IL DESIDERIO NELLA CULTURA CLASSICA

Il desiderio nella cultura classica

Partecipano: Ivano Dionigi, Rettore dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna; Moreno Morani, Docente di Glottologia e Direttore del Dipartimento di Scienze dell’Antichità, del Medioevo e Geografico-ambientali all’Università degli Studi di Genova. Introduce Davide Rondoni, Poeta e Scrittore.

 

DAVIDE RONDONI:
Scusate il lieve ritardo, ma stiamo aspettando perché tra pochi minuti arriva anche l’altro relatore che è il professor Dionigi, il rettore dell’Università di Bologna, che è rimasto bloccato perché in autostrada, tra sud e nord in direzione di Rimini c’era traffico. Intanto, iniziamo, perché è giusto non aspettare troppo. L’incontro di oggi nasce da una preoccupazione che il Meeting ha sempre avuto, e cioè che la forza di un’esperienza presente, la forza di un’esperienza personale presente, si certifichi, si mostri anche nella curiosità verso il passato, nella voglia di conoscere che cosa nel passato parla ancora. L’interesse al passato muore nel momento in cui muore l’interesse al presente. Non credo che qui siate tutti filologi classici, gente che fa o che ha fatto il liceo classico o lettere classiche: ma l’interesse al passato è proporzionale all’interesse che uno ha per il suo presente e per quanto sente nel presente viva una questione, un problema. E’ in nome della forza di questo problema che allora si guarda intorno, guarda nel passato, guarda la tradizione, per vedere che suggerimenti, che correzioni gli vengano. Se uno non ha una questione presente, il passato non gli interessa. Non è un interesse per il passato che giustifica il volgersi indietro, alla tradizione. E’ un interesse per il presente. Ma un interesse per il passato si ha solo se uno nel presente ha una questione aperta, ha un problema aperto, la vita è un problema aperto. Se la vita non è un problema aperto, non ti interessa né il presente né il passato.
Questo è il motivo per cui dedichiamo questo incontro al desiderio dell’uomo antico. Sono contento perché abbiamo due personalità che forse in Italia sono le migliori che possono parlare di questa cosa. E allora cedo subito la parola. Ieri, una giornalista mi ha chiesto: “Che differenza c’è tra desiderio antico e desiderio moderno? Perché parlate domani del desiderio antico e altre volte del desiderio dei moderni?”. In realtà, non c’è nessuna differenza nel desiderio, come sentiremo anche nella relazione dei nostri amici, c’è una differenza nell’ipotesi di risposta al desiderio. C’è una differenza fortissima, come vedremo, nel modo in cui si affronta e si legge questo desiderio. Non c’è una differenza tra il desiderio mio e quello di un uomo dell’antichità, ma questo lo dirà meglio chi ci viene a parlare. Del resto, nella storia che ho appena pubblicato, di Ermanno lo Storpio, c’è un bellissimo passaggio in cui Ermanno e i suoi amici benedettini dell’anno Mille parlano della vita come un sospiro. E questo sospiro è la stessa espressione che usava Dante, la stessa espressione che usava anche Baudelaire: la vita come un sospiro, come un problema aperto, come un desiderio aperto, è stata testimoniata dall’arte di tutti i tempi. Diverse sono le ipotesi di letture e di risposta, le sentiremo. A parlare con noi, e vi ringrazio, c’è Moreno Morani, un nome che è anche facile da ricordare, insegna Glottologia all’Università di Trento e di Catania e tiene corsi di Linguistica Generale. Sentirete la sua attenzione alle parole, alla radice delle parole, dalle parole, dalla storia delle parole si capisce molto. Ha fatto pubblicazioni sulla Linguistica Indoeuropea e sulla Filologia Classica. Ha anche lavorato alla traduzione di varie opere.

MORENO MORANI:
Grazie, allora cominciamo dall’inizio, dal significato della parola. Che cosa significa desiderio? Secondo una delle etimologie proposte, desiderium e desiderare si collegano con sirius, cioè stella. In origine, desiderio sarebbe la mancanza delle stelle del cielo: tutto si collega con la tecnica dell’augurio, cioè una tecnica che tenta di verificare, sulla base di una interpretazione multipla di segni, se gli dei approvano o meno una determinata decisione che si sta prendendo, tecnica diffusa nel mondo antico. Desiderium o desiderare, nella lingua latina, indicano una insoddisfazione, la percezione di una mancanza, la mancanza di qualcosa che non si ha ancora o che non si può più avere. Queste parole si usano in relazione ad oggetti e a cose, ma spesso anche in relazione a persone: desiderium è la nostalgia struggente per qualcosa o qualcuno che non si ha, la sofferenza per la lontananza di una persona cui si vuole bene, lontananza che in certi casi diventa definitiva, quando si parla di persone care venute meno.
Perché diciamo che desiderium, nostalgia, mancanza di stelle, sono parole chiave per definire l’esperienza dell’uomo antico? Partendo da questa etimologia, possiamo vedere l’uomo antico come un viaggiatore che non può orientarsi nell’oscurità di una notte buia, dove non ci sono stelle che illuminano la strada, dove bisogna fare affidamento soltanto sulle forze proprie per trovare il cammino. L’esperienza del mondo classico, e in particolare del mondo greco, come vedremo, è continuamente contrassegnata da questa caratteristica: il desiderio di capire, la sensazione di una incompiutezza, l’insoddisfazione che nasce dalla sconsolata conclusione che le sole forze dell’uomo non sono in grado di condurre ad una risposta esauriente e soddisfacente alle domande fondamentali. Chi si trova in viaggio nella notte buia deve fare appello a tutte le risorse di cui dispone per tracciare un strada: questa è l’esperienza dell’uomo antico. Privo di indicazioni valide, utilizza tutte le possibilità del sentimento e della ragione per procedere nella strada della vita.
La Grecia ha dato all’esperienza occidentale uno dei termini più nobili, più importanti: la parola logos. Logos è la parola, cioè il mezzo con cui gli esseri umani comunicano tra loro e costruiscono e potenziano l’organizzazione del vivere civile, è la parola che si fa ragionamento e che permette di affinare sempre più in profondità la conoscenza del nostro io. Ma dopo avere esplorato la potenzialità degli strumenti di cui si dispone, ci si accorge anche che questi strumenti sono insufficienti, ambigui e contraddittori. Anche il logos può essere usato in maniera distorta, vi sono ragionamenti cattivi che si affacciano con prepotenza e prendono il posto dei ragionamenti corretti. Quando si procede nella notte buia, capita di non riconoscere la forma degli oggetti e di vedere fantasmi: nel medesimo tempo, non si può fare a meno di desiderare la luce.
Mi limito ad un esempio, un esempio che ho tratto dal richiamo ad una figura che penso sarà sconosciuta ai più, in un ambito marginale rispetto al mondo greco, ma proprio per questo interessante. Parlo di un generale greco del periodo ellenistico, il suo nome è Menandro, vissuto nel II secolo a.C.. A seguito di vicende militari complesse, invase l’India. Ne occupò una vasta porzione dell’area nord-occidentale e stabilì un regno indo-greco che durò un paio di secoli, dando luogo ad un’esperienza breve, rispetto alla storia, ma significativa di incontro ed integrazione tra due mondi culturali molto diversi. Secondo una fonte indiana che parla di questo personaggio, il Milinda Pañha, Menandro era talmente divorato dall’ansia di capire che cercò in ogni regione dell’India qualcuno che sapesse rispondere ai suoi dubbi e alle sue domande. Dice questo testo: “Molto rimane ancora del giorno. Che cosa faremo ritornando ora in città? C’è qualche saggio, un Buddha perfetto il quale potrebbe conversare con me e dissolvere i miei dubbi? In verità, signori è una piacevole notte di plenilunio, forse domani incontreremo qualche saggio a cui porre domande. Chi è capace di conversare con me, di dissolvere i miei dubbi?”.
Questo è l’uomo greco. La sua ansia di capire, di sviscerare il significato delle cose appare talmente singolare agli occhi di quella cultura straniera che, secondo il racconto del nostro testo, un antico saggio, già sottratto al ciclo delle rinascite e collocato in un mondo di Veda, prossimo al Nirvana, fu quasi costretto a reincarnarsi per rispondere alle domande del saggio re. Un’altra parola che può riassumere il senso dell’esperienza antica è la parola limite. L’universo in cui l’uomo greco vive è un affollarsi di forze e di spinte contraddittorie. Il destino dell’uomo si chiama moira, cioè assegnazione di una patria all’interno di un contesto, in cui a ogni essere, ad ogni potenza della natura, è assegnato un ambito preciso. La Bibbia inizia con le parole: “All’inizio Dio creò il mondo”, e procede di fronte ad ogni atto della creazione con la formula: “e vide che ciò era buono”. Per l’uomo greco, non solo è difficile concepire un Dio che crea il mondo dal nulla, ma nell’incertezza e nella nebbia di un inizio indistinto, vi sono forze primordiali caotiche in mezzo alle quali vagano mostri. Solo dopo generazioni di lotte tra esseri divini, si arriva ad un equilibrio e all’assestamento di una giustizia che è pur sempre precaria, perché basta un gesto inconsulto dell’uomo per rimettere in discussione tutto. E ancora oggi il mondo è percorso da forze che mettono paura o danno adito a turbamento, e l’uomo è al centro di questo quadro. Nessuno meglio di Socrate nell’Antigone seppe esprimere questo concetto. «Molte sono le cose mirabili, ma nulla è più mirabile dell’uomo», dove a mirabile corrisponde nel testo greco un termine intraducibile in italiano (deiná), che suggerisce insieme l’idea del timore, della meraviglia, dell’eccezionalità.
L’esperienza greca classica è intrisa di pessimismo. L’uomo è un essere effimero, e una delle parole che lo designano è brotós, mortale. La vita è breve, e i momenti in cui l’uomo può essere felice sono pochi e limitati: vi è una sproporzione tra il bene e il male nella vita dell’uomo: «Tutta piena di dolori è la vita dell’uomo, e non vi è alcuna requie agli affanni», affermava mestamente il poeta tragico Euripide (Ippolito vv. 189-190). E ancora: «Essere morti è meglio che vivere … Non vi è un solo uomo a cui Zeus non assegni dolore su dolore», dice un lirico greco, Mimnermo (framm. 2), ricordando che le generazioni umane sono come le foglie, che si susseguono una dietro l’altra, in un attimo di tempo. Ma ogni momento di godimento è offuscato dalla sensazione sempre incombente di una precarietà, di un declinare: «Beviamo, perché dovremmo aspettare fino alla sera? Lungo come un dito è il giorno», esorta un lirico greco, Alceo (framm. 346).
Il poeta tragico Sofocle dà la seguente definizione dell’uomo: «Io vedo che noi non siamo altro che forme, noi tutti che viviamo, nient’altro che vuota ombra» (Aiace v. 125). Anche negli autori dell’Antico Testamento troviamo definizioni altrettanto pessimiste dell’uomo e della vita umana. Il salmista dà una definizione non dissimile dell’uomo (Ps. 39 [38] 6-7, 12): « Ecco: in pochi palmi hai fissato i miei giorni, e la durata della mia vita è come un nulla davanti a te. Oh sì, come un soffio è ogni essere umano! Oh sì, qual ombra che svanisce è ogni mortale! (…) Oh sì, un soffio è ogni essere umano!».
Ma vi è una differenza essenziale tra l’uomo greco e l’uomo della Bibbia. L’uomo della Bibbia ha accanto a sé un Signore che ha stretto un’alleanza col popolo a cui appartiene e, sia pure in modo misterioso, in una storia non lineare, costellata di tradimenti e punizioni, è disponibile ad aiutarlo. Per l’uomo della Bibbia la volontà di Dio ha con sé tutti gli attributi positivi che l’esperienza umana può immaginare: è verità, bontà, misericordia, e soprattutto ha dato all’uomo una promessa e impegno definitivo di alleanza e di compagnia.
Per contro gli dèi dell’uomo greco hanno dei limiti, e sono sottoposti essi stessi, misteriosamente, a una legge che li trascende. L’uomo greco percepisce che esiste una legge eterna superiore agli stessi dèi. Zeus ha presso di sé, o forse al di sopra di sé, la Verità e la Legge, la applica e la attua nel mondo, ma non si identifica con essa. Come dice sinteticamente Euripide nella tragedia Ecuba, la legge è superiore non solo agli uomini, ma anche agli dèi: «Il potere l’hanno gli dèi e la legge, che è superiore a loro: in grazia della legge infatti noi onoriamo gli dèi» (vv. 801-2).
Anche l’uomo greco intuisce l’esistenza di dèi che regolano positivamente il cosmo, ma tra questa rassicurante intuizione e l’esperienza concreta della vita c’è un abisso. Lo afferma poeticamente Euripide nella tragedia Ippolito (vv. 1302-6): «Il pensiero degli dèi, quando giunge al mio cuore, grandemente allontana i dolori. Ma sono abbandonata dalla speranza di capire, se guardo le sorti e gli eventi dei mortali: si volgono da ogni parte e si tramuta senza soste la vita umana nel suo continuo errare». Gli dèi possono intervenire nella vita dell’uomo, ma non sempre e non necessariamente in maniera positiva per aiutarlo e confortarlo.
L’uomo greco percepisce il fascino della razionalità e della bellezza, ma sente dentro di sé la presenza altrettanto imponente dell’irrazionale, forze tumultuose che non sempre si riesce a dominare. Nella sua ansia di capire, l’uomo cerca di utilizzare anche queste forze irrazionali come risorsa nella sua ricerca di senso, anzi ritiene che esse possano portarlo là dove la ragione da sola non è capace di arrivare. Platone ricordava nel Fedro che vi sono forme di pazzia (manía) che permettono all’uomo di percepire cose che la ragione da sola non sarebbe in grado di cogliere: l’amore, l’ebbrezza, l’esperienza mistica per esempio. L’estasi (ek-stasis) è appunto l’uscita da sé, un momento in cui l’uomo valica i limiti della razionalità per giungere a territori che ad essa sono preclusi.
Se la vita è piena di dolore e di amarezza, e se la ragione da sola non è capace di confortare pienamente un’esperienza umana cosciente del suo limite, che cosa può fare l’uomo in un quadro apparentemente così negativo? Innanzitutto, meglio vivere, come risponde tristemente a Odisseo l’amico Achille, quando nell’Odissea il protagonista lo incontra tra le anime dei morti (XI, vv. 471 e ss.): mille volte meglio trascinare una vita di stenti al servizio di un padrone, che essere grandi in un’eternità nebbiosa di fantasmi privi di consistenza. La vita è un valore e vale la pena vivere: se il dolore prevale sugli aspetti positivi, vorrà dire che si valorizzeranno questi ultimi nei brevi momenti in cui essi appaiono, o si cercherà di strappare al cupo procedere dei giorni qualche momento di felicità. Il greco ha una costante volontà di vivere, ha una vita sociale intensa, gli piacciono le feste e il vino. Si può sempre sperare che la benevolenza degli dèi si presenti apportando luce e dolcezza in questo quadro doloroso: «Effimeri. Che cosa è uno? Che cosa non è uno? Sogno di un’ombra è l’uomo. Ma quando giunge un raggio di luce divina, un luminoso splendore incombe sugli uomini e una vita dolce come il miele» (Pindaro, Pitica 8, 95 e ss.).
Riprendiamo il passaggio di Euripide citato prima: «Tutta piena di dolori è la vita dell’uomo, e non vi è alcuna requie agli affanni». Il poeta prosegue con queste parole: «Se vi sia un’altra esperienza migliore della vita, la tenebra la nasconde coprendola con nebbie. E siamo banalmente attratti da ciò che sfavilla sulla terra, perché non abbiamo esperienza di un’altra vita e non c’è rivelazione di ciò che sta sotto terra: siamo allo sbando per colpa dei miti» (Ippolito, vv. 189-197).
Dunque, se desiderio significa percezione di una insaziabile finitezza, solo da un’iniziativa esterna all’uomo potrebbe arrivare una risposta alle domande che l’uomo si pone. Platone esprime questo stesso concetto in maniera più consapevole, quando, nel Fedone (85 c), Simmia ribatte gli argomenti di Socrate con queste parole: «Mi sembra, Socrate, e forse sarai anche tu del mio parere, che essere così sicuri su certe questioni, sia una cosa impossibile o, per lo meno, molto difficile, almeno in questa vita; d’altronde, io penso che il non esaminare da un punto di vista critico le cose che si son dette, il lasciar perdere il problema, prima di averlo indagato sotto ogni aspetto, sia proprio dell’uomo dappoco; quindi, in casi simili, non c’è altro da fare: o imparare da altri come stanno le cose, o trovare da sé, oppure, se questo è impossibile, accettare l’opinione degli uomini, la migliore s’intende, e la meno confutabile e con essa, come su di una zattera, varcare a proprio rischio il gran mare dell’esistenza, a meno che uno non abbia la possibilità di far la traversata con più sicurezza e con minor rischio su una barca più solida, cioè con l’aiuto di una rivelazione divina».

Ma la speranza che questo desiderio si possa compiere è molto lontana. L’idea che Dio stesso possa scendere sulla terra e accompagnare gli uomini nel loro cammino è estranea al pensiero degli antichi. Il salmista può dire nella sua preghiera: «Dio degli eserciti, ritorna, guarda dal cielo e vedi, visita questa vigna» (Ps. 80, 15), ma per l’uomo greco c’è ben poca speranza che Dio possa scendere a visitare la nostra vigna. Certo, ci sono momenti in cui sembra che la distanza fra terra e cielo diminuisca: la sacerdotessa di Apollo a Delfi è preda del dio, che la fa vaticinare, vi sono racconti di uomini che pensano di avere intravisto qualcosa della realtà celeste, ma sono momenti che passano senza lasciare traccia o ricordo in chi li ha vissuti. L’uomo pagano non può pensare di abbassare il cielo fino alla terra come ha fatto il Cristianesimo. Anzi, varie scuole filosofiche che avevano confuso la felicità con l’imperturbabilità (uno è felice in quanto non si fa sconvolgere dal dolore presente nel mondo), avevano anche concluso che il dio non poteva farsi turbare dalle vicende tristi e meschine della vita umana, e quindi non poteva coinvolgersi e intromettersi nella vita degli uomini: col procedere del tempo gli dèi sono sempre più lontani dall’uomo e sempre più viene affermata la loro assoluta impossibilità di mischiarsi con le vicende umane.
La speranza che il dio si riveli è talmente lontana da un’esperienza che fa della ragione il suo perno essenziale, che quando Paolo annuncerà agli ateniesi che il dio ignoto si è fatto carne (At. 17), questi per la maggior parte ridono di lui, e solo pochi aderiscono alle sue parole. Il desiderio degli antichi non solo ha poche speranze di trovare il suo compimento, ma non è neppure totalmente disponibile ad accogliere chi questo compimento può donarglielo.

DAVIDE RONDONI:
Grazie, professor Morani, anche per la chiarezza della sua esposizione che ha toccato tante cose in maniera precisa, offrendo anche a chi vuole tanti spunti, tante finestre per proseguire l’interesse su queste cose. Io mi permetto di reagire, ma solo per aspettare ancora un po’ Ivano Dionigi che sta arrivando, con due o tre osservazioni. La prima è che ci sono dei termini che tornano spesso nella sua relazione: ombra, nebbia. E’ questo uomo nell’ombra, questo uomo nella nebbia, l’immagine che ci viene consegnata dal mondo classico. Sono parole che sono tornate più volte, sia nei testi che hai citato sia nella tua relazione, ed è qualcosa che assomiglia tremendamente all’uomo che vediamo attorno a noi. C’è effettivamente, come tanti studiosi hanno detto, una sorta di ritorno ad un neo-paganesimo, che non si documenta solamente con quella sorta di strano bazar di culti che pure abbiamo intorno, dalla new age all’adorare gli alberi, all’adorare le divinità più strampalate. Non è solo quello, non si documenta solo in questo aspetto di idolatria varia, il ritorno al neo-paganesimo, ma soprattutto in questa idea della vita come un’ombra, come un’ombra troppo spessa, in cui al massimo si può carpire qualche felice momento di vita, laddove, come in quel bellissimo passo citato della visita all’Ade, si può dire, ma mestamente, che è meglio vivere. Ma è un’affermazione un po’ mesta dire che è meglio la vita della morte, tanto è vero che è un’affermazione che, come sappiamo per tanti fatti che si svolgono attorno a noi, non è più nemmeno tanto chiara. E si comincia a dire che a volte è meglio morire che vivere, e questo confine in cui diventa meglio morire che vivere è un confine d’ombra, non è più chiaro.
Insomma, viviamo in un’epoca in cui l’ombra domina, come dominava l’uomo antico, dove il senso della moira, del destino ineluttabile che sta sopra tutto si documenta in molti modi. Scusate se faccio un esempio che può sembrare banale. Mi capita di vedere con quanta potenza di ripetizione vengono mandati gli avvisi delle lotterie, la pubblicità delle lotterie, i win for life, i gratta e vinci di vario tipo. Ecco, siamo bombardati da un messaggio che vuol dire che siamo nelle mani della fortuna, e non è più la fortuna degli antichi, adesso è il Ministero delle Finanze, ma è la stessa cosa, come dire che la vita ti va bene se sei baciato dalla fortuna, quindi la lotteria. Lo sapete, gli italiani si sputtanano un sacco di soldi nella lotteria, ma è un’insistenza quasi maniacale: per questo a me fa ridere quando c’è la polemica sull’esposizione o meno del Crocefisso in Italia, perché non è che viene tolto il Crocefisso per niente, in nome di una neutralità di niente, ma viene tolto il Crocefisso per fare spazio a queste altre divinità, a questi altri idoli, come la fortuna, la dipendenza da una sorta di fortuna che bacia casualmente la vita, come se la vita potesse riuscire ma per caso. Può riuscire, ma per caso. Sei nelle mani del caso, tu non conti nulla, tu, la tua libertà non contano nulla. L’importante è che, ad un certo punto, ti baci la fortuna: questo è l’idolo che viene esposto invece che il Crocefisso. Per questo odiano il Crocefisso e vogliono farlo fuori. Invece, dal Crocefisso si vede tutt’altro: la vita non dipende dalla fortuna, la vita non dipende dal caso, e la tua attività, la tua persona, contano.
Solo un piccolo esempio, ne potrei fare anche altri più dotti, di quanto la cultura in cui siamo abbia una sorta di grottesca somiglianza con la cultura antica di cui abbiamo sentito parlare. E’ un esempio grottesco perché non ha più quella grande dignità di Menandro, che avete sentito, l’uomo che creando uno strano regno indo-greco, chiede tutte le volte se ci sia un sapiente che può rispondere ai suoi dubbi. Non c’è nemmeno più quella grandezza lì. Non c’è quella grande somiglianza, c’è una somiglianza grottesca al muoversi nell’ombra dell’uomo antico, tanto è vero che un poeta che amo, che amiamo, Charles Péguy, nelle sue opere si sofferma spesso sul valore del mondo pagano, dicendo che la grandezza pagana, la grandezza di questo uomo che vaga nell’ombra, come ha detto prima Moreno, fa ricorso a tutte le energie intellettuali e sentimentali per potersi orientare nell’ombra: la grandezza, l’ammirazione o anche la tenerezza che ci ispira questo uomo è uno dei segni più vicini al Cristianesimo, è una delle cose che il Cristianesimo sente più vicino, perché è vera la grande cesura, che anche Moreno documentava, tra mondo greco e mondo ebreo. Un uomo greco non avrebbe mai detto: “Dio, ricordati di me”. E’ vero che è una grande cesura, ma la grandezza della domanda e della richiesta è comune, la grandezza, la grandezza del bisogno, la grandezza del desiderio è comune.
Infatti, noi sentiremo sempre vicini, come cristiani, coloro che sono seriamente impegnati nella ricerca, non solo perché la verità, lo sapete, non è una cosa che si possiede ma una cosa che serve tutti, non è una proprietà. Ma è che quella grandezza, la grandezza di Menandro, ci ispira ammirazione e si può essere cristiani con una piccolezza insopportabile rispetto a quella grandezza di Menandro. Se non si ha dentro quella stessa inquietudine, quella stessa domanda, il Cristianesimo rispetto alla grandezza dell’uomo classico diventa una cosa poco interessante. Infatti, molti oggi si allontanano dal Cristianesimo perché non ci vedono dentro la grandezza di Menandro, ma ci vedono dentro il piccolo cabotaggio del calcolo e della misura personale. Per questo, la grandezza degli antichi ci è sempre vicina, ci è sempre alleata.
L’ultima cosa che volevo dire, sperando che arrivi il Rettore, in reazione alla sua relazione molto bella. Oggi pomeriggio qui c’è un incontro storico. Il Meeting è un posto strano, ieri per esempio la Presidente dell’Irlanda ha fatto un discorso bellissimo sulla sua passione per la politica. Né i giornali se ne sono accorti, né quasi nessuno se ne è accorto, tranne quelli che erano all’incontro, ma è stato un incontro veramente importante, veramente bello. Oggi pomeriggio c’è un altro incontro veramente storico, perché per la prima volta, almeno da trenta anni a questa parte, accade che un importante esponente della Chiesa cattolica, che è il Primate di Ungheria, Erdö, capo dei Vescovi europei, si incontra con uno dei sette Metropoliti ortodossi, Filaret. E’ un incontro storico nel senso che non avviene mai. Ci sono contatti tra le diplomazie delle due Chiese, ma un incontro così, in pubblico, di due esponenti così importanti, il Meeting lo ospita oggi pomeriggio. Vi invito ad andarlo a vedere, a sentirlo, perché è una delle cose più strane che sia successa in questi ultimi decenni.
E perché è possibile un incontro di questo genere? Appunto perché quello su cui si punta, nel rapporto con il mondo antico o anche nel rapporto con mondi diversi, è sempre, come dice il tema, il fatto che si stima che l’altro desideri cose grandi. Si parte da una pre-stima nei confronti dell’altro, che è anche differente da me ma anche il suo cuore desidera cose grandi. La cosa che in genere annulla i rapporti, li rende vuoti, è il fatto che ci sia sempre un sospetto sull’altra persona, un sospetto che il suo cuore non desideri le stesse cose grandi che desidero io. Questo è invece il motivo per cui al Meeting possono avvenire degli incontri in cui noi cristiani parliamo del mondo classico con ammirazione e un ortodosso e un cattolico possano dialogare. Perché c’è una stima preventiva al cuore dell’altro come qualcosa che desidera cose grandi. È uno strano sospetto quello che avvelena i rapporti, che invece il tuo cuore non desideri cose grandi come il mio, e per questo ci fermiamo. Una domanda, Moreno. Tu ti sei soffermato sulla radice della parola desiderio, dicendo che una delle più accreditate è quella che lega la parola alle stelle, eccetera. Ce ne sono altre?

MORENO MORANI:
Sì, ce ne sono altre. Se uno va a consultare i dizionari etimologici, trova tutto il possibile e anche di più. Questa che ho citato è, a mio parere, la più credibile.

DAVIDE RONDONI:
Sta arrivando, dicono dalla regia.

MORENO MORANI:
Anche perché permette il collegamento con altri termini del lessico latino che sono in origine termini religiosi. Una delle caratteristiche del lessico latino arcaico, è che molte parole, originariamente appartenenti al lessico religioso, si sono laicizzate e quindi successivamente hanno dovuto essere ri-sostituite da altri termini. Per esempio, una parola come ius, che è una parola fondamentale del diritto, è in origine un termine del lessico religioso che indica il giusto equilibrio, il rapporto con gli déi, eccetera. Questa si è laicizzata, è diventata un termine del linguaggio giuridico ufficiale per cui il latino ha dovuto introdurre un’altra parola come fas. E’ l’idea delle caselle vuote, come dicono i linguisti, una parola si sposta di significato. E quindi, anche nel caso di desidero, desiderare, sono parole appartenenti anticamente a un lessico religioso, che hanno assunto un significato più vasto, più generico.

DAVIDE RONDONI:
Grazie, è arrivato il Rettore di Bologna. Vi assicuro che non ha i bermuda, quindi non viene dalla spiaggia, era veramente bloccato nel traffico. Gli do subito la parola. Dico solo due cose per dire chi è Ivano Dionigi, per i pochi che magari non lo conoscono, attualmente Rettore dell’Università di Bologna, ci lega un’amicizia, una stima amichevole da tanto tempo. È il Presidente del corso di Laurea Magistrale di Filologia e Letteratura e Traduzione classica. Era, perché adesso ha una carica maggiore. Si è occupato in particolare di Seneca, di Lucrezio. I suoi sono gli studi in Italia forse più importanti in questo momento su questi temi. Ha affiancato quindi l’attività di studio con il lavoro sulla traduzione. A Bologna ha dato vita a un Centro Studi sulla permanenza del classico che ogni anno svolge alcune iniziative, non solo di studio ma anche di divulgazione dei contenuti del mondo classico, molto importanti e molto seguite. Sono contento che sia qui con noi. Adesso gli cedo subito la parola.

IVANO DIONIGI:
Bene, grazie.

DAVIDE RONDONI:
Ah!, è di Pesaro.

IVANO DIONIGI:
Bene, buongiorno a tutti. Chiedo scusa a tutti voi, ma si è impotenti, in alcuni casi, chiedo scusa anche al collega perché il mio intervento rischia di essere un po’ monco, non abbiamo potuto dialogare stamattina anche se a distanza, dalle colonne dell’Avvenire, forse qualcosa ci siamo detti. Rischio di ripetere qualcosa, ma non vorrei aggiungere delusione a delusione, scusate se ci sarà qualche ripetizione o se non riuscirò a dialogare col collega perché c’è stato questo impiccio. Ma per un tema di questo tipo, forse altri sarebbe stato l’interlocutore, il relatore ideale, magari l’antropologo, lo psicologo, il filosofo, il teologo. Io sono sto invitato, sono un filologo classico e pertanto vorrei attenermi alla mia informazione professionale e non inoltrarmi là dove il ghiaccio per me si fa sottile. In questi ventitré, venticinque minuti, vorrei tentare di tratteggiare in maniera contrastiva un dittico, una sorta di dittico, una duplice prospettiva, quella pagana e quella cristiana, sul tema del desiderio. Nella prospettiva pagana – forse il collega, già esperto e poi linguista, glottologo, ve l’avrà già detto, ma per l’economia del mio discorso intendo seguire una traccia che mi sono fatto, in qualche modo, in questi giorni -, desiderio, dal latino desiderium, il verbo desidero, i grammatici antichi dicono “certum est”, ecco, è certo, è sicuro che desiderium deriva da de-sidus, desiderium, che vuol dire rimpianto e nostalgia di un chi o di un che cosa che è assente, perduto, lontano. Perché deriva, dicono i grammatici, dice Paolo Festo, certum est, è sicuro, dice, è etimologia fonetica, non popolare, non vulgata, deriva da de-sidus, desidero, dismetto, cesso di contemplare i siderea, le stelle e ne rimango con la voglia, con il rimpianto. L’opposto di considero che vuol dire: “mi concentro a vedere, a contemplare il firmamento”, e quindi rifletto.
Quindi, desiderio è sinonimo di rimpianto, di nostalgia, è un moto dell’animo rivolto sostanzialmente all’indietro, quindi al passato, a un chi o un che cosa che si è smarrito, perduto, assente. Al contrario, il nostro italiano desiderio rinvia usualmente, normalmente, ad una attesa, richiama sì una assenza, ma una assenza proiettata più verso il futuro che verso il passato. In questo senso, anche da questo punto di vista, i classici sono, non solo fondativi del nostro presente, ma anche antagonisti, ma questo è un altro discorso. Ora, dietro la parola, dietro il verbum desiderio, rimpianto, nostalgia, ci sta la cosa, ci sta l’idea: e bisognerebbe sempre che dietro i verba ci stessero le res, che ci fosse una aderenza. È un tema che so che caro a voi, io seguo come osservatore attento, sono venuto quasi tutti gli anni a questo Meeting e mi auguro che anche questo anno, nonostante la volgarità pubblica che ci assedia, spero che anche in questo ambiente, dove ci sono ospiti illustri, per un momento riacquistino tutti questa aderenza delle parole alle cose, all’insegna del rispetto dell’altro. Allora, dicevo, coerentemente dietro alla parola sta la cosa. Cosa intendo dire?
Vorrei verificare questo da tre punti di vista differenti, propri della classicità. Il primo punto è l’ideologia, la concezione del kuklos, del cerchio, e la concezione del nostos, del ritorno. Vale a dire, la ciclicità del tempo, del ritorno del passato. Dominante, se non normativa, nella classicità, è la concezione ciclica del tempo. Lo diceva Aristotele, il tempo stesso è una sorta di cerchio. Primaria, dominante, è la concezione ciclica dell’eterno ritorno e del succedersi periodico delle età: l’oro, l’argento, il bronzo, il ferro. Con la nostalgia, il rimpianto, l’anelito costante del ritorno all’età dell’oro. Anche “Saturnia Tellus” invocati, celebrati da Virgilio, sono nel segno dell’ideologia dominante augustea del ripristino dell’età dell’oro, tentando proprio questa identificazione tra utopia e storia. Augusto che ripristina i tempi di Saturnia, dell’età dell’oro. Quindi, un’idea, diciamo pure, un’ideologia del kuklos, del ritorno, del nostos e del cerchio. Il passato e il suo culto. Questo è l’habitat, è l’orizzonte della classicità. Roma è l’emblema di questo culto del passato, Roma è la culla del mos maiorum, della tradizione, dei prisci mores, dei costumi degli avi. Roma è la terra dei patres, dei padri e degli exempla, a Roma si poteva fare tutto purché ci fosse un antecedente, un exemplum che ti aveva preceduto, con una forte allergia, ostilità verso tutto ciò che è novum. Tutto era nel segno del notum: i patres, il mos maiorum, i prisci mores, gli exempla, la terra del notum, con una censura, una condanna di tutto ciò che è novum. Novum è un aggettivo forte, a Roma: vuole dire “inaudito”, vuol dire “non sperimentato”, vuol dire mai conosciuto: vale per la religione come per la politica. Leggiamo nelle XII Tavole: “Nessuno per proprio contro abbia déi né nuovi, né forestieri”, “nec novi nec alieni”. Non bisognava avere degli déi nuovi, tanto è vero che, dirà Minucio Felice, i Romani hanno questa virtus supplementare che nessuno aveva, avevano questa virtus religiosa, perché dovunque vanno “deos quaerunt et suos faciunt”, cercano le divinità locali ma le assimilano, non le importano come nuove, per questo il loro pantheon meticcio. Vale nella religione e vale nella politica: a Roma, la rivoluzione si chiama res novae, ed era un termine negativo, perché polare ed antagonista al mos maiorum. L’homo novus farà una fine infausta, così è Mario, così sarà Cicerone. La ricerca del novum che troviamo nella Medea di Seneca sarà bollato come un nefas, come un sacrilegio, perché implica quella navis, implica delle leges novae che mettono da parte le leges notae. Implica una terra nova che supera la terra nota, senza dire delle res notae propagandate da Lucrezio, vale a dire l’abolizione della politica e della religione. Res novae è una iunctura, è un nesso che vuol dire la rivoluzione, un argomento che ai Romani non era caro.
Il primo punto, quindi: dietro questa parola desiderio, rimpianto, nostalgia, ci sta la cosa, ci sta l’idea, ci sta la storia, ci sta l’ideologia del nostos e del kuklos, del ritorno e del cerchio. Un secondo punto di vista: la concezione del tempo, in particolare la signoria del presente. Le filosofie ellenistiche, che sono quelle che badano alla felicità dell’uomo, all’eudaimonia, la felicità, su tutte lo stoicismo, l’epicureismo e anche il cinismo, non conoscono la concezione positiva del futuro, quel futuro a cui noi abbiniamo il desiderio, spesso colleghiamo il desiderio, né conoscono la concezione del tempo segmentato in passato, presente e futuro. Centrali, primarie e dominanti sono due costanti del tempo: una è la concezione qualitativa del tempo e l’altra è la signorìa del presente. Su tutti e per tutti, Seneca, “Cogita qualis vita sit non quanta”, importa quale sia la vita non quanta, importa la qualità e non quantità, “Quam bene vivas refert”, importa quanto tu bene viva “non quam diu”, non quanto a lungo. C’è una identificazione, come dirà Alain Michel, nello stoicismo, nelle filosofie morali ellenistiche, poi portate a Roma, tra l’istante e l’eternità. Quindi, una concezione qualitativa del tempo e poi la signorìa del presente, solo il presente esiste. C’è un frammento degli stoici tratto da Crisippo che dice: “esiste solo il presente, solo le cose presenti esistono”. Il futuro è l’oggetto del desiderio o della paura. Ognuno brucia la sua vita e soffre per il desiderio del futuro, futuri desideri, dice Seneca nel De brevitate vitae, “Futura pendent et incerta sunt”: il futuro è sospeso ed incerto, ed è l’insensata proiezione del presente. Fanno programmi a lunga scadenza, ora il maggiore spreco della vita è il differirla, è questo a scippare il presente, mentre il maggior ostacolo al vivere è l’attesa del futuro appeso al desiderio, che dipende dal domani, e intanto ti sfugge l’oggi. “Protinus vive!”, vivi il presente!, vivi senza indugio, vivi immediatamente: questo è l’imperativo categorico della filosofia morale, è il carpe diem, diremmo, di uno stoico, “protinus vive!”.
Alla base di questa visione del mondo, stanno due capisaldi concettuali distintivi della classicità. Uno è la positività di finitum, la positività del concetto di finito: a Roma, il finitum è positivo perché risponde al canone del modus, della misura, dell’estraneità all’eccesso. Speculare è la negatività di infinitum, infinitum è negativo, quell’in è privativo, è negativo, al pari di profundus. In una civiltà terricola e terragna qual era quella di Roma, profundus era “procul fundis”, era lontano dal fondo, era negativo. Sarà il sinonimo infinutum di profundum, bisognerà aspettare, lo vedremo dopo, per avere questa rivalutazione positiva. Positività di finitum e negatività di infinitum, di ciò che è smodato, che è senza modus, non controllato. Medea è condannata perché è “senza freni”. E Lucrezio dirà che Epicuro è un dio, “deus ille fuit”, fu dio perché “finem statuit”, ha posto la parola fine alla paura e al desiderio. Viene in mente Camus: “Por limite al mondo e all’uomo, è questo il terreno su cui ci ricongiungeremo ai Greci”, porre dei limiti.
Non che non ci fosse a Roma e nella classicità una corrente di pensiero segnata dalla curiositas e dalla cupido noscendi, dalla curiosità e dalla passione e dal desiderio di conoscere, non che non ci fosse quello che viene chiamato, nel V Libro del De finibus di Cicerone, questo “innatus in nobis amor cognitionis et scientiae”; c’era, sì, sarà proprio del filone protrettico e scientifico, questo. Lo troviamo nel V Libro del De finibus di Cicerone, il quale interpreta come exemplum della cupiditas discendi le peregrinazioni dei grandi scienziati, dei grandi filosofi, dei grandi letterati, Archimede, Aristosseno, Aristofane, Pitagora, Platone, Democrito. Bello, quel capitolo del V Libro del De finibus dove si parla di questo “innatus amor conoscentiae”: dice che questi viaggi, queste peregrinazioni, sono segno di quello e soprattutto l’Ulisse, appagabile dalla sirene depositarie della scienza. C’era questo filone, basta guardare il V Libro del De finibus, basta guardare il De otio di Seneca, l’elogio dell’ingenium curiosum, al V° Capitolo, quell’ingenium curiosum che ci fa intraprendere quelle vie del mare e sopportare le fatiche di una lunga peregrinazione per il solo guadagno di conoscere qualcosa di nascosto e di lontano, che riunisce le folle agli spettacoli, che ci spinge a scrutare ciò su cui non ci è dato accesso, ad esplorare le realtà riposte, a passare in rassegna i volumi sull’antichità, ad apprendere le notizie sui costumi dei barbari.
C’era anche questo filone, che era più nel segno dell’infinito, se volete, che del finito. Ma questa cupido noscendi, questa curiositas non è sempre di segno positivo, prima osservazione. Seneca stesso, quando attingerà non al filone protrettico e scientifico come farà nella Naturales quaestiones, ma in tutte le sue opere morali attingerà alla filosofia morale stoica, capovolgerà il segno di questo desiderio di conoscenza e dirà “ne fueris curiosus”. In alcune pagine, esalta l’ingenium curiosum, nelle pagine scientifiche e protrettiche; in altre, dice “ne fueris curiosus”, perché la curiositas ti porta fuori da te stesso, dall’interiorità che è l’unica e vera dimensione, l’ultima trincea in cui ognuno combatte la battaglia per la propria libertas. E quindi, “ne fueris curiosus”, di segno ambiguo. E Ulisse stesso, in Seneca, sarà simbolo non di cupido positiva noscendi, ma di errare, e le sirene saranno simbolo degli insidiosa blandimenta. Aggiungo che questo motivo della curiositas, della cupido noscendi, è minoritario nel pensiero classico, soprattutto è caratteristico del pensiero scientifico che va dai Presocratici, attraverso il pensiero atomistico e materialistico, e arriverà fino al nostro Seicento.
L’altro caposaldo concettuale distintivo della classicità è l’assenza, o meglio la condanna, della spes, della speranza. Il mondo classico è senza speranza. “Desines timere si sperare desiris”, cesserai di avere paura se cesserai di sperare. Da Teognide ad Euripide, da Orazio a Seneca, da Plinio a Boezio, “Sapiens nihil sperat, nihil aut cupet”, il saggio non spera nulla e non teme nulla. Il motto del sapiens classico è “Nec spe, nec metu”, agisci né in base alla speranza né in base al timore. Seneca definirà nella Fedra la “spes dira”, dirus è uno degli aggettivi più forti, vuol dire contronatura, mostruoso, la spes è dira, è contronatura, mostruosa. E c’è un carme anonimo latino, il De spe, che al verso 1 definisce la speranza, sentite, “dulce malum”, la spes un dolce male, una sorta di ossimoro tra la psicologia e l’etica. Dulce malum è un inganno. Potremmo dire, qui forse il collega Morani, ecco, ci è maestro, che è l’ambivalenza dell’essere attesa di un male e di helpis e di spes, che sono voces mediae, che significano aspettazione: aspettazione di un male o di un bene.
Il terzo punto di vista. Il primo erano il kuklos e il nostos; il secondo punto era quello della signoria del presente per creare questa cornice dei desideri. Il terzo punto di vista è la teoria delle passioni: la gioia e il dolore, la paura e il desiderio sono sentimenti ambigui e instabili e come tali sono negativi per la classicità. Per tutti, valgano i quattro affetti principali di Zenone, il maestro stoico: gioia e dolore, desiderio e timore. Essi nascono dall’idea falsa che ci si forma delle cose buone e cattive: queste sono gioia e dolore, se quelle sono presenti ma desiderio e timore se quelle appartengono al futuro. Secondo gli stoici – dirà Plutarco – ogni passione è peccato e chi soffre o teme, o desidera o gioisce, pecca. Nella filosofia greca, l’epizemia e il desiderio sono una mancanza dell’uomo nei confronti della sua razionalità. Queste passioni sono negative, e perché? La gioia e il dolore, la paura e il desiderio, perché secondo i classici sono negativi? Sono giudicati negativamente perché compromettono i veri valori che sono l’imperturbabilità e l’atarassia del sapiens. Il sapiens classico ha come proprio valore assoluto l’autonomia, l’autosufficienza. Ha come propria virtù principe la constantia, dove c’è la voce del verbo stare, vuol dire stare fisso, “sapiens non mutat sententiae”, il saggio è stabile, da cui tutta la polemica contro la levitas, la leggerezza del vulgus e di chi “mutat sententiam et mutat locum”. Il sapiens ha come proprio valore assoluto l’autarcheia, come propria virtù principe la constantia, come proprio modello ha dio. Il sapiens cerca di scimmiottare dio, l’unico che non conosce questi quattro sentimenti. La prima sentenza epicurea dirà: “L’essere beato immortale non ha affanni, né ad altri ne arreca, é quindi immune da ira e da benevolenza perché simili cose sono proprie di un essere debole e non di dio”.
Guardate, la lingua latina aveva pensato a contrassegnare negativamente il desiderio, ne possiamo documentare i vari accoppiamenti nei suoi sinonimi: è accoppiato a voluta, aegritudo, misericordia, metus, pudor, iracondia. Soprattutto nei verbi, desiderium è abbinato a accendi, incendi, estuari, affiggere, affici, angi, ardere, calere, exardescere, fatigare, fervere, furere, laborare, macerare. Tutti verbi negativi. Ora è soggetto, ora è ablativo, soprattutto col verbo pati, col verbo rapi, e poi con gli aggettivi, lo si trova in nesso: acerbum, acrius, ardens. Così è il desiderio, è ardentissimo, è carnale, è corporale, è criminosius, è cruciale, dilacerans, diuturnus, ferventius, gravissimus, impudens, improbum, incredibile, infirmum, ingens, insaziabile, inverecundum, tutti in negativo. E ancora, è inutile, luttuosum, malum, nocivum, noxium, obscenum, pigrus, pravum, stultum, vitiousum, sono il 99% di questa aggettivazione con desiderium. Solo raramente, nel latino cristiano, di cui diremo dopo, troviamo religiosum, sanctum, spirituale, verum, uno sparuto gruppo di aggettivi positivi in mezzo a questa terra abitata tutta da aggettivi negativi abbinati a desiderium. Ne segue che il desiderium è una sorta di malattia da curare.
Non a caso, Martha Nussbaum ha scritto un tomo – poteva scriverne un terzo, di quelle 800 pagine – dal titolo La terapia del desiderio: vuole dire che è una malattia. Non l’ho visto, ho visto sabato pomeriggio in libreria un’antologia di Pietro Citati e mi ha incuriosito: parla della malattia dell’infinito, forse siamo su quella lunghezza d’onda. Davide è più aggiornato di me, senz’altro. Dunque, autonomia del sapiens, autonomia vuol dire autos e nomos, è l’aggettivo di Antigone che, di fronte alla legge di Creonte, si fa legge per se stessa, autos e nomos. Il sapiens classico è autonomos, fa legge per se stesso, salva se stesso ma si modella con dio, gareggia con dio, addirittura supera dio perché, a differenza di dio, può soffrire. Dirà Seneca ai suoi addetti: “Vos supra patientiae”, voi, con la vostra Fortitudo, siete al di sopra, superate, “vos supra deus extra”, dio al di fuori, perché dio non conosce la pazienza, non conosce la sofferenza. L’orizzonte quindi è intramondano e la visione antropocentrica, tutto è affidato alla voluntas dell’individuo e al moto ascensionale dell’assalto al cielo.
Ma in cinque minuti vi faccio l’altro dittico, quello della prospettiva cristiana. Se ora passiamo quei tre punti di vista al vaglio della prospettiva cristiana, così come l’ho letta io sin da giovane e continuo a leggerla, in maniera ortodossa, spero, allora scopriamo con qualche interesse, con qualche sorpresa, che scolliniamo verso un altro versante, o meglio, forse un versante altro. Non più una concezione ciclica del tempo ma una concezione lineare, ante Cristum natum e post Cristum natum. Non più unicità e idolatria e signorìa del presente, ma attesa del regno e della parusia, con l’irruzione nella storia della spes, della speranza, l’avvento della speranza, su tutti la paolina spes contra spem. E sul terzo punto, non più la negatività del dolore ma addirittura la redenzione attraverso il dolore e il dolore per eccellenza, la passio, la passione di Cristo. Dirà Agostino, che alla potentia di Dio della classicità del paganesimo, si è sostituita la patientia del dio cristiano. Quindi, non più la visione antropocentrica autonoma, autos nomos, che è un dio a sé, ma eteronoma, che rinvia ad un altro. Forse questo altro ha la minuscola o maiuscola, non lo so, tutti insieme ce lo vedremo. Non la voluntas salva l’uomo, bensì la grazia, val la pena di tornare a questo Sermo 150 di Agostino, dove Agostino dice: “Dimmi, o stoico, quale cosa fa l’uomo beato?”. E la risposta è “virtus animae”, la forza dell’uomo. “Dimmi, o stoico, che cosa è che fa l’uomo felice?”. “La virtù dell’anima”. Continua Agostino: “Dic Cristiane, quae res faciat beatum?”. Dimmi, o tu cristiano, secondo te cosa è che fa l’uomo beato?. “Donum Dei”, la grazia. Alla profunditas del peccato risponde la profunditas della grazia.
C’è un bello studio, un bel libro, Profundus, dal latino arcaico al latino cristiano, dove cambia il segno. Profundus era negativo e diventerà positivo, perché profundus non sarà solo il peccato ma sarà, secondo i Salmi, poi la grazia. E all’abisso di Dio risponde come un’eco l’abisso dell’uomo, “Abissus abissum invocat”. Qui siamo agli antipodi della classicità, nessun continuiamo, credo, tra paganesimo e cristianesimo. Anche se i Padri della Chiesa si sono affaticati, c’era un filone che era per il continuismo, c’era un filone che cercava di conciliare; e poi c’è il filone rigorista, drastico, della discontinuità. Io simpatizzo più per questo, nessun continuismo tra la vetus religio e la nova religio. Il continuismo fa torto, io credo, sia al paganesimo che al cristianesimo. Il pensiero classico si arresta ai bordi della ragione e del suo perimetro.
Badate, anche nel caso di Seneca, anche nel caso dello spiritualistico direttore di anime Seneca, si arresta. Seneca è arrivato nella Lettera 41 forse al culmine, a immaginare che cosa? Immaginare anche il dio interiore, giunge ad identificare un dio interiore, cioè “prope est a te Deus”, Dio è vicino a te. “Tecum est, intus est”, è dentro di te, ma attenzione. Si tratta di un dio tappabuchi, un dio creato dall’uomo a sua immagine e somiglianza, di un dio antropomorfico. Continua in quell’Epistola, Seneca, e dice: “Hic prout a nobis tractatus est, ita nos ipse tractat”. C’è del contrattualismo, come tu tratti – guardate, tracto è un verbo forte, deriva da trao, che vuol dire maneggio -, come tu maneggi dio, lui maneggia te. E’ un dio antropomorfico, senza dire poi del sarcasmo con cui Agostino smaschererà la pazienza, la pseudofede di Seneca.
Concludo. Vorrei concludere parlando del desiderio in un autore d’eccezione, uno che, come il mio Seneca, il mio Lucrezio, ha lo sguardo totale dell’aquila, e parlo di Agostino, il quale anche su questo punto, sul tema del desiderio, come sul tema della provvidenza, è duplice, è nel segno del due. Laddove attinge alle fonti classiche, ha una certa concezione del desiderio, laddove, dietro, c’è la fonte biblica, c’è un’altra concezione del desiderio. E forse con Agostino chiudiamo e facciamo la sintesi, una sorta di doppia norma. Fino ai Commenti su San Paolo, Agostino dà un giudizio negativo del desiderio, quello che abbiamo visto nel primo dittico, perché rientra nelle quattro passioni, il desiderio, accanto al dolore, alla paura e alla gioia. E’ lo schema della quadriga ricordato nel De Libero Arbitrio, che lui ha ripreso da Cicerone: il desiderium da Agostino è censurato perché ignora il modus, la misura. Viceversa, laddove Agostino riprende i testi biblici, assistiamo alla lode del desiderium. “Ante te est omne desiderium meum” è il Salmo 37, e al Salmo 102 leggiamo “Deus satiat in bonis desiderium tuum”. Dio è finis del desiderium, con un doppio significato, della fine e del fine dell’oggetto, ma non è solo oggetto, è anche soggetto. “Desideremus illum fontum”, vediamo bene di desiderare quella fonte, “ipse Deus enim fons enim et lumines” perché lui è l’origine: qui, nulla di volontaristico e di soggettivo. Dio è all’origine e al termine, è il soggetto e l’oggetto del desiderio. Il desiderio, quindi, perché non sia un’illusione, non sia un inganno, non sia una droga, deve avere un soggetto che lo muove e lo motiva e un oggetto che lo soddisfa e lo riempie. Sarebbe interessante qui vedere tutta la teoria agostiniana del frui rispetto all’uti, del godere: ci vuole un approdo, ci vuole una patria, altrimenti tutto è illusione, tutto è vanitas. Da questo punto di vista, e finisco, c’è un salto, c’è uno scarto, un’alterità tra classicità e cristianità. E la vorrei dire così, questa alterità. Ci sono tre piani, tre dimensioni, tre navigazioni: la prima è quella del piano fisico, il piano della fisica, il piano dei pre-socratici. Uno naviga, ha la prima navigazione e qual è questa prima navigazione? Tu sei in mare e ti affidi alla forza naturale dei venti, Platone dice: questo è il proteros plus che non mi basta. Ci vuole un deuteros plus, ci vuole una seconda navigazione. Il controllo e la certezza dei remi, laddove rimane, e non ci giova più il vento per tornare, per andare a riva o per approdare, ci vogliono i remi, e allora vale non più la forza naturale dei venti ma l’autonomia del logos dell’uomo. Agli occhi del corpo, proprio dell’immagine empirica della condizione, e condizionati dalle apparenze sensibili e fisiche del primo piano, Platone sostituisce gli occhi dell’anima. Dice “ci vuole un deuteros plus”, una seconda navigazione, quella del logos. Dice Platone, questa è quella meno insoddisfacente, potrebbe esserci dice, potremmo affidarci ad un discorso divino, però seios logos, Platone lo intravvede, lo ipotizza ma non lo certifica. E allora qui sovviene quella che è stata definita felicemente la terza navigazione, che è il piano della religione. Non della religione, perché la religione è opera dell’uomo, il piano della rivelazione, nel segno di Agostino. Per salire su quella nave più solida, per attingere a quel discorso divino, ci vuole una terza navigazione, che possa approdare ad una patria nota, ad una sponda. E così finisco con il Commento di Agostino al Vangelo di Giovanni 2,2. E’ come se qualcuno riuscisse a vedere di lontano la patria, ma il mare lo separasse da essa. Egli vede dove deve andare ma gli manca il mezzo con cui andarci. Così è per noi. C’è di mezzo il mare di questo secolo, mare huius saeculi, attraverso il quale dobbiamo andare. Perciò, affinché ci fosse anche il mezzo con cui andare, venne di qua Colui al quale volevamo andare. E cosa ha fatto? Ha preparato il legno con cui potessimo attraversare il mare. Infatti, nessuno può attraversare il mare di questo secolo se non è portato da quella croce. Grazie.

DAVIDE RONDONI:
Nel ringraziare i nostri due relatori le cui parole, come avete seguito, si sono intrecciate, soprattutto la citazione di entrambi da Platone è la stessa, Volevamo lasciarci con un’immagine che naturalmente non esaurisce la ricchezza di tutto quello che abbiamo ascoltato. Dicevamo che nella prima relazione ritornava spesso il tema dell’ombra, della nebbia. Questo motiva, se ci pensate, il fatto del valore che il professor Dionigi ci ha spiegato, del valore negativo che veniva dato da una certa cultura al desiderio come un movimento o una curiosità. Perché nell’ombra, quando siamo nell’oscurità, ci si muove cautamente, non ci si agita, i passi si fanno misurati, ha più valore il finitum dell’infinitum. Nell’ombra, il valore è dato dalla capacità di un passo misurato, cauto, dove appunto l’assenza delle passioni eviti lo scontro con ciò che nell’ombra può colpirti. Anche noi normalmente, se entriamo in una stanza in penombra, non cominciamo ad agitarci, non corriamo in qua e in là, ci muoviamo cautamente. Per questo, soprattutto nella cultura latina, che ha attraversato l’intervento di Dionigi, tutto il valore della misura, di ciò che è noto, non di ciò che è ignoto, non può che essere così, perché un uomo che è nell’ombra non può che muoversi così. E poi, la grande rivoluzione, che non c’è già stata e basta, ma in cui siamo dentro. E’ la grande rivoluzione di cui ci ha parlato – anch’io sono per un’idea non continuista nel senso elementare -, quella che si è documentata nei monasteri benedettini. Ancora, scusate, torno al mio Ermanno che nell’anno Mille stava a Reichenau dove si copiavano le grandi opere dei classici e dove i cristiani si misuravano con la grandezza, con l’alterità di quel mondo. Questa rivoluzione, dicevo, non è fatta una volta, continua a compiersi sempre, perché la grandezza del mondo classico continua a parlare, continua ad essere un’ipotesi affascinante, continua ad essere un modo interessante per guardare la vita. Non è appena un retaggio del passato, sbaglieremmo a pensare che la partita si è già svolta, come se questa differenza tra il cristianesimo e il mondo antico fosse una cosa che riguarda i manuali di storia.
Ma è come se fossero due grandi ipotesi ancora in campo, a volte, come dicevo prima, grottescamente, ma ancora in campo, come grandi ipotesi di una vita che tenta di essere degna di essere vissuta. E’ impressionante, come diceva la relazione del professor Dionigi, che ad un uomo che sfugge le passioni si opponga un Dio che soffre. La grande rivoluzione sta in quello, nel fatto che la Rivelazione, cioè la ferita dell’ombra, il fatto che non tutto è solo ombra, è data da questa strana visita che viene d’al di là del mare, che è il saeculum che non possiamo attraversare, ma questa strana visita, che è la visita di un Dio che ama e che perciò soffre. Questa è la vera grande rivoluzione, ed è la cosa la cui grandezza ancora ci colpisce e ci colpisce come testimonianza che vediamo in campo anche in tanti racconti qui al Meeting.
Per questo io ringrazio i nostri due relatori, credo che abbiano dato a molti di voi anche tante piste per approfondire lo studio o l’interesse per queste cose. Qui al Meeting ci sono tanti strumenti, non solo in libreria o nelle mostre. Ancora una volta, un incontro come questo è un invito a vivere più grandemente la propria avventura umana. Grazie a voi.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

23 Agosto 2010

Ora

11:15

Edizione

2010

Luogo

Sala A2
Categoria
Incontri