IL TUO VOLTO, LA TUA PAROLA. POESIE E LETTERATURA COME INCONTRO E AMORE

Salah Fadl, Professore di Letteratura Comparata all’Università Ain Shams del Cairo, Esperto e traduttore di Dante Alighieri; Davide Rondoni, Poeta e scrittore. Introduce Wael Farouq, Professore di Lingua e Letteratura Araba all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

 

Il tuo volto, la tua parola. Poesie e letteratura come incontro e amore

Salah Fadl, Professore di Letteratura Comparata all’Università Ain Shams del Cairo, Esperto e traduttore di Dante Alighieri; Davide Rondoni, Poeta e scrittore. Introduce Wael Farouq, Professore di Lingua e Letteratura Araba all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

 

WAEL FAROUQ:

Benvenuti, stasera abbiamo un incontro molto particolare, un incontro sul volto nella letteratura e nella poesia: il volto, l’identità o lo spazio dove si conosce una persona. Prima di dare la parola ai nostri interlocutori, voglio dire che questo incontro non è solo sulla letteratura e la poesia ma è un incontro sul vero dialogo, perché il vero dialogo si trova sempre nello spazio della bellezza. Il linguaggio comune per tutta l’umanità è sempre stato questo: la bellezza. Perché davanti alla bellezza non si può dire: «è sbagliato», «non è vero». Sempre, davanti alla bellezza, si accoglie l’altro, l’altra cultura e l’altra persona. Stasera siamo con due protagonisti molto particolari. Uno di loro è un amico da lungo tempo, è stato anche per me una porta reale per capire la poesia italiana, io l’ho chiamato sempre “il poeta dell’infinito” perché è un poeta che è riuscito a catturare l’infinito nell’uomo e l’uomo nell’infinito. Davide Rondoni non ha bisogno di esser presentato al pubblico del Meeting. L’altro protagonista lo conosco da quando avevo 18 anni. All’epoca, arriva questo professore dall’estero per parlare con noi dell’Occidente, della nuova metodologia per studiare e capire la cultura, lo stile, lo strutturalismo e anche Dante Alighieri. Ci ha aiutato tantissimo, non solo me ma le decine di migliaia di suoi studenti e di lettori dei suoi libri. Ci ha aiutato ad avere un approccio critico alla nostra realtà. Il primo soggetto di questa critica era lui stesso. Quando noi ci fermiamo per rispetto verso il nostro maestro, per esempio, e non vogliamo criticarlo, lui si arrabbia tantissimo e dice: «Non potete generare la vostra vita se non credete profondamente che siete voi i proprietari del futuro». Sono veramente orgoglioso e commosso di essere qui, a fianco di Salah Fadl, professore di Letteratura araba e grande studioso di Dante Alighieri, vicepresidente dell’Accademia della Lingua araba, fra le tante altre cose che sta facendo. Perché lui è un intellettuale, sempre coinvolto nella società, sempre in prima fila sul fronte della battaglia per la libertà della cultura e della religione. Quindi, grazie per essere venuto finalmente al Meeting di Rimini. Partiamo con Davide, prego.

 

DAVIDE RONDONI:

Allora, buonasera, grazie a voi e complimenti per la resistenza. Perché non so da che ora siete al Meeting, però capisco che essere qui a quest’ora non è facile, quindi, grazie per l’attenzione. Grazie a Wael, grazie al professore. Vorrei solo partire dal tema che ci siamo dati quest’anno, attraverso la poesia provo ad affrontarlo senza paura. E chi ha a che fare con poesia e letteratura, accetta di non avere paura di andare a fondo delle cose, sennò farebbe il giornalista, con tutto il rispetto. E non si ferma al problema del consenso, prova a guardare le cose cercando di catturare qualcosa di più vero e di più bello. Quindi, vorrei leggere alcuni appunti, a partire dalla poesia. La domanda è inquietante: può veramente essere un bene per me l’altro? Può davvero costituire positivamente la mia personalità? Cioè, è vero che il mio nome nasce dal volto di un altro? La parola nome, poi, per chi è di cultura ebraica – e Wojtyla in quel testo fa riferimento al Vangelo -, il nome è tutto della persona. Sono domande scomode, se non si vuole rispondere in modo banale. E la banalità su queste cose oggi è molto dannosa. Perché dalla banalità nasce solo altra banalità e lascia problemi gravi. La donna a cui il poeta Wojtyla dedica quel verso che è stato messo a titolo del Meeting, è Veronica, come sapete, la donna della vera icona, colei che ferma sul velo la faccia di Cristo. Di lei, il poeta Wojtyla, che poi diventerà Papa, può dire con suprema intensità che il nome, che per un ebreo è tutto, nasce dal volto sfigurato e amato che fissava. Lo dice di lei e di quel volto, della donna che si è accosta per pietà e per dolore, per un suo radicale bisogno, per una sua attonita preghiera. Veronica va di fronte a quel volto ­- lei fa già parte del seguito delle donne di Gesù, non era lì per caso -, carica della sua preghiera attonita, perché vedeva Dio morire come un cane. E quindi, aveva di fronte a quel volto un atteggiamento non da passante, non di uno che incontra un altro in metropolitana. Se la Veronica si protese a quel volto, lo fece perché era tra le donne che seguivano, amavano, avevano bisogno di Gesù. Il volto dell’altro infatti può essere guardato da molti diversi punti di vista. E questo è dirimente. Non tutti i punti di vista permettono che l’altro volto faccia nascere meglio la mia identità. Veronica guarda quel volto dal punto di vista del suo dolore, del suo bisogno e della sua compassione, della sua attonita preghiera. Petrarca, per esempio, guarda il volto della donna amata: tanti di noi guardano il volto dell’amato, il volto che ti attira, dal punto di vista dell’incanto, dal punto di vista del rapimento amoroso. In Petrarca, come è noto a chi ha studiato queste cose, il volto di Laura assume quasi le fattezze di un idolo. Laura, come sapere, nel Canzoniere diventa tutto: il lauro, la gloria poetica, l’aura, l’aria. Quel volto viene guardato come da uno che lo sta idolatrando. È un altro punto di vista. Diviene tutto. E non a caso, come sapete se avete letto il Canzoniere o l’avete studiato, il Canzoniere è la raccolta di poesie di uno che si è pentito, di uno che non vorrebbe avere seguito quell’idolo. È un Canzoniere d’amore e di rimorso. Petrarca non è contento, diciamo così, dell’esperienza che ha fatto. E il Canzoniere è il racconto di questo pentimento, di questo smarrimento. «Non dovevo avere quell’idolo. Non dovevo guardare quel volto come un idolo. Perché quel volto mi sottrae, mi copre, mi distrae dal vero volto del bene». Petrarca vive questo nel suo canzoniere. «Laura mi ha distratto», diciamo così. Infatti, è un Canzoniere meraviglioso ma di amore pentito. In questo senso, dico sempre che Petrarca è più clericale e meno cristiano di Dante. Dante, invece, dal canto suo segue il volto di Beatrice. La incontra per la strada a Firenze, Beatrice è una donna reale, non è un idolo. Beatrice Portinari è veramente esistita, Laura non lo sappiamo. Incontra un volto reale per le strade di Firenze e lo segue. Lo segue, nella Vita Nova si vede che fa gli appostamenti, no? E lo segue finché può, perché ad un certo punto lei muore. E lui la insegue dopo la morte. Non ci sta a questo limite, alla morte, e insegue quel volto fin oltre la morte, non lo vuole perdere. Ma non perché è un idolo. Quel viso gli è stato tolto dalla morte, come a tutti i grandi trovatori della poesia europea intorno all’anno Mille. La donna è tolta (è sposata a un altro, sta in Tripolitania, è lontana), infatti molte volte uno si chiede: ma perché questi scrivono tutte ’ste poesie per delle donne che non hanno? Sono tutti sfigati, come si dice in Romagna? No! È che scrivono poesie per donne, per volti che non sono in loro possesso. Infatti si nobilitano amando qualcosa che non possiedono. C’è una grande rivoluzione spirituale nella poesia europea dell’anno Mille, che Dante compie. Perché Dante insegue una donna che gli è stata tolta dalla morte e, in questo inseguimento, di cui non si pente – anche se ha tradito quella donna, lo racconta, l’ha tradita con altre e con altre filosofie -, capisce che quel volto lo porterà dove lui vuole andare. Difatti, in Dante, quel volto non diviene un idolo ma un volto che lo guida a contemplare un altro volto. Anche Dante è un uomo di pena e di incanto, e di pentimento personale. Ma dinnanzi al volto di un’amata che insegue, da quel volto non si distoglie. Lo direbbe in un altro modo un nostro immenso poeta che è Ungaretti, nato in Egitto, ad Alessandria – qui si uniscono questi territori apparentemente lontani -, quando di una donna dice: “Sei lontana come in uno specchio”, che è un’espressione bellissima. Come dire: mi sembra di toccare il tuo volto ma sei lontana come in uno specchio. Ti vedo ma non sei nella dimensione del mio possesso. Dante vive questo e insegue quel volto fino alla fine. Dante insegue e scrive cercando il volto di Beatrice. Petrarca scrive, invece, perché se ne deve distogliere. È la grande differenza, che anche Giussani fa vedere nei suoi libri, fra il medioevo e il cosiddetto umanesimo. Il volto di Beatrice che Dante ci mostra è, alla fine, un volto reale che contempla qualcos’altro da sé. In questo gioco di volto assente, dei trovatori o di Dante, del volto segno, del volto ri-volto – è un gioco di parole che in italiano, non so in arabo, si può fare – ad altro, in questa serie di elementi si movimenta in maniera più emblematica la questione: fisso il tuo volto e nasce il mio nome. Non è così meccanica la faccenda, e la letteratura ce lo fa vedere. Dipende dal punto di vista. Devi assumere un punto di vista perché il volto dell’altro faccia nascere il tuo nome, non è un meccanismo morale o un invito kantiano. È un’altra faccenda. Infatti, questi poeti ce lo fanno vedere. Se il punto di vista da cui guardi il volto dell’altro non è dato dal bisogno, dalla pena, dalla compassione, dal senso dell’alterità in quel volto, ecco, l’altro rimane solamente – come qualcuno dice, con qualche ombra di ragione – un mio limite, se non il mio inferno. Del resto, anche don Giussani, che capiva queste cose, in una conversazione sottolineava che l’altro è un abisso. L’altro è un abisso. L’altro, anche quello che conosci meglio, è un abisso. È un abisso di differenza. Anche la persona che conosci meglio, ad un certo punto, si svela come abisso di differenza. Non è meccanica, la questione, non è comoda. Non basta un invito morale ché, se bastasse quello, “mestier non era partorir Maria”. Infatti, questa abissalità dell’altro mette in questione cosa vedi tu nell’abisso, come diceva Nietzsche. Ci vedi Dio o ci vedi il nulla? Cos’è che educa lo sguardo a guardare in fondo all’abisso? Uno può dire: «Io vedo Dio in fondo all’abisso dell’altro», ma questo non ti autorizza a scandalizzarti del fatto che uno, in fondo all’abisso, faccia fatica a vedere qualcosa. Non ti autorizza. Pascoli, che invece è un grande poeta delle nostre terre, è nato qua dietro, racconta che la sua attitudine poetica viene dal fissare sua madre. La madre, che era vedova – sapete tutti la faccenda della morte del padre di Pascoli – mirava l’orizzonte vuoto e in questo vuoto vedeva l’uomo che le era stato tolto da una grande ingiustizia. Uno sguardo vedovo. Lo sguardo vedovo è strano perché è uno sguardo pieno di assenza. È uno sguardo doppio, avrebbe detto Leopardi. Cioè, uno sguardo che contemporaneamente sente il vuoto e vede la presenza. È pieno di un’assenza, è una strana esperienza. E Pascoli dice: la mia esperienza poetica viene da questo modo che mia madre aveva di guardare l’orizzonte, vedevo che lei ogni tanto vedeva qualcosa che non c’è. Era pieno di un’assenza. È drammatico, questo. Del resto, facendo un volo molto rapido, quindi mi scuserete, anche Shakespeare, che fa la sua più grande opera teatrale ne I Sonetti – Shakespeare è un grande poeta, scrive in versi anche il teatro e scrive quest’opera che sono I Sonetti, un evidente richiamo anche al Canzoniere di Petrarca -, scrive un canzoniere. E nel canzoniere, Shakespeare, come sa chi l’ha letto o studiato, ci sono due volti dominanti: c’è la dark lady, la donna oscura, passioni, ecc., e il giovane biondo, mille illazioni su chi fosse. Ci sono due tipi di volti diversi perché l’altro – Pirandello ne sa qualcosa – non si presenta con un volto solo. A volte è doppio, a volte triplo, a volte anche quadruplo. Il rapporto con il volto dell’altro è un rapporto che deve attraversare l’ambiguità, la doppiezza, la possibilità che il barocco mette in scena – Shakespeare è all’inizio del barocco – molto fortemente, che tu contemporaneamente veda due cose, il vuoto e il pieno. Vedi la menzogna e la verità. Le vedi tutte e due. Devi scegliere. Non c’è nulla di automatico, non c’è mai nulla di automatico, per questo la vita è interessante, altrimenti sarebbe una noia. Anche il volto dell’altro non ha un’azione automatica su di te, è sempre drammatica, è sempre complicata, diciamo così. E i poeti lo fanno vedere: Shakespeare fa del suo volto altro un volto doppio, due personalità. Pirandello aumenta il problema, se vogliamo dire così. Infatti, nel barocco il volto sarà anche una compresenza di vita e morte, di eterno e fuggevolezza, di luce ed ombra. Una doppia possibilità. Nella Commedia, per tornare a Dante – ma su questo lascio il campo a chi se ne intende di più -, abbiamo una galleria impressionante di volti appena accennati, tutti diversi. Per esempio, c’è il bellissimo volto di Manfredi, con la cicatrice. È una galleria di volti impressionante, la Commedia. Pensate al volto basso di Paolo, di Paolo e Francesca. Qui approfitto della presenza dei nostri amici arabi, perché nella cultura araba c’è il mammalucco – voi sapete che la parola “mammalucco” viene dall’arabo -, e Paolo è un mammalucco d’amore, uno che si è immammalucchito, si direbbe in Romagna, cioè è uno che non capisce più niente. Tanto è vero che parla lei, non si è mai visto, parla solo lei. All’inferno, Dante fa vedere una scena tipica del mammalucco d’amore, cioè dell’uomo che non riesce a parlare nemmeno più, infatti parla solo lei. Strano. Dà la sua versione dei fatti, come sapete. Era un fatto di cronaca, era come una notizia su Il resto del carlino a pagina 25. Poi, Dante che, come tutti i grandi poeti, ha l’occhio, dice: qui dentro c’è una grande questione, sembra un fatterello di cronaca ma c’è una grande questione d’amore. E fa diventare Paolo e Francesca, due sfigati di provincia, detto in romagnolo, li fa diventare emblemi dell’amore universale. Ma appunto lui non parla, il volto è basso. Era per fare qualche esempio, vado verso la fine, poi vi leggo tre poesie. Perché questa dinamica del rapporto con l’altro volto è una dinamica viva, non è meccanica. Nella letteratura si vedono mille possibilità di questa alterità del volto, di questa presenza che può essere anche assenza, al tempo stesso, e che è segno, o che può essere un volto rivolto, dipende da come lo guardi. Pensate a un poeta che amo molto, che è Arthur Rimbaud, o a Baudelaire, poi vi leggerò una sua poesia. Ma per essere sintetici, tornando al punto iniziale, il punto di vista conta. Il punto di vista vuole dire la responsabilità. Il punto di vista dipende da te, non è che l’esperienza che nasce il tuo nome dal volto dell’altro succede automaticamente. Non prendiamoci in giro perché non è vero. Occorre il punto di vista da cui guardi e il punto di vista della Veronica è quel punto di vista che non è automatico, non è naturalista. Non è meccanico, è, anzi, il fiore di una grande educazione. Perché quel punto di vista – come ha scritto un mio amico poeta, ma c’è anche in una canzone – è questa cosa per cui qualcuno ha detto: “Guardarti è come pregare”. Guardarti è come pregare. Per la Veronica, in quel momento, guardare quel volto non era guardare un volto, era come pregare. Se non si arriva a questo fiore di sguardo, l’altro è un abisso, un limite e forse anche un po’ un inferno. Ma che cosa mi educa a guardare l’altro come pregando? Non è un caso ed è straordinaria, l’invenzione che Gesù fa della preghiera. Quando gli chiedono: «Che cos’è che dobbiamo chiedere?», «Voi dite Padre nostro»: la preghiera vuole dire che c’è un padre, che l’altro è un fratello. Ora, queste cose non accadono per meccanica, occorre una lunga tradizione, un lungo racconto che ti viene fatto. Un mio amico dice: nel mondo è vero che si dialoga a partire dentro la bellezza, ma c’è chi conosce il Padre Nostro e chi non lo conosce, chi chiama Dio “padre” e chi invece non chiama Dio “padre”. E questo fa la differenza, perché l’altro, o lo guardi come fratello, cioè termine della preghiera del Padre Nostro, oppure il volto dell’altro è un limite e, a volte, anche un inferno. A questa posizione del fiore, cioè del guardare pregando, ci si educa, con pazienza, guardando gli altri che hanno di più questo sguardo. Nella letteratura è pieno di poesie – potrei citarne tante – che arrivano a questa intensità di sguardo che non è uno sguardo morale, non è uno sguardo che è buono, che è accogliente dell’altro perché è buono. Prega. Prega, come la Veronica di fronte a quel volto che contemporaneamente era il più bello fra i nati di donna e il più orribile a guardarsi, in quel momento. E, mossa da questa cosa, lo va ad asciugare e nasce il suo nome da quello che sta fissando. Vi leggo tre poesie, anzi quattro, e poi finisco. La prima è un poesia molto bella di Baudelaire, che ho citato prima, che sospetta questa cosa. Baudelaire è un genio cristiano, uno dei più grandi geni cristiani d’Europa. Lo chiamano “maledetto” per farlo fuori, ma è un grande genio cristiano. Scrive una poesia che si chiama A una passante, molto famosa, dove lui sospetta che quel volto che sta passando possa essere la possibilità per lui che nasca il suo nome. Lo dice in un altro modo ma il concetto è lo stesso. Infatti dice:

La via urlava assordante intorno a me, alta, sottile, in gran dolore. Dolore maestoso. Una donna passò con gesto glorioso, sollevando l’orlo e il festone della veste. Agile e nobile, elegante con le gambe statuarie. Io bevevo rapito e stravagante dal suo occhio, livido cielo dove l’uragano germina il piacere che uccide e la dolcezza che affascina. Un lampo nella notte. O beltà che sei fuggita, il cui sguardo mi ha dato vita all’improvviso, non ti rivedrò che nell’eternità, altrove, lontano da qui, tardi, forse mai più perché io non so dove fuggi né tu dove vado. Tu che avrei amata, che lo sapevi, tu.

Poi leggo una poesia molto bella di Pasolini, che è già girata tra di noi, la diede Giussani tanti anni fa. E Pasolini, altro genio cristiano, mentre sta girando il film che forse qualcuno conosce, proprio sul Vangelo secondo Matteo a Matera, aveva il problema che non trovava l’attore giusto per fare Gesù. Infatti, l’ha fatto fare a un ragazzo spagnolo che ha fatto solo quel film e basta, poi non ha più fatto niente. Perché non trovava la faccia giusta, e in quei giorni scrive una poesia proprio su questo. Lo spunto è che non trova l’attore. E scrive una poesia bellissima, che secondo me è una delle definizioni più esatte di che cosa sia il cristianesimo, e dice: Manca sempre qualcosa. C’è un vuoto in ogni mio intuire. Ed è volgare questo non essere completo. È volgare. Mai fu così volgare come in quest’ansia, questo non avere Cristo, una faccia che sia strumento di un lavoro non tutto perduto nel puro intuire in solitudine.

È bellissima, questa. Il cristianesimo è una faccia, “che sia strumento di un lavoro non tutto perduto nel puro intuire in solitudine”. Amore con se stessi, ecc. Poi vi leggo una poesia di Mario Luzi, che è stato uno dei miei maestri. Mario scrive una poesia molto bella dedicata alla madre, alla madre morta, dove c’è una affermazione meravigliosa, perché dice, ve la sintetizzo, madre mia, l’essere molto amati, avere un sacco di facce che ti guardano, non medica la solitudine, l’essere molto amati non medica la solitudine, anzi la fa bruciare di più. Tutti noi abbiamo qualcuno che ci ama, ma non è quello il problema, stai male se non ami tu. Puoi anche avere la zia, la sorella, la mamma, il cugino che ti amano, ma questo non medica la solitudine. La solitudine si medica quando sei tu che ami, e infatti Luzi dice: la retorica sull’importanza dell’essere amati non è vero, l’importante è amare. Puoi essere anche molto amato ma questo non medica la solitudine. Se non ami tu, puoi essere amato tantissimo ma non succede niente, è amare che parifica il mondo, è amare che ti fa vivere. E per finire, vi leggo una piccola poesia mia che inizierà uno dei prossimi libri che farò e che dice così:

Solo quel che fissi tra le lacrime ha conquistato davvero il tuo cuore. Solo quel che non smetti di fissare tra le lacrime illumina davvero il tuo dolore. Solo quel che ti fa sorridere in mezzo alle lacrime vale tutto il tuo amore.

 

WAEL FAROUQ:

Quindi ho avuto ragione quando ho chiamato lui “il poeta dell’infinito”. Perché, se c’è una sfida oggi al volto, non è sottovalutare il valore del volto ma che tutti i volti oggi sono effimeri. Nel mondo dei social network, della tecnologia di comunicazione, il volto è diventato effimero. Invece, volti come quelli di Veronica, Laura, Beatrice rimangono, parlano ancora oggi a noi, sono ancora capaci di generare significati. La prima volta che ho visitato l’Italia mi ha colpito tantissimo come tutte le chiese siano piene di volti. Ho cercato di capire perché. Mi hanno spiegato che in quell’epoca non tutti potevano capire il latino, non potevano capire il linguaggio della liturgia e quindi hanno disegnato questi volti, tutta la storia della Bibbia sui muri delle chiese. Quindi, qui in Occidente c’è una lunga tradizione di volti che parlano, che sono voce, che portano una parola. Invece, nella tradizione araba questa presenza dell’immagine non è così profonda, in una cultura nomadica tutto può essere conservato grazie ad una cosa sola: la memoria. Solo la memoria può trattenere il volto che invece, nel deserto dove tutto è natura, è per forze effimero. Con il professor Fadl vogliamo capire come in una cultura così dominata dall’effimero il volto ha avuto un valore nella poesia e nella letteratura. Prego.

 

SALAH FADL:

Buonasera a tutti, in questa sera molto interessante spero che sopportiate ciò che dirò su una cultura cangiante e che pure è vicina a questo punto focale del Mediterraneo, che ci unisce. Il decano di letteratura araba dice che la natura fondamentale delle culture che interagiscono e vivono nel Nord e nel Sud del Mediterraneo condivide questo spirito. E noi specialmente, in Egitto, sentiamo molto fortemente quella relazione spirituale e materiale che ci lega alla cultura italiana, fin dal periodo ellenico. Ho sentito parlare del Meeting di Rimini dal mio caro amico Wael Farouq e ho desiderato venire. Poi ho incontrato la signora Emilia Guarnieri, la presidentessa del Meeting. L’ho incontrata ad Alessandria nello scorso inverno, nella cornice di un evento sulla poesia e sulla bellezza, sull’arte e sullo spirito, che coinvolge le nostre culture. Sono stato felice di essere invitato qui a rappresentare tra voi un’idea molto precisa e molto profonda. Uno degli aspetti più interessanti di questo Meeting è proprio il rapporto tra il volto e la parola. Credo che la relazione del volto con la parola sia una relazione molto fertile, ricca, che può essere affrontata sotto vari punti di vista. Passerò velocemente al primo asse di discussione, l’asse linguistico. La lingua araba ha nei suoi meccanismi, e i suoi mezzi, che possono essere differenti dalle lingue latine: il volto in lingua araba scopre, prima di tutto, l’aspetto della persona, cioè è un segno dell’identità e l’aspetto del grado di bellezza. Ogni volto ha la sua propria bellezza per chi lo vede. Chi lo vede deve scoprire, e la parola che questa materializzazione della lingua esprime è a sua volta l’identità; la parola è la patria, è la cultura, è la memoria. Il mio amico Wael dice che la cultura araba non ha celebrato l’immagine e io dico che ha trasformato l’immagine vista in una immagine linguistica. L’energia creativa incredibile che si trova nell’uomo arabo non è stata materializzata in maniera formale in disegni, in immagini, ma è stata materializzata nella lingua, nella letteratura, in immagini artistiche, creative, nonostante alcuni popoli che hanno ereditato la cultura araba, come il popolo egiziano, per esempio, avessero una lunga storia di immagini visive, come abbiamo visto nella scultura, nella fotografia e altro. Quindi, descrivere il volto con la parola ci dà un insieme di segni sensoriali, semiologici, un insieme di segni e significati diversi con i loro livelli superficiali e con i loro livelli profondi. Permettetemi di scavare un po’ in questo argomento, attraverso un asse di discussione linguistico, ma anche poetico. I vocabolari arabi, in genere, quando spiegano la parola volto usano qualcosa di strano, cioè definiscono la superficie del volto: prima la lunghezza, dall’attaccatura dei capelli, la fronte, gli occhi, il naso, poi le guance, la bocca e il mento, infine la larghezza, le orecchie. Notiamo due fatti: il primo è che tutti i cinque sensi dell’uomo si concentrano sul volto: la vista con gli occhi, l’udito con le orecchie, l’olfatto con il naso, il gusto con la lingua e il tatto con il più preciso, la parte del corpo più sensibile, cioè le labbra. Il bacio infatti è l’espressione più alta del tatto. È molto interessante che mi sia venuta in mente ciò che rappresenta un problema della cultura araba contemporanea, una domanda che troverete strana ma importante. Quello che vediamo, la peluria del nostro corpo, dalla capigliatura alla barba, esprime veramente il volto di una persona? Da questo è scaturito un problema di dimensioni particolari, nell’arte e nella letteratura, anche nella dimensione del pensiero religioso, di cui soffriamo oggi in Egitto. Basta dire che il periodo che va dagli anni Venti del XX secolo fino ad oggi, che stiamo per arrivare agli anni Venti del XXI secolo, è stato diviso in due parti molto strane: dal 1920, più o meno, la cultura araba è andata verso la liberazione della donna. La forma di questa liberazione consisteva proprio nello scoprire il volto, i capelli, come si diceva nella letteratura araba, la rivoluzione di questa scoperta, della rivelazione, della chiarezza. Dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso, cioè negli ultimi cinque decenni, le correnti religiose e le correnti dell’islam politico hanno riportato la copertura del volto, dei capelli, come una immagine di ritorno alla religione originale: ma questo in realtà non ha nessuna relazione con l’essenza del pensiero religioso. Allungare la barba dell’uomo, farla crescere, viene considerato invece una questione religiosa. E poi c’è un’altra questione, la guerra contro qualsiasi aspetto di nudità: scoprire qualsiasi parte del volto o del corpo. Per ciò che riguarda la nudità, vorrei ricordare nei miei studi linguistici una storia molto importante del grande linguista Roman Jakobson che, durante una delle sue ricerche, fece un tour in Australia, un giro presso alcune tribù indigene. E trovò che c’era un ramo, una branca della tribù i cui componenti andavano in giro completamente nudi, senza vestiti. Attraverso un traduttore, scelse una di queste donne e le chiese: «Non ti vergogni a stare davanti a me completamente nuda?». La donna rispose dicendo: «E tu non ti vergogni a stare davanti a me con il tuo volto nudo, scoperto?». Lui disse: «Questo è il mio volto». E lei: «Tutto il mio corpo è un volto, sono tutta un volto». La nudità è la copertura: è una questione culturale di primo grado. E la cultura araba soffre a trovarsi in un vicolo cieco nell’affrontare questo fenomeno. C’è una parola araba da cui viene la parola “orientarsi”, cioè “andare verso una direzione”; dalla stessa parola vengono anche la parola “affronto” e “direzione”, cioè il bersaglio verso il quale ci rivolgiamo. Chi ha due volti, in arabo, è un ipocrita, ha una doppia faccia: fa vedere un volto e poi, improvvisamente, ne fa vedere un altro: la stessa parola significa “influenza”, con tutti i suoi significati. Anche la fine di un anno di studi si definisce in questo modo, quando un ricercatore si orienta verso un nuovo argomento di ricerca. Ho un amico poeta, qui, che ci ha dato parole intense, entusiaste: se è stato veloce, io non parlo velocemente per permettere alla traduttrice di tradurre. Lui ci ha resi molto contenti con la poesia che ha letto, e anch’io vi farò sentire alcuni versi di poesia araba, relativi al volto. Comincio con uno dei più grandi poeti della storia araba antica, che veniva chiamato Abu Neos. È uno dei più grandi poeti della letteratura mondiale, ha cantato il vino, ha cantato l’ubriachezza, ha parlato molto del bere. Ma nei suoi versi ha parlato anche del volto. C’è un verso che dice: Il tuo volto diventa sempre più bello, quanto più lo guardo.

Lo sguardo aumenta la bellezza del tuo volto, cioè, più lo guardo, più vedo bellezza in questo volto, più lo guardo, più scopro una nuova bellezza, che aumenta con il mio guardare. Un altro poeta dell’Andalusia era di origini ebree: nonostante ciò, ha creato una poesia araba meravigliosa. Dice:

Non è solo colpa della mia anima se mi sono innamorato, è anche colpa della tua bellezza e dei miei occhi che la vedono.

Non sono responsabile da solo del mio amore, tu me lo hai rivelato con la tua bellezza e quindi non posso che ubbidire a questa bellezza e adorarla. L’adorazione è un atto reciproco tra due parti, tra chi mostra la bellezza e chi la gusta. Con altri versi più contemporanei, più moderni, un poeta libanese ha scritto bellissime poesie dal titolo “I suoi occhi mi hanno insegnato a comporre poesie d’amore” e “Chi impara troppo può farsi male”. Dice:

Se ci innamoriamo, scusatesi, è perché abbiamo volti che guardano.

Poi mi sono spostato verso un poeta sufi, nella poesia sufi troviamo tanti versi sul volto, migliaia di versi che parlano del volto e delle sue rivelazioni. Vediamo che in questa poesia l’immagine si unisce alla parola. Quando la poesia parla del volto, ne parla attraverso le parole, questo significa che materializza l’immagine con le parole: è come una moneta con due volti, un volto che riporta un’immagine e un altro volto che riporta le parole. Vi racconto due piccole storie, con cui concludo il mio discorso. Mi trovavo in visita a Damasco, in Siria, prima dell’ultima guerra, nel decennio scorso. Ho visitato l’accademia scientifica e il presidente del centro mi donò un libro di poesia araba che non avevo mai visto, non avevo mai letto: era dell’XI secolo, il IV secolo dell’Egira. Era un libro composto da quattro volumi dove un poeta aveva raccolto alcuni altri poeti. Questo poeta aveva raccolto in questi volumi tutta la poesia araba fino alla sua epoca, tutto ciò che aveva parlato di bellezza umana nella poesia araba. E gli aveva dato un titolo molto interessante, “Colui che ama, colui che è amato”. Colui che ha donato e colui che è sentito, colui che è gustato, è come se in questo libro riunisse tutti gli occhi della poesia araba che hanno celebrato la bellezza dei volti, soprattutto volti di donna che occupano il 90 per cento di questi volumi. C’è una descrizione molto precisa, molto dettagliata di tutti gli aspetti di questo volto, dai capelli alla fronte, le sopracciglia, gli occhi, le guance, il naso, la bocca, il mento, fino al resto del corpo della donna tutto intero. Come la donna australiana, è spoglia, la donna, questo libro la rende nuda. Parla anche del volto dell’universo quando rivela la bellezza, la sua bellezza nelle montagne, nei fiumi, nelle foreste, l’incanto della bellezza. Poi parla della poesia che viene scritta in stato di ubriachezza, quando si è influenzati da sostanze che ci ubriacano: come questo cambia il sentimento dell’uomo e come influisce sullo spirito dell’uomo, come cambia i suoi sentimenti, i suoi sensi, le emozioni. Poi ha parlato del tatto, il quarto senso dopo l’udito, la vista, l’olfatto e il gusto. Mi rimane da parlare ancora su una delle più precise espressioni della lingua araba, quando alla parola “volto” aggiungiamo il nome di Dio, quando diciamo il volto di Dio. Innanzitutto, voglio dire che il volto di Dio è una parola che si usa nella vita comune in un contesto molto interessante: quando viene un povero che chiede l’elemosina, dice al donatore «Dammi qualcosa per il volto di Dio». E qui vorrei ricordare un altro evento interessante riguardo a un poeta egiziano: era seduto in un caffè e una ragazzina molto bella gli si avvicina. Era veramente bella. Gli disse «Dammi qualcosa per il volto di Dio», come si dice in arabo. E lui risposte con un verso del poeta: Al tuo volto, al tuo volto donerò e non al volto di Dio.

Io darò a te per il tuo volto e non per il volto di Dio: eppure il suo bel volto era in realtà una parte del volto di Dio, perché la bellezza nella cultura araba in generale e nella cultura sufi in particolare è il volto di Dio. Ci sono due versi del Corano che sono molto importanti. Il primo dice:

A Dio appartiene l’Oriente e l’Occidente e dovunque vi volgiate lì è il volto di Dio.

Se riflettiamo su questo versetto, capiamo qualcosa di molto profondo, cioè che in tutto l’universo, Oriente e Occidente, Nord e Sud, ovunque troviamo il volto di Dio. Significa che tutte le religioni, tutte le culture, tutti i luoghi sono una rivelazione del volto di Dio. Il secondo versetto dice:

Tutto ciò è effimero ma resta il volto di Dio pieno di potenza e di gloria.

Questo significa che in tutti i tempi, dal passato remoto fino al futuro, ciò che resta, ciò che è perpetuo, ciò che è eterno è il volto di Dio. Possiamo concludere da ciò che il volto di Dio è ciò che occupa tutti i luoghi del mondo e tutti i tempi dell’esistenza. Questa è la prova sufi, meravigliosa, che troviamo nella meraviglia di Dante, la Divina Commedia. Il poeta che ci rallegra con la sua presenza stasera è un culmine di bellezza; nel Paradiso di Dante arriviamo al culmine della bellezza, gli spiriti umani arrivano lì per immergersi nella passione, nella bellezza. Quella è la fase della visione divina e cioè del guardare il volto divino. E quindi il volto di Dio è ciò che resta, il volto di Dio è la bellezza, il volto di Dio è ciò che rivela tutti i gradi della bellezza e della sublimità spirituale. Non è un’idea soltanto sufi, è anche un’idea che credo sia l’essenza di questo incontro qui, oggi, a Rimini, del quale sono molto contento di far parte, grazie.

 

WAEL FAROUQ:

Il volto, come ha detto Davide, lo spazio del dramma umano, della tragedia, di tutta la complessità umana. Come ha detto il professor Fadl, il volto è stato lo spazio di tutti i sensi umani, è stato anche il campo di battaglia della cultura araba nell’ultimo secolo. Nella traduzione araba, il volto di Dio è la bellezza del Paradiso, guardare questa bellezza, questo volto di Dio, è il più alto livello del Paradiso. Tutti e due gli interventi, anche se partono da diverse tradizioni, con diverse letture, finiscono secondo me a un punto simile: il volto è il mistero perché si vede, si guarda ma non finisce mai i significati che può dare. Il mistero è una parola che mi colpisce tantissimo nella tradizione cristiana: il mistero, perché mistero? Perché ognuno di noi è chiamato ad andare a incontrarlo, perché ogni incontro con questo mistero può generare un nuovo significato, può contribuire alla cultura umana. Una novità: ognuno di noi è unico e ogni incontro che fa ognuno di noi con questo mistero è capace di generare un nuovo significato, un nuovo senso. Ecco il volto, o lo spazio del senso e del significato.

 

Trascrizione non rivista dai relatori

Data

20 Agosto 2019

Ora

21:30

Edizione

2019

Luogo

Salone Intesa Sanpaolo B3
Categoria
Incontri