore, e nel cuore della tua famiglia, come lascito più prezioso della testimonianza di Don Oreste?

FRANCESCO ZANOTTI:
La cosa che più mi ha coinvolto di Don Oreste Benzi è questa ansia nel cercare di non sprecare il tempo, cioè il tempo non è nostro ma ci viene dato. L’ultimo dell’anno per esempio. Guardate che la notte dell’ultimo dell’anno nell’immaginario collettivo è un tormentone. Perché cosa si fa l’ultimo dell’anno? Don Oreste Benzi mi ha insegnato che la notte dell’ultimo dell’anno si possono fare cose strepitose, e così tutti gli attimi, tutti i minuti, tutte le ore, tutti i giorni dell’anno. Ecco, questa è la consegna che più sento forte. In questo aneddoto che poi riporterò, ma usciranno, come diceva prima Paolo, diversi libri, in occasione dell’anniversario della morte di Don Oreste Benzi. Io ho fatto una piccola cosa e allora durante questa estate non sono andato al mare coi miei figli, e allora uno dei miei figli mi ha detto: “Babbo, ma quanto tempo ci vuole per fare un libro?” – si era stancato di vedermi sempre a casa. Però se ne vale la pena, dovrò far capire anche a questo mio figlio, che è Luca, uno dei tre miei figli, che ne valeva la pena e che in quel momento ero chiamato certamente a dare qualcosa per cercare di dare, di fornire alla presenza terrena di Don Oreste Benzi un qualcosa di più, un mio granello (non vuole essere niente di più), un mio granello personale. Io ho ricevuto tantissimo da Don Oreste, ogni volta che mi chiedeva qualcosa non mi sono mai tirato indietro, e ogni tanto me lo chiedeva, ogni tanto io chiedevo a lui, ci siamo voluti bene. E questa consegna la sento forte nella mia vita. Non è che mi condiziona: dà alla mia vita certamente uno sguardo diverso. Io l’ho incontrato tanti anni fa, forse andammo con mia moglie, allora eravamo filarini, come si diceva allora negli anni ’70, a visitare la prima casa-famiglia di Coriano, che prima anche tu hai ricordato, poi l’ho seguito con una certa costanza dal 93, anno in cui aprì questa collaborazione col Corriere Cesenate, dove teneva questa rubrica “Lettere a Don Oreste”. Tante volte ci siamo trovati insieme, lui mi cercava per andare insieme a tenere questi incontri, perché io gli facessi domande, lo contenessi (perché sennò parlava e andava avanti). E allora lui chiedeva la mia presenza e questo mi ha riempito di una grande responsabilità, ma soprattutto di una grande gratitudine. Perché io a Don Oreste devo veramente tanto, e con voi oggi sono contento di ricordarlo. Ma per noi non è un ricordo Don Oreste, è ancora vivo, perché vive con noi, vive nell’esperienza della comunità, in tutti quelli che l’hanno incontrato.

MODERATORE:
Un’ultimissima battuta a Paolo. Don Oreste, per come lo abbiamo conosciuto, se lo abbiamo conosciuto bene, non è stato mai un uomo da compromessi. Anche nell’affrontare situazioni difficili, situazioni limite, situazioni di dolore, penso alla prostituzione, penso al mondo della droga, non ha mai accettato la logica del male minore, ma ha sempre puntato in alto, sul fondamento della dignità della persona, a cui ogni tipo di ambito sociale deve in qualche modo indirizzarsi. E qui mi pare interessante, li avete citati già anche voi, che tra le presenze qui ci siano persone come un amministratore, Stefano Vitali, un giornalista, Valerio Alessi, ma io aggiungo anche un imprenditore (in ultima fila), che è Vittorio Taddei, cioè persone come tutti quanti noi, ne cito tre, che sono tre persone esemplari di mondi diversi che sono stati contagiati da Don Oreste e che sono stati contagiati per realizzare qualcosa di grande e non per procedere, al di là poi ovviamente dei nostri limiti, con piccoli compromessi. Non il male minore ma invece puntare in alto, sul fondamento della dignità della persona. E’ così?

PAOLO RAMONDA:
E’ così. Gli ultimi mesi Don Oreste era quasi assillato dal problema delle creature che non potevano nascere. Diceva: l’aborto è un omicidio. E noi dobbiamo gridare, dobbiamo lottare perché i bambini possano nascere, possano vivere, dobbiamo lottare in tutte le forme. La riduzione del danno per Don Oreste non esisteva. I nostri politici favoriscono la logica della piccola dose, della droga, dell’alcool, poi però sulle nostre strade nostre mamme e nostri bambini muoiono, falciati da persone che guidano in stato di ebbrezza, ecc. La logica della riduzione del danno assolutamente non era pensabile per Don Oreste, pure le ragazze di strada, il problema per lui erano i clienti, era la domanda che andava fermata. In tutto era così, era estremamente accogliente, estremamente affabile anche a chi avesse semmai compiuto un aborto, era, non so se mi spiego, non contro la persona. Assolutamente andava alla radice, proprio per questa consapevolezza della dignità della persona, della dignità umana che è sacra. Io concludo veramente con questo: Don Oreste era innamorato della vita. Era innamorato della sua vocazione. Era innamorato della vita, soprattutto a partire da quella più indifesa, da quella più estrema. E questa grande umanità però la alimentava, la nutriva nel cuore di Cristo. Porto questo fatto: eravamo in Albania per delle nostre comunità, una delle poche volte in cui noi eravamo insieme (perché se lui era da una parte io ero in Italia o da qualche altra parte), due camere diverse, mi ricordo al mattino presto, erano verso le 4, sento dei rumori, penso magari non sta bene. Vedo la sua talare, la tonaca lisa di Valerio Alessi, che va avanti, vado dietro senza farmi vedere, e lui entra nella cappellina e appoggia la testa sul tabernacolo, alle 4 del mattino. Questo era Don Oreste.

MODERATORE:
Non c’è altro da aggiungere dopo questo straordinario ricordo di Paolo Ramonda. Io ringrazio veramente tanto Paolo della sua presenza, che onora il Meeting e che continua una tradizione di amicizia che con Don Oreste ha conosciuto dei momenti veramente straordinari. Ringrazio Francesco Zanotti della sua testimonianza. Ringrazio tutti quanti voi, e credo che la serata che abbiamo vissuto insieme possa essere uno stimolo perché ciascuno sappia assumersi un pezzettino in più di responsabilità nel cammino di cui Don Oreste ci ha dato luminosa testimonianza. Grazie a tutti e buon Meeting.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

25 Agosto 2008

Ora

19:00

Edizione

2008

Luogo

eni Caffè Letterario D5
Categoria
Incontri