IL DESIDERIO, LA FELICITÀ, LE FORZE DELLA STORIA. Un dialogo filosofico a partire dalle Romanae Disputationes

IL DESIDERIO, LA FELICITÀ, LE FORZE DELLA STORIA. Un dialogo filosofico a partire dalle Romanae Disputationes

A cura di Romanae Disputationes. Partecipano: Costantino Esposito, Professore Ordinario di Storia della Filosofia all’Università “Aldo Moro” di Bari; Elio Franzini, Rettore e Professore Ordinario di Estetica all’Università degli Studi di Milano. Introduce Marco Ferrari, Docente di Filosofia al Liceo “Malpighi” di Bologna, Ideatore e Direttore del Concorso nazionale di Filosofia per le superiori Romanae Disputationes.

 

Ore: 15.00 Arena della Storia A5
IL DESIDERIO, LA FELICITÀ, LE FORZE DELLA STORIA. Un dialogo filosofico a partire dalle Romanae Disputationes

A cura di Romanae Disputationes. Partecipano: Costantino Esposito, Professore Ordinario di Storia della Filosofia all’Università “Aldo Moro” di Bari; Elio Franzini, Rettore e Professore Ordinario di Estetica all’Università degli Studi di Milano. Introduce Marco Ferrari, Docente di Filosofia al Liceo “Malpighi” di Bologna, Ideatore e Direttore del Concorso nazionale di Filosofia per le superiori Romanae Disputationes.

MARCO FERRARI
Buon pomeriggio a tutti, benvenuti in questo giorno di Meeting per questo momento di dialogo filosofico sul tema “Il desiderio, la felicità le forze che muovono la storia”. Abbiamo oggi due relatori davvero preziosi che presento subito: alla mia destra il prof. Elio Franzini, filosofo italiano, ordinario di Estetica alla Statale di Milano, e neoeletto rettore della sua Università (motivo per i quale gli facciamo i nostri complimenti e il nostro in bocca al lupo), e Costantino Esposito, filosofo italiano, amico e curatore delle ultime edizioni del Meeting, ordinario di storia della filosofia presso l’Università di Bari.
Oggi sappiamo che sarà presente in tre incontri quindi una maratona di cui gli siamo davvero grati. L’incontro di questo pomeriggio è stato desiderato e promosso dal Meeting poiché nasce da una significativa esperienza in atto nella scuola italiana, il Concorso nazionale di filosofia per le scuole superiori, “Romanae Disputationes”, che da cinque anni sfida e coinvolge migliaia di studenti e docenti, con lo scopo di promuovere la ricerca e lo studio della filosofia, portando i giovani studenti e gli insegnanti a confrontarsi con docenti universitari sul tema proposto ogni anno e, in seconda battuta, a realizzare, radunati in team, un paper o un video filosofico e a prepararsi ai dibattiti filosofici Age Contra.
Vi volevamo far vedere un brevissimo video che racconta di questa esperienza della scuola italiana, le “Romanae disputationes”, e poi iniziamo il nostro dialogo

VIDEO

Come avete potuto vedere dal video, alle “Romanae disputationes” la filosofia è vissuta con freschezza, con vivacità e con grande passione e l’idea nasce da questo principio: portare i ragazzi nel mondo, far uscire i ragazzi dalla classe e portarli a contatto con la ricerca più viva e quindi nelle Università, coi ricercatori, con la punta avanzata della ricerca, con il massimo rigore possibile, e con l’auspicabile profondità di contenuti. È questa la ragione per la quale le “Romanae disputationes” continuano a crescere e a generare entusiasmo nei partecipanti e nei partner, non ultimi la Cineteca di Bologna e il Museo del Cinema di Torino che collaborano da quest’anno nella costruzione di percorsi formativi per il video making e nella valutazione dei video filosofici.
Entusiasmo che nasce soprattutto dall’aver trovato compagni di viaggio autorevoli e disponibili, che si sono coinvolti con le “Romanae disputationes” e di cui il prof. Costantino Esposito, presidente della giuria e direi co-fondatore dalla prima edizione, e il prof. Franzini, membro del comitato scientifico da due anni, sono due esempi.
Cominciamo allora il nostro dialogo, che si comporrà di quattro domande a testa e poi sarà aperto anche voi qui presenti.
Vorrei iniziare col prof. Franzini, che è qui per la prima volta.
Il Meeting ha come tema quest’anno “Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”. Professore, quali sono a suo avviso le forze capaci di muovere la storia e che al tempo stesso possono dare all’uomo la felicità? Che posto c’è per la filosofia in questo movimento della storia in avanti? Che posto c’è per la ricerca filosofica, tra i fattori capaci di rendere l’uomo felice?

ELIO FRANZINI
Beh, è una domanda piccolina, una domanda cui è facile rispondere sinteticamente…beh, in primo luogo grazie di avermi invitato. Ha sostenuto prima che voleva invitarmi dal 1999, probabilmente aspettava che morissi prima di invitarmi, ma è arrivato finalmente questo momento, quindi sono felice di essere qui al Meeting che pensavo, come dire? molto più piccolo, e invece è grande, anche questa è una esperienza di felicità e sicuramente è una esperienza che muove la storia. Ma per venire alla domanda specifica credo che sia molto difficile rispondere perché le forze che muovono la storia sono veramente infinite. Vi è naturalmente la forza della ragione, la forza della volontà, l’astuzia della ragione come diceva Hegel, tutte quelle dimensioni antropologiche che ci portano sicuramente avanti nel corso del tempo. Ecco, sicuramente in primo luogo la capacità di creare, cioè la capacità di fare, la capacità di incidere con il proprio lavoro nel miglioramento del mondo, nel miglioramento delle cose. In tutto ciò la filosofia può avere un luogo, può avere un posto, può avere una posizione? Tutto sommato io continuo a credere di sì, continuo a credere che la filosofia sia una dimensione essenziale, fondamentale per il divenire della storia. Un filosofo dell’Ottocento, post-hegeliano, che i più giovani amano molto, l’avranno sentito nominare, cioè Kierkegaard, sosteneva, a mio parere in modo erroneo, che la filosofia è la balia asciutta della vita: veglia sui nostri passi, ma non ci può allattare. Ecco, io invece credo che non sia così. La filosofia non è semplicemente una balia che veglia sui nostri passi e in un certo qual modo ci dice dove andare o dove non andare; no, la filosofia è qualcosa che aiuta a fondare il senso, aiuta a dare il senso a quello che sono le nostre vite, perché la filosofia è indagine sul senso e sui fondamenti del senso. Questo direi è la prima parte della domanda, cioè le forze che muovono la storia sono tante, sono molteplici, sono articolate, non ve n’è una che predomini sulle altre, sicuramente la filosofia ha un ruolo essenziale. Vi è però la seconda parte della domanda, cioè se tutto ciò possa condurre alla felicità e che rapporto vi sia tra la dimensione della storia e la dimensione della felicità, cioè se appunto le forze che muovono la storia sono le stesse che possono rendere l’uomo felice. Se è difficile definire che cosa sia la storia, credo che sia ancora più difficile definire che cosa sia la felicità, perché la felicità è qualche cosa di estremamente articolato, ancora più della storia. Un filosofo che ho visto citato anche nella mostra dedicata a Giobbe, cioè Jean Jacques Rousseau, ha scritto una bella frase in cui dice che la felicità, cui la filosofia deve tendere, deve portare, non è una felicità stabile. Rousseau diceva che deve essere una felicità fragile. Un grande, a mio parere, critico francese Cvetan Todorov, bulgaro francesizzato, in un suo bellissimo saggio, Una fragile felicità, ha identificato questa fragile felicità con la filosofia. Allora perché la felicità cui ci porta la filosofia è una felicità fragile e non è una felicità stabile e costante? Non soltanto perché è difficile avere a che fare con la vita nella sua quotidianità, nelle sue occorrenze e nelle sue dimensioni spesso contraddittorie, ma perché la filosofia è una esperienza, e lo dimostra anche questa arena della storia, è un’esperienza di socializzazione. L’uomo deve socializzarsi per essere felice, ed è questa capacità che gli uomini hanno di empatizzare tra loro, cioè di entrare tra loro all’interno di una dimensione di comunicazione di senso, di comunicazione di sentimenti, di comunicazione di verità, di comunicazione di esperienze, a rendere possibile una socializzazione, ed è da questa socializzazione che nasce la felicità dello stare insieme, la felicità del riuscire a condividere delle esperienze di senso. Soltanto che questa felicità è fragile, perché mette insieme delle forze, cioè la forza dell’uomo di connettersi all’interno di un tessuto di senso comune, ma anche la fragilità dei nostri rapporti umani, delle nostre relazioni umane. Ecco, intessere queste relazioni in modo stabile è difficile. Questo allora mi porta ad una conclusione: che la felicità non è qualcosa che mi viene donato, la felicità è come la storia, perché la felicità non è qualche cosa che possa cadere dall’alto, la felicità è qualcosa che dobbiamo costruire che dobbiamo costruire giorno per giorno, passo dopo passo. La filosofia, penso che possa aiutare all’interno di questa costruzione di senso. La felicità è una costante costruzione di senso, non qualche cosa di stabile, ma qualcosa che dobbiamo creare insieme. A me ha molto colpito, ha veramente molto colpito una frase di un sacerdote, all’epoca era soltanto il delegato Fuci del Vaticano, poi divenne cardinale di Milano, poi divenne Papa, e mi sembra il 28 ottobre diventerà anche santo ed è Giovanni Battista Montini. Ecco Giovanni Battista Montini, negli anni Trenta, scrisse una lettera agli studenti universitari, agli universitari della Fuci, dicendo che era necessario, per raggiungere, diciamo così, una felicità e un senso, erano necessari due elementi: uno era lo spirito critico e l’altro la carità intellettuale. Ecco, a me hanno molto colpito questi due punti perché la filosofia è spirito critico, e questo è ovvio, cioè la filosofia aiuta a giudicare, la filosofia è critica, la filosofia è giudizio, è capacità di cogliere il senso delle cose, di rappresentare il senso delle cose esercitando il giudizio, quindi esercitando il libero arbitrio e il libero arbitrio è essenziale per raggiungere la felicità e per costruire la storia; non c’è felicità né storia senza libero arbitrio. Ma ancora più bella è la seconda espressione: carità intellettuale. Carità è una parola che non deriva, checché se ne creda, da karis, cioè da grazia, ma la carità è proprio lo stare, lo stare insieme; quindi la carità intellettuale è praticamente ciò che diceva Jean Jacques Rousseau, la capacità di stare insieme, la capacità di usare l’intelletto non per distanziarsi dall’altro, ma per avere con l’altro una relazione autentica. Carità intellettuale è un’espressione io trovo molto, molto laica, molto laica perché la carità intellettuale è la capacità che ciascuno di noi deve sempre avere, deve sempre conservare, di confrontarsi con l’altro, di confrontarsi col diverso. Ecco ciò che muove la storia, è questa capacità di connettersi all’alterità, non di rifiutarla, di conservarla e nella conservazione della propria identità, confrontarsi con l’identità altrui, perché è il dialogo che costruisce la storia e il dialogo non è il dialogo tra pari o uguali, il dialogo è il dialogo tra le differenze. Felicità e storia hanno questo elemento comune: la capacità di confrontarsi con la differenza e di sapere instaurare, dal confronto con la differenza, una fondazione di senso che, rimanendo chiusi all’interno del proprio ambito, all’interno della propri singolarità, non potremmo mai avere. Quindi confrontarsi col diverso, confrontarsi con l’altro è la strada della storia e dunque la strada di una possibile e sia pur facile felicità.

MARCO FERRARI
Grazie, adesso passo la palla al professor Esposito. Prof. Esposito, a tema della prossima edizione delle “Romanae Disputationes” abbiamo posto il desiderio, citando Cartesio: “Un extreme desir. Natura e possibilità del desiderio”.
Che cosa ha da dire il fenomeno umano e singolare del desiderare – che spesso è stato interpretato come fuga, come sogno, come sospensione dalla storia – rispetto alle forze concrete e tangibili, come quelle economiche, politiche, tecnologiche, mediatiche, che al dire dei più muovono la storia?
Che cosa ha a che fare il desiderio singolare, che sembra destinato a rimanere sempre incompiuto, aperto, inarrestabile, con il procedere della storia, che sembra guidata da forze sovraindividuali come i popoli, le nazioni, le religioni, la globalizzazione, ecc.?

COSTANTINO ESPOSITO
Anzitutto volevo esprimere la mia contentezza di essere qui con Elio Franzini, perché già dalla prima risposta che ha dato, mi verrebbe da entrare subito in una… però magari lo facciamo in un altro momento, ma ci arriviamo anche a questo. Tu mi chiedi del desiderio. Piuttosto che fare una teoria del desiderio di cui veramente sarei incapace o di richiamare delle nozioni che ne definiscano astrattamente la natura, vorrei invitare ciascuno di voi, come coprotagonista di questo incontro, a riflettere su come si presenti nella nostra esperienza questo stranissimo fenomeno ed è un fenomeno felicemente ambiguo ed enigmatico. Dico in tre punti perché secondo me questo fenomeno è felicemente ambiguo ed enigmatico. Innanzitutto perché esso denota una mancanza, si desidera perché non si ha ed è non una mancanza qualsiasi, non una mancanza opzionale, ma più specificamente è una mancanza che ferisce, una mancanza che avvertiamo come tale e che innesta la nostalgia, la tendenza, il desiderare ciò di cui ci sentiamo mancanti, ma al tempo stesso, noi non riusciremmo a cogliere effettivamente l’esperienza del desiderare se ci fermassimo alla denotazione di una mancanza e se non avvertissimo che il desiderio annuncia anche una presenza che ci attrae, non è soltanto una cosa che ci ferisce, ma è anche qualche cosa che in qualche maniera dobbiamo già presentire o avvertire, di cui dobbiamo in qualche maniera avere una qualche nozione. Ignoti nulla cupido, non si potrebbe desiderare ciò che non si conosce e d’altra parte non lo conosciamo così bene da poterlo possedere e non volerne fruire ancora di più. Quindi questo carattere di soglia del desiderio che attesta una mancanza, ma al tempo stesso annuncia una presenza. Io faccio spesso ai miei studenti l’esempio di quella semplicissima attrazione che un magnete ha rispetto a un prezzo di ferro e a un certo punto noi potremmo anche non vedere il magnete, ma il fatto che ci sia un movimento verso implica che qualcosa attragga e, quindi, la mera penuria, il regime della penuria, della mancanza, non basterebbe empiricamente a spiegare il moto della tendenza, se non ipotizzando almeno un fattore che attragga. E poi come terza annotazione che naturalmente è molto goffa, andrebbe sviluppata, a me sembra che il desiderare non sia semplicemente una delle azioni della nostra vita cosciente, ma in qualche maniera è tra i fenomeni che vengono a costituire il nostro stare al mondo e quindi non soltanto una intenzione desiderante del singolo individuo, ma anche una possibilità di stare insieme al mondo, anche come una radice nascosta della socialità tra di noi. Anche qui, piuttosto che definire astrattamente, ci basti pensare al rapporto arcistudiato in filosofia, in psicoanalisi, ma da cui vorrei ripartire un po’ alla buona, partendo da ciò che ciascuno di noi può verificare nella sua esperienza, tra il bisogno e il desiderio. E c’è una cosa che tutti più o meno teoricamente avvertiamo, perché il bisogno è in qualche maniera una mancanza che chiede una soddisfazione, a cui noi diamo soddisfazione, ma questa soddisfazione è la fame, la sete, il bisogno sessuale e rinasce sempre dalle sue ceneri. La soddisfazione non è mai compiuta, ma questo compimento in qualche maniera cerca sempre lo stesso compimento. E quindi tra il bisogno e la soddisfazione del bisogno noi non avremmo dubbi, sceglieremmo la soddisfazione del bisogno. È meglio vivere la soddisfazione del bisogno che essere in qualche maniera dipendenti. Infatti un bisogno è una specie di dipendenza. Prova a fare lo stesso test con il desiderio. Se qualcuno vi chiedesse: tra il desiderio e il suo totale compimento cosa scegliereste? Probabilmente, parlo per me almeno, io sceglierei il desiderio, perché la soddisfazione tendenzialmente esaustiva, esauriente del desiderio è la morte. Pensate a una vita che non desideri. Possiamo pensare a una vita senza tanti bisogni, l’immagine felice, ma una vita senza desiderio ci sembra una condanna o una perdita, non un guadagno. Quindi, che strana cosa, che il soddisfacimento del desiderio è tale che quando il desiderio si soddisfa non cessa, ma si intensifica e non nella coazione a ripetere uno stesso meccanismo che mi deve ridare allo stesso bisogno lo stesso soddisfacimento. Perché? Perché probabilmente, non lo dico io, ma lo diceva il grande Cartesio, l’oggetto del desiderio è un oggetto infinito, anzi è l’infinito. Cartesio nella terza Meditazione dice, dopo aver fondato la certezza autoreferente dell’io, del cogito, che può anche rinunciare al suo stesso corpo e tuttavia è certo di sé e poi aggiunge che se io vado a vedere dentro la vita della mente, la vita del sé, io scopro che ho dentro di me un’idea, che è appunto l’idea di infinito, senza la quale non potrei né desiderare, né dubitare. Lui dice: il desiderio e il dubbio sono della stessa famiglia, ma questo fa capire la grandezza di Cartesio, perché il dubbio è un desiderio, non è semplicemente una astensione dalla certezza o una rinuncia a una verità, ma indica, per così dire, quel movimento della ragione che vuole godere del vero.

MARCO FERRARI
Veniamo al secondo giro di domande che sarà un po’ più personale. Spero che i relatori abbiano la carità intellettuale di rispondere per come porrò la domanda, perché abbiamo già discusso della cosa e così ho reso loro impossibile evitare la domanda. E partirei dal Prof. Franzini: vorrei chiederle di raccontarci qualcosa della sua biografia umana e intellettuale, due esempi diciamo così, nei quali ha ritrovato tutti gli elementi in gioco nel nostro dialogo di oggi, desiderio, felicità e ricaduta concreta nel suo ambiente di vita.
La domanda, sinteticamente, è questa: «Quando e che cosa ha desiderato così ardentemente e arditamente da conseguire un cambiamento per chi le stava intorno e la felicità per lei?».

ELIO FRANZINI
Allora dovete sapere che con il prof. Esposito poco fa, conoscendo già questa domanda da qualche settimana, ci siamo detti come riuscire ad evitarla, ovverossia come riuscire a non rispondere. Solo che io avevo capito che rispondeva prima lui per par condicio e quindi dicevo riuscirò a svicolarla in questo modo, no? Solo che a questo punto “me tocca” e, quindi, come la svicolo? Io tendo sempre ad essere, quando insegno, quando lavoro, a essere molto stoico, ovverossia a tentare di mettere totalmente da parte le passioni individuali perché vengo da una tradizione filosofica, la fenomenologia, che dice che di queste cose bisogna fare epoché, sospendere, perché se non sospendiamo, introduciamo degli elementi psicologici all’interno dell’insegnamento, all’interno di quella che poi è la propria missione di lavoro e di vita. Oltre a questo ritegno fenomenologico – e intanto il tempo passa – c’è anche il fatto che io amo molto un poeta e teorico francese, Paul Valery, il quale inizia un suo bellissimo scritto dal titolo Monsieur Teste, un poemetto in prosa scritto quando era ragazzo, con questa frase: «L’entusiasmo, questa stupida elettricità, impariamo a farlo correre su fili docili». Monsieur Teste è Cartesio, cioè è il testimone, è colui che proprio per capire i meccanismi del desiderio, i meccanismi della vita umana deve in un certo qual modo, nel momento in cui opera, nel momento in cui lavora, secondo questa antica metafora della tradizione della filosofia occidentale, stare alla finestra, cioè guardare il mondo. Non dimentichiamo mai che Cartesio scrisse il Discorso come introduzione a quel libro mai scritto che era proprio dedicato al mondo. Questo per dire che ho difficoltà a rispondere a questa domanda, anche perché naturalmente non risponderò il rettorato, perché non era un desiderio così forte, ma soltanto qualcosa che ha messo in gioco le coronarie dal momento che ho vinto per 15 voti. In realtà – ed è un po’ quello che diceva il prof. Esposito poco fa – la dinamica non è quella di desiderare qualche cosa di specifico, cioè quando io nella mia vita mi sono sentito soddisfatto, mi sono sentito appagato e ho ritenuto di migliorare gli altri, migliorando al tempo stesso me stesso perché miglioravo gli altri, è avvenuto non perché abbia fatto qualche cosa di specifico o abbia creduto in qualcosa di specifico, ma perché ho messo in atto quello che, in una direzione molto simile a quello che diceva il prof. Costantino poco fa, un filosofo Lévinas chiama un “desiderio senza mancanza”, cioè un desiderio che non deriva dal fatto che manca qualche cosa, ma un desiderio che deriva dalla volontà di fare, dalla volontà di mettere in atto un elemento costruttivo, cioè un elemento di costruzione del mondo e quindi del sé e degli altri. Quindi questo “desiderio senza mancanza” è anche a mio parere il modo migliore per definire l’opera d’arte, perché l’opera d’arte è un desiderio senza mancanza in quanto deriva da un processo desiderativo, la volontà di trasformare il mondo, di mettere in atto una volontà interpretativa del mondo, che costruisca una visione del mondo che però costituisce una novità nel mondo stesso, ma al tempo stesso questa realtà, questa opera che viene costruita è compiuta, cioè è così e non potrebbe essere altrimenti, perché se fosse altrimenti sarebbe un’altra cosa e quindi avrebbe delle imperfezioni, mentre l’opera d’arte è perfezione all’interno della sua unitarietà. Ora, quando mi sono sentito in un certo qual modo felice? L’elemento veramente importante, quello che rende felice è questo desiderio, dico volontariamente questa parola, desiderio di fare, cioè desiderio di costruire, di costruire qualcosa che incida positivamente nella vita degli altri, sia questo un atto di affetto, sia questo invece una capacità di fare una bella lezione, quello di dare quel piccolo contributo, quell’apparentemente irrilevante contributo, che riesce a migliorare la propria vita e quindi la vita di ciascuno di noi. Sono riuscito a fare questo nella mia esistenza? Non ne ho la minima idea; quando ho creduto di essere riuscito a farlo, ecco credo di avere posto un tassello sia pure piccolo e irrilevante alla felicità collettiva. Un esempio storico individuale e semipubblico: il momento in cui sono stato più felice nella mia vita è quando sono diventato ricercatore universitario, perché quando sono diventato ricercatore universitario ho avuto il mio primo posto di ruolo, avevo la mia autonomia, ho iniziato la mia vita da adulto, cioè ho avuto la consapevolezza di poter dare un contributo alla mia esistenza e alla esistenza degli altri che non vivesse all’interno di una precarietà assoluta. Io quello che più mi fa soffrire nei più giovani è questo orizzonte di precarietà che rende veramente non felici all’interno della arena della storia. Ecco perché la felicità è quella di poter avere una propria posizione nel mondo, ma una posizione a partire dalla quale si possa costruire qualche cosa, non essere vittima della storia, ma essere protagonisti della storia. In quel movimento strano, residuale che fu il ‘77, che fu un movimento essenzialmente bolognese, mi colpì un graffito che era scritto su un muro dell’Università di Firenze: «Non abbiamo né presente, né futuro, la storia ci uccide». Quello per cui noi dobbiamo lottare per il futuro, per essere felici, è proprio evitare questa idea che la storia non sia costruzione, ma sia morte del desiderio e morte della propria volontà di affermarsi nel mondo. Quindi questo piccolo elemento individuale e insignificante in realtà è stato un piccolo tassello di costruzione della storia e quindi un piccolo elemento di felicità.

MARCO FERRARI
Grazie. Alla fine ha risposto. Mi ha fatto venire in mente una espressione di papa Francesco che diceva «non ci interessa di occupare spazi, ma di innescare processi» e mi ha ricordato molto la sua risposta. Pongo la stessa domanda al Prof. Esposito: quando e che cosa ha desiderato così ardentemente e arditamente da conseguire un cambiamento per chi le stava intorno e la felicità per lei?

COSTANTINO ESPOSITO
Parto dai miei maestri e ancora una volta da Renato Cartesio perché quella frase che il prof. Ferrari citava all’inizio, “l’estremo desiderio”, Cartesio la susa in due tre luoghi del Discorso sul metodo, quindi nel 1637, quando racconta di aver concluso gli studi nel migliore collegio d’Europa, con i migliori insegnanti e di essere tuttavia insoddisfatto. Cartesio non riesce a trovare quella certezza, vale a dire quella verità come orientante l’esistenza che pure cercava e allora, come forse ricorderete, sceglie di partire e di andare a scoprire il gran libro del mondo che lo deluderà. Poi tornerà nella sua stanza dove, vicino alla Stube avrà l’intuizione del metodo e scrive: «Quindi partì ed ero spinto da un estremo desiderio di scoprire che cosa mi facesse distinguere il vero dal falso». Il desiderio estremo, io lo interpreto così: è come quando uno tende l’arco di una freccia, e quel desiderio estremo è il desiderio che tende, che dà la tensione a qualsiasi altro bisogno. Qualcuno ha chiamato questo desiderio la vita o la coscienza o la ricerca, la costruzione del senso, qualcosa che ci tocca, ma non è già lì, che dobbiamo desiderare. E qui ti ringrazio, perché questo mi permette di implicarmi un po’ con Elio Franzini, perché tu all’inizio hai detto una cosa che mi ha molto interessato, che però vorrei provare a mettere in questione. Tu hai detto che la felicità non è qualche cosa che ci viene semplicemente donata, cioè non cade dal cielo, non è una cosa bell’e fatta, ma è qualcosa che dobbiamo costruire, una costante costruzione di senso, e questo è verissimo, è il compito di ogni giorno, però vorrei mettere in questione, senza negare questo, ma vorrei porre questa domanda: noi normalmente pensiamo che la felicità sia una cosa che se c’è o se ci sarà, sarà alla fine perché la felicità è un possesso permanente. Giustamente Franzini dice: «Attenzione! Non può funzionare sempre così. La felicità è fragile anche, è qualche cosa che attraversa le pieghe dei giorni, è un lampo», e infatti tanti di noi hanno questi lampi di felicità, è un lampo che poi si dissolve nel rombo del tuono, che dilegua lontano. Io mi chiedo se riusciamo a rendere conto di ciò non soltanto come definizione, ma come esperienza che non sia solo psicologica, ma che cerchi di capire che cosa si annuncia nella vita con questo fenomeno. Se la felicità sia semplicemente una cosa che stia alla fine o non sia piuttosto anche una cosa che sta all’inizio e qui vorrei fare entrare in scena un altro compagno di cammino, che è Agostino di Ippona, quando nel X libro delle Confessiones, pone questo problema e dice: «Chiedete – non ho qui il testo, però è tardi e lo dico a memoria – a chiunque se vuole andare a fare il militare o vuole fare un’altra cosa. Alcuni diranno “sì, mi piace fare la vita militare”, altri diranno di no e con ragione, ma chiedete a tutti se vogliono essere felici e, senza tema di smentita, a meno che uno non abbia una patologia per cui è un masochista, ti diranno di sì». E Agostino con un percorso fenomenologico di prim’ordine dice: «Come è possibile che tutti desiderino la felicità, se nessuno ce l’avesse?». Ed è chiaro che non ce l’abbiamo, perché quelli che dicono che vogliono essere felici, implicano che non siamo già felici, ma come fanno a desiderare qualcosa che non conoscono? Dove l’hanno appresa quella nozione di felicità per poterla desiderare? E lui ipotizza che probabilmente ciascuno di noi ha fatto l’esperienza di un certo godimento del vero, “gaudium de veritate”. Come potremmo tradurre questo “godimento del vero”? Un certo gusto del senso, perché il vero che si evidenzia nella realtà non è tanto una nostra elaborazione arbitraria, ma la realtà che ci dice il suo significato. Ecco, lui ci dice che ciascuno di noi sa, anche se non lo teorizza, sa cosa vuol dire «è vero», cioè scoprire un significato, ma non un significato qualsiasi, dice Agostino, ma un significato che, appreso, ti fa godere, perché o la verità non c’è, o, se il vero c’è, dice il gande Agostino, c’è un test per capire che è il vero, perché ti dà godimento, fa fiorire, ti dà soddisfazione. E allora per venire alla tua domanda biografica, io, se devo dire questo, è quando per esempio, la persona, della quale un po’ di anni fa mi sono innamorato e che poi è diventata mia moglie, ha capito che mi preferiva. Infatti c’è bisogno che uno ti preferisca e ti affermi, e questa è la felicità che sta all’inizio, perché tu possa dire «Ah, sono io». C’è bisogno appunto di quel magnete che desti il desiderio, direi così.

MARCO FERRARI
Grazie. Vengo all’ultimo giro di domande che pongo da qui e poi dopo vi do la parola. Dopo c’è una slide con un testo che voglio leggere. Allora il terzo giro di domande riguarda, in un certo senso, il cinquantesimo dal Sessantotto che viene messo a tema qui al Meeting. Vorrei ricordare due espressioni culturali della seconda metà del Novecento dalle quali partire: la prima è la celebre espressione, molto diffusa tra i giovani protagonisti del Sessantotto che riprende il Caligola di Camus: «Siate realisti: domandate l’impossibile». Quindi il desiderio vissuto come segno di lealtà con la nostra natura desiderante, quindi il desiderio visto in positivo. L’altra espressione invece, come secondo corno della questione, è tratta da L’uomo a una dimensione di Marcuse e qui l’ho proiettata perché è molto lunga. Dice Marcuse: «Sotto il governo di un tutto repressivo, la libertà può essere trasformata in un possente strumento di dominio. […] la libera elezione dei padroni non abolisce né i padroni né gli schiavi. La libera scelta tra un’ampia varietà di beni e di servizi non significa libertà se questi beni e servizi alimentano i controlli sociali su una vita di paura e di fatica – se, cioè, alimentano l’alienazione. E la riproduzione spontanea da parte dell’individuo di bisogni che gli sono imposti non costituisce una forma di autonomia: comprova soltanto l’efficacia dei controlli. (p. 21-22) […] Per tale via emergono forme di pensiero e di comportamento ad una dimensione in cui idee, aspirazioni e obbiettivi che trascendono come contenuto l’universo costituito del discorso e dell’azione vengono o respinti, o ridotti i termini di detto universo (p. 26)».
I due corni sono questi: da un lato il desiderio dell’impossibile, come segno di realismo nei confronti della natura umana, e dall’altro, invece, un realismo schiacciante, cinico, di chi vede che siamo alienati in un sistema di potere che ci porta dove vuole, modificando addirittura i nostri bisogni. All’insegna di questa duplice provocazione che ci è offerta dalla cultura sessantottina, chiedo al professore Franzini: guardando al mondo della scuola e dell’Università in cui lavora e al panorama filosofico contemporaneo, è possibile per lei ancora oggi desiderare l’impossibile? C’è qualcosa che potremmo definire una novità reale e conseguire la felicità? Quali strade del pensiero per lei conviene oggi intraprendere? Da dove ripartire per ridare fiato ai desideri dei giovani e degli uomini del nostro tempo? Grazie.

ELIO FRANZINI
Due premesse in primo luogo sul ‘68. Ecco io ho dei rimpianti, cioè, per questioni anagrafiche, sono nato nel 1956, mi sono perso tutte le grandi rivoluzioni del nostro tempo perché ero sempre troppo giovane. Nel ‘68 ero troppo giovane, per la rivoluzione sessuale ero troppo giovane, per cui me le sono perse assolutamente tutte. Così, se mi si chiede che cos’è il ‘68 per me, il maggio del ‘68 per me, mi spiace ma è la vittoria della seconda Coppa dei Campioni da parte del Milan, 4 -1 con l’Aiax, con un meraviglioso goal di Rivera. Ricordo ancora la formazione assolutamente a memoria. Questo per dire che riguardo al ‘68 mi fa effetto dire che sono passati cinquant’anni, e in realtà, se ne parliamo ancora, vuol dire che c’è stato nel ‘68 qualcosa che effettivamente ha smosso le coscienze, non posso dire – come diceva Capanna – che quegli anni fossero più o meno formidabili, però sicuramente sono stati anni che hanno cambiato in un certo qual modo il mondo e le cose del mondo, non so in che modo, non so se in meglio o se in peggio, ma comunque sono stati un elemento storico importante. La seconda premessa è che a queste due frasi bisogna pensarci, perché rappresentano da un lato le due anime di una tradizione, che a grandi linee chiamiamo marxista, c’è un’anima calda, che è la frase di Camus e un’anima fredda, che in questo caso è Marcuse, secondo il vecchio paradigma di chi studia Marx, cioè che non c’è libertà e democrazia dove c’è sfruttamento dell’uomo sull’uomo e se c’è sfruttamento dell’uomo sull’uomo ovviamente qualsiasi forma di democrazia che venga instaurata è una pseudo democrazia, perché è retta da coloro che possiedono gli strumenti di produzione e dunque è semplicemente una forma più raffinata di costrizione e quindi di dominio. Invece l’espressione camusiana rappresenta quell’elemento movimentistico, quell’elemento in un certo qual modo spontaneistico che quando ero giovane io, giovane ma già pensante, quindi post ‘68, era la dimensione di una capacità di incidere nella storia attraverso la propria forza individuale, attraverso il proprio desiderio individuale. Per altro ricordo, perché la cosa spesse volte viene dimenticata, tutti i grandi slogan del ‘68, e questo dovrebbe farci riflettere. Il ‘68 è cominciato negli anni Venti, cioè il ‘68 è un movimento di “rivoluzione culturale” che è cominciato prima della prima guerra mondiale, quindi ha attraversato realtà del cosiddetto secolo breve. Ecco, tutti gli slogan del ‘68 derivano da espressioni di scrittori che vanno dagli anni Dieci, dagli anni Venti fino agli anni Quaranta, Cinquanta come Camus. Ad esempio “sous les pavés, la plage” è una frase di Breton, “l’immaginazione al potere” è un’altra frase di Breton, cioè sono frasi che troviamo scritte fin dal 1924, all’interno del panorama della cultura europea, quindi il ‘68 era qualcosa che covava sotto la cenere di un movimento culturale europeo che voleva, diciamo così, come usiamo dire, entrare nella modernità, cioè scopriva all’interno della storia nuovi soggetti sociali, nuovi soggetti culturali che volevano prendere la loro posizione all’interno delle dimensioni della storia. Queste due premesse servono però a dirci che oggi abbiamo ancora queste forze di propulsione all’interno della storia, cioè la filosofia è in grado di fornirci queste forze innovative, queste forze variegate che poi vengono a volte tradotte in slogan e in un’epoca specifica della storia e in un anno della storia, ma sono in realtà più lunghe e covano sotto la cenere. Io credo che la filosofia debba forse fornirci ancora queste dimensioni di desiderare l’impossibile, proprio perché siamo realisti, proprio perché essere realisti significa volere scavare nelle possibilità della storia. Non voglio fare di necessità il professore però, ahimè, lo sono e ritengo che nella filosofia le categorie più importanti, e intendo per categorie non quelle cose che studiamo a scuola, ma quegli elementi che sono in grado di farci meglio leggere la realtà, siano le categorie della modalità, ovverossia quelle categorie che studiano le relazioni tra soggetto e oggetto, ossia tra la dimensione soggettiva e la dimensione reale, oggettiva del mondo. Le categorie della modalità sono notoriamente tre: l’elemento fattuale, reale, poi l’elemento della necessità, l’elemento della causa ed effetto, e infine l’elemento della possibilità. La possibilità è il motore della storia, non necessariamente il dato effettuale, non necessariamente la necessità, cioè l’elemento puramente causalistico, cioè l’elemento della relazione causa-effetto. La possibilità, il possibile è la dimensione costitutiva della storicità, per cui desiderare l’impossibile significa scavare tutte le possibilità che sono nel possibile. Aristotele nella Poetica definiva in modo straordinario l’opera d’arte. Affermava che l’opera d’arte tragica era più filosofica della storia, che la poesia, il poetare, la pòiesis è più filosofica della storia. Il termine esatto non è filosofica, è theorèin, è più teorica della storia, c’è più teoria, c’è più pensiero, questo perché la storia si occupa soltanto dei fatti, del reale, mentre la poesia si occupa non di ciò che è ma di ciò che potrebbe essere ovvero si occupa del possibile, di sviluppare quelle possibilità che sono intrinseche al reale. Questo non significa affatto rifiuto della storia, della realtà ma significa, come dicevo prima, che se noi vogliamo desiderare in modo nuovo la storia e la realtà, dobbiamo non rimanere fermi alla descrizione dei fatti, della fattualità, di ciò che è e di ciò che è stato, ma dobbiamo volgerci a ciò che sarà cioè dobbiamo pensare alla destinazione scientifica del nostro lavoro. Questo vuol dire non accontentarsi mai di ciò che è ma pensare sempre a ciò che potrebbe essere. Essere realisti significa desiderare l’impossibile ma l’impossibile non è il contrario del possibile, è la possibilità del possibile, è ciò che noi possiamo costruire ogni volta che ci confrontiamo in profondità con la dimensione del reale, della realtà. Un filosofo del Novecento, Ernst Bloch, chiamava ciò “utopia”; l’utopia non è utopismo cioè qualche cosa che noi vediamo come un sogno lontano, l’utopia è la volontà di vedere il possibile che è nella storia ed interpretare la storia con la freccia del futuro non con la freccia esclusivamente del passato. Giobbe è una immagine del futuro, Giona è un’immagine del futuro cioè non è un’immagine di ciò che è ma di ciò che potrebbe essere. Credo che la filosofia non debba assolutamente perdere questa sua destinazione. E la sua destinazione cioè la sua finalità è quella di scavare all’interno del possibile. A volte purtroppo la filosofia non scava all’interno del possibile, si limita ad una descrizione estrinseca dei dati, ad essere pura analisi dell’esistente, a non avere quello sguardo verso il futuro che invece è la sua vera e propria destinazione. Come la vedo con la filosofia del futuro, ecco, diciamo che se ciascuno all’interno delle proprie realtà culturali seguisse le proprie tradizioni invece di cercare tradizione altrui, confrontandosi con i linguaggi che non conosce e non sa dominare, forse sarebbe meglio. Ovverosia, se invece di cadere vittime di mode che derivano da altri modi di fare filosofia continuassimo a far valere il nostro modo di interpretare il pensiero filosofico, dunque di interpretare la nostra storicità, forse la filosofia avrebbe anche qui in occidente la possibilità di portare avanti la sua destinazione storica ed epistemologica insieme.

MARCO FERRARI
Grazie. Professor Esposito finiamo con questa domanda che ribadisco: da dove ripartire per ridare fiato al desiderio dei giovani e degli uomini del nostro tempo e quali strade del pensiero è più conveniente intraprendere, dette le cose che abbiamo condiviso oggi?

COSTANTINO ESPOSITO
Molto telegraficamente direi così, che il compito del pensiero, di noi che studiamo filosofia, è quello di insegnare a domandare. Potrebbe essere un a cosa scontata ma il problema è che non è scontata e come spesso io dico in questo tipo di incontri o nelle scuole, sembra che la nostra missione sia quella di risolvere i problemi ed è giustissimo. È giusto che noi si vada a scuola, all’Università per risolvere nella maniera più felice possibile il problema, però c’è come una condizione ineliminabile, che è quella che bisogna vederli i problemi, imparare a intercettarli, a comprenderli, perché tante volte noi non riusciamo a risolvere i problemi perché non li vediamo e qui mi piace ritornare ad una cosa che Elio diceva all’inizio sulla criticità della filosofia come costruzione del senso. Forse bisognerebbe ridare il senso alla parola, al rapporto modale, son d’accordo, tra il soggetto e la coscienza e il mondo e la realtà. Perché il grande pericolo, anche educativamente secondo me, e qui la filosofia ha molte responsabilità nel bene e nel male, è che è facile ridurre il darsi delle cose della realtà ad una strategia del soggetto interpretante oppure dissolvere il soggetto dentro la dura legge della realtà. Invece ciò in cui la filosofia ci può ancora aiutare, e in questo io direi, può tornare ad essere più che la regina delle scienze, la serva di tutte le scienze, nel senso non servile, ma nel senso del servizio, riguarda il fatto che può inquietare tutti gli altri saperi, rimettendo semplicemente questa domanda: che cosa vuol dire la realtà che mi sta di fronte? E che cos’è il soggetto che la interpreta? Cioè comprendere che la parola realtà, così come anche la parola soggetto, ma anche mondo, storia, desideri, tensione, sono indicatori che dicono sempre un rapporto, sempre. Non esiste la realtà lì fuori, quando finisce l’io. Così pure non esiste l’io quando mi ritiro da questa parte del mondo, perché la realtà è sempre una manifestazione; ci si dà, siamo ormai abbastanza scettici dal non essere più positivisti, la realtà è un’offerta, è un’offerta a me e quindi la realtà ha bisogno di un io che chieda perché, per poter dare il suo senso e d’altra parte il senso non è solo una costruzione, ogni mattina lo costruiamo questo senso, ma non è, come credo che non volesse dire Elio, un arbitrio, cioè una cosa inventata da me, ma è come imparare ad ascoltare quello che ci dicono le cose. Ecco è il momento prettamente fenomenologico, che non è né psicologico, né puramente naturalistico, ma è come il momento in cui c’è un incontro tra l’apertura cosciente dell’io, il domandare dell’io, che diventa uno spazio di incontro grazie a cui la realtà può dirsi e può darsi nel suo senso e anche da parte mia non è semplicemente un mettere in catene concettuali il mondo, ma cercare di fargli spazio. Tutta la tradizione moderna ci ha detto che la bellezza è un gusto, ed è vero, la bellezza è un gusto, soggettivo, non soggettivistico, addirittura trascendentale direbbe Kant, universale, però è un gusto, un giudizio riflettente; prendiamo per buono il canone Kantiano, ma questo canone ci inquieta, anzi vorremmo inquietarlo, perché siamo proprio sicuri che la conoscenza sta totalmente da un’altra parte? Che la conoscenza è la determinazione esatta della scienza? Siamo così certi che l’esperienza della bellezza sia semplicemente un gusto soggettivo, una costruzione ermeneutica del mondo direbbe Gadamer, e non ci faccia conoscere niente del mondo? Certo non ce lo fa conoscere come ce lo fa conoscere uno scienziato, ed è giusto che sia così. Ma quella esperienza della bellezza cioè del senso che si manifesta è totalmente estraneo a conoscere la verità del mondo? Chissà, forse non del tutto. Grazie.

MARCO FERRARI
Grazie, solo una battuta e poi abbiamo ancora quindici minuti per le domande da parte vostra. Dico solo che la categoria del possibile c’entra anche con la didattica scolastica, perché io vedo sempre di più, intorno a me, docenti, docenti protagonisti che, proprio perché vivono questa categoria del possibile, aprono mondi inimmaginabili. Penso a tanti lavori che si fanno nelle scuole, nelle classi e fuori, cioè penso che sia una categoria da riabilitare anche all’interno della didattica liceale e forse anche universitaria.
Adesso abbiamo quindici minuti per due o tre domande sintetiche, chiare, esplicite dal pubblico, ne raccogliamo due o tre e poi un ultimo giro. Chi ha domande può venire qui, c’è un microfono qui sulla destra. Facciamo un esercizio di sintesi. Ottimo, come a scuola.

DOMANDA
Lei ha parlato di desiderio senza mancanza, ha fatto un esempio e in qualche modo mi sembrava collegato ad un homo faber, cioè a un uomo che è certo di sé e desidera costruire la realtà, mentre quello che diceva Costantino Esposito era più, invece, un desiderio che nasce da una mancanza. Allora, è un’apparente dicotomia, oppure sono due aspetti distinti di questo problema del desiderio?

MARCO FERRARI
Grazie.

DOMANDA
Professor Esposito, lei ha detto che la verità si riconosce perché ci fa felici. Però io volevo capire sulla base di che verità più profonda si può fare questa affermazione.

MARCO FERRARI
Se siete così bravi e sintetici, c’è spazio anche per altre due domande.

DOMANDA
Io volevo chiedere in che modo si può studiare filosofia, perché i filosofi portino una rivoluzione nel modo di vedere il mondo e per poi modificare il mondo.

DOMANDA
Io volevo chiedere perché Michelangelo, quando ha fatto il suo Mosè, l’ha colpito al ginocchio?

COSTANTINO ESPOSITO
Questa è per te Elio.

MARCO FERRARI
Si, insegna estetica. Quindi penso…

COSTANTINO ESPOSITO
L’estetica del martello.

MARCO FERRARI
Prego

ELIO FRANZINI
C’è un sonetto di Michelangelo che dice: «Non ha l’ottimo artista alcun concetto che un marmo in se non ci costringa», che è un bellissimo verso di Michelangelo che voleva far parlare il suo Mosè, farlo parlare significava dargli, dal momento che il logos è parola, è spirito, dargli quell’elemento che lo rendesse parola e spirito. L’elemento che rende parola e spirito è appunto il logos, quindi lo colpiva per poter tradurre questa espressione spirituale nella dimensione del linguaggio, cioè nella dimensione della parola che è la dimensione costitutiva dello spirito medesimo. Probabilmente Michelangelo, com’è noto, non ha colpito il Mosè, però lui stesso ha fatto sì che questa leggenda si implementasse, cioè continuasse, perché appunto un’opera d’arte ha parola e quindi vuol dire che l’opera d’arte è una produzione dello spirito e non è soltanto un pezzo di marmo, bensì è appunto pensiero vivente, logos, parola e pensiero al tempo stesso e come noto, qui dovrebbero tutti saperlo, il logos è all’inizio. Ricordo sempre quel magnifico momento in cu, i appena prima che ricompaia Mefistofele, Faust ha da tradurre l’incipit del Vangelo di San Giovanni “in principio era il Logos” e non sa come tradurre la parola Logos, esclude parola, esclude Wort perché è troppo banale, poi gli viene la parola forza, Kraft, ma dice che anche la parola forza non dà l’idea e allora traduce Logos con la parola azione, cioè con la parola tedesca Tat. Michelangelo voleva dare azione, ma l’azione è parola, l’azione è pensiero, l’azione appunto, l’azione dell’arte, è Logos, è Parola. In che modo si può studiare la filosofia per modificare il senso del mondo? Vado a ritroso. Io non dico in che modo si può studiare la filosofia, ma in che modo si può insegnare la filosofia, perché la filosofia è qualche cosa che sicuramente dobbiamo studiare come tutte le altre discipline, cioè con molta applicazione, con molto impegno, cercando un senso anche là dove il senso sembra non apparire, dove sembra pura elucubrazione autoreferenziale. Allora, bisogna insegnare la filosofia in questo modo: la filosofia non deve apparire come una pura elucubrazione autoreferenziale di un susseguirsi di autori ciascuno dei quali supera l’altro. La filosofia deve aiutarci ad uscire dai luoghi comuni, non rimanere fissi all’interno dei luoghi comuni. Quindi a me verrebbe da dire che il modo migliore per studiare la filosofica sia quello di fare il maggior numero dei filosofi e il minor uso possibile dei manuali di filosofia. Tutte le volte che io sento parlare di empirismo e mettere insieme nell’empirismo tre filosofi nemici tra loro, come Locke, Hume e Berkeley, mi viene il mal di stomaco. Uniti insieme in un elemento che, in realtà, mette insieme..

MARCO FERRARI
sono svenuti dei docenti in sala che fanno questo da decenni.

ELIO FRANZINI
Beh gli innocenti, se sono studenti di Università, sanno che la parola empirismo è una parola che va bandita, assolutamente dalle interrogazioni filosofiche. Il fatto di occuparsi tutti di esperienza non vuol dire essere tutti empiristi, altrimenti siamo tutti quanti empiristi qua dentro. Quindi uscire dai luoghi comuni e non studiare la filosofia come se fosse semplicemente una favola. Qui dico qualche cosa che ho risposto ad uno studente l’altro giorno, ad una domanda analoga alla sua, ad una mail impegnativa mandatami il giorno di ferragosto, il che varrebbe a dire: ma potevi fare altro ragazzo mio a ferragosto! Ma lasciamo perdere, dunque a ferragosto questo studente mi chiede se la filosofia ha a che fare o non ha a che fare con la scienza. Ma certo che la filosofia ha a che fare con la scienza! La filosofia va studiata proprio, e va insegnata proprio come un elemento che è base di ogni discorso scientifico. In ogni discorso scientifico vi è un contenuto di carattere filosofico. E in questo mi riconnetto alla dimensione della domanda precedente: che cosa intendiamo con verità? Quale verità? Allora, ben inteso, io continuo a ritenere che la verità sia qualcosa che deriva da una dimensione di dialogo e da una dimensione di confronto. La verità è tale soltanto se noi abbiamo la capacità di guardare il mondo da una molteplicità di punti di vista possibili. La verità non deriva guardando il mondo da un solo punto di vista, bensì avendo la capacità di moltiplicare i punti di vista possibili. Soltanto in questo modo emerge la verità, quindi la verità come destino, come speranza, come desiderio, non come possesso stabile; la verità come possibilità di guardare il mondo in tutta la sua ricchezza e varietà di senso, non come adagiarsi all’interno di un senso pre-dato e pre-costituito. La verità è questo, è questo la verità, la verità è un orizzonte di senso, non un possesso, non un possesso stabile. Quindi se c’è una felicità nella ricerca della verità, frase per così dire molto cartesiana e molto di tutta la tradizione post-cartesiana, ecco se c’è questo senso, io credo che sia proprio nella ricerca, cioè la verità è ricerca, non è semplicemente un possesso.
Io credo che in realtà, il “desiderio senza mancanza” e il desiderio che invece deriva da un bisogno, siano due punti, però qui mi correggerà Costantino, siano due modi diversi di intendere esattamente lo stesso concetto. Penso che la dimensione del desiderio non possa essere ricondotta alla immediatezza del bisogno, cioè non possa essere ricondotta al soddisfacimento di una dimensione del tutto contingente e transeunte.
Come cita sempre Baudelaire, un grande scrittore francese, Stendhal, dice che «la bellezza è promessa di felicità». Il desiderio di bellezza, quindi il desiderio di arte è una promessa di felicità, ma è una promessa che deriva da qualche cosa di stabile. Ogni opera d’arte, compiuta in sé, deve tuttavia generare nuovo desiderio di arte, per cui il fatto che produca qualche cosa che non ha in sé una mancanza, non significa chiudere in sé il processo desiderativo, bensì innestare di nuovo un desiderio che miri a costituire una dimensione senza mancanza, insomma un desiderio che non sia semplicemente legato alla dimensione contingente del bisogno, ma che riesca a sviluppare tutte quelle possibilità in primo luogo metafisiche che sono all’interno del concetto del desiderio e se lo dice un laico, voi capite che la cosa ha una particolare forza e rilevanza.

MARCO FERRARI
Grazie. Adesso, grazie davvero perché ha risposto a tutte e quattro le domande. Non so se il professor Esposito vuole provare a ricapitolare le domande bellissime.

COSTANTINO ESPOSITO
Una piccola reazione, ripartendo da questa questione del desiderio senza mancanza o che nasce dalla mancanza. Permettetemi di riprendere la cosa e di complicarla un po’ e cioè nella filosofia della mente c’è una corrente, penso Palmer, che si chiama “emergentismo”, cioè la struttura della mente è brain, è il cervello, però dal cervello, cioè dal meccanismo delle interazioni biochimiche, a un certo punto, avviene il salto nella coscienza, ovvero emerge qualcosa che ha un rapporto naturalmente con ciò da cui emerge, ma non è semplicemente un effetto di ciò da cui emerge come la sua causa adeguata. Così forse si potrebbe dire che il desiderio è un’emergenza dal bisogno che però dice già qualche cosa che il bisogno non dice più. Ci son delle pagine di Schopenhauer molto drammatiche su questo, molto compiaciute anche, però al di là di questo, potremmo fermarci a dire che sicuramente non c’è un desiderio che uno non cominci ad avvertire come bisogno, ma che a un certo punto, proprio per il fatto che il bisogno sia soddisfatto, ma il desiderio rimanga, fa capire che c’è un’eccedenza, in cui appunto c’è l’invio per la filosofia. La verità è felicità ma sono d’accordissimo con Elio, la verità non è un dogma, la verità, io ho studiato molto Heidegger, è qualcosa che accade, è qualcosa in cui siamo, non è una nostra costruzione, ma potrei anche citare Benedetto XVI, non siamo noi che possediamo la verità, ma al limite è la verità che ci viene a cercare, che ci chiama. Quindi è un dialogo. Anche nell’attivismo io amo molto il relativismo, che non è lo scetticismo a buon mercato, ma vuol dire che la verità è dell’ordine della relazione, che per sua natura la verità non è mai compiuta. L’incompiutezza non è la patologia della verità ma è la fisiologia della verità. Però mi chiedevi del fatto della felicità. Guarda, te lo direi così: se il senso c’è, chiamiamolo anche verità o senso ultimo, se il senso c’è o c’è nella realtà e allora tutto il problema è che noi approssimandoci cerchiamo di strapparla alla realtà questa voce oppure se il senso è solo una cosa che dobbiamo noi imporre alla realtà non c’è più gusto. Alla fine provoca nevrosi non godimento. Invece il test è che ti deve dare una soddisfazione, come quando uno scienziato dice: eureka, l’ho trovato! Eccolo lì il senso. Non è una soddisfazione, come dire, a buon mercato, ma è la soddisfazione della conoscenza, quando uno sente che il logos del mondo corrisponde al logos della mente. La rivoluzione, in filosofia, è che la rivoluzione ha come miccia il porre una domanda. Guardate che è impensabile come questa capacità di domandare sia la cosa più eversiva, anche politicamente, perché mette tutto in questione e questo è la filosofia. Lo diceva già Hegel all’inizio della Fenomenologia dello spirito. Il bisogno della filosofia è proprio questo e cioè il fatto che non accetta, come già dato, il mondo ma chiede perché mai, chiede ragione. In qualche maniera la filosofia è il Giobbe della realtà, chiede alla realtà di dire perché è così. E poi, ultima cosa, perché appunto finiamo in bellezza, è bellissima quella cosa della bellezza come promessa di felicità, lo dice anche un altro grande ebreo, ateo ma ebreo, cioè Adorno, quando dice che appunto, l’opera d’arte è la bellezza e la promessa della felicità che però non può mai essere compiuta. La bellezza in un opera d’arte ti infiamma, è proprio molto ebraico, ti ridesta la promessa ma al tempo stesso ti dice «io non la posso compiere». Perciò Adorno dirà che l’opera d’arte o la bellezza è come lasciar desta l’impossibilità cioè una liberazione dall’esistente. L’esistente è la legge della non contraddizione. Una cosa è quello che è e basta, ma non ci basta e allora l’opera d’arte ti ridesta la promessa dell’impossibile. Ma anche qui, ma forse più di Adorno, aveva visto bene il grande Michelangelo quando lui dice nella celeberrima lettera, che l’arte della scultura, a differenza dell’arte della pittura, non è l’arte del mettere ma è l’arte del togliere. E lui aveva presente il blocco di marmo di Carrara, lo dice anche per gli influssi neoplatonici ma adesso non ci complichiamo la vita: l’idea è che la forma è già dentro la realtà, la forma cioè il senso e che il lavoro dello scultore, come il lavoro di noi filosofi, è quello di togliere, non di aggiungere, di togliere perché la forma cioè il senso possa essere liberato. Allora non è più una liberazione dall’esistente, come avrebbe detto Adorno, ma una liberazione dell’esistente. Questa è la cosa più rivoluzionaria che ci possa essere.

MARCO FERRARI
Grazie. Concludo con tre avvisi che volevamo lasciarvi e una considerazione brevissima che ogni ora di lezione di filosofia a scuola ha questa densità, questa ricchezza possibile e per questo siamo davvero contenti di questo spazio aperto di pensiero, perché ormai ce n’é veramente poco, dappertutto, quindi lo terremo stretto con i denti questo diritto alla filosofia, questo diritto alla libertà del pensiero. Ringrazio tantissimo ovviamente i relatori: il professor Franzini, il professor Esposito, della loro disponibilità a mettersi in gioco totalmente nel rispondere alle domande.

Trascrizione non rivista dai relatori

Data

21 Agosto 2018

Ora

15:00

Edizione

2018
Categoria
Arene