IL VOLTO NELL’ARTE

Giuseppe Frangi, Presidente Associazione Giovanni Testori; S. Ecc. Mons. Michele Pennisi, Arcivescovo di Monreale. Introduce Luca Doninelli, Scrittore.

Il volto nell'arte

Giuseppe Frangi, Presidente Associazione Giovanni Testori; S. Ecc. Mons. Michele Pennisi, Arcivescovo di Monreale. Introduce Luca Doninelli, Scrittore.

 

LUCA DONINELLI:

Buonasera, grazie di essere qui, l’incontro che ho l’onore di presentare ha strettissimamente a che fare con il titolo di questo Meeting perché tratta del volto nell’arte attraverso due grandi filoni che sono rappresentati da due mostre: “Si aprì una porta nel cielo”, dedicata a quell’opera straordinaria, unica al mondo, che è il Duomo di Monreale, il Cristo Pantocratore, la mostra “Now Now”, organizzata e promossa da Casa Testori di cui qui, alla mia sinistra, c’è il fondatore, Giuseppe Frangi. Voglio dire proprio due brevi parole per rompere il ghiaccio, diciamo così, nella storia dell’arte occidentale, dell’arte che giunge a noi, quella a cui noi diamo questo nome. C’è un elemento che la caratterizza nella ricerca degli artisti, siano essi credenti o no, antichi o moderni, ed è la ricerca di una luce non propria. Un’artista ha una personalità, vive determinate vicende storiche, ma ciò che cerca continuamente non è di imporre nell’opera la propria luce, questo è deludente, com’è deludente tutto ciò che parla soltanto di noi: è una luce altra, qualcosa da cui lo stesso artista è sorpreso. Perché un’opera d’arte ci sorprende? Sorprende perché per primo l’artista stesso ha ricevuto questa sorpresa: lo possiamo vedere in tanti modi, perché questa luce può essere felice – pensiamo ai quadri di Matisse -, oppure tragica, pensiamo all’Innocenzo X di Velasquez. Ma che questo fatto di misurarsi con qualcosa che non sono io o che in qualche modo mi supera, mi oltrepassa, sia il tormento dell’arte, è vero da sempre. Pietro Citati è un grande storico e critico della letteratura. Una volta mi ha detto: «Doninelli, non credi che il rosso che è stato usato dai pittori, non so, da Rubens, per fare gli abiti, sia un rosso che ha le sue origini nel sangue di Cristo?». Io credo che tutta l’arte della nostra civiltà, che ne siamo o meno consapevoli, abbia la sua origine in un fatto straordinario con il quale gli artisti fin dall’inizio sono stati chiamati a misurarsi, lo sguardo di Dio, lo sguardo di qualcosa che è avvenuto, che è totalmente altro da noi ma che è avvenuto nello stesso tempo nel modo più umano possibile: una donna che partorisce un bambino, dei pastori stupefatti, una storia totalmente divina e totalmente umana. Con questa storia, dentro questa storia si è formata l’arte che ha caratterizzato e che caratterizza comunque, lo vogliamo o no, la nostra civiltà, che forma la sua grandezza, la sua sorpresa. Ho l’onore di avere qui con noi due testimoni straordinari di questo e di quel volto, su cui si fonda l’ambizione e nello stesso tempo la povertà, la miseria del fare arte, perché è come un inchinarsi a qualcosa che avviene. Quindi lascio ai miei ospiti, Sua eccellenza monsignor Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale, e Giuseppe Frangi, critico d’arte per diverse testate, non sto a enumerare tutte, e giornalista del mensile Vita. Lascio la parola a monsignor Pennisi, scusate anche l’impaccio ma si tratta di cose veramente grandi.

 

MICHELE PENNISI:

Grazie, buonasera, il tema di quest’anno del Meeting, tratto da una poesia di Karol Wojtyla, è “Nacque il tuo nome da ciò che fissavi” e fa riferimento alla Veronica, la donna che secondo la tradizione, spinta dall’intenso desiderio del cuore di vedere Gesù nel suo viaggio verso il calvario, gli deterse il volto sporco di sangue con un panno di lino. Da dove viene il volto? La domanda a cui vuole rispondere l’evento di Rimini è da dove viene il volto di ciascuno di noi, che cosa dà significato al nostro nome proprio, perché senza volto e senza nome non si può guardare niente, non si può godere di niente. Il proprio nome nasce da quello che si fissa, da ciò che si fissa: ecco la grande mostra sul tesoro di Monreale. “Si aprì una porta nel cielo” vuole essere appunto una risposta alla domanda del Meeting. Emilia Guarnieri l’ha spiegato attraverso il volto e lo sguardo del Pantocratore: lo stupendo mosaico del Cristo Pantocratore, appena entri in cattedrale, ti fissa, e inevitabilmente tu lo fissi. Quel Cristo è l’immagine di qualcuno che, fissandoci, ci dà il nome, così che noi possiamo trovare il nostro nome fissandolo.

Davanti al Pantocratore, si rivela la parte più profonda, più intima dell’animo umano che non si pensa più da solo ma in rapporto ad un tutto. Il mio predecessore, mons. Cataldo Naro, prematuramente scomparso, ha scritto: “Se c’è un monumento creato dalla fede dei cristiani, un edificio di culto ecclesiale in cui maggiormente si avverte che la ricerca del volto di Cristo è essenzialmente un lasciarsi guardare da Cristo, questo edificio è indubbiamente il Duomo di Monreale. Il volto del Cristo Pantocratore che domina l’abside e investe tutto lo spazio del Duomo ha gli stessi tratti e lo stesso sguardo di tutte le altre raffigurazioni dello stesso signore Gesù lungo le pareti; lo sguardo di Cristo accompagna il fedele anche negli angoli più riposti della grande basilica. I volti dei tanti personaggi delle scene bibliche dell’Antico e del Nuovo Testamento e dei tanti santi che guardano dalle pareti sono come una trasparenza, un riverbero, un prolungamento dello sguardo di Cristo. Egli contempla il volto di Cristo ma ha la sensazione di essere prima ancora guardato dal Cristo e dai suoi santi: essere guardati, accolti, amati, e avverte l’invito a guardare con gli stessi occhi del Cristo, del Padre, della madre di Dio, di Noè, di Abramo, degli altri patriarchi, degli apostoli e dei santi tutti, la realtà. Questo avviene in una compagnia di fede, in un lasciarsi guardare da altri volti che ci dicono il volto di Cristo, che ci parlano di lui e a lui conducono. Se ci si lascia guardare dal Cristo e si giunge a vederlo, a riconoscerlo nella fede, allora ci si sente coinvolti dal suo sguardo sino a diventare uomini e donne che guardano come Gesù e con il loro volto rilevano, mostrano qualcosa del corpo di Cristo. Dietro il progetto del duomo di Monreale, definito “toto orbe terrarum pulcherrimum et celeberrimum”, che è una specie di gigantesca iconostasi a tre dimensioni, c’è un uomo o una compagnia di uomini, fortemente motivati nel realizzare un’opera di fede e di arte.

La basilica d’oro del duomo di Monreale è stata voluta dal re normanno Guglielmo II, detto il buono, progettata da un’unica mente direttiva a noi ignota che guidava le squadre dei carpentieri, dei muratori, dei disegnatori, dei mosaicisti, dei liturgisti, dei teologi.

Un ruolo significativo hanno avuto i cento monaci benedettini venuti da Cava dei Tirreni. Vediamo nelle immagini re Guglielmo: si trova nella zona presbiterale, raffigurato da una parte in trono, con Cristo in trono che incorona re Guglielmo II vestito da diacono; e poi Guglielmo II che offre il modello della cattedrale alla Vergine. Il re è rivestito come i diaconi e come gli arcangeli, con la dalmatica, segno del servizio, che era anche la veste degli imperatori bizantini.

Noi non sappiamo se il volto di Guglielmo corrispondeva a quello raffigurato nei mosaici, anche se le cronache lo definiscono bello.

Certamente, la sua bellezza era illuminata da Colui che fissava, da cui egli derivò una coscienza nuova di sé e un compito che il disegno divino gli aveva assegnato. E così si può cogliere nel suo volto lo stupore e la devozione di chi scopre, riconosce il Signore di tutto, che ha fatto di lui un sovrano credente, pacificatore e amato.

Tutto l’apparato musivo del duomo di Monreale introduce alla storia della salvezza che, partendo dalla creazione, culmina nella liturgia celeste. Nei mosaici monrealesi, i tratti del volto del Cristo delle scene neotestamentarie sono identici a quelli del Verbo creatore che opera nelle scene dell’Antico testamento. Il Verbo creatore, per mezzo del quale tutte le cose sono state create, si differenzia dal Verbo incarnato e redentore perché ha l’aureola senza croce. Vediamo adesso alcuni volti nei mosaici di Monreale. Qui vediamo il volto luminoso e il volto tenebroso, dalla terribile faccia tenebrosa dell’abisso, dal mondo del caotico, dell’informe, del disordine, emerge attraverso lo spirito, simboleggiato dalla colomba, l’ordine della creazione che si va sviluppando in cosmo. Il Verbo creatore ha il volto luminoso circoscritto da un’aureola dorata senza la croce.

Questa è la creazione della luce, la luce creata da Dio e identificata con i sette angeli dal volto giovane con l’aureola. Poi vediamo, nell’abside, l’angelo tetramorfo, allusivo ai quattro evangelisti, i serafini e poi san Michele Arcangelo, con la dalmatica e la clamide da guerriero. Ci sono i volti del male, i demoni sono con il corpo e il volto nero, c’è il demonio al centro, il demonio che scappa dalla figlia della cananea. Il demonio della prima, della seconda tentazione di Gesù, e poi la caduta di Simon Mago e dei demoni che lo sostenevano per la preghiera di san Pietro, secondo uno scritto apocrifo. Quindi, il duomo di Monreale, oltre che la Scrittura, coglie anche la tradizione. L’essere umano proviene dall’intimo di Dio, dall’immagine increata che Dio da sempre ospita dentro di sé, il suo stesso logos. L’uomo è immagine di Dio in quanto è stato modellato a partire dall’immagine propria di Dio che gli è più intima, di cui l’essere umano è quasi una riproduzione. Nel quadrone della creazione di Adamo, spicca un raggio di luce, simbolo del Verbo eterno, che dal volto del Verbo creatore raggiunge il volto di Adamo nel momento della sua creazione. La figura di Adamo, la cui carnagione scura rievoca l’appartenenza alla terra, si illumina con l’immagine del Creatore da cui deriva la sua dignità. Il Creatore, che ha l’aureola, incrocia lo sguardo di Adamo e il suo volto si riproduce tale e quale in quello dell’essere umano appena creato, disteso nudo di fronte a Lui. Mentre però, a differenza degli altri quadri, i piedi di Dio appaiono scalzi, protesi verso Adamo, Dio, creando Adamo e facendo risplendere su di lui il proprio volto, si scioglie i sandali, vale a dire sancisce un’incrollabile alleanza. Nel messaggio biblico, il suo essere a immagine di Dio significa al contempo avere come principio Dio e come consegna il mondo da custodire, con gli animali e le piante cui assegnare il nome: difatti, si vedono gli animali a cui Adamo dà il nome. Qui vediamo il volto gioioso di Adamo di fronte ad Eva: il Creatore conduce teneramente Eva prendendola per il polso, dove pulsa la vita, tra le braccia aperte di Adamo che, con il volto gioioso, alza la mano alla vista di colei che riconosce ossa delle sue ossa e carne della sua carne. Nel racconto della Genesi, si dice che Dio creò l’uomo secondo la sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò. L’alterità non è allora una dimensione estrinseca dell’essere umano ma una dimensione a lui interna, a tal punto da essere per lui costitutiva. Questa alterità rimanda ancora al totalmente altro. Ecco gli sguardi di chi ha perso il paradiso: Adamo ed Eva, con il volto piegato e triste, si girano a destra verso la porta chiusa, custodita da un cherubino di colore rosso, simbolo della spada fiammeggiante, e guardano con nostalgia il paradiso perduto. Eva, madre dei viventi, che partorirà con dolore, con il volto piegato a sinistra verso Adamo tiene un gomitolo di lana, simbolo della vita, che poi vedremo nell’Annunciazione. Adamo, col volto triste e chino verso la terra che lavora con il sudore della fronte. Qui il sangue zampilla dalla testa di Abele che, con la mano alzata, invoca pietà mentre Caino lo colpisce col bastone. Cam, figlio di Noè, addita il padre e i fratelli che comprano la nudità di Noè con la faccia rivolta indietro, mentre Cam deride il padre ubriaco. Cam imberbe, per indicarne l’immaturità e l’ambiguità, si vede di profilo, come si vedrà Giuda durante il bacio del tradimento per indicare l’assenza del timore di Dio e la malvagità che rende insensibili al rispetto dell’altro. Il volto nostalgico di Lot, la moglie di Lot che si attarda e guarda indietro con nostalgia verso Sodoma, ed è trasformata in statua di sale. Ecco la lotta di Giacobbe con l’angelo: Giacobbe lotta con l’angelo, ne esce vittorioso, fissa l’angelo, lo trattiene e riceve il nome nuovo di Israele. Fissando l’angelo viene trasformato il nome, cioè la persona, da Giacobbe in Israele. Il volto di Cristo Redentore, con l’aureola in cui è inscritta la croce di colore purpureo, domina ogni episodio del Vangelo con rassicurante dolcezza, che abbraccia coinvolgendo i protagonisti del dramma rappresentato. Il susseguirsi delle scene del Nuovo Testamento ha un ritmo umano avvolgente. Le scene dei mosaici sono vibranti di umanità, lontane dalla rigida ieraticità bizantina. In esse si intuisce un’esperienza artistica siciliana più ricca, il cui sostrato teologico didattico si deve ai monaci benedettini. I volti supplici, la donna emorroissa che tocca il mantello di Gesù che la guarisce, il cieco con le mani supplicanti, i dieci lebbrosi in atto supplichevole, la donna curva, i ciechi e gli storpi. Qui c’è il cieco che indica: «É qua Gesù», e si intravede la mano di Gesù. Ecco, qui abbiamo i volti sofferenti: la figlia della cananea che, liberata dal demonio, ci conduce nel letto. Nel duomo di Monreale, il primo e l’ultimo miracolo di Gesù riguardano i pagani, la figlia della cananea e il figlio del centurione, per dire come Cristo è venuto per tutti. Non c’è distinzione tra giudei e greci, tra pagani e credenti. Poi c’è la suocera di Pietro, l’indemoniato con le catene ai piedi, il figlio del centurione pagano che viene guarito a distanza e l’idropico guarito. Oltre i miracoli fisici, ci sono i miracoli spirituali, morali. Nel primo, vediamo la donna, in casa di Simone, che lava i piedi a Gesù e viene perdonata perché ha molto amato; poi l’adultera che, dopo il perdono di Gesù dal volto misericordioso, si tocca il polso come segno della ripresa della sua vita. Ricordiamo che il Verbo creatore toccava il polso di Eva. E poi, il paralitico al centro, calato dall’alto dagli amici, a cui sono rimessi i peccati, con le braccia rivolte a Gesù. Ecco i volti di chi ha fede: Noè che ubbidisce al comando di Dio di costruire l’arca. Abramo dall’altra parte che accetta il comando di sacrificare il figlio Isacco. Invece, nell’arco d’ingresso della solea del santuario, appare nel momento dell’annunciazione il volto di Maria, rivolto a Gabriele in segno di assenso. Maria, nuova Eva, tiene in mano il fuso di lana rosso per tessere il velo del tempio, simbolo dell’umanità di Gesù che Maria tesse. Quindi, Maria la nuova Eva, la madre dei viventi. Poi abbiamo i volti pieni di gloria: nel duomo di Monreale sono raffigurati una schiera di santi, uomini e donne, orientali e latini, più numerosi di qualsiasi altra decorazione musiva in Sicilia: oltre 250 santi, per non parlare degli angeli. Nel primo registro dell’abside, vi sono raffigurati Maria Santissima al centro, tutta pura, icona paradigmatica della santità, con la veste azzurra, simbolo della sua umanità, rivestita di un manto purpureo che tiene sulle ginocchia, mostrandolo all’assemblea liturgica. Tiene nelle mani un purificatoio per dire che partecipa all’assemblea liturgica. Accanto a lei, gli arcangeli Michele e Gabriele, in piedi, vestiti con la dalmatica dei diaconi come ministri di Cristo nel mondo, che tengono una sfera con la croce, secondo alcuni simbolo del pane eucaristico. Al lato, gli apostoli, Pietro che regge le chiavi e la croce. La croce è la chiave, il grimaldello che apre il paradiso, indicando Cristo e poi Paolo che tiene in mano il libro dei Vangeli. Ai due lati, gli evangelisti Giovanni e Matteo: Matteo si trova proprio nell’oriente geografico, una stella che indica proprio l’oriente geografico perché nel vangelo di Matteo si parla di una “stella surgens ab Oriente”. Poi c’è un santo contemporaneo che troviamo al centro: san Tommaso Beckett, arcivescovo di Canterbury, che è stato ucciso dal suocero di Guglielmo II, che papa Alessandro III annoverò nel numero dei santi martiri nello stesso periodo in cui veniva edificato il duomo di Monreale. A sinistra, sant’Agata, martire patrona della diocesi di Catania, cui sotto re Guglielmo venne attribuita la metropolia di Monreale. Poi, sant’Antonio del deserto, eremita. Le figure dei santi riplasmati in Cristo nella loro umanità redenta sono in piedi, frontalmente orientati verso l’assemblea liturgica. E poi – questo chi viene a Monreale non lo vede mai – il vero volto di Cristo, la vera icona, che si trova in un arco interno di fronte al Pantocratore. La grande figura del Pantocratore nell’arco che sta di fronte al catino absidale si specchia nel piccolo sudario che riproduce il volto sofferente di Cristo, archetipo non fatto da mani d’uomo. L’icona del Pantocratore è ricondotta alla reliquia della vera icona, come a dire che la sua gigantesca figura non è un idolo ma la riproposizione della vera immagine umana di Dio, divinamente rimasta impressa nel mandylion della Veronica. Poi arriviamo al volto massimo: il Pantocratore che abbraccia e contiene tutto l’universo, con il suo sguardo penetrante e un soave sorriso, interroga ogni persona sul senso del proprio volto e del proprio nome. È rappresentato da un maestoso mezzobusto inserito nel mistero della Trinità. Il Verbo eterno come creatore nel seno dell’eternità, come Verbo incarnato redentore nel tempo, è il giudice alla fine dei tempi, e Dio è uomo, come attestano i colori dei suoi indumenti, il rosso della tunica e il blu del mantello che lo riveste. È il re. La croce inscritta nel suo limbo è gemmata. È sacerdote per la stola che gli scivola sulla spalla destra, è profeta in quanto tiene il Vangelo in mano con la scritta in greco e in latino: “Io sono la luce del mondo”. E il tema della luce che si rivela attraverso l’oro è un tema fondamentale nel duomo di Monreale. Fra l’altro, il duomo è stato costruito anche tenendo presente il sole, per cui il 25 agosto, che è il giorno in cui è stata dedicata la chiesa alla Madonna assunta, il sole appare dalla finestra centrale. Poi, le due ciocche di capelli che movimentano la fronte traducono l’antica iconologia conciliare secondo cui in Cristo la natura umana, senza confusione, è unita alla natura divina. Le dita sono disposte a illustrare il monogramma di Gesù Cristo, per significare l’umanità e la divinità del Redentore. Ma vogliono anche imporre il silenzio per indicare lo stupore di fronte a questo volto. Le tre dita accostate vogliono significare l’unità e la Trinità di Dio. Ha gli occhi larghi e penetranti che guardano lontano per esprimere la misericordia. Il Pantocratore del duomo di Monreale ha reso possibile che tutti anche oggi potessero incontrare, riconoscere la presenza di Cristo, attraverso lo splendore del suo volto, come unico signore e salvatore dell’uomo e della storia, che non solo è guardato ma che soprattutto ci guarda con i suoi occhi misericordiosi. E per concludere, “Ecco, si aprì una porta nel cielo”. Questa è una foto di quando abbiamo aperto la Porta santa per il Giubileo della misericordia. L’apertura della Porta santa di Bonanno Pisano, chiamata “del paradiso”, in occasione del Giubileo della misericordia fa intravedere sullo sfondo il Pantocratore. Quando ho aperto la porta, ho avuto un tuffo al cuore, una grande commozione che provo ancora oggi ogni volta che celebro la divina liturgia in comunione con la Madonna, con gli angeli, con i santi che si rendono visibili in questa cattedrale d’oro, che si presenta come casa di Dio e porta del cielo, che riflette il cielo e anticipa il paradiso. Quello che recitiamo nel canone, uno lo vive, lo vede, lo sperimenta. Per questo si dice: “Si vede la messa, non si partecipa ma si vede”. Ecco la fede attraverso la visione. Ecco la mostra “Si aprì una porta nel cielo. La cattedrale di Monreale” progettata dal professor Mirko Bagnoni dell’università di Friburgo ma anche da un comitato scientifico, soprattutto da don Nicola Gaglio che è stato un po’ l’anima di questo progetto, fa fare il percorso che facevano i monaci benedettini cluniacensi che per secoli hanno celebrato la divina liturgia nella cattedrale di Monreale. E vuole far comprendere che la cattedrale non è un museo ma una chiesa che ha avuto ed ha una vita, che trova nella liturgia il culmine e la fonte della vita cristiana. Per questo, nella mostra, oltre che le immagini del duomo di Monreale, ci sono alcuni oggetti sacri, alcuni calici, alcune reliquie che fanno vedere come la fede è viva, continua nel duomo di Monreale. Ai volti dei santi si aggiungono i volti dei fedeli che partecipano alla liturgia, come intuì Romano Guardini che, visitando la cattedrale di Monreale nel triduo pasquale del 1929, scrisse: “Tutti vivevano nello sguardo, tutti erano protesi a contemplare. Allora mi divenne chiaro qual è il fondamento di una vera pietà liturgica: la capacità di cogliere il santo nell’immagine e nel suo dinamismo. Mentre noi del Nord pensiamo che la fede si abbia attraverso l’ascolto, a Monreale ho scoperto che la fede si ha anche attraverso la visione”. Grazie.

 

LUCA DONINELLI:

Grazie, monsignor Pennisi, per questa che è prima di tutto una grande testimonianza e che vi porta la testimonianza degli uomini che hanno fatto quest’opera incredibile. Perché solo chi è guardato può guardare così, solo chi sperimenta adesso quello sguardo può permettersi nel tremore di fare una cosa del genere, come disse prima don Nicola, quando guidò quel gruppo di persone tra cui c’erano degli atei. Può ripeterlo?

 

 

MICHELE PENNISI:

Quest’ateo, alla fine, contemplando il Pantocratore ha detto: «Se c’è questa bellezza, Dio non può non esistere».

 

GIUSEPPE FRANGI:

Comincio da un piccolo ricordo autobiografico rispetto a Monreale. Immagino che dopo avere visto queste immagini, dopo avere visto la mostra che c’è qua al Meeting, ciascuno di noi metta in agenda una visitina, perché non si può non andare a Monreale una volta nella vita. Mi ricordo, quando ero bambinetto, i miei genitori facevano una raccolta. Una volta c’erano I maestri del colore, un’altra stagione della cultura italiana, di crescita civile dei cittadini anche attraverso strumenti molto semplici. Una di queste collane che uscivano in edicola a prezzi popolari si chiamava L’arte racconta. Io ero bambinetto e mi ricordo che tra i cicli che venivano raccontati attraverso le immagini, c’erano appunto i mosaici di Monreale. Quel fascicoletto, tra l’altro stampato benissimo e quindi in anticipo in quei tempi rispetto alla qualità, è una cosa che mi è sempre rimasta negli occhi e nel cuore. Quell’oro che sfogliavo da bambino è qualcosa che mi è rimasto impresso, tant’è che tra tanti libri persi, questo è un libro che ancora custodisco in casa. Amore anche per Andy Warhol, c’entra anche quello ma non è il tema di questa sera. Il tema di questa sera è che io cercherò, attraverso delle immagini, di navigare dentro il titolo del Meeting, cioè di scavare dentro al titolo del Meeting partendo da un presupposto. Credo che non solo io ma anche voi tutti dobbiamo avere la coscienza di avere una straordinaria fortuna, di vivere circondati da un fiume immenso di immagini. Pensiamo a che cosa sarebbe successo se avessero vinto gli iconoclastici a Nicea! Per fortuna non hanno vinto e quindi tutto questo fiume di immagini ci accompagna, e poi, in particolare, il nostro Paese arricchisce perché il paesaggio visivo del nostro Paese è qualcosa di straordinario. É una grande fortuna potere confrontarci, fissare lo sguardo su queste immagini che ci richiamano una bellezza, come è stato detto, che ha una radice profonda e che attecchisce in quel fatto della storia umana accaduto 2000 anni fa, perché senza quel Dio che proietta quel raggio di luce, la sua immagine su Adamo, tutta la storia dell’arte non avrebbe potuto esistere. Il cristianesimo è un’esperienza reale e affascinante che si comunica attraverso i sensi, come ha detto giustamente monsignore: l’ascoltare, il toccare, lui insiste particolarmente sul guardare, perché è il tema del titolo e poi perché penso che la centralità del guardare sia una centralità oggettiva. Quando ho avuto quella fortunata esperienza di poter lavorare al mensile 30 Giorni con don Giacomo Tantardini, ricordo che nel ’92 facemmo un numero con l’articolo scritto da un grande esegeta gesuita, padre Ignace de la Potterie, in cui erano state contate le occorrenze dei verbi che indicano scorgere, accorgersi, vedere e guardare nel vangelo di Giovanni. Padre de la Potterie aveva segnato come queste occorrenze, in particolare nel ventesimo capitolo, fossero più numerose che non il verbo amare. Questo per dire quanto è centrale l’esperienza del guardare nella dinamica della fede, come questo guardare sia qualcosa di strettamente pertinente alla produzione delle immagini e al lavoro degli artisti. Dicevo di sentirmi fortunato perché poi le immagini sono un aiuto o un richiamo, un dono che il Dio fattosi uomo in un momento preciso della storia ci ha fatto. Pensiamo addirittura che c’è la tradizione che san Luca fosse pittore, tant’è che ci sono dei quadri dove si vede san Luca che fa il ritratto della Madonna. Oggi a Roma c’è l’accademia di San Luca a cui fanno riferimento tutti i pittori, san Luca è il protettore degli artisti. Quindi, è un Dio che si fa guardare e chiede di essere guardato. Il titolo del Meeting, ovviamente, come è stato detto dal monsignore, fa riferimento all’esperienza della Veronica, un’esperienza che noi ricordiamo nella sesta stazione della Via crucis: asciugò il volto di Gesù sulla via del calvario. Qui vi propongo un’immagine che, tra le tantissime immagini che esistono sulla Veronica, ho scelto per una ragione molto particolare. É una Veronica di El Greco, dipinta nel 1580, conservata a Toledo. Ho scelto El Greco perché, come dice il nome, è un artista ponte, che nasce a Creta, arriva a Venezia, è quindi portatore di una tradizione orientale che vive nel cuore del secolo d’oro spagnolo, incrocia Oriente e ispanità. È per questo che, tra le tante immagini della Veronica, vi ho proposto questa per cominciare il nostro viaggio. Veronica, che cos’è? La vera icona viene dal fatto che aveva fissato il volto di Gesù, in una doppia accezione: lo aveva guardato sino a riconoscere in quel volto la radice del proprio essere, ma ne aveva anche fissata l’impronta sul velo, rendendolo presente nella forma di un’immagine e quindi permettendo anche a noi, come ricaduta, di rinnovare quell’esperienza, cioè di fissare il volto di Cristo. Fissare: vediamo il dettaglio del volto di Cristo sul lino della Veronica di El Greco. A dispetto di quanto la parola potrebbe suggerire, in parte ingannandoci, fissare è un’esperienza dinamica. Per essere vera, per essere credibile, non può mai essere uguale a se stessa, altrimenti il rischio è che si trasformi in una fissazione. La radice è la stessa, purtroppo, cioè una proiezione mentale nostra. Quindi è un’esperienza, deve essere vissuta come esperienza dinamica. Non può essere fissata dal nostro punto di vista, perché noi siamo portatori ciascuno di una diversità di sguardo: il mio sguardo è diverso dallo sguardo di Luca, è diverso dallo sguardo di monsignore, è diverso dallo sguardo di ciascuno di voi. Già questo, è un fissare che porta dentro di sé una diversità, tanto più se guardiamo indietro nel tempo a tutti gli uomini che ci hanno preceduti. Ciascuno porta dentro una sua sensibilità il rapporto con la propria cultura e la propria epoca. Ma oggi vorrei approfondire con voi il verbo fissare da un altro punto di vista, quello dell’immagine e di chi la fa essere, cioè degli artisti che nei secoli hanno saputo generare e rigenerare di continuo quell’immagine prototipo della Veronica. L’immagine che la Veronica aveva fissato, quel giorno sul calvario, è stata rigenerata continuamente dagli artisti, quindi è fissata ma continuamente rigenerata, fissata, guardata ma continuamente rinnovata, dando vita appunto a quell’immenso fiume visivo che nei secoli ha accompagnato la vita delle donne e degli uomini consolandoci, commovendoci e sostenendoci. Se la ragione di un’immagine è quella di permettere a noi l’esperienza del guardare, non si dà una grande immagine che non nasca a sua volta dalla libertà e anche dalla audacia di immaginazione, e quindi di sguardo di un artista. Sottolineo che – so che può apparire provocatorio ma io ne sono fortemente convinto – ciò che distingue una grande opera da un’opera bella e onesta, ce ne sono tantissime, è proprio la capacità di fare dell’esperienza del guardare non una ripetizione ma un qualcosa di nuovo, di mai visto. Guardate che anche i mosaici di Monreale che abbiamo visto contengono qualcosa di inaudito nelle scelte iconografiche, nel coraggio iconografico e anche nel modo in cui si staccano da quella fissità bizantina, come giustamente diceva monsignore. Un qualcosa di nuovo, di mai visto, di non messo sul conto, di imprevisto, certe volte addirittura di inaudito. Faccio sempre riferimento, a proposito di inaudito, allo sguardo di Tommaso in quello straordinario capolavoro di Caravaggio custodito in Germania, L’incredulità di Tommaso. Quello sguardo dell’apostolo che perfora quasi più ancora del dito messo nel costato, che perfora la ferita nel costato di Cristo. Le grandi opere, quindi, presuppongono sguardi in atto, che non sono soltanto rappresentati; sguardi in atto che, essendo in atto, continuano ad essere degli avvenimenti anche per noi che puntiamo gli occhi su di loro; immagini nostre contemporanee, che sono come fatte per noi oggi. Mi piace addirittura pensare, e questo è un suggerimento che mi è venuto da un bellissimo discorso di papa Francesco in Messico, che le opere custodiscano gli sguardi che vi si depositano sopra. Diceva papa Francesco: «Come insegna la bella tradizione guadalupana della Morenita, la Morenita custodisce gli sguardi di coloro che la contemplano, riflette il volto di coloro che la incontrano». Questo per dire la profondità di contenuto che le immagini hanno nella nostra esperienza. Fatta questa premessa, parlerò solo attraverso immagini, quindi farò parlare soprattutto loro. Vorrei solo citare una cosa che mi sta a cuore e ho conosciuto poco tempo fa, durante un viaggio in Sicilia, lo stavo raccontando a monsignore. Abbiamo conosciuto a Patti un poeta, Francesco Saporito, che essendo malato di Sla scrive le poesie con gli occhi. Mi è sembrata la cosa più pertinente rispetto al tema che noi affrontiamo oggi. In una poesia che si intitola Caso e destino, in un verso lui scrive: “Guardare è un caso e vedere è un destino”. Ecco, è un verso bellissimo, ovviamente il caso apre le porte anche al destino, quindi guardare apre l’opportunità che poi si veda. Ecco il discorso che vorrei fare con voi oggi, l’approfondimento che voglio fare con voi attraverso le immagini che adesso scorreremo velocemente. È proprio un tentativo di vedere, oltre che di guardare alcuni straordinari dettagli: ragioneremo solo per dettagli, anche per ragioni di tempo, però di dettagli che ci sono stati consegnati all’interno di questo grande fiume che la storia ci ha consegnato e con cui circonda il nostro paesaggio umano. Parto da Giotto, non si potrebbe non partire da lui: è il primo sguardo in cui si inizia a percepire la modernità. Siamo nella cappella degli Scrovegni e questo è un dettaglio della Natività. Se vedete la struttura dell’opera, il riquadro è molto più grande però il cuore dell’opera è evidentemente questo, un triangolo di sguardi attorno, tra Maria che sta depositando il bambino nella culla, il bambino che la sta fissando e il terzo personaggio, un personaggio che Giotto prende dai vangeli apocrifi, la cosiddetta levatrice incredula che, non avendo creduto alla verginità di Maria, si trovò con le mani paralizzate. Poi, toccando il corpo del bambino, recupera il movimento delle mani. È un triangolo di sguardi. Il gesto di Maria che pone il bambino nella culla somiglia ad una consegna obbediente del figlio: è come se lo consegnasse ed è il suo sguardo a parlarci, molto più che lo sguardo di una mamma rispetto al figlio appena nato, uno sguardo acuto con una trafittura, lo sguardo intenso di un amore che non ha paragone, l’amore di chi ama senza voler possedere. Io credo che, se si dovesse spiegare che cos’è la verginità, si spiegherebbe con questo amore che non possiede, che quindi consegna il proprio figlio, questo atto di consegna di Maria del proprio figlio che avviene nel mantenimento di questo asse dello sguardo. Sempre Giotto, qui passiamo su un’altra scena della cappella degli Scrovegni. Questo è l’abbraccio tra Anna e Gioacchino sotto la porta d’oro, è il momento dell’immacolata concezione. Le mani di Anna stringono la testa del marito Gioacchino, ne accarezzano i capelli e la barba. È bellissimo perché è lei a prendere l’iniziativa: Anna prende l’iniziativa, è un segno di audacia, se vogliamo, dato il momento in cui quest’opera è stata dipinta. Ma in particolare, ci sono il suo occhio innamorato che si fissa su di lui, sul marito, e il braccio di Gioacchino che gira largo attorno alla spalla della moglie, quasi trattenuto dal pudore. I due volti non è che si sfiorano, si toccano, e poi c’è il bacio appoggiato sulle labbra, intenso, tenero ma anche molto fisico. Dalla purezza del loro rapporto si genera la ragazza immacolata, Maria. Non so voi, ma io trovo che questa sia un’immagine immensa, non solo per il fatto della storia che racconta ma perché è un’immagine immensa in cui ciascuno di noi umanamente si ritrova, per la densità umana che commuove e quella felicità che trasmette. È l’immagine di un amore che persiste, così deciso pur nell’età che avanza. Un piacersi che non conosce stanchezza, uno stimarsi che non disdegna l’attrazione fisica. Addentrarsi in un’immagine come questa è una cosa che personalmente non mi fa togliere gli occhi di lì, è un’avventura dello sguardo, è veramente un’avventura dello sguardo, l’incrocio tra i loro sguardi diventa un’avventura anche per noi. E poi c’è il sequel: questa è magari un’immagine un po’ a sorpresa, un dettaglio più espressivo. Per quanto possa sembrare strano, in realtà è un mosaico contemporaneo a Giotto, viene dalla chiesa di San Salvatore in Chora a Istanbul e rappresenta la famiglia della Madonna: Gioacchino, Anna e la piccola Maria. Anche qui, la cosa che mi aveva colpito, a parte la circolarità in cui Maria viene come custodita dentro la tenerezza e il modo con cui Gioacchino e Anna si prendono cura di lei, è ancora lo scambio continuo di sguardi fra loro, cioè, sono legati dalle braccia, dalle mani, ma poi è il guardarsi tra loro che costituisce non solo l’anima di questo mosaico ma anche la sua struttura formale. Gli sguardi non sono semplicemente un contenuto ma diventano anche la struttura attraverso cui questi grandi artisti costruiscono le loro opere. E qui facciamo un balzo, a proposito di audacia, Donatello, uno dei geni che io personalmente amo di più perché è tra i più liberi della storia, è uno che pagò sulla pelle la sua libertà e la sua audacia. Venne buttato fuori da Firenze, dalla Firenze di Luca Doninelli. Questa è un’opera meravigliosa che Donatello scolpì per la famiglia Pazzi a Firenze nel 1425. Abbiamo fatto un balzo di cento anni: è conservata al Bode-Museum di Berlino. Ve la faccio vedere così da lontano perché voi percepiate la scatola prospettica, quindi molto sapiente, in cui Donatello inserisce questo abbraccio della Madonna con il bambino. Una scatola prospettica in realtà abbastanza scorretta perché, da un punto di vista di ortodossia matematica, sembra suggerire tre punti di fuga diversi e privilegia un punto di vista dal basso. Ma non è questo che interessa evidentemente Donatello, perché il cuore dell’immagine è questo incredibile incastro tra il volto della madre e il volto del figlio, questo incrocio di sguardi che è di un’intensità che è raro trovare nel resto della storia dell’arte. Donatello vuole stringere lo sguardo dell’osservatore sul centro dell’immagine, cioè lo scambio di sguardi tra Maria e il bambino, ed è qui che la sua libertà esce allo scoperto immaginando l’intensità affettiva del rapporto tra la Madonna e i figlio così come nessuno sino ad allora aveva osato rappresentare. Ma io penso che neanche dopo di lui qualcuno sia arrivato ad un tale punto di intensità. Maria appoggia il naso e la fronte sul naso e sulla fronte del bambino, i loro sguardi si incrociano, entrano quasi uno dentro l’altro, mossi da un amore reciproco così forte che è più che amore inteso come sentimento di una madre per un figlio, è molto più che amore inteso come sentimento. É un affondo pieno di persuasione nel destino. Non sono sguardi uguali, il bambino quasi sembra sorridere, come a voler rassicurare sua madre, Maria da parte sua ha una fermezza consapevole, solcata da un dolore. Il loro guardare diventa anche in questo caso un’avventura per noi. Se dal guardare passiamo al vedere, capiamo l’onda emotiva e la vibrazione umana di cui parlava monsignore rispetto ai mosaici di Monreale: è qualcosa che ci scuote, ci travolge e ci avvolge.

 

LUCA DONINELLI:

C’è quella manina di Gesù che sembra una parte dello sguardo.

 

GIUSEPPE FRANGI:

Esatto. A questo proposito, a proposito di scorrettezza, questa è la Madonna Tempi di Raffaello, anno 1508, conservata nell’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera: la collego all’immagine che vi ho fatto vedere prima perché, anche qui, abbiamo un’audacia da parte di Raffaello, il pittore perfetto che invece ci propone questa Madonna con quella strana postura, con la bocca semichiusa come nell’accenno trattenuto di un bacio, con quello sguardo che precipita nel bambino come se in quel corpo sentisse tutta la propria consistenza. È tale la concentrazione affettiva di questo quadro che il volto alla fine sembra quasi storpiato, ha qualcosa di asimmetrico, di sbilenco, di clamorosamente imperfetto, che poi si palesa anche nel modo in cui Raffaello dipinge la mano. È come se il pittore della perfezione ci accompagnasse in questa avventura di imperfezione, proprio per accentuare questa intensità affettiva, sempre nel rapporto tra la madre e il figlio. Qui facciamo un salto nel tempo, in un pittore che so che Luca ama sconsideratamente, visto che c’era un quadro di Velasquez sul tuo account Instagram o qualcosa, non so. Questo è un quadro di Diego Velasquez, del più grande erede di Caravaggio in Spagna, un quadro di Velasquez giovane che è custodito al Prado, Adorazione dei Magi. Questo è un quadro straordinario, non solo per questo equilibrio, questo rapporto di sguardi che propone, ma anche per un aspetto nuovo e interessantissimo, cioè che l’immaginazione di un artista diventa immedesimazione. Vi spiego perché. Quando Velasquez dipinge questo quadro, ha poco più di vent’anni, si è appena sposato, ha sposato la figlia dell’artista che lo stava formando, Francisco Pacheco, e mette in posa tutti: la Madonna è, appunto, Juana, la moglie di Velasquez, la figlia che ha in mano è la figlia Francisca che è appena nata, il quadro è del 1619, lei è nata nel 1618, il re che guarda con quella intensità Maria è Velasquez stesso, mentre il personaggio che si vede dietro è Francisco Pacheco, cioè il suocero. L’asse degli sguardi è chiaro, però il dettaglio su cui mi piace portarvi è questo, il dettaglio di san Giuseppe. A differenza degli altri personaggi che si riconoscono perché fanno parte del clan Velasquez, questo non è stato riconosciuto ed è un dettaglio periferico, nel senso che, se vedete è come marginale anche rispetto all’asse degli sguardi, è uno sguardo marginale. Una sottolineatura geniale che testimonia la dinamica interiore di un uomo semplice: questo san Giuseppe infatti è un uomo semplice, poi vediamo da dove lo ha preso Velasquez. Sa del mistero che ha attraversato la vita di quella donna che molto umanamene ama: tutto questo dice quello sguardo, secondo me, pur nella consapevolezza che non può essere sua. Il suo è un senza condizioni e senza incertezze, un semplice e innamorato che rimbalza su di noi che oggi lo guardiamo. Ancora una volta, l’avventura del suo sguardo può essere l’avventura nostra.

È evidente che quello sguardo di Velasquez nasce da questo grande capolavoro di Caravaggio, Madonna dei pellegrini, dove il barbaro Caravaggio, l’assassino Caravaggio sa cogliere come nessun altro – e questo fa parte dei grandi misteri dell’arte – la semplicità di fede di una popolana romana e di un popolano romano. Lo sguardo praticamente ci sfugge ma l’intensità di quel guardare è tutta per noi, perché l’intensità con cui questi due popolani a Loreto guardano la Madonna che si affaccia sulla soglia della casa è qualcosa di immediato che percepiamo. Si ha la percezione che la tensione di questo sguardo totalmente assorbito da Cristo plasmi tutte le fibre dell’essere. Il guardare per lei è davvero un vedere: guarda Gesù che sta persuadendo Marta con molta tranquillità, vedete, è molto tranquillo, Gesù, è tenero anche nel rimproverare Marta. Marta, da parte sua, ha lo sguardo abbassato, come riconoscente per quella sottolineatura che Gesù ha voluto rivolgerle, per il suo bene. Mi piace sottolineare l’intimità in cui tutto questo si svolge, senza enfasi, senza nessun riflettore acceso, senza effetti speciali, una riservatezza di cui noi siamo testimoni, testimoni di questi sguardi. E poi, sempre in Olanda (stiamo arrivando ai tempi nostri con cui andiamo a chiudere), questa sequenza meravigliosa di teste di Cristo: Rembrandt. La storia di queste teste di Cristo è meravigliosa, nel senso che Rembrandt viveva in una cultura (le chiese olandesi non avevano quadri) che non permetteva di dipingere soggetti sacri, se non per una devozione privata. Rembrandt dipinge questa sequenza di volti di Cristo meravigliosi che sono un po’ dispersi in tutti i musei del mondo. Buona parte di questi sono stati trovati nel momento della sua morte: chi fa l’inventario li cataloga come “teste di Cristo dal vero”. Cosa succedeva? Che Rembrandt non poteva dipingere – non apparteneva alle consuetudini di quella cultura che si era instaurata in Olanda nel Seicento dipingere, come si era sempre dipinto – le scene del vangelo, e quindi, cosa fa? Fa dei ritratti di Cristo. Chiede alla comunità ebraica di Amsterdam di avere dei modelli da far posare come Cristo, perché vuole un tipo umano etnograficamente vicino a Cristo, però sono persone che si conoscevano, che posano come se fossero Gesù Cristo. Cosa scatena questa cosa? Cosa sta guardando Cristo in questi volti? Chi sta guardando? L’unica lettura che secondo me si può fare è che Rembrandt racconta ciò che nessun uomo ha mai raccontato e cioè il momento della vita privata di Cristo in cui, la sera, lui con i suoi amici tornava a casa, chiudeva la porta dietro di sé e dialogava con loro. Quell’immagine intima, familiare di Cristo in cui lui sta guardando i suoi amici: questo sguardo intimo, privato, che paradossalmente, genialmente Rembrandt recupera in una società, in un modello culturale che gli avrebbe impedito di rappresentare pubblicamente il volto di Cristo (però lo recupera per sé). Questo privato, questo rapporto con gli amici che era proprio di Cristo 2000 anni fa, diventa un rapporto di Rembrandt con Cristo e poi, di rimando, vista l’intensità (credo che la tenerezza di questo sguardo non abbia bisogno di parole), diventa un’avventura anche per noi.

L’ultimo passaggio è questo: ad un certo punto, si introduce uno sguardo diverso. Lo sguardo di uno dei personaggi, invece di essere concentrato sull’asse degli sguardi come avevamo visto sinora, punta fuori, viene verso di noi. Questo è un quadro meraviglioso di cui noi milanesi siamo giustamente orgogliosi: è conservato a Brera, è una Pietà di Bellini (anche qui a Rimini c’è una bellissima Pietà di Bellini), datata in un periodo abbastanza giovanile, 1465, dove evidentemente l’epicentro è ancora una volta quell’incredibile sguardo di dolore di Maria che appoggia il volto sulla spalla di Cristo e guarda il Cristo morto. Sulla destra c’è Giovanni che, invece di guardare la scena, guarda fuori, guarda nello spazio dove siamo noi. È uno sguardo che convoca la pietà di tutti. Infatti, questo capolavoro di Bellini è commozione, struggimento, non rappresentato ma in atto, come dicevo prima. La sintesi è nell’incredibile firma che Bellini mette in calce al proprio quadro, traendola da un verso di Properzio. La firma è in latino ma la leggo in italiano: “Come questi occhi gonfi di pianto emettono quasi gemiti, così l’opera di Giovanni Bellini potrebbe piangere”. L’opera che piange, lo sguardo che piange chiama anche noi a questo pianto di fronte al dolore di Cristo. Per l’ultimo passaggio che voglio fare, perché siamo uomini del 2019 e quindi dobbiamo misurarci anche con un contesto in cui tante evidenze che hanno fatto essere queste opere non esistono più, uso come transizione quest’opera che, pur essendo di oltre 500 anni fa, è la meravigliosa Visitazione di Pontormo, conservata a Carmignano, un paesino nel pistoiese, uno di quei posti in cui una volta nella vita bisognerebbe andare, perché lo stupore di trovare un capolavoro come questo è una cosa che non si dimentica. È la Visitazione, e quindi c’è questo meraviglioso abbraccio, questo venirsi incontro di Maria con Elisabetta, questa differenziazione degli sguardi: si è tra lo sguardo di Elisabetta, che ha assume un connotato meravigliosamente comprensivo e materno, mentre quello di Maria è giovane, quasi perforante nella sua intensità affettiva. Ma in questo gioiello, Pontormo inserisce un elemento spiazzante che sono quelle due figure che guardano frontalmente, che quindi ci guardano nel nostro spazio (né più né meno di come avveniva nel San Giovanni di Bellini), però è uno sguardo inquieto (oltretutto ripropone il motivo della giovane e dell’anziana, come sono Maria ed Elisabetta), uno sguardo quasi puntato nel vuoto. Non è più uno sguardo che ci chiama, uno sguardo sotto il quale la terra comincia a tremare, è lo sguardo di un artista che per primo percepisce il peso e la drammaticità di una crisi che stava coinvolgendo l’uomo che poi sarebbe diventato l’uomo moderno. Per questo, volevo chiudere questo viaggio col nostro tempo, perché altrimenti la sensazione è che ci si fa un bel viaggio nel passato (non è un viaggio nel passato perché – ve l’ho detto – queste sono opere che commuovono il nostro presente, che toccano il cuore del nostro presente). Sono comunque opere prodotte in un passato, e quindi, capire invece cosa sta accadendo oggi e cosa potrebbe accadere, è un fatto, una sfida e un rischio che dobbiamo prenderci. Prendo come riferimento un artista che amo ma che penso che voi tutti dobbiate amare, uno degli artisti più sinceri del nostro tempo, oltre ad essere forse, insieme a Francis Bacon, il più grande artista del secondo Novecento, Alberto Giacometti. Giacometti è un artista svizzero anche se nato di lingua italiana, perché nato nei Grigioni, appena al di là del confine della val Chiavenna. Questi sono alcuni disegni che Giacometti aveva tratto da opere del passato, quindi da un Cristo Pantocratore (e si torna un po’ a quel punto da cui eravamo partiti). È un Cristo di passione su cui lui lavorava. Vedete che si prende ancora l’energia, la grandezza, quegli occhi grandi, lo sguardo. Il segno inquieto, il segno spezzato indica un andamento drammatico. Questo è un altro disegno bellissimo di Giacometti, sempre di riflessione sul passato, però poi qui vediamo Giacometti in una stupenda foto di Cartier-Bresson, guardare una sua scultura (ancora il gioco degli sguardi che si ripete). È un disegno-ritratto di Giacometti. Lavorava sugli sguardi, sono tutte figure come queste, ieratiche di una ieraticità che però è consumata dal dramma della morte dell’unità. Chiudo con parole non mie ma di uno storico dell’arte che è appena morto, un critico, un antropologo, un personaggio di grande suggestione, di grande capacità di lettura delle opere: si chiama John Berger. Queste sono prese da un libro che si chiama, tra l’altro, Sul guardare, e quindi è molto pertinente. Dice John Berger: “Giacometti è stato ostinatamente fedele al proprio tempo. L’atto di guardare per Giacometti era una forma di preghiera, un modo di avvicinare l’assoluto senza mai riuscire ad afferrarlo. Era l’atto di guardare che gli dava la consapevolezza di essere costantemente sospeso tra essere e verità”. Poi ci porta dentro la sua opera e dice: “Se fissiamo la figura, lei ci fissa a sua volta. Questo è vero anche riferito al più banale dei ritratti”. Se fissiamo un ritratto e ci muoviamo, questo ci segue con gli occhi, è un altro aspetto su cui Berger vuole porre l’attenzione: “ma in questo caso — ed è qui la differenza — noi siamo consapevoli della linea tracciata dal nostro sguardo e dal suo: la sottile linea dello sguardo che corre fra noi e che forse è simile alla traccia di una preghiera, se potesse essere visualizzata”. È uno sguardo forse simile alla traccia di una preghiera. Chiudo qui: ci tenevo che tutto il percorso non fosse percepito come un percorso sospeso, un percorso finito, un percorso cui noi dobbiamo solo appigliarci al passato. È un percorso che vive ancora nell’audacia, nella libertà, nella grandezza di artisti che ci guardano negli occhi e che, pur con questo sguardo così perforante come quello di Giacometti, in fondo ci chiedono di poter balbettare di nuovo una preghiera. Grazie.

 

LUCA DONINELLI:

Monsignor Pennisi ha una comunicazione da farci.

 

MICHELE PENNISI:

Oltre alla mostra, mercoledì 23 in sala Neri ci sarà un concerto multimediale per pianoforte, con brani dedicati al duomo di Monreale composti dal maestro Marcelo Cesena e con immagini fatte con i droni da un regista della Rai oggi presente, Alessandro Spinnato. È un modo di vere anche il dinamismo di questi sguardi che ci guardano e da cui ci sentiamo guardati.

 

GIUSEPPE FRANGI:

Faccio anch’io il mio spot. Vi raccomando di andare a vedere Now Now (l’ha già segnalata Luca prima), perché, quando si aprirà la tenda e vedrete l’immenso quadro di Mario Schifano, capite che per la bellezza c’è ancora spazio anche oggi. È un’esperienza da fare!

 

LUCA DONINELLI:

E ci mancherebbe! Sennò cosa avremmo fatto a fare questo incontro? Grazie per quello che ci avete fatto vedere. Grazie tantissime.

 

Trascrizione non rivista dai relatori

 

190819 il volto nell'arte

Data

19 Agosto 2019

Ora

21:30

Edizione

2019

Luogo

Salone Intesa Sanpaolo B3
Categoria
Incontri