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IL PASSAGGIO DI ENEA. L’artista porta sulle spalle i suoi padri
Il passaggio di Enea L’artista porta sulle spalle i suoi padri
Partecipano: Cristiana Collu, Direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma; Miro Fiordi, Presidente del Credito Valtellinese; Adrian Paci, Artista. Introduce Giuseppe Frangi, Presidente dell’Associazione Giovanni Testori.
GIUSEPPE FRANGI:
Buonasera a tutti, siamo qui a presentare questa mostra che è stata un po’ una sfida che abbiamo portato come Casa Testori, due anni dopo l’esperienza della mostra “Tener vivo il fuoco”, con un salto di qualità che chi l’ha vista ha già sperimentato. Rispetto alla narrazione delle opere che avevamo fatto due anni fa, questa volta ci sono le opere in carne ed ossa, e questo è un grande salto di qualità, è un grande salto della sfida. C’è un pizzico di follia in questa idea di voler montare una mostra di queste dimensioni e di quest’impegno che dura solo una settimana. E’ una sana follia, una buona follia, e dobbiamo essere grati al Meeting per averla resa possibile, perché solo una struttura come il Meeting poteva rendere possibile una cosa del genere. Mi è venuto da pensare che in fondo questo è un nostro piccolo The Floating Piers, le passerelle galleggianti che il grande Christo aveva installato lo scorso anno sul lago d’Iseo: le propose a dispetto della mobilitazione di energie e di mezzi, durarono solo lo spazio di sedici giorni, un attimo, furono visitate da un milione di persone. Quella scia arancione, quella passerella che era una sorta di disegno tracciato sul lago, c’è rimasta negli occhi e nel cuore, sia che l’abbiamo sperimentata andandoci, sia che l’abbiamo vista nelle migliaia di foto sui social. Il tempo breve fa capire meglio la preziosità di certi tentativi, restituisce forse di più l’intensità dell’idea: ed è così che mi sono messo il cuore in pace rispetto alla durata breve di una mostra che tutto sommato giudico molto ben riuscita, lo dico orgogliosamente, grazie al lavoro straordinario dell’equipe di Casa Testori, guidata da Davide Dall’Ombra con Luca Fiore, Francesca Radaelli, per i quali chiedo un applauso, come chiedo un applauso anche per il lavoro meraviglioso fatto dalla nostra architetta Martina Valcamonica, spero sia qui.
Il parallelo con le passerelle di Christo non è casuale, perché anche a Rimini in fondo vi proponiamo un attraversamento, anzi una molteplicità di attraversamenti, perché ogni istanza della mostra ha una modalità diversa di camminare sulle acque che separano il passato dal nostro tempo, la modalità sperimentata dagli artisti che abbiamo chiamato e che hanno accettato di venire. Per realizzarla, non abbiamo portato semplicemente delle opere, delle singole opere, ma dei veri e propri cicli, qualcosa di molto più grosso e di più impegnativo, che dice quanto gli artisti si siano implicati rispetto all’idea che poi è l’idea dello stupendo titolo del Meeting di quest’anno. E dobbiamo essere davvero grati agli artisti che hanno accettato di alzare l’asticella del loro coinvolgimento, arrivando a Rimini con delle installazioni che permettono sguardi sempre profondi e mai casuali. E’ una sorta di percorso per stazioni e ogni stazione accende una differente modalità di rapporto con il passato, che sia arte del passato o che sia semplicemente la dimensione umana o antropologica del passato. Tutti gli artisti che vedete sono legati da un profondo amore rispetto a ciò che li ha preceduti, a ciò che ha permesso che loro fossero: si è artisti perché altri lo sono stati prima di loro. Eppure, ogni volta che si varca la tenda di uno degli spazi della mostra e si entra nelle singole sale si percepisce che questo amore per essere vero a volte ha dovuto prendere la forma di una lacerazione. Il passato torna a vivere, a essere vivo nel presente, se si ha il coraggio di reinventarlo, anche se per reinventarlo fosse necessario voltargli le spalle. Ma questo è ciò che fa di un uomo un artista, spinge in avanti la coscienza di ciò che siamo, è un avventuriero che spalanca terreni nuovi e accende nuove visioni, come Enea, che portava sulle spalle il padre ma teneva per mano il figlio e aveva come desiderio, come mission, quella di costruire la città per quello che era suo figlio e che sarebbero stati tutti i suoi figli. L’artista è chi rende presente, cioè suggestivo per l’oggi ciò che per il mondo rischia di essere spesso solo un ricordo, una ripetizione. È emblematico il successo che sta avendo la sala di un grande artista come Emilio Isgrò, che ha cancellato in 35 tavole I Promessi Sposi, cioè il libro che lui ama di più: poteva essere ritenuto un atto trasgressivo rispetto a un maestro, in realtà è un atto di amore. E il pubblico ha percepito subito perché la cancellazione lascia emergere delle parole che sono parole chiave, che aiutano a entrare molto di più nelle pagine di Manzoni di quanto noi siamo abituati, ponendoci magari pigramente davanti alla scrittura del nostro grande Manzoni. Ed è proprio l’esperienza che Adrian Paci, che abbiamo qui con noi, presenta, propone con la sua proposta, la sua Via Crucis, ma poi ne parleremo appunto con lui. Chi ha già potuto vedere la mostra ha notato poi che si apre con un’immagine che è un po’ un’intrusione rispetto al percorso, perché è un fotogramma del viaggio interstellare di David Bowman, il capitano della Discovery One, alla fine di 2001 Odissea nello spazio, il capolavoro di Stanley Kubrick uscito proprio 50 anni fa. E’ una sequenza che non solo ha segnato la storia del cinema ma ha cambiato, in un certo senso, anche il nostro immaginario. Perché abbiamo pensato a questa immagine? Semplicemente perché dà l’idea della vastità di orizzonti che si spalancano nella mente di un artista ogni volta che si mette all’opera. E’ in questo spazio che si muovono, nel momento in cui si mettono all’opera. All’inizio del Seicento, il telescopio di Galileo cambiò lo sguardo dei pittori, costringendoli a una nuova idea di che cosa fosse un paesaggio, costringendoli ad alzare lo sguardo, a dilatare il senso dello spazio. Oggi quel tipo di dinamiche, di straordinarie sollecitazioni si sono moltiplicate e gli artisti devono metabolizzarle e farle proprie: ma avere messo quell’immagine è per dire che il percorso della mostra non ha nulla di retrospettivo, non c’è una volontà conservativa, pur sotto forme a volte trasgressive. La mostra vuole essere una proiezione in avanti, è uno sporgersi su quello che sarà, avendo fatto tesoro di quello che è stato. Come ha detto Achille Bonito Oliva, che è un grande critico, a volte discutibile ma sicuramente un maestro che è stato un punto di riferimento per tanti artisti nell’Italia di oggi, a proposito di una delle opere simbolo di questa mostra, la grande scultura di Gianni Dessì che domina al centro della piazza – quella grande mano che spunta dal terreno e regge quella casa gialla, la casa gialla retta dalla mano gigante, che potrebbe essere simbolo del passato nel senso di un gigante amico, il passato è come un gigante amico -, è una casa proiettata in avanti, scrive, non è una casa che vuole nascondere memorie, non è una trincea, è una casa squillante. Ecco, questo aggettivo squillante mi è molto piaciuto e mi piace consegnarvi questa immagine perché mi auguro che, in ogni sala in cui entrerete, vi capiti di avvertire come uno squillo con cui il passato ci avverte che a sorpresa va sperimentato davanti a noi e non dietro di noi.
Prima di passare la parola ai nostri ospiti, volevo chiudere – perché uno degli aspetti della mostra è che si vede poca pittura: oggi l’arte si esprime in tantissimi linguaggi, e a volte la pittura è quasi marginale, fa un po’ fatica a reggere il passo col tempo – ricordando questa cosa straordinaria che scrisse quello che forse è il più grande artista del Novecento, Umberto Boccioni, che profetizzava qualcosa che in fondo sono le immagini che vediamo nella mostra del Meeting. Diceva Boccioni, più di cent’anni fa, nel 1914: “Verrà un tempo in cui il quadro non basterà più. La sua immobilità sarà un arcaismo col movimento vertiginoso della vita umana. L’occhio dell’uomo percepirà i colori come sentimenti in sé. I colori moltiplicati non avranno bisogno di forme per essere compresi e le opere pittoriche saranno vorticose composizioni musicali di enormi gas colorati, che sulla scena di un libero orizzonte commuoveranno ed elettrizzeranno l’anima complessa di una folla che non possiamo ancora concepire”. Grandissimo profeta, perché in fondo la “folla che non possiamo concepire” è la folla del Meeting, se mi permettete.
La mostra nel suo percorso si apre con un grande coup de théâtre, che è la presenza di una grande opera di un grande maestro che è Andy Warhol. La cosa è stata possibile grazie al fatto che la mostra di Andy Warhol avvenne a Milano, l’ultima della sua vita, inaugurata qualche mese prima della morte. E lui, ritirandosi da Milano, aveva lasciato un’opera a chi aveva realizzato quella mostra. L’opera oggi è qui: nella serie molto vasta di varianti che lui aveva realizzato sull’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, è forse la più bella, la più completa. Oggi abbiamo la gioia di averla qui al Meeting, e la possibilità di averla, grazie al fatto che è di proprietà del Piccolo Credito Valtellinese: abbiamo con noi il Presidente, Miro Fiordi, a cui chiedo di raccontare l’evento epico di quella mostra, l’ultima di Andy Warhol. Finisco, prima di passare la parola a Miro Fiordi, e presento anche Cristiana Collu, che è qui con noi, che ringrazio moltissimo, l’abbiamo strappato da una serie di impegni. E’ la più brava direttrice di musei, metto la mano sul fuoco, lei si nasconde ma vi assicuro che è la più grande direttrice di museo che abbia mai visitato, l’unica che ha il coraggio di capire che un museo non si può accontentare del pubblico consueto ma deve cercare nuovi pubblici. E poi, come ho detto, abbiamo qui Adrian Paci, a cui non sarò mai sufficientemente grato per avere accettato la sfida di portare un’opera straordinaria come la sua Via Crucis al Meeting. Con loro parleremo dopo. Adesso passo la parola a Miro Fiordi che ci racconta quell’evento straordinario del 1987.
MIRO FIORDI:
Grazie Giuseppe, ma devo dire anche grazie al Meeting, perché di questi tempi avere un Presidente di banca che parla di arte è un grande vantaggio, quindi, grazie Giuseppe per questa opportunità. Il mio ruolo qui è quello del testimone: all’epoca, avevo i pantaloni corti ma mi occupavo di relazioni esterne per la banca e successe questo: è una storia di circostanze e di amicizie. Successe che ai primi anni Ottanta a Milano c’era questo imponente complesso conosciuto come il Palazzo delle Stelline, a 100 metri da Santa Maria delle Grazie e dal Cenacolo, sostanzialmente crollato a seguito del bombardamento del ’43 e mai ristrutturato. Lo acquisimmo con un accordo con il Comune di Milano e ci trovammo questo spazio enorme che era la mensa dove mangiavano le orfanelle, le stelline: ci si pose il tema di cosa fare di questo spazio continuo, una galleria lunga 80 metri e alta 15, larga 14 metri. Parlando di che cosa fare di questo spazio, nacque, grazie al suggerimento di una persona che non aveva ruoli in banca, ma era un nostro amico e aveva la caratteristica di conoscere i più importanti collezionisti di arte contemporanea in Europa e in America, l’architetto Giovanni Quadrio Curzio, un’idea. Una sera a cena ci disse: “Questo è uno spazio che dovreste destinare all’arte contemporanea”. Noi eravamo allora una piccola banca in cima alla Valtellina, sbarcavamo a Milano e prendemmo la cosa inizialmente come una battuta. Poi cominciammo a pensarci, a riflettere intorno a questo concetto molto semplice, che per noi esisteva il problema che c’è per tutte le imprese, ma io credo per ogni persona: imparare a guardare avanti. Ma qual è la cosa che permette di guardare avanti in modo più forte? E’ l’arte, è il passaggio dell’arte contemporanea: quindi decidemmo di avviare questa avventura, di gestire in proprio – oggi c’è una fondazione che lo fa, ma per molti anni lo abbiamo fatto da soli – una galleria d’arte a Milano. A quel punto di questa nostra decisione, Giovanni parlò con un suo caro amico che era Alexander Iolas, il gallerista di Andy Warhol, e un giorno, in un pranzo a Parigi gli disse: “Sai, ho lanciato a una banca l’idea di aprire un grande spazio a Milano, a 100 metri dal Cenacolo, di fare una galleria d’arte. Iolas saltò sulla sedia, interruppe il pranzo, si attaccò al telefono con New York e chiamò Andy Warhol. Perché Warhol, da quindici anni coltivava il sogno di fare, di rifare, di fare con la sua pop art l’Ultima cena di Leonardo. Ma non aveva mai avuto l’occasione di una location adeguata. E quando al telefono seppe che c’era la disponibilità di uno spazio, disse: “Va bene, io preparerò i quadri per questa mostra” e sostanzialmente ci fu un accordo quasi sulla parola, non ci fu nulla di scritto, nulla di contrattualizzato. Lui cominciò a lavorare dalla sua factory a New York, preparò una serie molto ampia di quadri sull’Ultima cena di Leonardo con le sue tecniche, con le sue modalità, la serigrafia colorata. Qualcuno ha contato le volte che ha presentato la figura di Cristo, sono 488, non so se il numero è preciso, ma certamente fece moltissimi pezzi di molte dimensioni, anche quadri molto grandi. Per lui, l’Ultima cena di Leonardo a Milano era già un’opera globale, quindi, dal suo punto di vista, perfetta per il suo lavoro di artista. E quindi fece questi quadri, ce li spedì in due grandi container, noi allestimmo, inaugurammo la nostra galleria nel gennaio del 1987 con questa grande mostra sull’Ultima cena a cento metri dal Cenacolo. Io ricordo nitidamente che quando andammo ad annunciare la cosa alle autorità culturali dell’epoca, in Regione, in Comune, all’inizio ci presero un po’ come dei matti, delle persone che non sapevano bene di che cosa parlavano, era una cosa considerata non possibile… Invece accadde, quella sera a Milano in Corso Magenta arrivarono 10 mila persone, noi ad un certo punto dovemmo chiamare la Questura, arrivò la celere, ma non si riusciva più a governare la massa di gente. Ma la cosa più straordinaria è che venne all’inaugurazione Andy Warhol. Partì da New York già molto ammalato, ma questo era un sogno che lui aveva coltivato per troppi anni per poterselo perdere. Arrivò a Milano, io lo conobbi in quella circostanza, era una persona di una cortesia e di una precisione inimmaginabili. Lui, sapete, era di origine rutena, una regione tra la Slovacchia, la Polonia e l’Ucraina, forse non tutti sanno che era stato un po’ educato alla religione cattolica ortodossa dalla nonna, si dichiarava religioso, anche se questo non era molto noto perché lo considerava un fatto da tenere gelosamente privato. Negli ultimi anni della sua vita ha sostenuto le mense dei poveri della sua parrocchia a New York, spesso andava a fare il volontario in questa mensa, ha pagato gli studi di sacerdozio di un nipote. Quindi arriva, e io di lui ho questo ricordo, e poi chiudo perché non voglio dilungarmi. Ma venne e si sedette nella galleria tre ore prima dell’inaugurazione, era contento come un bambino, un bambino che vedeva realizzato un sogno, e si mise ad autografare i poster della mostra per tutte le persone che arrivavano: giornalisti, persone della banca, addetti alle spedizioni, ai montaggi, spesso con autografi individuali, tanto era contento di questa cosa che si era realizzata. Ci fu questo grande evento, lui poi ripartì per New York e, come Giuseppe ha ricordato, quattro settimane dopo si sottopose a un intervento chirurgico in apparenza semplice, ma con un fisico molto debilitato morì per una complicazione. Questa mostra di Milano sull’Ultima cena è rimasta l’ultima mostra di lui vivente. Ma la cosa più importante, dal mio punto di vista, più commovente, è che quando lui vide la mostra realizzata ci chiamò e ci disse: “Voi mi avete consentito di realizzare un sogno, questo quadro non ripartirà per New York perché io ve lo regalo”. E il quadro che è in mostra qui al Meeting è di nostra proprietà, non perché lo abbiamo comprato sul mercato dell’arte ma perché lui ce lo ha regalato come segno di ringraziamento. Credo che vederlo oggi qui al Meeting, una manifestazione che potremmo definire pop, popolare nel senso più vero del termine, sarebbe ed è per lui che sicuramente lo vede, un momento di grande gioia. Grazie al Meeting per tutto questo.
GIUSEPPE FRANGI:
Allora, grazie a Miro Fiordi che ci ha permesso di iniziare così alla grande questo percorso della mostra. Il quadro, evidentemente, lo vedrete, e devo dire che io, avendo visto molte volte Andy Warhol, è la prima volta che mi capita di vedere Andy Warhol con un’opera unica: ed è in effetti abbastanza sorprendente perché se ne percepisce di più la grandezza, che è la grandezza – come cercavo di spiegare – di essere profondi sapendo che si deve stare in superficie, perché la nostra è una cultura che sta in superficie, non possiamo inventarci una profondità che non c’è più, che non esiste, però stando in superficie si può essere profondi. E questa sua scelta di rappresentare l’Ultima cena, che è evidentemente rettangolare in un formato quadrato, sovrapponendo le due immagini, è come una trovata straordinaria che da’ profondità a questa immagine che lui riproduce, come tutta la pop art, stando in superficie. Passiamo ad Adrian Paci. La prima domanda è molto, molto semplice: al Meeting è arrivata quest’opera che Adrian Paci ha realizzato per una chiesa di Milano, una chiesa del centro di Milano, San Bartolomeo, in una zona molto bella che amo, perché è di fronte a un meraviglioso palazzo di Giò Ponti, vicinissimo a un altro meraviglioso palazzo di Giovanni Muzio. Ma la chiesa è molto buia, è una chiesa barocca, è una chiesa in cui a volte si fa un po’ fatica ad entrare. Quindi ho immaginato Adrian Paci a cui viene chiesto di fare una Via Crucis per un luogo così, un po’ vecchio, un po’ scuro, un po’ oserei dire stantio, perché poi, come spesso capita, le chiese nel centro di Milano sono anche abbastanza deserte. E allora, che tipo di sviluppo il tuo pensiero ha fatto di fronte a questa committenza un po’ fuori dall’ordinario?
ADRIAN PACI:
Prima di tutto, buonasera. È la prima volta che parlo a un pubblico così vasto, così ampio, perciò ero preparato a una conversazione quasi intima e invece mi ritrovo quasi a fare un discorso. Ho ricevuto questa commissione per la Via Crucis nel novembre: dovevo fare il lavoro per Pasqua, non ricordo se aprile o marzo. E la prima reazione era un certo spavento: come fare una Via Crucis in così poco tempo? Prima di tutto, come fare una Via Crucis oggi? Poi la richiesta era anche abbastanza specifica ma un po’ bizzarra, volevano una Via Crucis in fotografia. E devo dire che quasi mi ha dato fastidio, all’inizio, vedevo in questa pretesa di avere la prima Via Crucis fotografica nella storia dell’arte qualcosa di sbagliato, qualcosa che non andava bene. Infatti ho detto: questa cosa non ve la garantisco, insomma, ci penso, ho bisogno di riflettere un po’, ci provo. Allora ho cominciato prima di tutto a pensare a quello che non volevo fare. Non volevo fare una Via Crucis scenografica, cioè non volevo fare una Via Crucis con cavalli, con soldati, con colonne, con palazzi, in costume, ecco. Non volevo fare una Via Crucis in qualche modo provocatoria, nel senso scandalistico, cioè non volevo fare un Gesù in jeans e la Madonna in minigonna. Allora ho cominciato a pensare a come portare questo compito non facile, anche perché si trattava di raccontare una storia che è stata già raccontata da 2000 anni nella storia dell’arte dai maestri. Però, l’obbiettivo è stato quello di portare questo compito apparentemente molto pesante a una dimensione di leggerezza, a una dimensione di intimità, a una dimensione di quasi familiarità con me. Ecco, allora, che la prima cosa che mi è venuta in mente è che potevo fare la Via Crucis nel cortile del mio studio. Da un po’ di tempo volevo farlo in pittura, e avevo detto a loro che questa cosa della fotografia non mi convinceva, mi sembrava molto pretenziosa, come se la chiesa, adesso che la fotografia è oramai un linguaggio già consolidato all’interno del discorso artistico, facesse finalmente il passo di dire: ecco, anche noi facciamo entrare la fotografia in chiesa, come se fosse una conquista o chissà cosa, quando invece la fotografia non è più una conquista nel territorio del linguaggio artistico. Allora, siccome da qualche anno, quando lavoro con la pittura, parto sempre dall’immagine in movimento, ho pensato di svolgere queste scene della Via Crucis davanti a una telecamera: perciò ho preso una semplicissima telecamere con mini dvd, molto banale, e ho chiesto a due amici, ex studenti, persone con cui condivido lo studio, Giovanni De Lazzari ed Emma Ciceri, di fare uno il Cristo e l’altra la Madonna. Era dicembre, perché a novembre mi hanno fatto la richiesta per cui potete immaginare che non era così piacevole spogliarsi nudo e caricarsi di una trave. Però, insomma, Giovanni, a cui piace questa dimensione di sacralità intorno a sé, ha accettato questa sfida e ha deciso di fare il Cristo. Possiamo vedere qualche immagine? Qua siamo appunto nel cortile dello studio. Io riprendevo queste scene con la videocamera e andavo a raccogliere, a selezionare i frame. E all’inizio volevo dipingere su delle tavole, poi però, guardando i frame, ho pensato che veramente loro avevano una freschezza che la pittura quasi faceva perdere. Ecco, allora, la decisione di rimanere nella fotografia, però di stampare questi frame un po’ elaborati su delle lastre di alluminio. Anche perché, specialmente se viste nella chiesa che Giuseppe prima descriveva, semibuia, il bianco tu lo ricevi soltanto nel momento del passaggio, quando, mentre cammini nella chiesa, per una strana coincidenza da qualche parte entra un raggio di luce e il metallo dell’alluminio riflette questa luce e la traduce nel bianco forte dell’immagine. Perciò ho radunato amici, padri di amici, amiche e così via, per un periodo di tre mesi e abbiamo lavorato su queste scene. Ho cercato di fare una Via Crucis sobria, dove quello che predomina è la solitudine della sofferenza di Cristo e la sua fragilità, la sua umanità. Spesso, parlando di questa Via Crucis, si fa il nome di Pasolini. Pasolini è un autore che io ho scoperto in Italia, non lo conoscevo prima, in Albania, e ho amato molto perché ho trovato in lui un’unione meravigliosa tra una memoria colta nella tradizione del passato con la freschezza e l’urgenza di uno sguardo del presente. Però, quando ho fatto la Via Crucis, non ho voluto citare Pasolini. In modo quasi spontaneo, non voluto, si sono messi insieme dentro di me questa memoria pittorica (perché io ho studiato pittura in Albania, e ho studiato principalmente pittura classica, pittura tradizionale, anche perché quando ho studiato in Albania, lì c’era un regime comunista molto duro, come tanti sanno, che faceva finire la storia dell’arte, come studio ma anche come pratica, con l’impressionismo. Tutto quello che era venuto dopo era materia da eliminare, da nascondere e da tenere nascosta), e i miei studi di arte legati a Masaccio, a Piero della Francesca, a Caravaggio, a Leonardo, a Vermeer, ecc.
Ecco allora che evidentemente il mio sguardo era contaminato in qualche modo da queste memorie, però ho cercato di riportare tutto nell’immediatezza di quell’esperienza che succedeva lì, davanti ai miei occhi, nel cortile del mio studio, con i corpi dei miei compagni, dei miei amici. E così sono nate queste quattordici stazioni. Qua siamo dentro allo studio, c’è un trabattello lì nell’angolo, c’è il calco di un altro mio lavoro che si intitola Home to go, dove c’è un uomo che porta sulle spalle un tetto che diventa un testimone, un altro testimone di questa Via Crucis. Qua c’è Giovanni, tra Emma e Laura nel ruolo di Maria e Maddalena, e qua questo scatto che è l’ultimo: a me piace perché all’improvviso ho scoperto che nel cortile dello studio c’era un garage che non usavo, ma lo usava un signore che aveva un furgone. Aveva la configurazione perfetta per il sepolcro di Cristo e allora in un attimo abbiamo trovato questo garage vuoto, Giovanni si è spogliato e subito si è sdraiato lì e abbiamo ottenuto quest’ultima scena. E’ stato un lavoro abbastanza intenso, però secondo me ha avuto successo nel momento che si è liberato dallo sforzo di dover affrontare questo compito anche importante, affrontarlo in modo eroico. Invece, ha preso forma quando ho portato questo compito nella dimensione quotidiana, del vissuto di luoghi familiari a me e anche a persone vicine a me.
GIUSEPPE FRANGI:
Prima di passare la parola a Cristiana Collu, volevo fare una piccola domanda ancora ad Adrian Paci, rispetto a questo progetto. Dal mio punto di vista è la più grande testimonianza di come tutto sia vero, che quindi il Cristianesimo è la cosa più semplice del mondo: la Via Crucis è bella perché lui ha avuto l’idea più semplice che si potesse immaginare e l’ha realizzata, cioè l’ha portata nel suo studio di Stezzano, un ex capannone industriale, e l’ha realizzata con quelli che erano i suoi amici. Però c’è un dettaglio che tu hai sfiorato e che a me interessa molto, il tema del bianco, perché Cristo è riconoscibile da questa costante bianca del lenzuolo per cui, anche entrando nella chiesa buia, uno segue un percorso che poi è la presenza di Cristo nelle quattordici stazioni; o sbaglio? E’ così? Nella semplicità dell’intuizione c’è anche questa profondità poetica di avere scelto questa costante bianca che accompagna il percorso di Cristo.
ADRIAN PACI:
Sì, ovviamente, alla fine il lavoro si traduce con segni concreti, precisi. E allora questo corpo luminoso, questo bianco del drappo che lui porta con sé, è quell’elemento iconico che accompagna sempre le quattordici stazioni e poi viene tradotto, stampato su alluminio da questo momento del riflesso luminoso che gli dà una dimensione di movimento. Perché mentre tu cammini nella chiesa la luce si sposta, e allora anche se l’immagine rimane fissa, non è veramente fissa perché la luce nell’immagine si muove. Questa è una dimensione che secondo me porta un elemento importante, anche se molto leggero, nel lavoro.
GIUSEPPE FRANGI:
Grazie. A Cristiana Collu ho tirato un brutto scherzo perché non voleva venire, dice che non è capace di parlare in pubblico: tutte scuse, in realtà è un personaggio che io ho amato molto, che stimo e che con Casa Testori abbiamo sempre tenuto come punto di riferimento per i criteri di intelligenza con cui realizza i progetti espositivi. Oggi lei è direttrice della più importante Galleria Nazionale di arte moderna italiana, cioè quella di Roma, è una dei venti famosi superdirettori voluti da Franceschini. Tra tutti i direttori, però, è quello che ha avuto le performance migliori dal punto di vista del pubblico, +70%.
CRISTIANA COLLU:
Se non lo dico mai…
GIUSEPPE FRANGI:
Non lo dici mai, ma ha avuto +70% nel 2015/2016. Non so chi di voi ha visto anni fa la Galleria Nazionale di Arte Moderna, era un museo molto triste e polveroso: in questo momento ha 500 visitatori al giorno, che nella Roma di oggi è una grandissima performance. Però la cosa che mi interessa, per cui ho chiesto a lei di essere qui, è che è una che ha sempre incrociato antico e moderno, non in maniera schematica, come avviene spesso, dove si trovano artisti che vengono chiamati a esporre a fianco di classici, magari in modo abbastanza pretestuoso. Ha saputo trarre degli incroci e dei cortocircuiti tra antico e moderno straordinari. Io ho in mente che la più bella mostra di Antonello che io abbia mai visto, la più bella mostra di arte antica, venne realizzata da Cristiana Collu quando era direttrice del MART di Rovereto, cioè del più importante museo di arte contemporanea in Italia: tra lo scandalo e lo sconcerto di tutti, decise di organizzare, in quel contesto di arte contemporanea, niente di meno che una mostra di Antonello. Ovviamente non era lei la curatrice, si era affidata a curatori super, però curò un allestimento con l’occhio di un uomo di oggi, con un occhio contemporaneo. Devo dire che io, che ho sempre amato Antonello, da quel momento ho incominciato a stra-amarlo, perché ho capito che è veramente un artista che parla all’oggi. Però la cosa di cui volevo parlasse oggi è questa capacità che lei ha avuto di rovesciamento di un museo vecchio e polveroso come la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, creando questa commistione di tempi. Se vi capita di andare a Roma, ve lo raccomando perché è un percorso pieno di sorprese. Il titolo è Time is out, il tempo è rotto, il tempo è frantumato: è un percorso temporaneo, innanzitutto. La Galleria non sarà per sempre così, lo sarà sino all’aprile del 2018, però è un percorso che mischia, per cui opere dell’Ottocento vengono esposte insieme ad opere degli anni Settanta, Ottanta e così via, arricchendosi l’una nel rapporto con l’altra. Volevo che lei raccontasse a un pubblico che magari non l’ha ancora vista, com’è nata questa idea dell’allestimento e come questa idea di allestimento si genera da un’idea di museo …
CRISTIANA COLLU:
Io veramente mi chiedo, ogni volta che accetto questi inviti, perché? Come mi è venuto in mente? Giuseppe, con la sua presentazione…
GIUSEPPE FRANGI:
…come se fossi a casa, vai!
CRISTIANA COLLU:
Credo che sarà difficile essere all’altezza della presentazione che lui ha fatto di me, quindi mi ha reso le cose ancora più complicate. Dovrei dire cose intelligenti e non so se ne sarò capace, perché mi vengono sempre in mente dei versi di una grande poetessa che è Mariangela Gualtieri, che dice in maniera insistente: “Appartengo all’essere e non lo so dire/appartengo all’essere e non lo so dire”. Cioè, lei dovrebbe saperlo dire perché è poeta e a me viene per contrasto di dire: “Anch’io non lo so dire, forse lo so fare”, almeno stando a quello che dice Giuseppe Frangi. Mi rendo conto però che a volte è necessario tradurre il proprio fare, non si può stare sempre nel backstage, dove io evidentemente mi trovo meglio e forse esprimo anche meglio quello che sono e che posso fare. Penso anche che ci sia una contraddizione in questo invito di oggi, perché ho di fronte a me delle persone che stimo molte e che sono Davide, Francesca e Luca, che forse avrebbero dovuto raccontare loro questa mostra. E spero che ne abbiano l’opportunità durante questi giorni, perché sarebbe stato molto interessante dialogare con loro – ma lo possiamo fare anche da qui – su questa idea del tempo. La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma oggi ha una mostra, che in realtà è una mostra della collezione, con un titolo, Time is out of joint, che è un verso, dell’Amleto di Shakespeare. E’ una frase intraducibile, Derrida ci ha speso trenta e più pagine per dire che in realtà non si può tradurre. In qualche misura, però, vuole dire che il tempo è fuori di sesto, è un tempo dissestato, non è più semplicemente quello lineare segnato dal nostro orologio: lo capiamo molto bene perché siamo sempre in relazione con un tempo che si dilata e si contrae, e che quindi viene filtrato da qualcosa che è il nostro corpo. San Luca diceva sempre (è una cosa che mi ripeto molto spesso) che siamo nella carne, e quindi questa carne è un tramite essenziale per la nostra percezione del mondo e del tempo. Quello che succede in Time is out of joint è che il tempo non governa in senso cronologico la presentazione di questa collezione che abbraccia in realtà due secoli, che va dal principio dell’Ottocento sino ai nostri giorni. Quello che ho voluto fare, l’ho fatto senza strategie, senza una tattica. Prima, mentre ascoltavo gli interventi e soprattutto l’intervento di Fiordi, mi ha molto interessato questa cosa, che tutto è stato possibile perché c’è stato uno spazio per l’evento, per qualcosa che poteva accadere: e quindi, sia la telefonata nel mezzo della cena che poi alla fine il gesto di Andy Warhol che regala questa opera, tutto è possibile perché c’è un canovaccio ma non c’è un vero e proprio copione. Lo rivendico sempre come un’attitudine molto italiana, la capacità di improvvisare che non significa essere solamente di essere dei cialtroni, cosa di cui spesso veniamo accusati: si improvvisa sempre sulla base di un canovaccio, di una struttura molto solida che è la memoria. La memoria del passato, della nostra tradizione, dell’identità, della cultura che comunque respiriamo e che comunque diventa solamente cultura del presente. C’è una frase molto bella che ripete spessissimo Achille Bonito Oliva, che è dimenticare a memoria. E’ quello che facciamo tutti, e sembra un ossimoro, una contraddizione, ma è proprio così. Leggevo oggi una frase della Bourgeois, che diceva che ogni volta che si svegliava la mattina doveva decidere se guardare al passato o stare sul presente. Se decideva di stare sul presente, quel giorno scolpiva, altrimenti non c’era niente da fare. E allora, quando dico che c’è questo spazio per l’improvvisazione, per me è lo spazio che c’è quando ognuno di noi ha una presa sul presente, una presa sul proprio tempo, e allora fa il suo tempo. Una frase che mi piace dire, e la ripeto spesso ultimamente perché mi interessa il gioco di parole in italiano: quando si dice che “una cosa ha fatto il suo tempo”, è come dire “mettiamola da parte, ormai non serve più”. Invece a me interessa il fatto che, se facciamo il nostro tempo vuole dire che lo stiamo costruendo, che stiamo davvero facendo gli eredi. Perché, chi è l’erede? Ancora una volta cito Derrida, forse con molta improprietà, ma l’erede è colui che eredita prima di tutto una responsabilità verso ciò che ha ereditato, verso ciò che deve trasmettere ma non solamente; è anche l’eredità sul presente, su quello che lui stesso deve fare. Purtroppo, spesso è un’attitudine solamente conservativa, e che guarda solamente verso il passato e ci blocca in questa responsabilità nella trasmissione di quello che abbiamo ereditato. Ma sappiamo che nulla può essere trasmesso esattamente così com’è, sarebbe un errore, sarebbe sbagliato, come imbalsamarlo, senza prendere nessuna decisione verso questa eredità. L’erede decide invece che la casa che ha ereditato la butta giù, la trasforma in un mausoleo oppure in qualcosa d’altro, e quindi che si assume la responsabilità di trasformare le cose, di cambiarle. Ed è un po’ quello che ho cercato di fare io, mettendomi all’opera in quel momento senza nessun pregiudizio, che significa un giudizio preparato prima. Come se mi lasciassi in qualche modo suggerire dalle cose stesse quello che devo fare: è come se uno diventasse in qualche misura uno strumento. Mi ha molto sorpreso una certa reazione che c’è stata sulla mostra. Perché per me fare Time is out of joint a Roma era come parlare di qualcosa che era molto familiare, molto normale: che in una città come Roma, fosse normale che il rapporto con il passato, con la rovina, con la persistenza del passato e della memoria passasse per altre vie. Perché in realtà è qualcosa che succede normalmente nelle nostre vite, perché le nostre famiglie sono formate da persone di età diverse che guardano il mondo in modo differente e che creano delle visioni differenti, e che però arricchiscono, definiscono la complessità del mondo. Oppure nelle nostre case, che sono piene di cose che abbiamo appena comprato o di cose che appartengono a persone della nostra famiglia, che hanno la loro storia. Quindi, succede che al museo, così come forse nella vostra mostra, chi fa saltare il banco è quel dispositivo, cioè in quel caso la galleria, il museo con la sua storia, questo spazio che per la prima volta ospita realmente delle opere al Meeting di Rimini: e io spero che sia l’inizio di una grande tradizione. C’è una cosa che mi interessa ultimamente in maniera abbastanza specifica, e cioè la responsabilità che il mio essere una donna alla guida di una istituzione pone rispetto alla questione della rappresentanza femminile, questa traduzione della rappresentanza femminile che pone sempre molte questioni ed è sempre molto complicata. In questo evento, per me è un problema di una certa urgenza, e quindi nel passaggio del titolo trovavo che ci fosse una dimenticanza. Poi, so che nella mostra è presente l’opera di un’artista, di una fotografa tedesca, se non sbaglio, che invece prende sulle spalle la propria madre. E’ interessante perché manca la figura della figlia, credo, della nuova generazione. E allora diciamo che è come se fosse stato da parte vostra recuperato, un po’ all’ultimo momento, forse grazie a Francesca, credo, quest’aspetto del femminile che porta una linea di tradizione, di pensiero, e l’avesse voluto recuperare un po’ così, all’ultimo momento. Questo per me è assolvere la mostra da qualsiasi peccato.
GIUSEPPE FRANGI:
Grazie anche per la sincerità della sottolineatura. Francesca ci ha salvato, però diciamo che il percorso, la centralità della presenza di Giulia Kramer è decisiva, perché è la prima opera che si incontra e risolve in maniera imprevista come solo gli artisti sanno fare il tema di Enea perché il peso del passato, che è diventato un’ansia per generazioni di artisti, un’artista con l’apostrofo, quindi un’artista donna, lo risolve in un abbraccio. Nel secondo scatto, l’artista non tiene più sulle spalle la madre ma la abbraccia, e quindi diciamo che è questo scatto poetico che risolve anche il tema del peso del passato, un peso che diventa passato che viene abbracciato. Quindi, diciamo che nel dispositivo del percorso della mostra è un passaggio chiave. Volevo chiedere invece ad Adrian, ancora, perché oggi sul Quotidiano Meeting ha rilasciato una bella intervista a Davide Amata: c’è un passaggio che mi ha molto colpito, uno sviluppo di quello che ci hai raccontato fino ad adesso. Hai detto che per te l’importante non è capire ma fare esperienza. A un certo punto dici: “State attenti che non è importante pretendere di capire”. Lo dico anche rispetto alle opere di arte contemporanea che ogni tanto si ha la pretesa di capire troppo, mentre tu dici che l’importante è farne esperienza: la Via Crucis in fondo è stata un’esperienza fatta con i tuoi amici.
ADRIAN PACI:
Spesso, anche nel contesto di un’intervista, uno si trova ad affrontare domande che è come se volessero esaurire l’argomento: cos’è questa cosa, mi dai la definizione della tua opera, ecc. E ovviamente, sì, viviamo un po’ in un’epoca che vuole esaurire le cose, le vuole capire in fretta, vuole passare oltre. Invece, per me la dimensione di capire è importante ma soltanto se vista all’interno di un processo di esperienza. Una volta con Giorgio si parlava di questo rapporto tra il capire e il patire, il capire attraverso il patire: c’è questa dimensione del fare esperienza quasi passionale nelle cose, tentare di andare oltre alla definizione della cosa, alla classificazione della cosa. E allora penso che questo lavoro sia importante per l’artista e non soltanto per chi fruisce l’arte: prima di tutto, l’artista non è quello che sa e che vuole raccontare agli altri quello che lui già sa, ma quello che vuol capire lui stesso, e allora fa esperienza dell’opera. L’esperienza dell’opera c’è nel farla, è un processo attraverso cui uno capisce di più. Spesso, anche quando insegno, dico ai miei studenti di non utilizzare l’espressione: “attraverso quest’opera voglio far capire…”, una forma che viene usata spesso. E invece no, tu non devi far capire nulla, tu devi capire, prima di tutto. Tu fai un’opera e se facciamo delle opere è perché vogliamo capire di più: allora il processo di fare delle opere è un processo di esperienza che poi si trasmette a chi si trova di fronte al lavoro, con la richiesta insolita di fare un’esperienza anche davanti al lavoro che definirei, più che finito, abbandonato dall’artista e consegnato allo sguardo degli spettatori.
GIUSEPPE FRANGI:
Grazie, un’altra osservazione: in questo momento è in corso una mostra molto bella di Adrian Paci, al Museo Diocesano di Milano. Raccomando ai milanesi di andarla a vedere, credo che abbiate trovato anche delle cartoline sul tavolo, non so se è finita, ma ce n’era in corso un’altra che, dal punto di vista della biografia, è molto importante per te. A Trapani hai esposto opere tue insieme a quelle di tuo padre: diciamo che, nel momento in cui si parla di eredità, una domanda così è un po’ inevitabile, perché tuo padre poi è morto che tu eri ancora ragazzo…
ADRIAN PACI:
bambino…
GIUSEPPE FRANGI:
…ed era artista lui stesso nell’Albania che raccontavi. A Trapani, per la prima volta, hai fatto una mostra in cui hai esposto opere tue insieme a quelle di tuo padre.
ADRIAN PACI:
Sì, è una mostra che è ancora in corso, fino a ottobre, a Trapani, nel museo di una chiesa ma dedicato all’arte contemporanea. Anche quella è una mostra nata quasi per caso, da un prete che studiava arte e voleva fare una tesi sull’arte contemporanea: voleva farmi un’intervista e in quest’intervista ha scoperto che io avevo un padre artista e che avevo con me qualche immagine dei suoi disegni. Palmeri, si chiama il prete che poi è anche il direttore di questo museo. Gli sono piaciuti molto e allora è nata questa promessa di fare una mostra. E’ stato un momento molto bello per me: mio padre ha lavorato all’interno di questo sistema che veniva delineato all’interno del cosiddetto realismo socialista in Albania, perciò doveva fare, come tutti gli artisti dell’epoca, dei quadri abbastanza celebrativi. Però, per fare questi quadri andava a fare tanti disegni, tanti schizzi, tanti ritratti. E la cosa che io da bambino ho scoperto, dopo la scomparsa di mio padre, e che mi ha stupito, è vedere come in questi disegni, nati in un rapporto molto diretto, molto libero con la realtà, c’erano una sincerità e una freschezza che poi mancavano nei quadri finali che erano destinati alle mostre ufficiali. Allora abbiamo raccolto nella mostra questa dimensione preparatoria del suo lavoro, che però è anche la dimensione più aperta, più libera, più sciolta, più sensibile, secondo il mio punto di vista: e abbiamo messo insieme quattro miei lavori video con questi disegni.
GIUSEPPE FRANGI:
Grazie. Prima di chiudere, Cristiana, questa cosa di Antonello ce la devi raccontare, è stata troppo bella. Voi non sapete lo sconcerto del mondo dell’arte quando girò la voce che Cristiana Collu, direttrice del MART, faceva una mostra di Antonello quattro anni dopo la brutta mostra fatta alle Scuderie del Quirinale di Roma. Ovviamente, c’è tutto un percorso critico che non ti chiedo di raccontare, però l’occhio di una direttrice di un museo di arte contemporanea che si confronta con uno dei massimi, una delle cose più belle che l’arte abbia mai prodotto, cosa fa, che ragionamento fa?
CRISTIANA COLLU:
Sono quelle cose di cui ho parlato all’inizio: fare una mostra come questa del passaggio di Enea è una follia, credo si sia trattato della stessa identica cosa. Ero appena arrivata al MART, era il febbraio 2012, l’idea di fare una mostra di Antonello mi è venuta ad aprile. La racconto così: arrivo al MART a febbraio e ho preso un destro, a marzo un sinistro, e ad aprile forse pensavo: “Sono ancora sul ring, sono ancora in piedi”. Insomma, ricordo che era il 16 aprile ed ero in uno stato come tanti di noi sicuramente avranno provato, quasi al fondo della disperazione. Avevo bisogno di raccontare qualcosa di diverso in quell’istituzione che ereditavo a mia volta e mi sembrava così complessa da gestire, avevo bisogno di un’idea. Mi venne appunto quella sera in cui mi sembrava di essere in una strada senza uscita, mi vennero due idee, in qualche misura sotto forma di visione. Una fu la magnifica ossessione che è la mostra che avrei inaugurato qualche mese dopo al MART, a ottobre. E poi mi dicevo: “Devo fare qualcosa nel 2013, che è domani, ho bisogno di un’icona”. Che cosa significa avere bisogno di un’icona? Avevo bisogno di un’immagine che attraversasse il tempo senza tempo, che fosse presente, torniamo al discorso che facevamo prima. E mi venne in mente, evidentemente, l’Annunciata di Antonello. Ho fatto passare qualche giorno e l’ho detto all’unica persona a cui potevo dirlo, cioè il Presidente del MART, e ho cercato di mantenere il segreto perché come tutti sappiamo i nostri progetti, soprattutto nella fase iniziale, sono come un tenero virgulto che non può prendere la luce: il rischio è che si bruci. E poi perché capivo che il progetto in qualche misura aveva qualcosa di dirompente, che poteva non essere gradito. Però era più che altro custodire il segreto per realizzare il progetto, piuttosto che la reale comprensione di quello che stavo facendo dal punto di vista di chi lo guardava da fuori. Per me, per la formazione che ho, in realtà vengo da studi di arte medievale, anzi, tardo antico, c’è stata sempre la percezione che l’arte in realtà non ha un tempo. Oggi leggevo un saggio che sarà presto pubblicato nel catalogo The time is out of joint: diceva una cosa molto interessante, “nelle opere d’arte la storia dell’arte inizia in quel momento, ogni volta inizia, ogni volta inizia quando si guardano le cose”. Questa visione dell’icona, questa visione dell’Annunciata di Antonello e della fragranza di questa immagine, ho voluta metterla a confronto con l’idea del ritratto. Per farlo, ho chiesto a Jean-Luc Nancy di curare una mostra che in qualche misura non fosse il contraltare, ma accompagnasse queste due, la possibilità di coesistenza di complessità nel mondo che abbiamo davanti ai nostri occhi. Non dev’essere esattamente il museo a creare delle barriere o a costruire dei muri, visto che tutti li vogliamo abbattere ma ci ritroviamo a costruirli o a disegnare degli ambiti dove sembra che possiamo operare liberamente solo se non c’è qualcun altro a disturbarci. In quel caso, era per me un esempio di straordinaria, magnifica convivenza: questa linea ideale dell’arte che è sempre archeologia del presente e prefigurazione del futuro, in ogni momento, anche quando si cerca di dimenticarla. Dall’altra parte, invece, ho chiesto a un grande, straordinario professore critico e curatore che è Ferdinando Bologna di curare la mostra: era come mettere due pilastri a sostenere quest’architrave che stavo costruendo. E’ molto difficile definirsi contemporanei, una definizione forse impossibile da dare se non con uno sguardo un po’ strabico sulle cose, possibilmente uno strabismo di Venere, che non si può avere guardando solamente al solco, se non è possibile crearne un altro. Ecco perché, quando sono arrivata qui, ho chiesto a Giuseppe se dovevamo stare proprio nell’ortodossia oppure se potevamo anche introdurre elementi eterodossi.
GIUSEPPE FRANGI:
Allora, grazie a voi tutti di essere stati qui, grazie a Miro Fiordi di essere intervenuto e di averci permesso di avere Andy Warhol, grazie a Cristiana Collu di avere accettato questo scherzo, questa sfida che le ho fatto, grazie a Adrian Paci, non solo per l’opera ma anche per la narrazione dell’opera che è stata molto importante e completante l’osservazione. Colgo l’invito che Cristiana Collu ci ha lanciato, che questo sia l’inizio di un cammino, di un percorso per portare l’esperienza dell’arte contemporanea come esperienza del presente anche nelle prossime edizioni del Meeting, avendo sempre idee un po’ folli come questa. Grazie a tutti.
CRISTIANA COLLU:
No, invita Francesca, Davide e Luca!
GIUSEPPE FRANGI:
Sì, venite su, e anche Martina, se c’è!
DAVIDE DALL’OMBRA:
Non credo si possa aggiungere molto tranne ringraziare a nostra volta gli ospiti e questo lavoro, il Meeting che ci ha permesso tutto questo, Martina Valcamonica che ha progettato questa bellissima mostra, che ha dato una casa a delle idee e le ha rispettate ed esaltate come credo non si potesse chiedere di più. Grazie a tutti voi e a Giuseppe Frangi!
GIUSEPPE FRANGI:
Quindi, arrivederci, forse, speriamo, se abbiamo altre idee folli per l’anno prossimo!