IL POSTO A TAVOLA: LUOGO DI EDUCAZIONE E GUSTO

Partecipano: Stefano Berni, Direttore Generale Consorzio per la Tutela del Formaggio Grana Padano; Massimo Folador, Consulente Aziendale; Marco Gatti, Giornalista; Alessandro Meluzzi, Psichiatra, Psicoterapeuta e Fondatore della Comunità Agape Madre dell’Accoglienza. Introduce Paolo Massobrio, Giornalista e Presidente del Club di Papillon. In occasione dell’incontro presentazione del libro Adesso 2009. 365 giorni da vivere con gusto di Paolo Massobrio (Ed. Comunica).

 

MODERATORE:
Buongiorno a tutti e sinceramente grazie per essere presenti numerosi anche quest’anno. Voglio ricordare che questo è il settimo anno che facciamo un momento che coincide sempre con l’inizio del Meeting, un momento d’incontro dove in qualche modo fissiamo la mission del nostro impegno, perché ribadiamo e presentiamo il lavoro per stare insieme tutto l’anno. Io credo che il tema dell’alimentazione del gusto sia oggi un tema sempre più attuale. Tra i riconoscimenti che abbiamo avuto, c’è stato il coinvolgimento nel il comitato scientifico dell’Expo 2015, che ha come tema proprio l’alimentazione, dove io ho potuto, questo lo dico con una certa soddisfazione, parlare davanti ai commissari di tutto il mondo sul tema del gusto. Il gusto non è una cosa elitaria, una cosa per pochi, una cosa per ricchi. Il gusto è una cosa che c’è, ci è dato. Il gusto è una cosa alla quale tendiamo, come tendiamo alla bellezza. Credo che questo sia esattamente il tema del Meeting “O protagonisti o nessuno”: è protagonista uno che va al fondo, come mi è stato insegnato proprio qui al Meeting, al fondo di tutti i desideri che ha nel suo cuore e il gusto ci interpella, almeno cinque volte (a me tre volte) al giorno, e la cosa non può essere lasciata al caso. La storia del Club Papillon è nata al Meeting. Ricordo quando Giorgio Vittadini mi lanciò la sfida di creare un movimento nazionale di consumatori. Io non sapevo bene come fare, perché non ho studiato da presidente del movimento di consumatori, io faccio il giornalista e spero di fare bene quello, quindi sinceramente non sapevo come fare. Provammo a metter su, sette anni fa, un incontro nella fiera vecchia del Meeting e da quell’incontro sono nati i primi Club di Papillon ed i primi gruppi in Italia. Oggi sono cinquanta, siamo seimila associati, e tra le tante cose che facciamo, che sono state documentate anche dal video che è stato proiettato alle mie spalle, c’è un lavoro in particolare che ci ha dato grande soddisfazione, che è questo libro per la famiglia che vendiamo al Meeting. Ne abbiamo fatto una edizione speciale apposta per averla al Meeting, prima di venir distribuito in tutte le librerie d’Italia. Questo libro è stato concepito da un gruppo di persone che man mano abbiamo incontrato per mettere il gusto e la bellezza in contatto con la cosa più cara che abbiamo, la famiglia, cioè la casa, il luogo dove ancora, qui in occidente, in Italia, si coltiva l’educazione. Abbiamo voluto dare col nostro lavoro un supporto per dire che ciò che noi intendiamo come gusto è proprio un aspetto fortemente educativo, che ha a che fare col significato dell’origine che ci tocca. Questo è un lavoro firmato da me, forse perché del libro sono il capofila, però è veramente frutto di un lavoro collettivo. Le venti persone che hanno collaborato e che poi Marco Gatti ci presenterà, hanno fatto molto di più di ciò che ho fatto io, perché hanno messo veramente l’anima dentro a questo lavoro.
Abbiamo con noi oggi Massimo Folador, l’autore del libro di successo “L’organizzazione perfetta” e che qui però ha la prima copia del secondo libro “Il lavoro e la regola”, un libro di management scritto sulla regola di San Benedetto, sul modello della regola di San Benedetto; con noi anche Don Angelo, che fa un opera straordinaria a Torino e Alessandro Merluzzi, conosciutissimo, comunicatore, psichiatra; Marco Gatti poi è il nostro amico fedelissimo senza la cui generosità non potrebbe esistere tutta l’attività dei Club Papillon. E infine Stefano Berni, Direttore Generale Consorzio Tutela del Formaggio Grana Padano, a cui do la parola.

STEFANO BERNI:
Grazie Paolo dell’idea che hai avuto dell’iniziativa. Io ho accettato di parlare in un incontro come quello di oggi per dare qualche spunto sul tema proposto, sul rapporto che si ha e che ciascuno deve avere con il gesto del mangiare e con il gesto dello stare insieme, della compagnia che è legata al mangiare. Purtroppo la compressiamo, per la riduzione del tempo che ognuno di ognuno di noi ha subito dall’evoluzione del lavoro, dall’incedere degli impegni. La compressione del tempo da dedicare al cibo ci ha portato sempre di più ad una cultura americanizzante, ad una cultura del “fast”, a quella che io chiamo “fast” disordinato, quindi a una velocizzazione, a un abbandono dei momenti di riflessione, di incontro, di piacere dello stare a tavola. E così, in questo modo, pian piano e neppure tanto lentamente, siamo entrati nell’era delle problematiche alimentari, che stanno inducendo, tra le cause più vistose, l’obesità, l’ipertensione, ma non solo: mille altri problemi sono legati al cibo, perché buona parte dei malanni che possono capitare nel percorso vitale, sanitario di una persona – non per rubare argomenti al dott. Merluzzi – derivano dal modo di mangiare. Queste problematiche sul cibo sono arrivate – io non credo del tutto involontariamente – bene o male anche in Europa, più lentamente, con più resistenze, in alcuni paesi di Europa in modo più veloce; in Italia o in altri paesi mediterranei per fortuna un po’ meno. Anche noi abbiamo cominciato a confrontarci con queste problematiche e quindi adesso si sta aprendo una nuova era che rischia di generare confusioni, che è l’era del cibo salutistico. E noi stiamo assistendo tutti giorni – io ovviamente in maniera un po’ più attenta perché fa parte del mio lavoro – ad esercizi, esperimenti e anche iniziative di strateghi della comunicazione del marketing, che stanno inventando e raccontando caratteristiche alimentari salutistiche troppo spesso, e, mi permetto di aggiungere, a mio avviso quasi sempre sovrastimate, “iper-raccontate”. Questo aspetto della ricerca di marketing (e quindi non di realtà scientifiche) orientato all’ipersalutismo, per correggere i problemi dell’alimentazione scorretta che ha portato e sta portando sempre all’obesità, non va bene: anche questo, a mio avviso, confonde. Io credo invece che la chiave sia conoscere, informarsi per mangiare nel modo più corretto possibile. Però mangiare deve rimanere un piacere, un piacere intelligente, ma un piacere; il cibo non può essere visto o considerato una medicina. La medicina si assume perché la si deve assumere, ma lo si fa quasi sempre malvolentieri. Però il piacere del mangiare, che deve rimanere la parte fondante di questo gesto quotidiano, non è data solo dal gusto, da quello che si apprezza quando si introduce un alimento nella bocca, ma è dato anche dalla consapevolezza, quindi dalla conoscenza e dalle suggestioni che il cibo, che ho introdotto o devo introdurre da lì ad un attimo nella bocca, può evocare. Quando si mangia, quando si gusta un prodotto, credo che sia importante sapere da dove viene, come è fatto, come è preparato. Questo è il primo passo verso la consapevolezza del cibo che si deve andare a mangiare o si sta mangiando. Ad esempio, un prodotto D.O.P. – il grana padano lo è, ma ovviamente non è l’unico – non rappresenta solo un piacere e una garanzia salutistica. Un prodotto D.O.P rappresenta un territorio, un ambiente, una tradizione, una cultura, rappresenta una storia reale. Diceva Paolo prima: la storia del Grana Padano nasce 1000 anni fa – la farò molto breve – nell’abbazia di Chiaravalle, dove i monaci cistercensi, quando le bovine si autoalimentavano andando a pascolare in primavera ed in estate nei pascoli, avevano latte in abbondanza. Al contrario, nella fase autunnale e invernale, il latte era molto più scarso, per cui ci si trovava di fronte al problema di non dover gettare del latte che veniva prodotto in grande abbondanza nella primavera e nell’estate e di conservarlo. Questi ingegnosi monaci hanno provato diverse ricette, fino a quando hanno inventato questa ricetta che ha prodotto questo formaggio che alla fine è diventato grana padano o parmigiano reggiano. E’ stato un modo intelligente di conservare i valori nutritivi di un prodotto che, altrimenti, non sarebbe stato consumato e si sarebbe dovuto buttare via, perché ovviamente il latte dura qualche giornata e poi deteriora, mentre la maturazione di un formaggio a lunga conservazione non solo è un processo di conservazione, ma anche di sanificazione. Non c’è un prodotto più sano da un punto di vista caseario (non voglio invadere campi diversi) di un formaggio a lunga stagionatura, perché durante la stagionatura avvengono dei processi di sanificazione, di pastorizzazione, che rendono questo prodotto che si chiama grana padano (o che abbia un altro nome è la stessa cosa) ricco di una grande capacità alimentare e di una grande capacità salutistica. Per chiudere, io credo che sia importante recuperare questi gesti, questi modi dello stare insieme, dello stare a tavola, con la consapevolezza di quello che si fa assieme agli altri, che si fa per se stessi, per mangiare in modo piacevolmente e gradevolmente corretto. Grazie.

MODERATORE:
Bene. Grazie all’onorevole Stefano Berni, perché Stefano Berni è stato anche onorevole quando c’era ancora la Democrazia Cristiana..

STEFANO BERNI:
Sì, dal ’92 al ’94

MODERATORE:
Bene. la parola ora a Massimo Folador.

MASSIMO FOLADOR:
Grazie Paolo, grazie a voi, oggi, di poter parlare, per fortuna, non sempre e solo del mondo d’azienda, ma anche di una mia altra grande passione che è lo stare a tavola e il vino.
Vorrei partire proprio da questa esperienza. Quando ho avuto la fortuna di incontrare qualche anno fa e di poter vivere vicino ad alcune comunità monastiche mi colpì, tra le tante cose, quella che potrei definire una sorta di leggerezza. I monaci mi diedero subito una sensazione di un modo di fare, un modo di pensare, un modo di essere che denotava questa capacità di ascolto, fatta di dettagli, fatta di piccolezze, fatta di presenze, questa capacità di comprendere e di intervenire nelle cose quotidiane: intervenire nell’ordine, nel comportamento, nella parola. Ecco, la sensazione che loro davano era questo loro esserci, essere lì presenti, in maniera quasi leggera rispetto a qualsiasi piccola o grande cosa facessero. Di qui un po’ la voglia, la curiosità di andare a capire da dove saltasse fuori questa leggerezza. E nel farlo fu appunto un monaco abate che mi diede da leggere la Regola di san Benedetto. Fu il mio primo incontro ufficiale con questo mondo, con questa tradizione. La Regola è un libricino – non so chi di voi l’abbia mai letto – un libricino piccolo, quasi un bigino. Uno se pensa a Sant’Agostino, ai grandi padri della Chiesa, crede di trovare anche in San Benedetto questi grandi volumi, invece lui no, lui scrive una cosa molto piccola – sono 73 capitoli – e ti meravigli che dopo questi 73 capitoli a Montecassino sia sorta una tradizione così grande. Però sono 73 capitoli molto concentrati, pieni di bella sapienza. Il termine sapere ha come radice etimologica il termine sal, sale. Sapienza nel monachesimo, nei monasteri, sta a significare non colui che sa ma colui che sa dare sapore alle cose che dice, alle cose che fa. Non è tanto la conoscenza in sé, ma la capacità di intervenire nelle relazioni, nelle cose, dando sapore, dando spessore, dando gusto. La Regola, subito all’inizio, descrive due dimensioni diverse. La prima nel Prologo. C’è una frase bellissima all’inizio del Prologo che dice: “chi di voi non vuole essere beato?”. Il Prologo è un po’ un inno alla persona, un inno alla veglia, alla necessità che ha la persona di crescere, di fare un cammino di conoscenza. La stessa parola monaco (deriva da monos, dal greco) esprime non solo una persona che sta nella solitudine, che è sola, ma anche la persona che ricerca la propria unicità. Un po’ il concetto del Meeting di quest’anno, questo concetto di protagonismo, ben espresso stamattina dal Vescovo. Nella Regola emerge subito nel Prologo la singolarità, la persona, il monaco. Già nei primi capitoli san Benedetto cessa di parlare della persona e dice: adesso vi parlo della comunità, di come la persona deve muoversi dentro una comunità. E qui c’è un altro aspetto importantissimo di san Benedetto, della Regola, ma direi di tutta la storia del monachesimo. E’ quello che Gregorio Magno, il biografo ufficiale (possiamo chiamarlo così) di san Benedetto, definisce la moderazione, di cui san Benedetto è definito principe, in qualche modo. Questa moderazione, la trovi nella capacità che lui ha di parlare di parlare alla persona, dicendo alla persona che il cammino che la porterà all’unicità sarà possibile, sarà reso possibile da una comunità, da una compagnia. Paolo usava il termine compagnia e la derivazione del termine compagnia da “cum panis” ci riporta all’argomento di oggi. Benedetto ha chiaro che non è facile fare un cammino personale, che è una crescita lunga, attenta, difficoltosa, per quanto affascinante e molto bella, e che non è neppure facile riuscire a farlo nella comunità. Perché questo accada servono dei momenti che leghino la persona ai suoi fratelli, alla sua comunità. E i momenti che nel monachesimo vengono riportati sono chiaramente momenti di preghiera, di meditazione comune, ma poi ci sono anche i momenti dello stare insieme, il momento della convivialità, il momento della compagnia, “cum panis (il termine “cum panis” sta a significare la persona che con me divide il pane, che con me ha dei momenti di piacevolezza, di gusto, come si diceva all’inizio). Questa è una prima dicotomia che troviamo nella Regola a proposito del gusto dello stare assieme. Ce ne è poi una seconda che è molto bella e che è curioso trovarla, all’inizio del capitolo 7 (il capitolo 7 è il capitolo dedicato all’umiltà, uno dei grandi capitoli, uno dei più lunghi dell’intera Regola). In questo capitolo san Benedetto riprende una metafora propria dell’antichità, che vede nelle Sacre Scritture, la metafora della scala. La scala intesa metaforicamente come il cammino che il singolo monaco, che la persona deve compiere nella propria vita, sta quasi a significare questa crescita continua, gradino dopo gradino. E lui nel dipingere, nel parlare di questa scala, dice che i lati di questa scala sono il corpo e l’anima. Mi ricordo che la prima volta che lessi questa frase mi lasciò un po’ interdetto. Abituato, insomma, a vivere di quella comunità la parte più spirituale, l’idea di trovare questo inciso molto forte sul corpo mi aveva in qualche modo affascinato, perché viene da pensare ai monaci, ai conventi come luoghi di spiritualità, quasi luogo dove scompare il corpo. Invece no: nella Regola c’è questa attenzione estrema che san Benedetto, il monachesimo dà al corpo come realtà che permette la crescita del cammino spirituale della persona. Il corpo è al servizio di questa crescita, al punto tale che di questa scala metaforica il corpo diventa una delle due motrici principali. E di fatto poi, il corpo, lo si trova in numerosi capitoli della Regola. Certo che i capitoli più importanti, quelli iniziali, sono dedicati alla Liturgia, alla preghiera, alla meditazione, alla lettura: la Regola resta, il mondo del monachesimo resta un mondo di spiritualità, ma è divertente, è bello, è affascinante cogliere dentro questo cammino questi aspetti che lui dipinge volta per volta. Ci sono dei capitoli dedicati a come vestirsi, a come riposare. Ce ne sono alcuni bellissimi, molto utili oggi, sull’utilizzo degli orari, su questa capacità, che nei monasteri tutt’oggi tanti monaci hanno, di cogliere la stagionalità, il ritmo naturale, il passaggio delle stagioni, e di adeguare anche parte della loro vita quotidiana a questi. Ma ce ne sono due, piccoli, come nello stile di san Benedetto, dedicati l’uno al mangiare e l’altro al bere. E’ chiaro che non è possibile trovare qui dentro dei compendi legati alla dieta, ma ci sono delle chicche molto belle su cui ci si potrebbe sbizzarrire e su cui tanti si sono sbizzarriti. Vorrei però dire due frasi che esprimono ancora una volta il concetto di equilibrio: l’ unicità che san Benedetto persegue e che cerca di far perseguire ai suoi monaci, sta nell’equilibrio fra queste nostre dimensioni. E lo dice nel capitolo del mangiare quando afferma: mi raccomando che il vostro cuore non sia appesantito dal troppo mangiare. In qualche modo, dunque, nel suo stile sempre molto parco, dice di questo stretto legame tra il mangiare e il mangiare in equilibrio, tra il mangiare bene, il mangiare salutare e l’attenzione che è importante avere a quello che è il cuore di questa ricerca spirituale. La seconda frase invece riguarda il bere: ben sapendo che è impossibile raccomandare di “non bere”, San Benedetto chiede ai monaci di non bere eccessivamente, perché il troppo bere fa andar via di testa anche le persone più sagge. Dentro questi due capitoli ci sono tanti altri aspetti che possono esserci utili, come l’attenzione per quello che noi oggi chiameremmo la dieta mediterranea: si parla di verdure ecc. Ma c’è soprattutto questa idea dello stare assieme. È una idea dello stare assieme diversa, che non è legata alla parola, ma che è uno stare assieme legato all’ascolto, un ascolto che diventa forse all’inizio quasi paradossale per chi non vi è abituato: l’idea di stare attorno ad un tavolo, con delle persone che tu conosci, in silenzio può sembrare all’inizio quasi assurdo. Ma è un modo che può generare attenzione a sé e all’altro. Ma ci sono altri aspetti, tre, che volevo rimarcare, che fanno parte del momento della convivialità. Credo che qualcuno di voi sicuramente abbia vissuto come primo aspetto importante l’ospitalità del monastero. Ci sono ben tre capitoli della Regola dedicati in maniera diversa all’ospitalità. Tra l’altro è molto bello il fatto che così come sopravvive in alcune lingue romanze, l’ospite non è solo chi è ospitato ma l’ospite è anche chi ospita, perché c’è un concetto di ospitalità che non è solo data da ciò che io ti offro (dal cibo, dal letto, dal bere), ma è data dalla parola che noi in qualche modo ci doniamo. Nel capitolo 53 della Regola c’è proprio una parte in cui viene detto all’abate di stare sempre sul tema dei suoi ospiti. E c’è un approfondimento simpatico, bello, nello stile di Benedetto, che dice: se per caso questo tuo ospite di dirà qualche cosa di particolare che ti torna poco comodo ascoltare, ascoltalo ugualmente, perché è possibile che il Signore abbia inviato proprio lui da te a dirti questa cosa. C’è questa idea di ospitalità che da una parte è dovuta al fatto che, come dice il Vangelo, nell’ospite, nel viandante, nel pellegrino, è presente Cristo, ma dall’altra è dovuta anche a questa idea di convivialità che produce idee, che produce confronto, che produce ascolto, che produce bellezza di relazione. L’altro aspetto ancora importante che si trova, è quello di rendere sacro ogni gesto, anche il lavoro più umile, ed è l’aspetto che ha permesso ai monasteri di produrre tante cose di qualità.
Da ultimo, il terzo aspetto importante, legato proprio al concetto di convivialità, è quello che si esprime soprattutto nei riti e nella festa. Per i monaci esisteva un modo di cucinare della settimana e un modo di cucinare della festa. La festa è la festa, è il momento in cui ci si ferma, in cui si fa dell’altro. Ho scritto nel primo libro che il concetto stesso di vacanza, che deriva dal latino “vacuum”, vuoto, sta a significare un momento diverso da quello abituale. Un momento in cui faccio vuoto, non mi dedico né ai miei colleghi, né alle mille cose che ho da fare, mi dedico a me, alla mia famiglia, ai miei affetti, alle persone che ho attorno e faccio festa, faccio festa nei vestiti, faccio festa nello spirito, faccio festa nelle cose che mangio, nelle cose che bevo, faccio festa. Ecco questo è un altro aspetto bello, che è tuttora bello incontrare nei monasteri.
Due riflessioni finali: la prima è l’ idea, quasi paradossale, che la persona che ha la voglia di fare un cammino lo può fare solo all’interno di una compagnia. Compagnia che a sua volta è rafforzata e valorizzata dal contributo della singola persona. Questa credo sia la prima grande antinomia: questa moderazione, questo equilibrio che Benedetto cerca lentamente nella sua vita a Montecassino. L’altra riflessione invece, l’altro concetto che è emerso anche questa mattina nella predica, è quello del valore della singolarità, che si esprime nelle piccole cose quotidiane. Grazie.

MODERATORE:
Grazie Massimo. Inviterei ora a parlare Alessandro Merluzzi.

ALESSANDRO MELUZZI:
Grazie innanzitutto Paolo di avermi invitato qua oggi con voi a spezzare il pane di parola, un pane di parola che come Folador ci ha ricordato non è meno importante del pane fisico, proprio perché ciò che rende l’hospes (l’ospite) diverso dall’hostis, parola che gli è contigua, vicina, è proprio la capacità di condividere qualche cosa, una relazione, un rapporto e noi sappiamo che il tema della relazione è fondamentale nel tema dell’umano, di qualunque cosa si parli, perché l’uomo è comunque sempre ed in ogni caso prevalentemente relazione. Lo è tanto che nel rapporto con le cose, quelle che in psicologia si chiamano relazioni d’oggetto, sembrerebbe di poter dire serenamente che più che la discussione sulle cose in sé è importante la discussione sulla relazione tra le cose e la relazione tra le persone e questo, che è sempre vero, è verissimo nel caso del cibo, del mangiare, del nutrirsi del dividere il posto a tavola. Nella piramide dei bisogni di Maslow, in cui questo psicologo americano degli anni trenta metteva i bisogni fondamentali dell’uomo, il bisogno di nutrirsi è un bisogno di base, è alla base della piramide così come il bisogno di dormire, di riposarsi, così come il bisogno di avere una certa coibentazione termica. E’ quindi un bisogno basilare. Il sesso, per esempio, è già su una scala leggermente più alta, perché appartiene ad un dominio di scelta. Ora, quando le cose che appartengono alla piramide dei bisogni diventano oggetto di una discussione concettuale serrata così come qua oggi, così come è nella nostra civiltà e perché qualche cosa si è rotto. Che cosa si è rotto? Seneca e gli stoici in generale ricordano che noi ci accorgiamo di avere un organo quando esso si ammala, ci accorgiamo di avere lo stomaco quando non digeriamo bene, altrimenti non sappiamo di avere uno stomaco; sappiamo di avere un cuore se il cuore batte male, altrimenti non ci ricordiamo di avere il cuore, ecc. Quindi la concettualizzazione delle cose è spesso direttamente proporzionale alla loro fatica. La problematizzazione è un segno di crisi. La nostra è una società fortissimamente problematizzata sul tema del cibo, questo è un fatto positivo o è un fatto negativo e quale riflessione induce in un contesto spiritualmente avveduto qual è questo? La breve riflessione che voglio fare è dedicata proprio a questo, perché, vedete, sul fatto che vi sia una relazione forte tra concetti, parole e cose non c’è nessun dubbio, ce lo dicono le parole stesse: mensa e mensum hanno la stessa radice, la radice del verbo mettere, dividere, frazionare che è un verbo che rimanda all’agricoltura, alla dimensione degli agrimensori. Quindi questa dimensione di una saggezza nel dividere, nello spartire cibo, terra, è nelle cose. Ma l’uomo così come non vive di solo corpo, non vive neanche di sola mente, perché altrimenti noi rischiamo di cadere in una trappola sottilissima, anche nel mondo dei credenti. Nel monastero ci sono monaci buoni e monaci cattivi, come tutta la storia del monachesimo ci ricorda. L’immagine del frate ghiottone popola frequentemente non soltanto tutta la narrativa laica e religiosa da Boccaccio a “In nome della rosa” di Umberto Eco, ma ci ricorda che comunque il tema del cibo ha bisogno di essere visto e guardato sempre in un orizzonte che va al di la del suo contorno fisico. Feuerbach diceva che l’uomo è ciò che mangia. Questo pensiero che l’uomo è ciò che mangia, io credo debba essere ribaltato completamente nel suo contrario: l’uomo non è ciò che mangia, ma l’uomo mangia ciò che è. Questo è il vero punto. Il tema del cibo, anche per rispondere alla domanda di Massimo, non può prescindere da questa domanda più ampia, da questo orizzonte più complesso. L’uomo mangia ciò che è e quindi l’uomo non può che ragionare su come mangia, su che cosa mangia, a partire dalla domanda eterna su ciò che è e quindi su quella antica eterna domanda su come scoprire quella scintilla di divino che lo abita e lo illumina. Se no il rischio è quello di cadere nella patologia, che nella nostra società è frequentissima, dell’ ortoressia, cioè la patologia del nutrirsi soltanto con alcune cose o perché sono sane o perché fanno bene o perché sono coltivate biologicamente o perché non fanno venire il cancro o perché vengono dal commercio eco solidale. E così come c’è un ortoressia fisica dobbiamo fare attenzione a non cadere in una sorta di ortoressia morale, che sarebbe il massimo della nevrotizzazione. Allora da questa considerazione molto generica sarebbe bene passare ad alcune considerazioni pratiche, quali? Che la nostra società è una società molto ammalata dal punto di vista del nutrirsi. Non ce lo dice solo l’incidenza dei disturbi alimentari psicogeni, dell’anoressia, dell’obesità, non ce lo dice soltanto una sorte di estetizzazione del rapporto con il cibo che molto spesso è il contrario dell’estetica e che diventa ad un certo punto una sorte di nevrosi gastronomica, consumistica, per cui siamo passati impercettibilmente dal mondo del fast food al mondo dello slow food, dai saloni del gusto di Carlin Petrini per arrivare al mondo del natural food. Io credo che se noi rimaniamo allo slow food ed al natural food e non ci poniamo la domanda, perdonatemi la provocatorietà dell’espressione, di una soul food, cioè di un cibo dell’anima, non usciamo da questa patologia. Allora alcune considerazioni sono quelle che saltano agli occhi per esempio nella famiglia. Noi siamo entrati nella patologia della tovaglietta individuale. Sono reduce da un lungo viaggio attraverso l’America Latina, in ambienti certamente non ricchi ma dominati da quel consumismo dei poveri che è spesso altrettanto nevrotico di quello dei ricchi, in cui la patologia della tovaglietta individuale ha rotto la sana santa abitudine di consumare i pasti comunitariamente nelle famiglie, nei gruppi, nelle organizzazioni, nel volontariato, anche nelle comunità religiose. Perché questa dimensione di dovere consumare l’atto del cibo come un momento minimalista, velocemente ed in una dimensione totalmente self help con l’aiuto del surgelato, del forno a micro onde, diventa tragicamente negativo per la vita della famiglia, per la vita del rapporto tra genitori e figli, per il rapporto tra coniugi, persino per il rapporto tra persone che vivono e lavorano insieme in attività nobili e volontarie. Quindi bisogna recuperare questa dimensione liturgica, corale, monastica del nutrirsi, perché se c’è un monachesimo dei voti e delle regole, c’è anche un monachesimo del cuore al quale nessuno di noi si può sottrarre. Questo monachesimo del cuore vive di alcuni momenti rituali, essenziali, senza i quali predomina la patologia del prevalere e dell’individuale.
Quindi io credo che, anche se costa un po’ di fatica, mangiare comunitariamente sia indispensabile dal punto di vista della salute della mente e dell’anima. E poi c’è un aspetto che non dovremmo dimenticare mai dal punto di vista educativo, che è quello che il cibo e la riflessione sul cibo non possono prescindere da una riflessione sulla giustizia. Vedete, noi viviamo in un mondo in cui il prezzo dei cereali lievita ogni giorno, ma non lievita come il buon lievito che fa lievitare la farina, cresce patologicamente, perché molti cereali e molti prodotti della soia vengono convogliati per il commercio dei biocombustibili. Basta percorrere le pianure del Paraguay, del Brasile e dell’Argentina per rendersene conto. Questa riflessione sul cibo e la giustizia sociale è una dimensione irrinunciabile per dei credenti. Se noi dimentichiamo di vivere in quel 20% dell’umanità che consuma l’80% delle risorse, lasciando il 20% delle risorse al rimanente 80% dell’umanità, non facciamo buon servizio né a noi né alla giustizia né al Signore che diciamo di servire.
Per questo far bene fa del bene soprattutto a chi lo fa. Vincenzo de’ Paoli lo ricordava e credo che proprio nell’ambito della Compagnia delle Opere, di Comunione e Liberazione, siano nate tante iniziative. Io conosco personalmente quella di don Angelo della parrocchia di Moncalieri, del Banco Alimentare di Torino. Ecco queste realtà sono realtà che dobbiamo valorizzare immensamente, perché l’educazione al non spreco nelle famiglie, nelle case è un elemento essenziale. Tra consegnare due euro frettolosamente in una cassetta dell’elemosina e preoccuparsi di portare un pacco di pasta comprato in più c’è una grande differenza, perché è un gesto che richiede un momento di coscienza in più, un momento di riflessione in più, una riflessione simbolica in più. Lo spreco del cibo che si realizza nelle famiglie è quanto di più tragicamente diseducativo ci sia. Vado a concludere. Io credo che nel cristianesimo ci sia, rispetto alle tradizioni religiose planetarie, una dimensione dell’incarnato sempre centrale e sempre imprescindibile: chi mangia la mia carne e beve il mio sangue avrà la vita eterna. Non semplicemente chi riceve una dimensione simbolica o una caduta di energia; chi mangia la mia carne e beve il mio sangue. In questa dimensione dell’incarnazione c’è qualche cosa che ci deve fare riflettere. Il fatto che l’Eucarestia sia fatta di pane e di vino ci ricorda una dimensione fondamentale del simbolico incarnato del cristianesimo. Se tutto questo è avvenuto nella Palestina dell’impero di Augusto e di Tiberio, è perché il grano e il vino rappresentavano la dimensione della tradizione, della cultura, della memoria. Qualche cosa che ha a vedere con la nostra identità, qualche cosa che ha a vedere con la dimensione della tradizione dell’essere alla quale non ci possiamo sottrarre. “Io sono il Dio dei tuoi Padri, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe” , dice Iddio a Mosè. Un Dio che si radica nella storia, un Dio che si radica nella carne, nel sangue, nell’identità. Non dice: io sono il Dio del firmamento e il Dio delle stelle, ma io sono il Dio dei tuoi padri. Questo radicamento nella storia, nella tradizione del cibo, della cultura, del lavoro è qualche cosa che è essenziale e questa essenzialità noi la cogliamo se ne cogliamo una sfumatura. Poiché, mi sono chiesto più volte, perché nella Genesi il sacrificio di Caino, che è un agricoltore, non è gradito mentre quello di Abele, il pastore, è accettato da Dio? Se noi, e questo me lo ha spiegato un amico rabbino, se noi analizziamo l’etimo delle due parole Caino e Abele, scopriamo che Caino è la radice di Cain che vuol dire possesso, possesso della terra, Cana di Galilea, possedimento, fattoria, mentre Abel vuol dire spirito libero, soffio di vita. Abele ci ricorda questo spirito libero che va e che non possiede. Questa dimensione della chenosi, del non possesso è rispetto al tema del cibo e della sua libertà un tema essenziale ed è un tema che, rispetto al posto a tavola su cui tu, Massimo, mi interpellavi, trova nella buona parola della notizia evangelica una risposta ultimativa: quando vi invitano ad un convitto sedetevi all’ultimo posto. Non soltanto per un tema di galateo, come ci direbbe Barbara Ronchi Della Rocca, per non patire la vergogna di dover essere fatti alzare e mandati più indietro, ma perché in quell’ultimo posto siedono gli ultimi. E chi sono gli ultimi in un convitto, in un banchetto, chi si mette solitamente in fondo in un convitto, nel banchetto? Ci avete mai pensato? I bambini. I bambini si siedono in fondo alle tavole, perché in fondo alle loro tavole hanno la gioia di potere giocare e sorridere. Quindi, quando qualcuno dovesse venire a dirmi alzati da quell’ultimo posto e vieni più avanti, il pensiero dovrebbe essere di rincrescimento, perché si viene portati, come adesso qui, in un posto più avanti a tavola, dove si è costretti a rendere conto di ciò che si fa, a portare un ruolo, ad assumere una responsabilità, un servizio. Se noi avessimo la capacità di sederci sempre all’ultimo posto, ci ricorderemmo la verità fondamentale della nostra fede, che il nostro non è un regno di potenti, il nostro non è un regno di re, il nostro non è un regno neppure di sapienti, neanche in termini monastici, ma il regno di bambini. Se non diventerete come questi piccoli non entrerete nel Regno dei Cieli. Quindi in questa dimensione di essere piccoli e di sedere all’ultimo posto gioiosamente, giocosamente, liberamente, io credo che noi troviamo anche la forza di rispondere alla tua domanda. Se abbiamo questa umile libertà di potere affrontare la vita ed il rapporto con il cibo, con il possesso, con la nutrizione e perfino con le nostre risorse economiche, secondo questa dimensione, io credo che l’incontro con il Regno sarà più facile ed anche più gioioso.

MODERATORE:
Marco Gatti, a te la parola per presentare questa edizione di “Adesso” che oggi, solo oggi in via eccezionale, in tutto il Meeting, iscrivendosi al Club di Papillon si riceve in omaggio. In prima fila abbiamo tanti altri autori di “Adesso”: Barbara Ronchi Della Rocca, vedo anche chi ha curato la grafica ed ha lavorato con il nostro editore, Silvana Russi, Beppe e Monica, Beppe Perrone e Monica De Vasis. I quadri sono di Maria Teresa Carbonato. Marco Magi che ha curato tutta la parte delle citazioni, mentre Elena Notari e Maurizio Lega si sono occupati dell’aspetto agricolo e dell’aspetto dell’universo.

MARCO GATTI:
Parlare dopo Meluzzi e Folador è più semplice e li ringrazio perché in realtà loro hanno tracciato quello che è il tentativo, hanno definito quello che è il tentativo che pesca lontano, perché questa agenda nasce veramente lontano. Essa nasce in quell’ascolto che ci ha ricordato Folador, uno degli aspetti credo fondamentali che ha segnato il nostro anno di lavoro. L’incontro con lui ha voluto dire capire una nuova dimensione, senza la quale è impossibile quella relazione a cui ci richiamava Merluzzi. Abbiamo capito cosa volevamo fare su Adesso, quando ci si è resi conto che mancava un aspetto fondamentale in quell’ascolto, in quella lunga tradizione che non avevamo più alle spalle, l’aspetto della bellezza che l’anno scorso Monsignor Negri ci rilanciava dandoci come compito di riportare questa bellezza all’interno delle famiglie.
Quest’anno ci sono delle novità. Andrea Antonuccio, che per tutti è il mago Mem…, per il Papillon è il mago Mem…, ha portato un contributo proprio su quel tema cui accennava prima Maurizio, su come vivere la tavola, in modo giocoso. E’ un modo per migliorare le proprie relazioni e troverete anche i suoi consigli su come poter passare, trascorrere in modo giocoso, diverso, a tavola un momento insieme. Ferrari e Paola hanno fatto una parte molto importante sui bambini, e questo è un altro aspetto che credo sia interessantissimo per i risvolti educativi. Un contributo molto importante quest’anno lo ha dato Guido Clericetti, che tutti voi conoscete. E’ un grandissimo giornalista, vignettista. Ha accettato questa sfida e vedrete con che simpatia accompagna tutto il percorso di Adesso. A Gabriele Crescioli dobbiamo una parte molto importante sulla sicurezza nel piatto, consigli su come evitare e imparare a riconoscere quello che mangiamo. Claudia Ferraresi invece ci introduce, con il suo garbo, con il suo tatto, a come arredare la casa nei diversi periodi dell’anno. Un’altra novità è Fausto Ribola sul tema del pane. Voi sapete che quest’anno abbiamo parlato molto del pane, perché comunque, come ci ricordava prima Meluzzi, pane e vino sono la radice di questa oggettiva tradizione cristiana con cui da duemila anni, bene o male, si ha a che fare, anche se qualcuno se ne vuole dimenticare. Due novità interessanti sono Tessaro, che ci parlerà della birra e Andrea Bortolini, che tratterà degli animali domestici. Quindi, come vedete, abbiamo cercato di dare un ampio quadro di ciò che può voler dire la bellezza in una famiglia.

MODERATORE:
Bene. Ringrazio tutti i relatori che hanno accompagnato questo momento di approfondimento e grazie per essere stati con noi.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

24 Agosto 2008

Ora

15:00

Edizione

2008

Luogo

Sala B7
Categoria
Incontri