INVITO ALLA LETTURA

Caro collega ed amico. Lettere di Etienne Gilson ad Augusto Del Noce (1964-1969)
Presentazione del libro a cura di Massimo Borghesi, Docente di Filosofia Morale all’Università degli Studi di Perugia (Ed. Cantagalli). Partecipano: il Curatore; Javier Prades López, Docente di Teologia Dogmatica alla Facoltà Teologica San Damaso di Madrid.
A seguire:
Il prof. Lejeune fondatore della genetica moderna e La vita è una sfida
Presentazione dei libri di Jean-Marie Le Menè, Presidente Fondation Jérôme Lejeune (Parigi) e di Clara Lejeune-Claymard, figlia di Jérôme Lejeune e President General Electric France. (Ed. Cantagalli). Partecipa Carlo Casini, Presidente Movimento per la vitae Deputato al Parlamento Europeo.
A seguire:
Mi mancano solo le Hawai. Appunti di vita e di viaggio di un italiano trapiantato in America
Presentazione del libro di Maurizio Maniscalco, Presidente Emerald New York. (Ed. SEF). Partecipa l’Autore.
Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.

 

MODERATORE:
Bene, benvenuti, cominciamo questo appuntamento quotidiano di invito alla lettura, Come annunciato dal programma, la presentazione dei libri avverrà secondo la sequenza annunciata. Cominciamo con il primo dedicato a due autori importanti della storia della cultura europea e italiana, Etienne Gilson e Augusto Del Noce. Il libro edito dall’Editrice Cantagalli si intitola: Caro collega ed amico. Lettere di Etienne Gilson ad Augusto Del Noce (1964-1969).
Abbiamo con noi due cari amici, due importanti ospiti. L’autore e curatore del volume, Massimo Borghesi e Javier Prades López. Massimo Borghesi è Docente di Filosofia Morale nell’Università di Perugia e ha fatto molte pubblicazioni su la figura di Cristo in Hegel e su Romano Guardini. Javier Prades è di Madrid, spagnolo ed è Dottore sia in Diritto che in Teologia. E’ professore di Teologia e Direttore della Rivista spagnola di teologia e anche responsabile del Movimento di Comunione e Liberazione in Spagna. La parola prima a lui per una introduzione e commento a questo libro. Grazie.

JAVIER PRADES LOPEZ:
Buonasera, buon pomeriggio. L’unica ragione per cui io posso intervenire in una presentazione di un carteggio fra Gilson e Del Noce è l’amicizia con il curatore, Massimo Borghesi. Perciò mi devo fermare su questo punto. L’amicizia con lui è cominciata alla fine degli anni ’80, nei corsi estivi che si organizzavano in un gruppo che sarebbe poi approdato a CL che si chiamava Nueva Tierra. In quegli anni e poi negli anni che ho vissuto a Roma, è maturata un’amicizia che portava dentro la sorpresa di una persona, di un filosofo, per la precisione, che era in grado di rendere ragione di quella novità di esperienza che noi stavamo vivendo. Perciò da allora ho sempre seguito con grande interesse le pubblicazioni di Borghesi perché mi hanno fatto sempre imparare sull’esperienza che vivevo. In un’altra occasione, quando si presenteranno i libri di Borghesi, ne faremo un commento più tranquillo, ma non posso non dire almeno come nei suoi testi, che magari ci arrivavano dattiloscritti, trovavamo la documentazione della riduzione etica del cristianesimo, quel fenomeno che dall’Illuminismo francese e tedesco, penso a Lessing e Kant soprattutto, portava a una riduzione del cristianesimo, ad una espressione ideale e morale che l’umanità avrebbe raggiunto dopo una lunga educazione. A me aveva colpito, forse di più, come presentava la reinterpretazione totale del cristianesimo ad opera dell’idealismo tedesco, dell’ Hegelismo che, pur mantenendo le parole cristiane, le svuotava dall’interno convertendole in un’altra cosa.
Siccome allora studiavo teologia e mi trovavo nella filosofia e teologia con questi fenomeni proprio davanti agli occhi, ho sempre ringraziato la possibilità di comprendere ciò che dovevo studiare, ciò che dovevo imparare ma soprattutto ciò che volevo vivere.
La capacità di sintesi, la limpidezza con cui lui ha sempre presentato i problemi più spigolosi, più difficili, è stato sempre un grande aiuto.
Lui ha saputo smascherare tanti equivoci del cristianesimo moderno e così facendo non ha mai assunto una posizione difensiva. Un’altra cosa che ho potuto imparare nei suoi scritti, è che nell’interpretare i fenomeni moderni si è sempre mostrato paolino: “vagliate tutto, trattenete il bello”, trattenete quello che c’è di valore, perché se si va’ fino in fondo a capire certi fenomeni, si può interloquire con più libertà e valorizzare quello che c’è da valorizzare, fosse solo l’uno per cento.
Per esempio la sua proposta di leggere negli autori contemporanei gli spunti di domanda, di grido per il dolore, per la sofferenza e per la morte come espressioni storiche di una strutturale sproporzione dell’uomo, e soprattutto capire che solo quando si è in dialogo con queste dimensioni dell’esperienza si può capire la portata del cristianesimo come evento storico.
Il libro di cui parliamo oggi è un dialogo letterario fra Gilson e Del Noce che sono due fonti, non le uniche, del pensiero di Borghesi. Mi sembra che in entrambi gli autori si possano incontrare o trovare anche le chiavi di comprensione della modernità.
Di fronte ad una sfida di questo genere sia Gilson che Del Noce, hanno saputo comprendere come il cristianesimo occidentale, anche se è stato vissuto dal popolo integralmente in tanti momenti e in tante espressioni, nel versante culturale e teologico si traducesse in termini inadeguati, favorendo proprio un dualismo fra fede ed esperienza, fra livello naturale e soprannaturale, che poteva indebolire la totalità della vita cristiana.
Forse troviamo qui una chiave sintetica per cogliere il valore di un volume che stiamo presentando oggi, che è meno occasionale di quanto il genere epistolare potrebbe suggerire.
Lo scambio di lettere fra il grande storico francese della filosofia medioevale e il filosofo piemontese viene ad aggiungersi alla catena di argomenti che permettono di identificare prima, e superare dopo, la riduzione dualista delle fede cattolica nella modernità.
E in questo compito Gilson e Del Noce possono essere annoverati anche fra i vari Guardini, Balthasar, Ratzinger, poi De Lubac in Francia con i suoi studi sul Surnaturel.
Alla luce di questi veloci spunti provo ad indicare tre punti di contenuto del libro che mi hanno colpito.
I primi due, li cito solo. Mi trattengo un attimo sul terzo.
Molto interessante, quando avremo il libro in mano, sarà leggere, nel carteggio, la diversa valutazione del marxismo in Gilson e Del Noce.
Per Gilson è un problema direi quasi non posto, lui non lo sente una questione determinante.
Per Del Noce, invece, la lettura e la comprensione del marxismo è determinante.
Secondo punto molto interessante, molto discusso per le conseguenze che comporta e che ha particolarmente attirato la mia attenzione in questo volume, è il delicato problema della interpretazione del ruolo di Cartesio nel sorgere della modernità.
Siamo abituati ad una certa lettura dominante che vede in Cartesio la premessa che porta inesorabilmente all’immanentismo, all’ateismo e alla secolarizzazione.
Questa tesi diffusa, penso anche per esempio agli studi del Padre Fabro, è invece contestata da Del Noce, che dice esserci una doppia lettura. Questa tesi è nota, non faccio altro che ricordarla, ma si vede bene la diversa percezione che hanno Del Noce e Gilson nell’interpretazione di Cartesio e come, Del Noce, più giovane e meno famoso, tenti, senza ferire la dottrina del grande filosofo francese, di far notare come può la diversità di approccio alla concezione del ruolo che ha giocato Cartesio nel sorgere, nel nascere della filosofia moderna.
Io non sono un intenditore di Cartesio e non posso fare l’arbitro nella discussione su chi ha ragione e fin dove, ma mi sembra di poter dire che la posizione delnociana consenta di proporre una concezione di modernità non chiusa al cristianesimo in linea di principio e dunque permetta anche un lavoro di vaglio critico della modernità, di cui avevamo indicato in Borghesi un rappresentante efficace.
Mi trattengo sul terzo punto. Borghesi fa’ notare nello scambio delle lettere l’eventuale influsso di Del Noce su Gilson riguardo il problema delle prove dell’esistenza di Dio.
E’ una questione di grande interesse, proprio per affrontare il problema chiave che avevamo indicato all’inizio: come si fa’ a superare una concezione dualista del cristianesimo, per poter dialogare e contestare eventualmente una modernità immanentista?
Borghesi nel libro, nell’introduzione, suggerisce l’ipotesi di un influsso delnociano nello spostamento della comprensione gilsoniana della natura delle prove dell’esistenza di Dio.
Sarebbe stato, dice Borghesi e lo documenta con le lettere, l’amicizia, il rapporto stabilito tra Gilson e Del Noce che avrebbe consentito a Gilson di rivedere nientemeno la sua concezioni delle prove dell’esistenza di Dio.
Quale sarebbe questo spostamento?
In un primo momento Gilson, primo momento che è molto lungo della sua vita, ha sostenuto che ci può essere nell’uomo una sorta di esperienza pre-metafisica di Dio, anteriore ad ogni riflessione critica, ma che non ha valore agli occhi del filosofo.
Ci può essere un momento pre-metafisico che però non ha valore agli occhi del filosofo. Non è una prova elementare dell’esistenza di Dio, perché quella nozione elementare, quella esperienza pre-metafisica non è di ordine metafisico come richiede una autentica prova.
Per questo, per esempio, per Gilson il consenso universale dei popoli su Dio non prova nulla.
Il filosofo francese, dice Borghesi, rimane così in un ultimo dualismo tra religione naturale e filosofia.
Questa è una cosa interessantissima.
Questa posizione è stata superata da Gilson solo nel volume “L’atheisme difficile”, dove Gilson sostiene che questo consenso universale degli uomini riguardo a Dio non è una vera e propria dimostrazione filosofica dell’esistenza di Dio ma, qui la novità, è qualcosa di molto importante in quanto, dice, è il fatto basilare sul quale tutte le prove dell’esistenza di Dio sono costruite.
Dunque questa esperienza pre-metafisica non è più irrilevante, ma è una pre-conoscenza di Dio anteriore alle prove. Non è una prova, ma ha peso determinante nell’interpretazione della prova. Così appare un Gilson più aperto a valorizzare la prova ontologica cartesiana dell’esistenza di Dio.
Se questo passaggio si potesse approfondire e documentare, avremmo un contributo molto interessante per cogliere la continuità fra ciò che noi potremmo chiamare esperienza elementare o senso religioso e l’argomentazione in senso filosofico stretto dell’esistenza di Dio
Potremmo venire incontro, per esempio, e finisco, a ciò che scriveva negli stessi anni un giovane teologo, non in Francia, non in Italia ma in Germania.
Negli anni ’67-’68, il giovane Ratzinger, nelle sue lezioni di introduzione al Cristianesimo, riteneva che per poter cogliere l’attenzione della gente normale, Dio deve essere reale e che dunque è imprescindibile mostrare che Dio è reale, più reale di tutte le altre cose che a noi sembrano reali e che Dio non è un problema puramente teorico.
Su questa cosa sono impostate le lezione che Ratzinger teneva nel ’67 all’ Auditorium Maximum di Tubinga, di Tubingen, e pochi mesi prima, nel ’67 alla Cattolica di Milano, e nel ’68 a Parigi.
Ratzinger scendeva in piazza, a dialogare con i giovani studenti tedeschi su Dio, proprio in forza della convinzione che Dio è tutt’altro che un problema solo teorico da dimostrare con l’argomento per così dire puramente intellettuale.
La partenza è la realtà di Dio, la realtà di Dio attestata nell’esperienza; le definizioni saranno tanto più preziose quanto più riusciranno a mettere in evidenza il contenuto di realtà dell’esistenza di Dio. Solo un Dio reale può attirare l’interesse di un uomo reale.
Da questo punto di vista lo spostamento che Borghesi ha rintracciato, nell’evoluzione filosofica di Gilson, riguardo al valore di questa esperienza pre-metafisica reale di Dio per le ulteriori prove, è da apprezzare assolutamente
Mi sembra, così finisco, che leggendo questo volume e paragonando le tesi di Del Noce e di Gilson come appaiono nelle lettere, trarremo tutti un grande profitto.
Grazie.

MODERATORE:
Grazie. Molto bello e molto chiara anche la sfida che credo abbiamo compreso in questo percorso che avviene nell’ amicizia con Del Noce riguardo ad un fatto molto importante di queste premesse di esperienza che poi ognuno di noi vive.
Massimo Borghesi, per continuare in un affondo.

MASSIMO BORGHESI:
Innanzi tutto grazie, moltissimo, all’amico Javier Prades delle cose così belle che ha detto, davvero grazie.
Brevemente, riprendo quello che dice lui, aggiungo solo qualche piccolo particolare, dicendo innanzitutto che sono contento che questo epistolario abbia visto la luce dopo tanti anni, grazie anche alla collaborazione della casa editrice Cantagalli, che si è prestata in tutti modi, anche direi nella veste grafica molto ben curata, alla pubblicazione del testo.
Perché sono contento? Perché queste lettere in larga misura si erano perdute. Sono 14 lettere, tredici di Gilson, una, purtroppo soltanto una, di risposta di Del Noce. Le lettere delnociane chissà dove sono finite.
Forse a Toronto, in Canada, ma troppo tempo avrebbe richiesto.
Bene, delle lettere di Gilson, del grande filosofo del Medioevo, Gilson, dieci erano scritte a macchina e tre a mano.
Delle dieci lettere scritte a macchina, la Fondazione Augusto Del Noce non ha più da anni alcuna traccia e vi chiederete perché: ce le avevo io.
Nel 1990 si doveva costituire una Fondazione Augusto Del Noce a Roma, subito dopo la morte di Augusto Del Noce, che nell’ottantanove era ancora al Meeting di Rimini, quindi una delle ultime apparizioni pubbliche è stata proprio qui.
Ebbene, di quella Fondazione io facevo parte. Ricordo che facemmo delle fotocopie di tanta parte della documentazione del filosofo, a casa Del Noce a Roma, e quella è stata una fortuna perché, grazie a quelle fotocopie, si sono conservate le dieci lettere dattiloscritte che per i casi della vita sono nel frattempo andate perdute presso la Fondazione Augusto Del Noce.
Insomma, se non avessimo fatto le fotocopie allora, oggi, addio carteggio e un capitolo così denso e importante della vita di questi due massimi pensatori del Novecento si sarebbe perduto.
Così va’ il mondo, diciamo così.
Il carteggio va dal ’64 al ’69. E’ un periodo cruciale, perché è il periodo del post Concilio e gran parte del carteggio è anche su la temperie teologica ecclesiale del post Concilio.
Gilson è profondamente sconfortato: dà giudizi molto negativi. soprattutto per la Riforma liturgica in Francia. per certe pieghe, ect.
Del Noce è più positivo, è più giovane.
Hanno una bella differenza di età: Del Noce ha 54 anni quando si conoscono e Gilson ne ha già 80.
Quest’anno, tra parentesi, è l’anniversario della sua morte: lui è morto nel 1978 ma è stato davvero poco ricordato in Italia, mi sembra.
E questo libro, in qualche modo, costituisce anche un omaggio alla figura dell’illustre pensatore.
Si conoscono a Venezia ad un convegno della Fondazione Cini, viva Internet, è grazie ad internet che per caso ho scoperto dove effettivamente si sono conosciuti.
Ad un convegno di quell’anno a Venezia: Gilson parlava alle 17, Del Noce parlava di seguito, alle 18.
Viva internet che permette di fare queste scoperte, è stata una lampadina, evidentemente.
Tra l’altro Gilson ha un amore sconfinato per l’Italia, e Venezia occupa davvero il suo cuore in questa prospettiva.
Di cosa parlano: all’inizio, come diceva Prades, parlano di questa linea franco-italiana del pensiero moderno, che mettono in antitesi a quella tedesca.
La linea franco italiana è una linea cattolica: la modernità non è fatta solo di ateismo, è fatta anche di una linea profondamente religiosa, cattolica.
Ne fanno parte Cartesio, Malebranche, Vico, poi ….. poi Rosmini
Ecco questi sono gli autori più importanti.
I due si trovano d’accordo su questo, però per Gilson ha un valore più settoriale, per Del Noce è invece un aspetto importantissimo, perché come diceva Prades, è la possibilità di dialogare con l’animo profondo della modernità senza essere antimoderni.
La modernità è ambigua, è duplice, è complessa, va’ distinta, diciamo così.
Bene, Gilson ha 80 anni, è un maestro, l’altro è quasi sconosciuto.
Ha vinto la cattedra da appena un anno, Del Noce si è sudato la carriera universitaria e ha appena pubblicato “Il problema dell’ateismo”, che è un’opera capitale del pensiero del novecento. Gliela spedisce e da lì inizia questo,… si vede che Gilson all’inizio lo conosce poco e poi, però, immediatamente, lo apprezza moltissimo, si rende conto di avere un pensatore di altissimo livello.
L’anno dopo gli manda il volume sulla filosofia moderna, su Cartesio, sulla Riforma Cattolica e filosofia moderna, un’altra opera capitale, edita da Il Mulino di Bologna e si vede che Gilson dice “….lei come fa’, ma dove, dove ha questa capacità incredibile di ritrovare attraverso i sentieri più complessi, delle linee di pensiero così acute, così profonde,…”…no…
I giudizi sono su questo pensiero moderno. Gilson ha dei dubbi sulla linea agostiniana, è un tomista e i tomisti hanno sempre visto con diffidenza la linea agostiniana della modernità
L’altro giudizio su cui non sono d’accordo è sul marxismo. Lo diceva Prades, per Del Noce Marx è il punto culminante dell’ateismo moderno ma questo punto culminante passa attraverso l’idealismo hegeliano, il materialismo di Marx viene dopo Hegel.
Per Gilson il punto culminante dell’ateismo moderno è invece il materialismo francese.
Sono due letture della modernità: uno fermo al quadro francese, l’altro al quadro tedesco.
Gilson confessa: “lei viene da una generazione più giovane della mia: io non sono mai riuscito a fare i conti con Marx”.
Questo naturalmente è un punto di debolezza per il pensatore francese, diciamo così.
L’empasse è strano, perché questo carteggio mette in luce all’inizio più la diversità degli autori che la sintonia dei punti di vista.
Chi finora aveva parlato di Gilson e Del Noce in Italia aveva sempre detto: i due dicono la stessa cosa.
Non è affatto vero: l’interesse del carteggio è che mostra la diversità dei punti di vista.
Del Noce supera questo empasse, proponendo a Gilson di pubblicare alcuni suoi saggi in italiano.
Esce il volume “Problemi d’oggi”, edito da Borla, nel 1967: contiene tre saggi di Gilson ed è lì che viene fuori questo giudizio critico sul cattolicesimo post conciliare, non sul Concilio.
Anzi Gilson è molto vicino ad uno degli autori che aprono il Concilio Vaticano II, è vicino ad Henri De Lubac, è grande amico di Henri De Lubac, sposa le tesi di questo autore che allora venivano viste con molta avversione dagli ambienti più tradizionalisti della Curia romana.
Quindi Gilson non è un conservatore e tuttavia vede con molto scetticismo alcuni esiti radicali di riforme che si attuano soprattutto in Francia in quella direzione.
Ebbene, in particolare il suo giudizio negativo è verso un pensatore allora alla moda, che ebbe tanta influenza nel cattolicesimo di quegli anni: si chiamava Theilard de Chardin.
Era una sorta di cristologia cosmica: per Gilson, Theilard de Chardin è uno gnostico. Dietro il linguaggio formalmente cristiano, ormai, è una pura gnosi, uno svuotamento del Cristianesimo, quello che viene professato.
Tanto per farvi capire, Theilard de Chardin è l’autore che oggi sta dietro alle posizioni di Vito Mancuso, quel teologo che talvolta compare spesso anche in televisione, diciamo così.
Gilson ha un’impressione forte di solitudine: lo dice. Ci sono alcune lettere molto amare.
Solo un breve passo, per farvi capire il suo sentimento di solitudine. Dice ad un certo momento: “non serve una seconda edizione del libro, essendo la maggior parte della gerarchia contro le idee che noi difendiamo, non vi è alcuna ragione perché i nostri libri si vendano. D’altronde, per quello che mi riguarda, io ho finito, non mi sento tenuto a battermi per una Chiesa che non mi vuole come soldato. Mi ritirerò nell’asilo della storia delle idee e della filosofia pura”.
E’ una sorta di….come dire…gettare la spugna. Gilson avrà il grande conforto, in realtà, nel 1965, di una lettera autografa di Paolo VI, poi pubblicata anche nell’Osservatore Romano, in cui il Papa gli dice: “lei ha lavorato con lealtà per la Chiesa, rendendole uno dei servizi più eminenti che la sua pastorale del pensiero richieda. Ha dato testimonianza a suo favore, ha sofferto e soffre con essa per ciò che la sfigura. Le ha dato ininterrottamente fiducia ed affetto…” Così nel 1965 la grande testimonianza di Paolo VI verso quello che era uno dei più grandi pensatori cattolici del ’900.
L’epistolario si interrompe nel 1969: non c’è una ragione apparente.
In realtà nel ’70 Del Noce viene ad insegnare a Roma.
In precedenza insegnava a Trieste: forse lo spostamento ha determinato un allontanamento.
Però un allontanamento sul piano dell’epistolario, non certo sul piano ideale, perché al contrario tutti i saggi che Del Noce dedica a Gilson, e ne escono cinque o sei, tra cui uno, l’ultimo sulla rivista Trenta Giorni, ebbene questi saggi vengono tutti dopo il 1970, cioè dopo la conclusione con l’epistolario, con Gilson.
Cosa vuol dire questo: vuol dire che quell’epistolario, il rapporto che si era instaurato, ha fatto sì che Del Noce capisse, ora, l’importanza di Gilson per risolvere la crisi del pensiero cattolico contemporaneo.
Per Del Noce, Gilson era il punto chiave per superare il contrasto tra le due grandi scuole cristiane di pensiero del ’900: quella tomista che si rifaceva a San Tommaso e quella agostiniana che si rifaceva a S. Agostino.
Gilson sarebbe il punto di superamento del contrasto tra queste due scuole, perché Gilson unisce insieme un realismo sul piano del rapporto con la realtà e sul piano della conoscenza, con una impostazione esistenziale che tende a valorizzare la dimensione della soggettività dell’interiorità e dell’esperienza.
Questi due momenti, il momento oggettivo e il momento soggettivo, che spesso vengono contrapposti e divisi nella normale riflessione cristiana, Gilson, in maniera profonda e meditata, li univa insieme.
Il tomismo di Gilson è un tomismo agostiniano, è un tomismo che accetta la grande lezione di Agostino e non si pone in antitesi con esso.
In questa maniera veniva superata l’antitesi tra l’impostazione classico medievale e l’impostazione moderna.
Se la via della soggettività è la via moderna e la via della oggettività era la via medioevale, ebbene, in Gilson era data la possibilità di superare l’antitesi tra l’antico medioevale e il moderno.
Questo era quello che Del Noce aveva in mente da quel punto di vista.
Da parte di Gilson e concludo, quello cui accennava Prades prima, anche lui in qualche modo è influenzato da Del Noce. Tra il ’67 e il ’70, scrive quest’opera che verrà pubblicata postuma “L’ateismo difficile”, dove per la prima volta rivaluta la prova a priori, così chiamata, dell’esistenza di Dio. Detto in breve: poiché noi abbiamo l’idea di Dio, questa è una cosa eccezionale, perché significa che l’uomo è un animale che ha la coscienza di Dio.
Questo è ciò che fa la differenza. Dire che l’uomo è un animale razionale è dire ancora poco.
E’ che la ragione ha l’idea di Dio. La differenza tra, come dire, la scimmia preistorica e l’uomo, è nel momento stesso in cui noi sappiamo che seppelliva i morti e aveva una coscienza del sacro.
La differenza tra l’uomo e l’animale è nella coscienza di Dio: questo è il punto.
Ma la coscienza di Dio è una cosa stranissima: perché mai l’uomo ha l’idea di Dio? Avere questa idea non è un prodotto della nostra mente, in qualche modo la mente non può non pensarla, ma se la mente ha l’idea di Dio, questo è qualcosa rispetto alla sua esistenza.
Il tomista Gilson, partito dalla critica radicale alla prova ontologica dell’esistenza di Dio, riscopriva, forse attraverso proprio Del Noce, il valore di questa prova. E’ un elemento interessantissimo, che nessuno finora, che io sappia, ha evidenziato, perché nessuno parla di quest’ultima opera di Gilson, compresi i gilsoniani. Ebbene, proprio in quest’ultimo scritto si vede come Gilson, che aveva criticato Del Noce in precedenza, ora veniva, in qualche modo, sulle posizioni di Del Noce.
Grazie.

MODERATORE:
Grazie, Borghesi, grazie Prades.
Presentiamo ora due libri su Lejeune, uno dei più grandi genetisti della storia. vissuto tra i primi decenni del ’900 e morto nel 1994. Il primo, intitolato Il Prof. Lejeune fondatore della genetica moderna è opera dii Jean-Marie Le Mené che è il Presidente attuale della fondazione Lejeune, l’altro molto personale, molto intimo è La vita è una sfida della figlia Clara Lejeune, la quale avrebbe voluto essere qui ma riveste un importante carica in una multinazionale con sede in Francia e non è potuta essere presente.
Lejeune apre in Francia come genetista la strada alla ricerca sulle malattie neurologiche, sulle malattie genetiche dell’uomo e dei bambini. Mosso da un grande amore per l’uomo, è colui che scopre il morbo a cui poi diamo in gergo il nome di mongolismo, la trisomia 21. Celebre è il suo discorso a New York, nella sede dell’ONU, in cui si discute di aborto, dove Lejeune era stato nominato membro del comitato scientifico. In questo discorso afferma che “un istituzione della salute non deve trasformarsi in una istituzione di morte” e la sera stessa scrive alla moglie da New York: “oggi pomeriggio ho perduto il Premio Nobel”. Lejeune da quel momento inizia a essere osteggiato, allontanato dalla comunità scientifica. Lejeune è stato qui al Meeting due volte, proprio negli inizi del Meeting. Pensate che, nel ’98, quando Giovanni Paolo II va in Francia in visita alla nazione, va da solo, per non creare polemiche, al cimitero di Montparnasse, a pregare sulla tomba di Lejeune. Da lì scrisse una famosa e importante lettera, un documento piuttosto esteso, dove ricordava la figura di Lejeune, additandolo come colui che “ha assunto pienamente la responsabilità specifica dello scienziato, pronto a divenire segno di contraddizione”. Vi voglio, prima di lasciare la parola a Casini che è qui come amico personale di Lejeune, leggere due sue frasi che c’entrano molto anche con i temi che abbiamo sentito prima. Una sul tema della ragione: “la nostra intelligenza non è soltanto una macchina astratta e incarnata, il cuore è importante come la ragione o meglio la ragione non è niente senza il cuore”; e poi ancora: “separare il bambino dall’amore è per la specie umana un errore di metodo. La contraccezione che è fare l’amore senza fare il bambino, la fecondazione artificiale che è fare il bambino senza fare l’amore, l’aborto che è disfare il bambino, la pornografia che è disfare l’amore sono, a gradi diversi, incompatibili con la morale naturale”, non con la morale cristiana, con la morale naturale, le evidenze di cui parlavamo prima. E in ultimo: “da tempo la medicina lotta contro la malattia e la morte per la salute e per la vita, e se la natura condanna, il dovere del medico non è eseguire la sentenza ma cercare fino all’ultimo di commutare la pena”. La parola a Carlo Casini. Grazie.

CARLO CASINI:
Grazie. Ci sono varie circostanze che rendono per me particolarmente suggestiva la presentazione della traduzione italiana di Marie, Clara Lejeune e di Jean-Claude Le Mené sul grande scienziato e sul grande padre e uomo di fede. Due circostanze sono state già ricordate da chi mi ha introdotto, nel discorso di chi mi ha introdotto. I due fatti ricordati sono, lo avete sentito, la rinuncia in pratica a un quasi sicuro premio Nobel che gli sarebbe spettato come scopritore della trisomia 21 cioè del mongolismo, che però significava avere scoperto il funzionamento dei geni, tanto è vero che dopo questa prima scoperta si deve a lui anche la scoperta della trisomia 13, della monosemia 9, della malattia mi pare si chiami del gatto, una cosa del genere. Lejeune fu uno scienziato grande, poliedrico. Leggendo questi libri ho imparato cose che non conoscevo, per esempio che lui era anche molto esperto nelle radiazioni atomiche, tanto che fu nominato membro di un comitato presso l’ONU sugli effetti delle radiazioni atomiche e su incarico di Giovanni Paolo II partecipò poi a Mosca ad un seminario sugli effetti della bomba atomica. Non solo, ma ho visto recentemente alla televisione un servizio sulla sacra Sindone in cui qualcuno diceva che la datazione data dal radiocarbonio sarebbe contestata, oltre che da altre motivazioni, dal fatto che un certo quadro, che non mi ricordo nemmeno bene dove si trova, rappresenta l’uomo della passione Gesù nello stesso modo nel quale è rappresentato nella Sindone ed è un quadro certamente di molto anteriore alla Sindone stessa, così come datata dal radiocarbonio. Ebbene, ho scoperto leggendo questi libri che una delle curiosità scientifiche religiose di Jèrome Lejeune era appunto anche quello di capire bene come stava la questione della Sindone e di avere lui scoperto questo quadro, girando per l’Europa, che adesso vedo anche ufficialmente indicato come prova dell’antichità della Sindone. Quindi un uomo dalla curiosità scientifica vastissima, che però dal 1972 viene emarginato dalla comunità scientifica. Professore di Genetica Fondamentale soltanto a 38 anni alla Sorbona di Parigi, fa la sua prima grande scoperta, la trisomia 21, nel 1959. Nel 1972, in Francia, comincia la discussione sulla legge dell’aborto, che poi diventerà nel ’75 la legge Veil, ma comincia con una proposta di uno oscuro parlamentare che, peraltro, chiede la liberalizzazione soltanto per il caso di previsione di malformazione del figlio, in particolare portando l’esempio del malato di trisomia 21, cioè del mongoloide. Lejeune aveva iniziato i suoi studi, anche questo è bene ricordarlo, non per desiderio di gloria scientifica, ma perché deve curare un bimbo, un bimbo malato di mongolismo, la malattia di Dawn e vuole capire, vuole guarire. E’ proprio per il bisogno di aiutare la vita a svilupparsi e crescere anche in queste condizioni di disabilità che Lejeune abbandona la sua iniziale vocazione, quella di fare il medico di famiglia, il medico di campagna tra l’altro. Qui c’è l’episodio curioso, raccontato dalla figlia. Come molti grandi scienziati che stanno sempre a pensare, anche quando devono compiere azioni banali, Lejeune era distratto, tanto è vero che l’esame per essere poi iscritto nell’albo dei medici di famiglia non lo dà perché sbaglia la direzione della metropolitana, va dalla parte opposta, e quando poi cambia e va a dare l’esame, è troppo tardi e quindi l’esame è già stato fatto. Piccole distrazioni che Clara Lejeune racconta. Altro punto estremamente interessante a questo riguardo è nel libro questa volta di Le Mené, mi pare, nelle ultime pagine, dove ricorda i funerali nella cattedrale di Notre Dame a Parigi. Dice a un certo punto Le Mené: “Bruno, trisomico 21, con la sicurezza di un predicatore quaresimale, si impadronisce del microfono durante le esequie di Jèrome Lejeune a Notre Dame di Parigi, senza timore e improvvisa un panegirico che termina con queste parole: Grazie mio caro Professor Lejeune per quello che hai fatto per me, per mio padre e mia madre. Grazie a te sono fiero di me, la tua morte mi ha guarito. Nessun altro oltre Bruno avrebbe potuto dire parole simili. Più tardi venimmo a sapere che era il bambino, i cui esami dei cromosomi, 35 anni prima, avevano permesso a Lejeune di scoprire la trisomia 21”. Questo è un esempio simbolico di tutta la vita di Lejeune che studia, che mette la scienza al servizio dell’uomo, della salute, della vita e che lo porta, dopo aver percorso la strada del medico di campagna, del medico di famiglia, sulla strada dello scienziato. E non basta, per servire la vita, dal 1972 in poi, Lejeune diventa il grande simbolo della difesa della vita in Francia e, lasciatemi dire, in Europa, perché questo progetto di legge, il primo progetto di liberalizzazione, va a colpire la ragione stessa per cui lui è diventato uno scienziato. E’ di quegli anni la scoperta dell’ecografia e lui fu amico dell’inventore dell’ecografo. Entrambi volevano in qualche modo salvare la vita, non distruggerla e vedevano che le loro scoperte invece si rivolgevano contro la vita. Non fu solo scienziato ma anche divulgatore. Racconta lui alle figlie, racconta a tutti, come è vero e come tutti sanno, di avere girato il mondo e di aver parlato davanti al parlamento inglese, davanti al parlamento americano, di essere stato a parlare con la regina d’Inghilterra, in Cina, in tutti i paesi del mondo. I suoi figli, sua figlia Claire con tenerezza ricorda queste lunghe assenze del padre, queste lunghe attese di questo padre che tornava e che però tornava sempre con una sorta di regalo che implicava i costumi del popolo del viaggio, sempre per parlare della vita. Una propensione a difendere la vita che dalla scienza, dal servizio concreto si estende anche alla politica. Ecco allora Lejeune alla televisione francese contro coloro che volevano introdurre la legge sull’aborto in Francia. La sua figura è veramente simbolica, la sua emarginazione è simbolo di quella beatitudine del Vangelo di S. Matteo, dove si dice: ”Beati voi quando siete perseguitati a causa della giustizia”. In effetti dal ’72 in poi, come è stato ricordato, Lejeune soffre persecuzioni vere e proprie.
L’altro episodio che prima è stato ricordato, quello del papa che visita la tomba di Lejeune, mi commosse nel ’97 in modo particolare. Era a Parigi Giovanni Paolo II, per la Giornata Mondiale della Gioventù e chi di voi ha partecipato, forse c’era qualcuno, o chi ha letto i giornali dell’epoca sa che già prima che cominciasse la Giornata Mondiale della Gioventù i giornali francesi dicevano che questa manifestazione avrebbe avuto in Francia uno scarso successo e che comunque il papa avrebbe fatto malissimo ad andare a visitare la tomba di Lejeune, come già aveva annunciato. Invece, come tutti sanno, fu anche quello un grande successo, una manifestazione importante e il papa, seppure in forma privata, quindi in qualche modo in solitudine, con i parenti, la moglie, i figli, i Lejeune, pregò sulla tomba del grande scienziato. E questo silenzio, anche dopo la morte, intorno a questo grande scienziato mi ha fatto pensare, amici miei del Meeting, che noi dobbiamo fare qualche cosa perché Lejeune sia mostrato a tutti come simbolo europeo della difesa della vita. Ed ho pensato più volte, ed ora qui con un certo coraggio lo manifesto come proposito già concreto, questo pensiero: se non gli hanno dato il premio Nobel i potenti del mondo, glielo daremo noi popolo della vita. Io spero che questo proposito possa realizzarsi quest’anno stesso, in cui si celebra il sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: 10 dicembre 1948, 10 dicembre 2008. In tutto il mondo e particolarmente in Europa, questi diritti dell’uomo saranno celebrati per rivoltare la logica della vita umana contro l’uomo stesso, cercando di inscrivere nella carta dei diritti fondamentali anche il diritto di aborto, per esempio, il diritto degli omosessuali al matrimonio e via dicendo. Ecco, io credo che se noi riusciremo a costruire un gesto che, come c’è presso le istituzioni europee il premio Sacharov per simboleggiare attraverso le persone e le loro attività la difesa dei diritti umani in generale, così sarebbe bello se i popoli della vita d’Europa trovassero il modo, e già ci stiamo pensando e sono certo lo realizzeremo, per istituire un premio periodico per la vita e il primo potrebbe essere assegnato alla memoria del grande professor Lejeune. Per questi due libri ringrazio in modo particolare la casa editrice Cantagalli, sempre attenta a questo tipo di avvenimenti e, lasciatemelo dire, anche le suore di Bagnoregio che hanno voluto tradurre loro, sono suore francesi, questi due testi. Ed è cosa importante informare che è in corso un processo di beatificazione del professor Lejeune, servo di Dio già dichiarato, e quindi noi speriamo che questo possa avvenire in modo che questo simbolo della vita possa essere indicato. Della vita il professor Lejeune aveva una considerazione profonda, esatta, matematica, dal punto di vista ideologico, ma sapeva anche avere la penetrazione del poeta e del mistico estatico quando, e lo ha detto più volte, anche qui a Rimini, quando è venuto al primo Meeting nel 1980, c’ero anch’io con lui. E mi ricordo, in un’altra circostanza, lunghe discussioni sulla spiaggia di Rimini con Lejeune, quindi è con commozione che vi parlo in questo momento. Ebbene, quante volte gli domandavamo di spiegare: “Ma l’uomo, ma quando comincia davvero?” Io ebbi la fortuna di farlo convocare dinanzi al Parlamento Europeo per un’audizione nel 1986 su questa cosa e lui diceva: “C’è continuità tra lo spirito e la materia. Nell’incontro tra il cromosoma maschile e il cromosoma femminile c’è tutta la storia dell’umanità, da Adamo ed Eva su, su, di generazione in generazione di nonni, bisnonni, trisnonni, quadrisnonni, qualche cosa ha lasciato traccia”. E tutto si concentra in questo big bang, il vero big bang, non quello fisico di 13.800.000.000 di anni fa, come dicono gli scienziati, ma quello che si ripete ogni volta che un uomo e una donna si amano, mettendo a raccolta e tutte insieme le forze vitali dell’amore che nella storia si sono sviluppate. Ebbene, in quel momento la frase di San Giovanni, “Et verbum caro factum est”, si ripete. Perché, in definitiva, che cosa sono i cromosomi se non informazioni? E l’informazione che cos’è se non pensiero? E’ il pensiero che si fa carne. Bene amici vi ho tenuto troppo tempo e in fondo vi ho illustrato poco i libri, ma voi li leggerete sicuramente e quindi spero che questa presentazione più del professor Lejeune che dei libri serva a farvi dare un contributo anche di pensiero e attenzione alle iniziative che nel nome di Lejeune e dei diritti dell’uomo abbiamo impostato quest’anno, Una è questo premio che porterà il nome di Madre Teresa di Calcutta, grande difensore della vita a livello universale, data alla memoria del professor Lejeune. L’altra è una petizione per la vita e la dignità dell’uomo con la quale i 27 popoli dell’Unione Europea spero possano far sentire che non tutto è detto dai potenti ma che anche i piccoli possono parlare e dire la loro quando si parla di vita. Grazie.

MODERATORE:
Ci ha raggiunto anche il professor Cittadini, che ringraziamo, per presentare il libro di Maurizio Maniscalco, Riro per gli amici di Pesaro: “Mi mancano solo le Hawai. Appunti di vita e di viaggio di un Italiano trapiantato in America”. E’ il racconto, l’autobiografia di un emigrato, di cui si narra non solo l’impatto con un mondo diverso e per altro desiderato, come si desiderava l’America negli anni della sua gioventù, ma anche l’ impatto amoroso con la realtà incontrata, fino ad una dedizione per i particolari e le persone. Io darei subito la parola a Giorgio Vittadini per l’introduzione.

GIORGIO VITTADINI:
Perché Riro è finito in America? Perché fin da quando era piccolo faceva l’americano, durante gli anni dell’università suonava le canzoni americane, meglio degli americani e quindi anche se lui non lo sapeva era destinato a finire là. Infatti quando in una occasione casuale in cui ci incontrammo a Milano, poiché era nata la possibilità di un lavoro con un prete che avevamo conosciuto a Brooklyn, Ronald Marino e stavamo cercando qualcuno che andasse a collaborare con questo prete, gli ho detto: ma perché non vai in America? E lui: A far che? Eh, a lavorare.
Siccome lui aveva tutto il senso religioso dell’attesa dell’America, di fronte a questa cosa, invece di dirmi no, devo tornare a Pesaro, mi ha detto: ci penso. E mi ha detto: quando devo dare la risposta? Domani mattina. Allora dice che è arrivato a casa, non so se la Donatella conferma, verso le tre di notte e infilandosi nel letto le ha detto: senti devo dirti una cosa, dovrei andare in America. Infatti la mattina alle 8 del giorno dopo mi ha dato la conferma. E quindi si è trovato in America per questa scelta meditata, progettata, pensata, programmata, decisa, come si fanno le scelte che cambiano la vita e che quindi sono cose che bisogna ponderare bene, dicono i saggi, i vecchi e così via. È andato su in America a fare l’aiutante di questo prete che doveva tirar su una compagnia di pulizie annessa al Centro degli immigrati (compagnia che c’è ancora ed è florida) e ha lavorato sei mesi col prete. Fin qui è mia responsabilità, cioè la colpa che lui è in America è mia. Però quando è tornato indietro, invece di venirgli il mal d’Africa, siccome era nato da piccolo con le canzoni dei Beatles e tutto il resto e così via, dopo un po’ di mesi ha detto: mi piacerebbe tornare in America, questa volta con tutta la famiglia. E allora, dopo un po’ di tempo, ha ritrovato il lavoro ed è finito in America, portandosi dietro la Donatella e i figli che erano piccoli. Qui comincia l’avventura di questa storia che è poi l’avventura della crescita, apparentemente casuale, del Movimento in America, Perché tutti gli stati meno le Hawai? Perché, anche se una volta nella diaconia degli Stati Uniti è venuto anche un prete dalle Hawai, in tutti gli altri lui, che ha lavorato per la promozione dei libri di Giussani, c’è stato. C’è stato non per un progetto ma seguendo una storia, che è la storia di quello che capitò dopo la prima presentazione del libro del Senso Religioso di Giussani all’ONU. Venne presentato questo libro, fu una cosa veramente interessante, perché fu presentato da Habukawa, un monaco buddista e da un ebreo, mi sembra Horowitz, che era il capo di Jonathan che voi conoscete e, naturalmente essendo andato bene, noi pensammo che bisognava sviluppare la ditta, cioè fare un progetto per la presenza lì. Allora noi facemmo un progetto, Giussani venne a saperlo e si arrabbiò dicendo: noi non abbiamo progetti di missione, noi obbediamo al Mistero. Noi rimanemmo un po’ interdetti; dico, una volta tanto che funziona, infiliamoci, no? Però evidentemente si obbedì e quello che successe dopo fu l’avventura di cui questo libro è il riflesso. Fu l’avventura per cui a Evansville, città nell’Indiana non particolarmente significativa, dove il primo punto che si incontra è un bar con scritto “pizza, birra e armi”, nel senso che questo è il prodotto che si vende, in questa piana Mike Kepler, che adesso segue il movimento lì, andò a cercare un libro di don Giussani perché alla giornata mondiale dei giovani a Denver, il Cardinal Martini che aveva incontrato, gli aveva parlato di questo don Giussani. E allora lui andò nella libreria Barnes & Noble per cercare un libro su Martin Luthero mi sembra e entrando vide il libro del senso religioso che aveva Paul Klee sulla copertina e prendendolo in mano vide il nome di Giussani di cui gli aveva parlato il Cardinale Martini e per questa ragione comperò il libro, lo lesse, rimase compito e si mise in contatto con quelli della sede di New York in cui c’era Riro. Così capitarono anche altri fatti, che dai posti più sperduti dell’America, il Montana, la Florida, il Nord Carolina, venne gente che aveva letto Giussani e si fece viva. E Giussani disse una cosa a Riro. Dillo tu… [a Riro]

MAURIZIO MANISCALCO:
Gli chiesi che cosa possiamo fare con tutti questi che… cioè come ci si comporta con questa gente qua che si incontra e che si incuriosisce e lui disse: è molto semplice, devono essere voluti bene completamente e incondizionatamente.

GIORGIO VITTADINI:
E questo vuol dire: non programmiamo niente, ma se qualcuno si fa vivo si va’. E chi andava di solito era lui. Andò in Oklahoma e incontrò questo gruppetto, dopo di che, finito l’incontro andarono a fare il divertimento tipico loro che era sparare al tiro a segno. Quindi, come dire, conobbe tutte le abitudini di questo mondo americano strano, perché un conto è New York, la California, ma gli stati di cui parla, di quelli del Midwest, sono abbastanza strani.
In molti casi questi rapporti divennero stabili, perché abbracciare non vuol dire andar lì, consegnare il bigliettino e andar via, ma vuol dire legarsi, vuol dire continuare, entrare in rapporto con questo mondo strano, sperduto, in cui il rapporto dal punto di vista della prossimità umana è molto labile, perché evidentemente una persona del Midwest americano e noi siamo lontani mille miglia come abitudini [e così via]. Il protagonista non detto di questo libro è questa strana cosa che non si vede ma c’è, potremmo dire questi tratti inconfondibili che ci chiamano e che legano le persone. E infatti il libro è il racconto di uno che questi tratti inconfondibili attraverso episodi apparentemente casuali ha seguito, fino al punto di girare l’America in questo modo, fino al punto che la sua famiglia si è trasferita diventando ormai americana.
Quindi direi che è un libro interessante per chiunque voglia scoprire queste storie… poco note, come dovevano essere poco note 2000 anni fa tante storie dei cristiani, ma che da un certo punto di vista, come la storia del carisma che abbiamo incontrato, sicuramente segneranno il mondo d’oggi e anche dopo.

MAURIZIO MANISCALCO:
Grazie Vittadini.
Posso solo aggiungere: andate a comprare il libro, no? il resto l’ha detto, no? ..cosa devo dire? E’ vero, cioè.. evidentemente l’ha letto! Ma, stavo pensando, dopo una presentazione di un libro di profondità filosofica, dopo la presentazione di un libro sul senso e il valore della vita, mi veniva in mente quella vignetta di Schulz di Charlie Brown, non so se avete presente, sono sdraiati sulla collina, ognuno vede delle grandi cose e Charlie Brown sta zitto. “Ma tu Charlie Brown cosa vedi?” “Io vedevo un’ochetta”. Il mio libro, da questo punto di vista, se non fosse per quello che diceva Vitta, cioè di questa grande cosa non detta che tesse la trama di questo viaggio, di questa avventura degli ultimi 14 anni della nostra vita, sarebbe un libro di semplice curiosità folklorica, che potrebbe avere il suo valore perché, come dico a un certo punto, se siete curiosi d’America, leggerlo sicuramente vi soddisferà. Se non siete curiosi d’America o siete cresciuti con il vostro preconcetto nei confronti degli americani in particolare se non dell’America, come sono cresciuto io da bravo post-sessantottino, magari invece un po’ curiosi d’America lo diventate, perché questa grande cosa mai detta – mai detta perché non c’è bisogno di dirla – ma che costituisce la trama di tutto, gli americani l’ hanno abbracciata e continuano ad abbracciarla con una semplicità che è loro caratteristica ancora. Anzitutto posso dire che ho pensato circa dieci minuti a questa presentazione, poi ho pensato che non avendo mai scritto un libro e non avendo mai presentato un libro, era inutile che ci pensassi perché non avrei saputo cosa pensare, quindi non ci ho pensato e poi ho detto: faccio come quando prendo la chitarra “I can jam” no? posso improvvisare suonando, dirò quattro frescacce anche a voce. Il libro è scritto così, in maniera simile, come un flusso di memoria o – visto che stiamo per diventare nonni – come un racconto che un nonno può fare al nipote delle cose stupefacenti che gli sono state date da vivere, pieno di affetto e pieno di gratitudine. Per questo probabilmente almeno a tratti penso sia estremamente piacevole da leggere, fino a far ridere. Guardavo la mostra di Guareschi ieri, ovviamente molto più capace di intendere e di volere di me, però è vero insomma, mi rendo conto che dove il libro fa ridere … ci sono dei punti dove fa ridere, perché di fronte a tutto ciò che è diverso o sei spaventato, o ti si spalanca il sorriso, perché dici: ma guarda come è grande il mondo, come sono infinite le modalità in cui il Padre Eterno lo colora, e quindi o ti spaventi o ti stupisci lietamente. E questo è un libro di stupore lieto, di curiosità, ed un atto di affetto anche nei confronti di quello che abbiamo incontrato finendo a vivere in America. Mi è capitato di far canzoni, adesso mi è capitato di fare libri, la prossima volta presenterò una mostra di dipinti, che non so assolutamente come si faccia ma .. siccome le vie del Signore sono infinite, potete aspettarvi anche questo. Grazie.

MODERATORE:
Grazie, arrivederci, grazie a Riro. A domani

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

25 Agosto 2008

Ora

15:00

Edizione

2008

Luogo

Sala A2
Categoria
Incontri