IL DRAMMA DI UN NUOVO INIZIO. “PROFETI” DEL NOSTRO TEMPO

Il dramma di un nuovo inizio. "Profeti" del nostro tempo

Un percorso curato e condotto da Costantino Esposito, Professore Ordinario di Storia della Filosofia all’Università “Aldo Moro” degli Studi di Bari. Collaborazione alla scelta dei testi poetici di Fabrizio Sinisi, Drammaturgo e Poeta. Letture a cura di Giampiero Bartolini, Attore. Immagini a cura di Nicola Abbatangelo, Produttore Esecutivo e Regista. Al violoncello Alessandra Cefaliello. Introduce Emilia Guarnieri, Presidente della Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.

 

EMILIA GUARNIERI:
Buonasera e benarrivati. “Il dramma del nuovo inizio. Profeti del nostro tempo”. È una cosa nuova quella che facciamo questa sera, un tentativo – l’abbiamo definito così insieme – un tentativo ironico, come sono sempre i tentativi. Ironico vuol dire che il valore di ciò che c’è dentro non dipende necessariamente dall’esito, anche se io credo che l’esito sia bello, questa sera. Un tentativo ironico e, come tutti i tentativi, coraggioso, perché quando uno tenta è perché ha il coraggio di farlo. Quindi ringrazio Costantino Esposito per aver accettato di assumersi il rischio di questo tentativo, perché è qualcosa che gli abbiamo proposto di fare e io mi assumo la responsabilità di averglielo chiesto e proposto di fare e io mi assumo la responsabilità anche di averglielo chiesto e proposto. E lo ringrazio per la passione che ha messo nel realizzare questo tentativo e ringrazio anche tutti gli amici che con lui hanno condiviso questa passione, hanno condiviso la costruzione di questo gesto. Perché in effetti quello di questa sera vuole essere un gesto, mi piace definirlo così: non è un incontro, non è uno spettacolo, è qualcosa di più di entrambi. È un gesto, cioè qualcosa che ha la pretesa di coinvolgerci non solo come ascoltatori ma come protagonisti. È un gesto, cioè qualcosa che viene portato insieme. Nasce, come vi dicevo, da un impeto di voler comunicare un contenuto; prima sta il contenuto, sta l’impeto di quello che volevamo comunicare, un contenuto che ci sta così a cuore e che sentiamo così vivo, da avere desiderato di proporlo in forma poetica, cioè creativa. Non perché altre forme non siano adeguate o non siano nobili, ma la poesia ha una sua nobiltà tutta particolare, consentitemi di dirlo. E quindi abbiamo utilizzato, hanno utilizzato, musica, poesie, immagini; e tutto questo, tutta questa ricchezza di arte, è per far parlare filosofi e teologi. Filosofi e teologi però particolari in questo caso, cioè che hanno avuto un ruolo profetico nel nostro tempo. Poesia che fa parlare filosofi: ma che cosa c’è in comune tra filosofi, teologi che sono profeti, che cosa c’è in comune tra la profezia e la poesia? Rileggendo il testo che Costantino ha preparato, mi veniva una risposta a questa domanda: ciò che c’è in comune tra la profezia e la poesia è la capacità di guardare oltre a quello che si vede, di guardare oltre il contingente; la profezia guarda oltre, la poesia legge oltre. Per cui, il tentativo di questa sera, adesso lo vedremo, ce lo potremo gustare, ovviamente è alla prova di noi che siamo qui, è alla prova di come saremo noi, di cosa succederà a noi di fronte a questo tentativo. Perché noi saremo introdotti ad ascoltare parole note e parole meno note, tessute insieme proprio con uno scopo, con uno scopo molto forte, che è quello di aiutarci a comprendere di più il tempo nel quale viviamo. Funzionerà, il tentativo? Riuscirà a commuoverci? Riusciremo a cogliere la poesia che c’è nella profezia? E soprattutto, perché lo scopo è entrare di più dentro la realtà, dentro la vita, mossi da questi profeti, riusciremo quindi a sentirci ancora di più protagonisti di questo nuovo inizio? Perché questo è lo scopo, questo il tema: il dramma di un nuovo inizio. Allora il tema per noi è quello di poter essere presi, conquistati e commossi per diventare più consapevoli di poter essere protagonisti di questo nuovo inizio. Perché – e concludo – è bello commuoversi, è bello emozionarsi di fronte alla poesia, è bello provare sentimenti di fronte alla bellezza ma per niente di meno che riguadagnare sé. L’emozione ha un senso per riguadagnare sé, la commozione e lo stupore di fronte alla bellezza ha un senso per riguadagnare sé. Quello che ci attendiamo e che desideriamo che accada dal gesto di questa sera è proprio una commozione di fronte a ciò che vedremo e ascolteremo, perché possa essere un aiuto a riguadagnare sé, a riguadagnare il senso di un nuovo possibile inizio. Grazie ancora.

GIAMPIERO BARTOLINI:
L’uomo folle.
Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “Ah, oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? E dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne alla mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dei si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!

Musica

Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; e chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dei, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!”. A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto – proseguì – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancora sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!”. Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?”.

COSTANTINO ESPOSITO:
Era il celebre paragrafo de La Gaja Scienza di Friedrich Nietzsche, pubblicato tra il 1882 e il 1887, ma già tutto gravido del dramma dello spirito del Novecento. Dio è morto, abbiamo sentito da Giampiero, e siamo stati noi i suoi assassini! Ma così facendo, non abbiamo perso soltanto il riferimento ad un valore morale assoluto ma abbiamo perso anche il nostro posto nel mondo. La morte di Dio trova il suo compimento nella morte di io, come raffigurato da questi volti martoriati di Francis Bacon, che abbiamo visto, e come risuonato nella musica struggente di Gaspar Cassadó. Questa dissoluzione dell’umano viene riconosciuta in maniera profetica da un grande teologo francese, Henri De Lubac, e in un libro apparso nel 1943, con il titolo di “Il dramma dell’umanesimo ateo”. De Lubac cerca di capire cosa sia accaduto con l’erompere del nichilismo nella cultura borghese, europea, tra i due secoli. Un nichilismo che getta la sua ombra lunga fino al nostro presente. Sentite De Lubac: “Che cosa è avvenuto dell’uomo di questo umanesimo ateo? Un essere che a stento si osa chiamare ancora essere, una cosa che non ha più interiorità, una cellula interamente immersa in una massa in divenire, uomo sociale storico, di cui non resta altro che una pura astrazione, al di fuori dei rapporti sociali e della situazione in cui si definisce tale. Quest’uomo è letteralmente dissolto. Che sia in nome del mito o della dialettica, Nazismo, Bolscevismo, perdendo la verità perde se stesso; in realtà, non c’è più uomo, perché non c’è più nulla che trascenda l’uomo.”. Ma di cosa parliamo quando parliamo di Dio, del Dio che è morto e del Dio vivente? Qui il nichilismo fa saltare il codice della tradizione morale cristiana, o meglio, il codice di un cristianesimo ormai ridotto a legge morale, a norma di comportamento etico e quindi ci costringe a riconoscere il contenuto non scontato delle parole che usiamo. De Lubac: “L’umanesimo ateo non poteva concludersi se non in un fallimento. L’uomo è se stesso solo perché il suo volto è illuminato da un raggio divino. Dio non è soltanto per l’uomo una norma che gli si impone e che guidandolo lo solleva, Egli è l’assoluto che lo fonde, è la calamita che l’attira, l’al di là che lo eccita, è l’Eterno che gli offre l’unico clima in cui può respirare.”. E’ questo che mi ha molto colpito di De Lubac, uno dei grandi profeti, perché lui riesce ad attraversare, a comprendere, a patire il dramma enorme di cui Nietzsche stesso aveva consapevolezza, della morte di Dio, proprio perché ha ben presente che cos’è il Dio vivente. Solo uno che sa chi sia il Dio vivente che può capire il dramma della morte di Dio e quindi il nichilismo inteso come il dominio della assoluta immanenza – non c’è altro, non c’è oltre – trasforma inevitabilmente questo di più, questo oltre, questa trascendenza come il respiro dell’essere umano, l’apertura dell’intelligenza; e in cosa la trasforma? Accettazione del fato, del destino cieco. Quando un senso ultimo di sé e delle cose più grande di sé e delle cose non è più possibile, l’unico senso che resta è sottomettersi alla ferrea necessità impersonale. Sentite De Lubac: “Se l’uomo si costruisce il proprio dio può per qualche tempo nutrire l’illusione di elevarsi e di emanciparsi, esaltazione passeggera. In realtà egli abbassa Dio e lui stesso non tarderà a sentirsi abbassato. Ben presto le antiche forze del fato che il Cristianesimo aveva allontanato ricominciano a pesare su di lui. Continuino pure alcuni a sognare paradisi illimitati, [allora come ora] altri, più perspicaci, non tarderanno a ricordare loro che questo fato non può essere vinto, che esso è al principio e alla fine di tutto e che la sola risorsa che resti all’uomo è di sforzarsi di amarlo: ego fatum amor fati”. Ma in fondo questo ateismo porta dentro di sé – questa è la cosa più sottile da comprendere ma anche la più interessante anche per il nostro tempo – porta dentro di sé questo ateismo, come rattrappita e senza più vita, la storia cristiana. Per così dire, questo ateismo è il lato oscuro di una tradizione data per già saputa; esso infatti ci si presenta come una pretesa assoluta che nasconde una assoluta solitudine, come un desiderio bruciante. L’abbiamo sentito in Nietzsche, l’abbiamo visto in Francis Bacon, come un desiderio bruciante senza più niente da desiderare, una sete infinita senza più acqua da bere. Ancora De Lubac: “Queste forme d’ateismo conservano spesso molti valori di origine cristiana, ma per il fatto di avere reciso questi valori dalla loro sorgente cristiana, furono impotenti a mantenerli nella loro forza e perfino nella loro autentica purità”. Esempi: Spirito, ragione, libertà, verità, fratellanza, giustizia, queste grandi cose senza delle quali non c’è vera umanità, che il paganesimo antico aveva intravisto e che il Cristianesimo aveva fondate, diventano presto irreali appena non appaiono più come un irradiamento di Dio, appena la fede nel Dio vivente cessa di nutrirle con i suoi succhi; esse diventano allora forme vuote e ben presto si riducono ad essere un ideale senza vita minacciato dalla menzogna a cui si applica ancora molto meglio la frase che Charles Peguy scrisse sul kantismo: “Il kantismo ha le mani pure.”. Cosa vuol dire? Che l’uomo crede con la sua ragione di poter afferrare e dominare il mondo in base alla purezza di una sua misura. “Il kantismo ha le mani pure ma non ha le mani.”. E allora? Conclude De Lubac: “E ora? Cosa ci tocca? Ritorneremo forse alla barbarie? Ad una barbarie molto diversa da quella antica, molto più atroce”. 1943. “Barbarie – la chiama – tecnica e centralizzata, barbarie riflessivamente inumana oppure sapremo ritrovare in condizioni anch’esse molto diverse con una coscienza approfondita e con un più libero e magnifico slancio, il Dio che la stessa Chiesa sempre ci propone, il Dio vivente che ha creato l’uomo a Sua immagine. Questa è – conclude questo grande profeta – al di là di tutti i problemi che ci premono la grande questione che oggi si pone.”. Pochi anni dopo lo scritto di De Lubac, un altro grande pensatore cristiano, Romano Guardini, metteva a fuoco la questione della fine dell’epoca moderna e che è il titolo di un suo scritto del 1950. Guardate, come diceva Emilia prima, si tratta di scritti che appartengono se volete ad una situazione e condizione spirituale lontanissima dalla nostra. 1950, pensate, nel pieno della ricostruzione, i blocchi americano e sovietico, la Germania distrutta… eppure a ben vedere qui si deve riconoscere che accade qualche cosa, che si gioca una partita che noi oggi stiamo ancora patendo. Qual è la ragione di questa fine dell’epoca moderna secondo Guardini? La cultura moderna è nata grazie a valori cristiani ma è ben presto diventata anticristiana, proprio perché ha ridotto il Cristianesimo ai suoi valori, senza più Cristo, che è la sorgente dei valori, e così l’edificio è crollato. Sentite Guardini: “Dall’inizio del tempo moderno si viene elaborando una cultura non cristiana. Per molto tempo la negazione si è diretta solo contro il contenuto stesso della Rivelazione, non contro i valori etici che si sono sviluppati sotto il suo influsso, anzi – questo mi sembra molto acuto, sentite – la cultura moderna ha preteso di riposare precisamente sui valori cristiani, come ad esempio quello della personalità e della dignità dell’individuo, del rispetto reciproco, dell’aiuto vicendevole, ma li ha visti – ecco il punto, ecco il nervo scoperto che ancora noi oggi viviamo – ma li ha visti come possibilità innate nell’uomo, non possibilità che l’uomo scopre incontrando un altro da sé, ma come qualche cosa che un uomo matura autonomamente grazie alle sue stesse forze interne. Per questo le stesse parole cristiane sembrano aver perso il loro contenuto proprio.”. Guardate è la seconda volta che torna, già De Lubac ce l’aveva detto, Guardini ce lo ridice: le parole cristiane diventano solo parole. Tenetelo a mente, alla fine ritroveremo la riconquista delle parole, ma non anticipo. Parole che non sono solo parole. Adesso sono solo parole vuote, concetti astratti. Sentite Guardini nel 1953, nello scritto intitolato “Natale e Capodanno”: “Chi oggi voglia esprimere un pensiero che renda il messaggio cristiano incorre in una grande difficoltà: non appena impiega le parole che da sempre hanno dato espressione a questo pensiero, nota che queste parole sono diventate inattendibili, il loro senso si è sfatto, si è fatto scolorito e inautentico. Chi parla ha continuamente la sensazione che le fondamenta non reggano.”. Proviamo a fare la controprova, dice Guardini: Molti allora cosa fanno? Tornano al mondo antico perché sono certi di poter trovare in un mondo pre-cristiano quei valori immanenti, assolutamente umani, grazie a cui l’uomo può raccapezzarsi da sé, sulla base della sua pura ragione, nel mondo, ma il gioco non vale perché i veri uomini antichi hanno per così dire qualcosa di “giovanilmente inquieto” ma da quando è arrivato Cristo è cambiato tutto perché Cristo – dice Guardini – ha guardato l’umano in maniera tale che l’uomo si è sentito guardato con una profondità, con una definitività, con una verità e con una commozione che non ha mai più potuto strapparsi di dosso. Potrà negare quello sguardo, potrà pretendere di essere puramente precristiano, ma è impossibile. Potrà maledirlo quello sguardo, ma non potrà più fare come se nessuno, come Cristo, l’avesse guardato. Cristo porta quella “tremenda chiarezza”, è bellissimo, è una tremenda chiarezza, con cui ha conosciuto ciò che è nell’uomo e ha subito l’esistenza umana. Perché quello sguardo è irripetibile? Perché Cristo guarda l’esistenza umana subendola, assumendola, patendola. Perciò, chiude Guardini, veramente da profeta: “Il vuoto di questi anni, degli ultimi anni – ancora una volta nazismo e comunismo, ma potremmo citare tante altre ideologie opposte, ideologie del nostro tempo – in realtà esisteva da lungo tempo, di cui lo sguardo affilato del profeta sentite Guardini conclude così, il tempo che viene creerà qui una chiarezza terribile, ma salutare. Nessun cristiano può rallegrarsi dell’avvento di una radicale negazione del cristianesimo, ma è bene che si metta a nudo quella slealtà, la slealtà di ritenere come una nostra scoperta ciò che solo l’incontro con Cristo ci ha fatto scoprire. Poiché allora – conclude – si vedrà qual è effettivamente la realtà, quando l’uomo si è distaccato dalla rivelazione e vengono a cessare i suoi frutti. Ecco qui i primi due profeti. Dunque, tiriamo un po’ le somme di questa prima tappa. C’è un filo rosso che collega la morte di Dio annunciata da Nietzsche, vale a dire l’implosione dei grandi valori cristiano-borghesi, valori propugnati senza Cristo, staccati dall’esperienza vivente grazie alla quale l’umanità occidentale li aveva scoperti, c’è un filo che collega la morte di Dio e il deserto dell’umano che da prima crede l’uomo di trovare in sé le forze per il compimento per la giustizia, per la felicità, poi, inevitabilmente, dispera. Ma, come tutta la parabola della cultura della seconda metà del Novecento ha mostrato, il dramma dell’umanesimo ateo e la fine dell’epoca moderna, questo è il passo che vorrei introdurre ora, hanno riaperto, non hanno chiuso nulla, hanno riaperto, con una essenzialità inedita, tutta la ferita del bisogno umano. Il nichilismo non significava solo una perdita e una desertificazione dell’umano, ma l’imporsi di una sua irriducibile, per quanto drammatica, esigenza. La distruzione degli idoli rendeva nuovamente libera la nostalgia di Dio solo che questa scoperta, questo nuovo inizio, non potevano essere l’esito di una analisi culturale, ma solo il farsi nuovamente presente di una voce, di un invito, di un annuncio che poteva ridestare l’umano. “C’è uno che ascolti il nostro grido?”. È la domanda che sentiremo tra un attimo che fa tremare i versi bellissimi della prima Elegia a Duino di Rainer Maria Rilke. Anche questo è un profeta e anche gli altri brani poetici che ascolteremo, come quello di Nietzsche, sono tutti di poeti atei, ma profeti anch’essi ed è la domanda che tende come uno spasmo d’attesa i volti delle donne di Edward Hopper e che si allarga nella voce del cuore e delle viscere del grande Johannes Sebastian Bach:
“Se anch’io gridassi, chi mai potrebbe udirmi tra le sfere degli angeli? E se anche uno di loro mi stringesse al suo cuore, io morirei della sua esistenza più forte, perché la bellezza è solo l’inizio terribile e noi lo sopportiamo , lo ammiriamo e quest’inquieto rifiuta di distruggerci. Ogni angelo è tremendo e così mi trattengo e serro in gola il richiamo di un oscuro singhiozzo. Ah, a chi potremmo rivolgerci? Agli angeli no. Agli uomini nemmeno. E agli animali terresti anche loro lo sentono che noi non siamo di casa, a nostro agio nel mondo rivelato. Ci resta forse un albero lungo il pendio da rivedere ogni giorno. Ci resta la strada di ieri, fedele, viziata. Una vecchia abitudine che stava bene con noi e non se ne è andata ed è rimasta. Oppure la notte, la notte, quando il vento colmo di spazio ci consuma il volto a chi non resterebbe un anelito che sempre dolcemente ci delude, incombe con fatica sul cuore solitario? per chi ama è piu facile? Sì, sì, si occultano il destino uno con l’altro, ancora non lo sai. getta via dalle braccia il vuoto, dilata gli spazi che respiriamo. Gli uccelli forse sentiranno il volo più intimo, l’aria più vasta . Sì, certe primavere hanno avuto bisogno di te, qualche stella ha preteso che tu la sentissi, talvolta un’onda si è inarcata per te e quando passasti e la finestra era aperta e a te si donava un violino tutto questo era un compito, ma tu l’hai assolto o te ne stavi distratto ad attendere quasi ogni cosa annunciasse un’amata voce? Voce Senti, mio cuore, come sentirono solo i santi Dalla terra si è levato un immenso richiamo, ma loro, pieni di impossibile, rimasero in ginocchio e non se ne curarono. Così erano in ascolto. No! Di Dio non potrai mai sopportare la voce, ma ne senti il morire, l’infinita notizia che nasce dal silenzio. Certo è strano non abitar più la terra come una volta; non usare più i costumi appena imparati alle rose e alle cose del mondo in cui si intravvede una promessa; non dare più il senso di un futuro umano; ciò che si era in queste mani tremanti, non esserlo più, e abbandonare anche il nostro nome come un giocattolo rotto. È strano non avere più desiderio dei desideri, strano veder sventolare sciolto nel vento tutto ciò che ci univa ed essere morti. La fatica, il recupero è lentissimo fino a quando mano a mano si senta un poco l’ eterna. Ma i viventi fanno tutti lo stesso errore: fanno troppe distinzioni. Gli angeli, si dice spesso, non sanno se vanno tra i vivi o tra i morti L’eterna corrente trascina sempre con sé attraverso i due regni tutti i tempi ed entrambi col suono li sovrasta”.

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Un altro grande teologo, Joseph Ratzinger, aveva affrontato la questione cruciale del rapporto tra il passato della tradizione cristiana e il presente vivente di Cristo e della Chiesa nella sua celeberrima “Introduzione al cristianesimo” del 1968, anno cruciale per l’allora professore e futuro Papa, che lo riteneva come l’esplosione, il ’68, della grande crisi culturale dell’Occidente. Sentite Ratzinger: “Per le costellazioni spirituali del passato il concetto di tradizione costituiva un incisivo programma. Esso appariva come una struttura solida, protettiva, in cui l’uomo poteva affidarsi fiduciosamente. Oggi invece domina proprio il sentimento contrario, la tradizione appare come ciò che è superato, ormai sorpassato dagli eventi, mentre il progresso è come l’autentica promessa insita nell’essere, si che l’uomo non si sente a casa sua nell’ambito della tradizione, del passato, bensì nell’alveo del progresso e del futuro. Anche per questo motivo – continuava Ratzinger – una fede che le si fa incontro con l’etichetta di tradizione, deve apparirgli come qualcosa di superato che non può costituire il luogo della sua esistenza”. E’ interessante: la tradizione non può più costituire un luogo da vivere, il luogo della propria esistenza, per lui che ha riconosciuto nel futuro il campo obbligato dei suoi progetti e delle sue prospettive. Più passano gli anni, più sembra avverarsi questa visione profetica di Ratzinger. Una fede identificata con la tradizione che non interessa più gli uomini del nostro tempo. Ma questa palese constatazione non è tutto, anzi, è questo che anche qui mi ha interessato, questi autori perciò sono profeti e non semplicemente intellettuali o analisti. Non fanno solo l’analisi della situazione ma cercano di cogliere il nervo scoperto, cercano di cogliere la chiave segreta. Non è tutto dire che la tradizione sembra ormai deperita, non più un luogo vivente da abitare, perché questa constatazione introduce una coscienza più radicale, più interessante e cioè che la stessa natura del cristianesimo è di essere sempre qualcosa che accade ora. Quindi, capite, non si tratta più di dire: ahimè la tradizione si è estinta! È vero, ma di capire attraverso questo che il cristianesimo o riaccade ora o non è. In esso infatti l’Eterno si dà in una storia e la storia è qualcosa che “punge” , è il verbo che usa Ratzinger, qualcosa che punge, che buca come la punta di un ago il nostro presente. Sentitelo: “Noi uomini di oggi restiamo quasi ammutoliti difronte a questa rivelazione cristiana e ci chiediamo –attualissima questa annotazione – specialmente qualora la confrontiamo con la religiosità dell’Asia, se in fin dei conti non sarebbe stato per noi assai più facile credere nell’Eterno avvolto nel mistero. Se non fosse stato quasi meglio che Dio ci avesse lasciati ad una distanza infinita, invece di abbandonarsi al positivismo della fede – cioè al fatto che la fede è sempre un dato che si pone, in questo senso positivismo – in un’unica figura collocando così – sentite qui – collocando così la salvezza dell’uomo e del mondo come sulla punta d’ago di quest’uno punto di incidenza – Cristo è quella punta d’ago che in ogni ora presente, incide il tempo – Solo acutizzando il problema così siamo arrivati a cogliere – conclude Ratzinger – tutta la profondità del problema della fede, come oggi va affrontato. Insomma – si chiede – siamo ancora oggi in grado di credere? Anzi dobbiamo chiederci più radicalmente: possiamo ancora oppure non abbiamo persino il dovere di smetterla di sognare per affrontare la realtà?”. Abbiamo ritrovato la eco di questa domanda di Joseph Ratzinger in una bellissima poesia di Pierpaolo Pasolini. E’ una poesia che egli scrive quasi come fosse una lettera ad un giovane cattolico, prendendo le distanze ma riconoscendo vertiginosamente che Uno chiama e anche le immagini che vedrete sono due autoritratti dello stesso Pasolini che dicono un’altra cosa rispetto alla carne martoriata e al dolore muto di Francis Bacon.

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“Oh, Oh terribile timore la lietezza esplode contro quei vetri sul buio, ma tale lietezza che ti fa cantare in voce è un ritorno dalla morte e chi può mai ridere dietro, sotto il riquadro del cielo annerito. Non scherzo, perché tu hai esperienze di un luogo che non ho mai esplorato, un vuoto nel cosmo. E’ vero che la mia terra è piccola, ma ho sempre affabulato su luoghi inesplorati con una certa lietezza, quasi che non fosse vero, ma tu ci sei qui in voce. La luna è risorta, le acque scorrono, il mondo non sa d’essere nuovo e la sua nuova giornata finisce contro gli alti cornicioni e il nero del cielo. Chi c’è in quel vuoto del cosmo che tu porti nei tuoi desideri e conosci. C’è il Padre, sì, lui. Tu credi che io lo conosca? Come ti sbagli! Come ingenuamente dai per certo ciò che non lo è affatto. Tu, tu sorridi al Padre. Quella persona di cui io non ho alcuna informazione che ho frequentato forse in un sogno che non ricordo, eppure è strano! E’ da quel mostro di autorità che proviene anche la dolcezza. Accidenti! Come l’ho ignorato. Così ignorato da non saperne niente. Cosa fare? Tu doni, tu spargi doni, hai bisogno di donare, ma il tuo dono te l’ha dato lui, come tutto. Io, io fingo di ricevere. Ti ringrazio, sinceramente grato ma il debole sorriso sfuggente, non è di timidezza, è lo sgomento più terribile, ben più terribile di avere un corpo separato nei regni dell’essere. C’è una colpa, se non è che un incidente, che al posto dell’altro per me c’è un vuoto nel cosmo, un vuoto nel cosmo e da là tu canti”.
Siamo all’ultima stazione. Come può nascere il nuovo dentro questa tradizione cristiana? O nonostante essa, e a volte addirittura contro di essa. “L’esperienza cristiana non può mai coincidere con qualcosa di già acquisito.”, scriveva già nel 1952 il grande teologo Hans Urs von Balthasar nel suo libro scandalo intitolato “Abbattere i bastioni”, dove i bastioni sono appunto le mura di difesa che avvolgono e anche rinchiudono la Chiesa rispetto alle generazioni presenti, con la dottrina e le forme istituzionali in cui sembra che il nuovo di Cristo debba piegarsi. Qui troviamo un’intuizione, secondo me estrema e cioè che la storia e la tradizione cristiana deve sempre, cito von Balthasar, “conservare o riacquistare la propria vitalità per il presente e il futuro – Che la storia non può essere solo una storia e la tradizione non può essere mai solo una tradizione, perché, sono ancora sue parole – tutto ciò che è stato realizzato finora non è ancora quanto Cristo esige ora, direttamente da me e da te, dalla nostra generazione, e senza di esso cadrebbero nella noia.”. Von Balthasar suggerisce che, dunque, non si tratta né di essere tradizionalisti, né di essere innovatori, perché in fondo queste sono categorie ideologiche, ecclesiastiche e politiche. Si tratta di capire cosa sia la vita cristiana, in una parola cara a Von Balthasar, cosa sia la santità, come ciò che sconvolge sempre il già saputo.
Ascoltate ancora un attimo questo grande profeta, scrive: “Due sono i mezzi con cui una struttura storica può conservare o riacquistare la propria vitalità per il presente e il futuro, uno è violento e viene dall’esterno: è la distruzione della tradizione delle biblioteche, degli archivi, ecc. Il secondo è spirituale e viene dall’interno: è la forza del superamento, della vitalità, che dà anima a tutte le tradizioni, una vitalità che conosce il passato e tuttavia è capace di distaccarsene nella misura in cui lo esigono il senso di responsabilità e la disponibilità al futuro. La seconda via, quella che viene dall’interno, è esigente – continua Von Balthasar – difficile. Il superamento dall’interno operato dalla forza d’urto spirituale della santità contrapposta alla forza esplosiva delle bombe – e ancora oggi questo è tragicamente evidente – ma dove sarebbe – continua – la prova della forza di questa giovane santità? Se essa non dovesse continuamente e di nuovo penetrare la dura scorza di chi pretende di possedere già tutto. Bisognerebbe, perciò – notate questa acutissima notazione di metodo – bisognerebbe perciò puntare acutamente lo sguardo sul punto in cui la giovane santità rompe i gusci del passato per venire fresca come al primo giorno alla luce del mondo contemporaneo e presente.”. Gli fa eco don Luigi Giussani, in un breve e densissimo scritto del 1960, intitolato “Come educare al senso della Chiesa”. Scrive Giussani, con un passaggio paradossale ma affascinante: “La Chiesa – scrive don Giussani – non è tanto la verità quanto il metodo con cui Dio ha dato la verità al mondo. Diciamo anche che la Chiesa è la continuazione nella storia della figura di Cristo. Il problema della Chiesa sarà dunque di scoprire e di vivere quel metodo che Cristo ha usato.”. E di rimbalzo colpisce quello che scriveva von Balthasar, sentite: “La verità – sono all’unisono – la verità della vita cristiana è in questo come la manna del deserto. Non la si può mettere da parte e conservare: oggi è fresca, domani è marcia. Una verità che continui ad essere trasmessa, senza essere ripensata a fondo, ha perso la sua forza vitale. Là dove ci si accontenta di intendere la tradizione come la trasmissione di risultati acquisiti domina la noia. Improvvisamente – è ancora questa vis profetica di Balthasar – improvvisamente scoppierà la tempesta, che spazzerà via i rami secchi, ma il danno non sarà grave perché ciò che perisce non esisteva già da molto tempo.” Ho trovato la trascrizione di una conversazione svoltasi qui vicino a Rimini, a Torello, da parte di don Giussani con alcuni giovani riminesi, tra cui una giovanissima presidente Emilia Guarnieri, sempre nel 1968, nel pieno della crisi di consapevolezza che aveva investito anche i cristiani sull’onda della contestazione. Sentite che cosa osserva don Giussani: “A me sembra – diceva a quei giovani – sembra un segno dei tempi, che non è più il discorso sulla tradizione, non è più la storia che fonda o può fondare un richiamo e una adesione al fatto cristiano. Mi pare che non è più dico ora, ora, non è più quello il motivo che spinge della gente, che possa spingere, che possa decidere della gente ad aderire al cristianesimo, ad aderire al fatto cristiano. Quello che adesso, mi pare, possa costituire unicamente motivo di adesione, è l’incontro con un annuncio, è il cristianesimo come annuncio, non come teoria. Un annuncio, cioè, un certo tipo di presenza, una certa presenza carica di messaggio. Infatti – qui, come sempre appunto in Giussani, è la sua proposta è quasi un ricapirlo lui, un ridirlo a se stesso – infatti, non era dalle discussioni che faceva, non era per le delucidazioni che dava, non era per il richiamo all’Antico Testamento –tradizione – che faceva. Era perché costituiva una presenza carica di messaggio. Questo è ciò che faceva andare dietro a Cristo la gente. Perché il messaggio non è un discorso, è una presenza è una persona, è un modo di presenza di una persona o di persone”. Ed è impressionante rileggere alla luce di queste notazioni di Giussani, quanto von Balthasar diceva di uno degli esempi più commoventi e metodologicamente più convincenti della santità che sempre ricomincia e che fa ricominciare la tradizione. Sentite: “Tutto dipende dalla coscienza che abbiamo del nostro cristianesimo. Per Francesco d’Assisi l’essere cristiano era qualcosa di così straordinario, sicuro, sorprendentemente magnifico, come essere una creatura umana, un giovane, un uomo. E poiché l’essere del cristiano è essere eterno ed eterna giovinezza, senza pericolo di appassire e venire meno, la sua gioia immediata era più profonda. Non un solo anno lo separava da Cristo fattosi uomo, dalla sua culla, dalla sua croce. Per lui – Francesco – non c’era polvere o scoloritura di tempo, sulla freschezza del miracolo. L’hodie, l’oggi della liturgia delle grandi festività, era l’hodie della sua vita. E peraltro, quando Dio venne nella pienezza dei tempi dando compimento ad ogni cosa, egli non fu la fine della rivelazione, ma il suo inizio, in ordine al quale tutto aveva cominciato ad essere, fin dalle origini del mondo. E’ arché o logos. Che cosa avrebbe dovuto portare il logos se non l’inizio”. È possibile questo inizio? È quello che Cristo fa riaccadere, intercettando l’attesa struggente del cuore dell’uomo, la ferita della sua ragione come ancora una volta il grandissimo Rilke nella nona elegia a Duino, ci richiama. È come il grande scultore basco Eduardo Chillida, ha impresso nelle rocce di Bilbao, sull’oceano. La vedete questa foto? Sembra un dipinto, ma è una foto. Con la grande onda dell’oceano che, da una parte, spezza i magli, la catena della tradizione, ma al tempo stesso quella tradizione si riapre, per accogliere l’imprevisto, la novità. E qui l’uomo, come dirà Rilke, ritrova di nuovo il suo compito, la sua vocazione: ridare il nome alle cose, ridare la sostanza alle parole, che tornano finalmente a suonare e che ci riaprono il cuore, che ci riaprono il sensorio, come ancora una volta il grande Bach ci insegna nel Preludio alla Prima Suite per violoncello solo.
“Perché, perché se dunque si può trascorrere questo po’ di esistenza come l’aureo – giusto un po’ più scuro di tutto l’altro verde, con piccole onde ad ogni margine di foglia, come il sorriso di un vento, perché questa necessità di farci umani? Perché quando evitiamo il destino, abbiamo nostalgia del destino? Perché essere qui è molto, perché sembra che abbia bisogno di noi, tutto quello che è qui. L’effimero, che stranamente ci riguarda. Noi i più effimeri, una volta ogni cosa, soltanto una volta, una volta e non di più. E anche noi, una volta, mai più. Ma questo essere stati una volta, seppure solo una volta, essere stati terreni, pare che non sia revocabile. E così ci affanniamo e vogliamo adempierlo, contenerlo nelle nostre semplici mani nello sguardo che ne trabocca e nel cuore senza parola. Vogliamo diventarlo. E siamo qui, forse per dire casa, ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutto, finestra; al più: colonna, torre. Ma per dire, comprendilo, per dire così, come persino le cose, mai credettero di essere.Tra i magli resiste il nostro cuore, come la lingua tra i denti e queste cose che del morire vivono, comprendono che tu le magnifichi. Effimere, credono che noi, i più effimeri le possiamo salvare, vogliono che le trasformiamo nel cuore invisibile, in noi all’infinito, chiunque infine noi siamo. Vedi, io, io vivo, di che? Non l’infanzia, e neppure il futuro diminuiscono. Un’esistenza esorbitante mi scaturisce dal cuore.
Che ne è del nichilismo oggi? Forse potremmo dire questo, anche in compagnia dei nostri profeti: che forse, analogamente a quello che aveva scritto Guardini, potremmo parlare della nostra epoca come della fine del nichilismo. Chiaro, il nichilismo non è finito, è ancora l’aria pesante in cui noi viviamo, ma ogniqualvolta si riaccende la domanda di un significato ultimo, ogniqualvolta quello sguardo ci guarda così, quella freschezza dell’inizio riaccade, comincia lentamente un’altra cosa, ad essere superato questo nichilismo. Ci vorranno forse ancora tanti, tanti anni, ma la novità è qui. Grazie per la vostra attenzione. Vorrei ringraziare in particolare i miei compagni Alessandra Cefaliello al violoncello, bellissimo, e il grande ed essenziale Giampiero Bartolini, il regista produttore delle immagini, Nicola Abbatangelo – è lì in fondo, ciao Nicola – e Fabrizio Sinisi che ha scelto i testi.
Emilia, speriamo che sia stato un esperimento riuscito e poi ne parliamo.

EMILIA GUARNIERI:
Direi proprio di sì. Direi che quella commozione che ci aspettavamo, quella commozione che ci aspettavamo, da cui ci aspettavamo di essere presi questa sera, dicevo io all’inizio, mentre si svolgeva il gesto, mi convincevo proprio che la scommessa stavate vincendola o stavamo vincendola, perché penso che quello che abbiamo condiviso questa sera sia stata proprio la commozione di accorgersi di potere essere da protagonisti dentro questo nuovo inizio che può accadere nel dramma della storia. E credo che averci aiutato in questo non sia poco. E anch’io perciò ringrazio te, Costantino, e ringrazio Piero Bartolini, ringrazio Alessandra – ripeto i nomi perché non li abbiamo citati tanto – Alessandra Cefaliello e Fabrizio Sinisi e l’amico regista in fondo che ci ha aiutato con le immagini, Nicola Abbatangelo. Quindi grazie e credo proprio che sia valsa la pena il lavoro che avete fatto e il rischio che avete corso. Colgo l’occasione di questo ringraziamento per sottolineare come sempre di più quello che al Meeting succede, quello che al Meeting vediamo, quello che al Meeting ci possiamo godere, sempre di più ce lo dobbiamo veramente guadagnare; guadagnare con la nostra gratuità, guadagnare con il gusto che abbiamo di mettere insieme quello che siamo. Questa sera, gratuitamente, ognuno di loro ha dato il contributo alla costruzione di questo gesto e credo che anche di questo dobbiamo ringraziarli perché non è mai scontato, non è mai scontato niente, ed è proprio anche la loro testimonianza che mi fa, che mi rincuora nel darvi l’avviso che quest’anno stiamo dando in maniera particolarmente insistente, invitando a contribuire alla costruzione del Meeting anche attraverso le donazioni.