“I MISERABILI”. Dialogo sull’opera di Victor Hugo

“I Miserabili”. Dialogo sull’opera di Victor Hugo

Partecipano: Luca Doninelli, Scrittore e Pubblicista; Davide Prosperi, Docente di Biochimica all’Università di Milano-Bicocca e e Vicepresidente della Fraternità di Comunione e Liberazione. In occasione dell’incontro proiezione della video-intervista a Franco Branciaroli, Protagonista dello spettacolo teatrale “I Miserabili” co-prodotto da Il Teatro De Gli Incamminati, da CTB Centro Teatrale Bresciano e dal Teatro Stabile Del Friuli Venezia Giulia.

 

Ore: 11.30 Salone Intesa Sanpaolo A3
“I MISERABILI”. Dialogo sull’opera di Victor Hugo

Partecipano: Luca Doninelli, Scrittore e Pubblicista; Davide Prosperi, Docente di Biochimica all’Università di Milano-Bicocca e Vicepresidente della Fraternità di Comunione e Liberazione. In occasione dell’incontro proiezione della video-intervista a Franco Branciaroli, Protagonista dello spettacolo teatrale I miserabili co-prodotto da Il Teatro degli Incamminati, da CTB Centro Teatrale Bresciano e dal Teatro Stabile Del Friuli Venezia Giulia.

LUCA DONINELLI
Buongiorno a tutti. Questo è un esperimento particolare, per me è già una gioia trovarmi con Davide perché ha avuto la sfortuna di avermi come professore di Storia e Filosofia al liceo. Vedete che è ancora qui e quindi non ho fatto tutto quel male che potevo fare. Ci accomuna l’amore e la passione per questo testo, che cercheremo di leggere attraverso l’esperienza che ne abbiamo fatta, io, perché ho trasformato le oltre 1500 pagine del romanzo nelle 90 pagine di un copione teatrale, e perché quindi ho trasportato il contenuto di un romanzo in un altro linguaggio, e vi assicuro che facendo questo lavoro si imparano un sacco di cose; e Davide, perché la sua passione per il romanzo e per il film musical dei Miserabili ha contagiato un po’ tutti e perché, credo grazie a lui, tantissime persone hanno incontrato questo autore e questo romanzo. Idee a partire da un’esperienza semplice, senza pretendere di essere degli specialisti, se non del nostro lavoro. Il primo specialista è quello che mi ha fatto fare il lavoro, che me l’ha proposto, senza il quale non mi sarebbe mai venuto in mente di fare questo lavoro folle che ha occupato quattro mesi della mia vita, dalle otto di mattina a oltre mezzanotte. Franco Branciaroli non può essere qui ma ci ha lasciato un’intervista che io guarderei volentieri prima di cominciare i nostri interventi.

FRANCO BRANCIAROLI
I Miserabili si dice faccia parte di quei sette, otto romanzi che sono oltre il romanzo: non sono necessariamente i più belli però, ad esempio, Delitto e Castigo è un altro romanzo che magari non è il più bello del mondo però fa parte di questi intoccabili. I Miserabili è stato ridotto da Luca Doninelli, un’impresa non certo semplice, perché sono 1400 pagine da ridurre in due ore e mezzo, due ore e tre quarti. Qui necessariamente ci sono storie scelte, alcune scene significative. La caratteristica di Jean Valjean è che non parla, parla pochissimo, la sua è una presenza più che altro fisica, di un certo peso per quest’uomo noto per la sua forza fisica e anche per la sua forza psicologica. L’interpretazione non è un problema, anche perché le battute di un romanzo non sono essenzialmente teatrali, quindi, se posso osare dirlo, è abbastanza facile. La cosa interessante invece è questo personaggio in sé, perché è un buono. Io credo che uno dei motivi per cui ha successo è che a teatro è difficile vedere dei personaggi buoni, io non ne ho mai visti. Questo è un buono, e penso che sul pubblico abbia un effetto rinfrescante. E ha una caratteristica, Jean Valjean probabilmente è un vergine. Non si ha notizia di sue relazioni, e questo è abbastanza strano per un signore forte, robusto, che avrà sessant’anni. Non si parla di nessun amore, niente. È strano, no? Ma a rendere la cosa ancora più strana c’è che un uomo come questo si porti in casa una bambina di 7, 8 anni, per arrivare fino all’adolescenza avanzata. Che tipo di atteggiamento c’è tra loro? Il non detto rimane non detto, è un’immaginazione che può venire, però quando Cosette comincia a manifestare desideri amorosi, o incontra dei ragazzi, si scatena in Jean Valjean qualcosa di molto violento, anche contro se stesso, in un certo senso una voglia di suicidio. Queste caratteristiche ne fanno un personaggio, sì, buono, ma secondo me molto problematico.
Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice.
A questo titolo uno può rispondere con le parole di Euripide in Medea: «Un uomo può essere fortunato ma non felice, mai». Anche definire la felicità non è semplice, men che meno credo sia costante. Credo che la felicità sia la risposta al ping-pong dell’infelicità: se di là tira l’infelicità, di qua, per contrasto, può esserci infelicità. L’infelicità può essere talmente pesante che un suo attenuarsi potrebbe essere chiamato anche felicità. Ma la felicità pura io non l’ho mai provata. Jean Valjean ha provato la felicità di contrasto, un attenuarsi della maledizione che gli ha rovinato l’esistenza, e mentre per altre persone la vita che per Jean Valjean poteva essere felice magari era normale, per lui era felice perché ha sofferto talmente tanto, venti anni di lavori forzati non sono uno scherzo, per una pagnotta. Per quest’uomo basta il sole, basta una bella giornata seduto ad un caffè, per lui questa è sicuramente felicità. Non parliamo se poi invece gli capita una creatura come Cosette, gli capita cioè un rapporto umano intensissimo e soprattutto gli capita l’incontro con un paradosso che è il paradosso cristiano. All’ennesimo furto in casa del vescovo, viene catturato dalla polizia, riportato a casa del monsignore col bottino. E il monsignore gli dice: «Guarda che hai dimenticati i candelabri, oltre a quello che ti ho dato». Ecco, qui in lui, in Jean Valjean, si presenta una cosa sconosciuta, il male viene ripagato con il bene anziché con il solito male moltiplicato per cinque. E questo lo incammina verso una conoscenza a lui sconosciuta, un modo di conoscere la vita che lui non aveva. È assolutamente un personaggio cristiano. Questa palla di personaggio così enorme che ho descritto in scena non è descritta così da qualcuno, deve essere intuita dalle azioni che lui ha compiuto, perché in realtà non lo vedi, di lui hai solo il ri-affioramento, dopo le azioni che ha fatto. Lui riaffiora e tu lo vedi, lo guardi. Come attore deve avere la capacità di comunicarti questa sua possanza sia fisica che mentale. E poi, alla fine, c’è questo tentativo di morire dopo aver perso tutto, perdendo Cosette, quando va alle barricate convinto di morire. Non gliene importa nulla, lo dice: «Metteteci anche il mio corpo se oggi dobbiamo morire tutti».

Lei trova questa storia attuale?
Nel globo terrestre è sicuramente attuale, in Bangladesh, da qualche parte; ma non è che sia attuale, non è per tutti, che esistano persone così. Jean Valjean è un santo. Attuale direi di no, se per attuale si intende il modo di pensare comune. Che ci siano questi segnalatori di una vita diversa, possibile, sì.

Come é stato interpretare il ruolo di Jean Valjean?
Una interpretazione muta, più nervosa ed estenuante che non fare Re Lear. Il teatro ha questo vantaggio per un attore ignorante, che in un arco lungo di vita per forza ti regala una cultura, in cinquant’anni di carriera ti sei messo su una bella biblioteca. I Miserabili erano un romanzo che da giovane avevo lasciato a metà, così sono stato costretto a rileggerlo, a rivedere più approfonditamente questo romanzo.

Lei si sente felice?
No, no, no. Io credo che la felicità sia una tregua dell’infelicità. Caso mai, si potrebbe dire che bisognerebbe avere la capacità di accorgersi di questa tregua e goderla. Perché magari uno non se ne accorge. Ho dei momenti di felicità, ma perché emerge dal mare di tensione, che poi la vita di ognuno è diversa.

LUCA DONINELLI
Sulla felicità io non la penso esattamente come Franco, però ognuno di noi si può misurare con queste parole. Io mi sono proposto di fare un po’ da alzatore a Davide, che poi farà lo schiacciatore in termini pallavolistici. Vorrei raccontare che cosa ho capito facendo questo lavoro. E siccome sono quarant’anni che rifletto sul romanzo, un po’ perché ho provato anche a scriverne, un po’ perché ne ho letti e ne leggo tantissimi, vorrei dirvi alcune cose molto semplici che ho capito, anche per introdurre che tipo di romanzo è I miserabili e che tipo di lavoro potevo fare trasportandolo a teatro. Penso che sia una cosa che può interessare molti, che magari non si occupano di queste cose. La prima cosa che vorrei dire è che intendo il romanzo in senso lato, che comprende quindi l’Iliade, l’Odissea, l’Eneide, La Divina Commedia, quelle cose che poi sono diventate, nell’epoca più moderna, il romanzo. Mi sembra sia più figlio dell’Iliade e dell’Odissea che nemmeno dei romanzi medioevali o inglesi, almeno come li conosciamo noi. Sul romanzo comincerei a dire due cose molto generiche che ho capito nel corso della vita. La prima è che attraverso il romanzo uno scrittore (ossia un corpo umano) cerca di delineare il nesso che lo lega, nell’istante presente, al resto dell’universo, dal mondo circostante agli eventi storici fino alla stella più lontana (la cometa che, a metà di Guerra e Pace, colpisce il cuore di Pierre Bezukov rappresenta in qualche modo il centro geometrico di tutta la galassia-romanzo), perciò non è soltanto un affresco storico, sia perché suo compito è quello di non accontentarsi, di andare oltre le immagini e le rappresentazioni; sia perché nel romanzo il tempo resta un’illusione, una costruzione, un’immagine: possiamo scrivere duemila pagine ma si tratta sempre della dilatazione di un unico istante, di una cognizione che ha nell’istante il suo punto focale. Così è per Dante, così per Tolstoj, così per Dostoevskij, così per Manzoni, così per Céline, per Proust, per Joyce, per Kafka e per tutti i giganti del romanzo, compreso, naturalmente, Victor Hugo. La seconda cosa da dire in generale sul romanzo è che non ha una tecnica vera e propria: vi garantisco che uno può avere scritto il romanzo più bello del mondo ma il romanzo successivo non sa come farlo. In questo aveva ragione un vecchio filosofo, Luigi Pareyson, quando diceva che la differenza tra l’artista e l’artigiano è che l’artista non solo deve fare un’opera ma deve anche inventare, mentre la fa, il modo di farla: magari questo non è vero per tutto ma in questo caso è sicuramente vero. E devo dire che il romanzo assomiglia, più che a una tecnica a una messa in atto, cioè, non si impara come si fa a fare un romanzo, è una stupidaggine, non fidiamoci mai delle istruzioni per l’uso; il romanzo è un precipizio, è una voragine che si apre e dentro cui scompare il mondo. E richiede a noi quelle parole che tornano a farlo nascere, a farlo balbettare: ecco, io vedo in questa sorta di centro vuoto, di precipizio, la vera natura del romanzo. I grandi romanzi sono sempre romanzi in cui l’autore precipita dentro qualcosa. Poi il romanzo diventa un corpo, un corpo vuol dire un libro con un certo numero di pagine, un corpo è qualcosa che sta in libreria, che si va ad acquistare, che costa un certo numero di euro. E quindi, diventando una cosa, deve anche caratterizzarsi a seconda della mentalità delle persone a cui si rivolge. E da qui nascono le sottocategorie che noi chiamiamo i generi letterari. C’è il romanzo di indagine o romanzo poliziesco, c’è il romanzo di avventure o romanzo di viaggio, c’è il romanzo d’amore o romanzo popolare e poi c’è il così detto romanzo di formazione o di iniziazione, o potremmo dire anche auto sacramentale, romanzo sacro. Per esempio, nel poliziesco, quella mancanza, quel vuoto, quella voragine di cui parlavo prima si realizza anche contenutisticamente, non so, in un delitto, nel fatto che l’investigatore va e indaga su un morto, quindi su qualcuno che non può più parlare, ed ecco che ci si introduce nella vita di una persona che non c’è più per cercare di capire come sono andate le cose. Qui valgono molto le visioni della vita dello scrittore, per cui c’è l’investigatore iper-razionale alla Sherlock Holmes e c’è quello che partecipa fortemente del destino e del dolore, come può capitare, ad esempio, nei romanzi di Agatha Christie o in Simenon, soprattutto il Commissario Maigret. Fino a quei capolavori supremi come l’Edipo Re di Sofocle, che è un’opera di indagine o il pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda, dove ad un certo punto si conclude sempre fatalmente che l’origine del male è dentro di noi. Quindi, è qualcosa che parte dall’indagine per tornare sempre a chi la compie. C’è poi il romanzo di viaggio, di avventura, che assume varietà diversissime, da l’Odissea alla Divina Commedia. Oppure, per chi l’ha letto, uno dei classici della beat generation, On the road di Jack Kerouac, oppure i romanzi d’avventura. Anche qui c’è un denominatore che è la conquista di sé. Non è che uno vada in Groenlandia o in Amazzonia semplicemente per raccontare gli animali che ha visto, se ha visto gli orsi bianchi o no: noi in fondo leggiamo questi libri per questo, se no non ce ne importerebbe molto. Poi c’è quello che io chiamo romanzo popolare o romanzo d’amore, che è l’eterna storia di cui sono re e regine i protagonisti, però è sempre la storia di un amore che non può esserci, un amore contrastato, dalla tragedia greca a Goldoni, con tutte le variazioni sul matrimonio impedito, fino ai I promessi sposi, perché anche I promessi sposi è una storia del genere: lui e lei si vogliono sposare ma qualcuno non vuole. Sono poi le storie che ci si raccontava, che hanno una forte radice nella tradizione orale. Tant’è vero che, se avete presente ad esempio I promessi sposi, tanti personaggi vengono dalla tradizione orale. Vi faccio solo un esempio, Tonio e Gervaso, il fratello scemo e quello intelligente, presenti in tantissime filastrocche popolari. Naturalmente poi non ci sono solo questi amori: ci sono gli amori illegittimi, gli amori impuri. Un’altra cosa interessante che troviamo comune a tutte le forme di romanzo, prima di arrivare a quello che ci interessa di più, è il fatto che nel romanzo noi scendiamo in profondità, per cercare qualcosa, come fa Dante passando dall’inferno al purgatorio, oppure perché qualcosa ci impedisce di farlo. C’è un nemico che può assumere moltissime forme: Satana, don Rodrigo, un drago malefico, la regina di Biancaneve, però c’è sempre un nemico. Vi siete mai chiesti per esempio come mai in tutti i film western, ma non solo, in Guerre Stellari, in tanti romanzi, si arriva al duello finale? È perché gli autori hanno poca fantasia o forse perché in qualche modo la vita è fatta così. E guardate che anche nei Promessi sposi e ne I miserabili c’è come un duello. Nei Promessi sposi c’è il perdono di Renzo a don Rodrigo: quello è il duello finale. E voi capite benissimo che è un duello perché, se Renzo non perdona don Rodrigo, ha vinto don Rodrigo. Quindi, è proprio come un duello alla pistola. È molto interessante quello de I miserabili, perché non è con Javert, il duello. Il duello è con Marius. Ma ne parleremo. Esiste poi un altro romanzo, che è il romanzo sacro, il romanzo di iniziazione, il romanzo di formazione che a volte è anche un romanzo di formazione erotica, penso a Georges Bataille, al Marchese de Sade oppure a certi autori giapponesi. Quindi, non è che sia sempre una formazione religiosa, però è sempre il fatto che una persona viene introdotta a qualcosa di nuovo, di non immaginato, a una vita vera che lui non immaginava esistesse. Per cui, la radice sacra c’è sempre.
Le caratteristiche di questo tipo di romanzo di narrazione sono due: una l’ha detta Branciaroli, è il fatto che l’evento fondamentale sta all’inizio. All’inizio de I miserabili, c’è un dono che il vescovo Myriel, monsignor Bienvenu, fa a Jean Valjean. Fate attenzione perché il vescovo dice: «Come no! Gliele ho regalate io, le posate». Poi dice: «Vi siete dimenticato i candelabri». La domanda è: come mai Jean Valjean non aveva preso i candelabri? Forse aveva paura di qualcosa. Il vescovo glieli dà. Dice: «No, tu ti prendi i candelabri». E vedremo che la cosa ha un senso molto, molto profondo. Quindi c’è questo fatto che le cose succedono all’inizio. Un’altra caratteristica di questo tipo di narrazione è che la psicologia passa un po’ in secondo piano. Vuol dire che è un tipo di narrazione che ha un’origine antichissima. Forse qualcuno di voi avrà sentito, magari da bambino, quella fiaba che c’è anche nei fratelli Grimm, la fiaba del Pesce d’oro. Un pescatore va a pescare e pesca un pesce d’oro che parla e gli dice: «Lasciami andare ed esaudirò qualunque tuo desiderio». Lui, povero pescatore, lo lascia andare senza chiedergli niente, poi torna da sua moglie e sua moglie gli dice: «Eh no! Perché non gli hai chiesto una casa più bella? Guarda che brutta casa che abbiamo!». Allora lui torna dal pesce e gli chiede una casa più bella. Torna dalla moglie e trova una bella casa. Ma la moglie è incontentabile e dopo la casa vuole un palazzo con la servitù, poi vuole diventare re, poi vuole diventare imperatore. Il povero pescatore torna sempre al mare a chiedere al pesce che esaudisca il desiderio. Fate attenzione, perché la moglie – che diventa imperatore, con tanto di esercito, di cannoni, ecc. – poi vuole diventare Papa. Non gli basta il potere temporale ma vuole anche quello spirituale. E il pesce gli dice: «Torna indietro», non dice né si né no. E lui torna, e cosa ritrova? La catapecchia dove viveva all’inizio. Per l’interpretazione di questa storia ci sono due possibilità. O è la storia di un pesce che si è rotto le scatole, e lo capiamo, il pesce è comprensibile; non è comprensibile l’autore della storia. Non capisco perché mi racconta la storia di un pesce che si è stufato. Oppure, altra possibilità, è che il pesce abbia esaudito anche questo desiderio. Vuoi essere il primo? Sii l’ultimo. Ricordate come veniva chiamato nel medioevo il Papa? Servus servorum Dei (servo dei servi di Dio). Chi vuol esser il primo tra voi sia l’ultimo, adesso non mi va di fare le citazioni, però capite che in questo senso sta una plausibilità della storia del pesce d’oro, altrimenti… Sì, chi troppo vuole nulla stringe, ma perché? Questa è la tipica struttura del romanzo di iniziazione, cioè l’evento è all’inizio, lui pesca il pesce e poi c’è tutto un cammino che viene fatto, che passa attraverso la gloria terrena, arriva l’umiliazione e nell’umiliazione c’è la vera scoperta di sé. Quindi, io vedo molto il legame della fiaba del pesce d’oro con tutta questa struttura di romanzi di iniziazione. I miserabili sono esattamente questo. Se I promessi sposi sono un romanzo popolare scritto da un grande uomo di fede, I miserabili sono un romanzo sacro scritto da un anticlericale che però era un uomo di fede. Non lo dico perché è una mia opinione, lo dico perché è un dato. Nel romanzo, la cosa più importante sono i simboli. E qui ci sono dei simboli inequivocabili: chi di voi ha letto I miserabili, sa che Jean Valjean va sempre in giro con una valigia e solo alla fine verrà aperta. Dentro questa valigia, cosa c’è? Guarda caso c’è la vestina di Cosette. Tutto ciò che gli resta di lei, perché nel frattempo Cosette se l’è presa Marius Pontmercy. Ma gli resta la veste. Ora, chi è stato anche solo una volta ad un battesimo, oltre al proprio, saprà che il cero che il papà accende – di solito sono i papà – e la veste bianca sono due simboli battesimali. Su questo non ci piove. Per cui, che sia un dramma a struttura liturgica, su questo non ci piove. Non credo sia una mia opinione personale. Detto questo, aveva ragione Branciaroli: Jean Valjean per tanto tempo sta zitto, anche perché si chiama I miserabili, il romanzo, non si chiama “Le avventure di Jean Valjean”. Quindi, lui vuole parlare dei miserabili. Chi sono i miserabili? A quel tempo era già uscito il manifesto del partito comunista che parlava di sottoproletariato, cioè si parlava di queste masse urbane abbrutite dal lavoro, dall’alcool, dalle cattive abitudini, dalle istituzioni che non esistevano, dove il confine tra vita e malavita era labile. E lui lo rappresenta molto bene: per esempio, la famiglia Thénardier è una famiglia infima, i due coniugi Thénardier sono tra i personaggi più orribili della storia della letteratura. Eppure hanno due figli meravigliosi: Eponine e Gavroche. Quindi, è chiaro che c’è una mescolanza. Lui dice che la società è come una grande miniera, con gallerie che vanno sempre più in profondità e dice che c’è un punto in cui gli uomini perdono la loro connotazione umana e cominciano i mostri. Se noi guardiamo ai personaggi e al modo con cui Victor Hugo ha lavorato, ci domanderemo: come diavolo ha fatto a scriverlo, Victor Hugo? Quando leggiamo Guerra e pace e Delitto e castigo non è così, perché sono tali maestri del romanzo che noi ammiriamo questa maestria. Ma Victor Hugo a volte sembra un pazzo e ti chiedi come ha fatto a venirgli in mente di far camminare per quaranta pagine uno al buio con un cadavere o non cadavere sulle spalle! Ha delle invenzioni assolutamente pazzesche. Sembra che Victor Hugo abbia detto: benissimo, quali sono le dieci cose che un romanziere non deve assolutamente fare? Bene, io le faccio tutte! Il romanziere non si deve sovrapporre ai suoi personaggi, e io mi sovrappongo. Non bisogna fare digressioni, interrompere le scene per dire quello che mi va, e io lo faccio. E nello stesso tempo fa un capolavoro che non appartiene neanche alla storia della letteratura, appartiene alla storia dell’umanità come la ruota, la scoperta dell’America, queste cose qui. Siccome poi dei personaggi parlerà Davide, lascio parlare lui. Vi dico solo che ci sono personaggi con i quali lui si sente talmente in sintonia, che li lascia vivere. Prima di tutto Javert, che secondo me è uno dei più grandi personaggi della storia della letteratura. Noi cerchiamo sempre le pagine dove c’è Javert, perché sentiamo che il terreno precipita sotto i nostri piedi, si aprono voragini, perché credo che la morte di Javert sia uno dei vertici di tutta la storia della letteratura. E c’è il personaggio di Eponine, che è poesia assoluta. Poi ci sono delle tinche: pensate che io, i personaggi, li devo portare sul palcoscenico. Per esempio, l’eroe è uno che deve parlare e qui l’eroe non parla. E quindi bisogna prendere delle parole di Victor Hugo e farle dire a lui per forza, perché non può stare zitto, l’eroe. Altra cosa, l’eroe trionfa, anche nel sacrificio. Mentre questo è un cammino di diminuzione continua. Altra cosa: l’eroe ha una psicologia evidente. Qui la psicologia non c’è perché voi all’inizio incontrate Jean Valjean che è un mezzo deficiente e poi, poco dopo, lo trovate sindaco di Montreil-sur-mer, benefattore, uomo d’affari e vi domandate: come può essere? È vero che ha cambiato nome, però non si capisce come mai prima era scemo… Ma perché? Perché a Victor Hugo non interessa la psicologia di Jean Valjean. Gli interessa un cammino di continua spoliazione, dove ad un certo punto lui identifica tutta la sua missione con l’obbedire alla richiesta di Fantine di occuparsi di Cosette. Cosette è un altro personaggio impossibile da portare sulla scena, perché è un po’ una tinca, cioè una che se ne sta lì, sì, simbolo dell’infanzia maltrattata, ma poi bisogna farla parlare, muovere, darle un carattere, e che questo carattere sia persuasivo, per cui bisogna molto rafforzarlo, il personaggio, non si può metterlo lì così, mentre Javert sì. Per dire un po’ le difficoltà che ci sono a far stare sulle tavole di un teatro un personaggio. Qui io mi sono scritto veramente una bella pappardella che preferirei risparmiarvi. È anche interessante il fatto che Jean Valjean manca dal romanzo per moltissime pagine, per centinaia di pagine, però Victor Hugo sa che la partita lui la vince con Jean Valjean. Alla fine, per parlare de I miserabili non basta parlare del sottoproletariato ma bisogna che ci sia un uomo che accetta su di sé la croce di diventare un miserabile. Jean Valjean all’inizio pensa di riscattarsi dal male fatto facendo del bene, poi si accorge che non può, va a recuperare Cosette, riesce a salvarsi da Javert, perché Javert è sempre presente: c’è un affollamento di coincidenze, in questo romanzo, che farebbe orrore a qualunque romanziere, invece lui non ne ha nessuna paura. Victor Hugo veramente non ha paura di niente, neanche di fare brutta figura. E alla fine lui deve sopportare l’umiliazione definitiva, quando non ha più Cosette. Lui pensa alla fine di dire: qual è il compito che ho avuto nella vita? Custodire Cosette. Poi, come diceva Franco prima nell’intervista, Cosette diventa grande, comincia a pensare all’amore, comincia a dire: «Io lo so che sono brutta, ma mi sono guardata allo specchio oggi e mi sono detta: ma… e se fossi bella? Che cosa buffa sarebbe se fossi bella!». E quindi lei scopre la propria bellezza quasi come una sorpresa, come una cosa strana, trova strano che possa piacere a un ragazzo, che le dice: «Bella la ragazza, brutto il vestito», mentre lei diceva: «No, io pensavo che fosse bello il mio vestito e di essere brutta io». E si innamora di Marius Pontmercy. Se ne accorge prima Jean Valjean e cerca in tutti i modi di dividerli – ad un certo punto ha desideri sia suicidi che omicidi, vuole anche ammazzare Marius – e alla fine deve accettare. È questo il vero duello finale, il duello col nemico. Deve accettare che anche questo gli venga portato via e che alla fine gli resti il punto fondamentale, quando il Vescovo Myriel gli ha detto: «Io, con questi candelabri, ho comprato la vostra anima». Lui lo sapeva benissimo, per questo non li aveva rubati. Tant’è vero che nel finale, che poi nello spettacolo non sono riusciti a mettere, la morte di Jean Valjean è una morte strana, riesce a non farla triste, non è minimamente patetico. E noi percepiamo, quando leggiamo la morte di Jean Valjean che c’è una sospensione. Quelli che hanno fatto il film hanno dovuto aggiungere delle cose: avete presente? Per esempio, in un musical vengono Éponine e Fantine a prendere l’anima di Jean Valjean. Io avevo pensato a un altro finale. Hugo ha fatto fatica a trattare Jean Valjean perché è difficile conoscere un forzato, specie se sei uno scrittore e non un forzato: è difficile cercare un punto di connessione tra la mia esperienza e quella di un ex forzato. Perché? Perché è gente separata dalla società e quindi non fa parte dell’esperienza che faccio della società. Lui ha avuto delle difficoltà, come credo le abbia avute Omero con Achille, no? Alla fine, però, il romanzo funziona, la scommessa pazzesca di Victor Hugo riesce, perché Jean Valjean dice “sì” anche all’ultima perdita, perché l’ultima perdita coincide col suo guadagno: i candelabri, la veste bianca, cioè il battesimo. Per questo dico che è un dramma battesimale e lo sosterrò davanti a tutti. Interessante è che io, dovendo in qualche modo rappresentare nel copione questo finale, per cercare di far capire il senso che secondo me ha tutta questa storia, avevo Jean Valjean che muore, Marius e Cosette che piangono su di lui, il medico che constata l’avvenuto decesso. Ma ad un certo punto si sente bussare a una porta, il medico va ad aprire ed entra il vescovo Myriel e dice: «Jean Valjean, in piedi, è ora di andare». Grazie.

DAVIDE PROSPERI
Per prima cosa ringrazio Luca Doninelli, sia per quello che ci ha raccontato, sia anche per questo invito inaspettato. Noi ci siamo lasciati sui banchi di scuola, quando ho concluso con la maturità il mio liceo scientifico e lui è stato il mio professore di Storia e Filosofia. Anche se non l’ho perso di vista, perché ho potuto riapprezzarlo nei suoi articoli su Avvenire e su altri quotidiani, sono anche un po’ emozionato perché, oggi come allora, lui è il maestro e io sono lo studente, nemmeno esperto della materia, in quanto mi occupo di biochimica! Per cui, se oggi oso comunque contribuire alla presentazione di questo audace tentativo di riduzione teatrale di questo romanzo straordinario, epocale, è solo per due motivi: il primo, appunto, per l’amicizia ritrovata. Essendo Luca venuto a conoscenza di questa mia passione da semplice lettore, eccomi qua. Il secondo, però, per me è altrettanto importante e ci tengo a esplicitarlo: riguarda il motivo per cui effettivamente questo romanzo mi ha affascinato, che non è tanto o solo per motivi letterari. Si tratta proprio, paradossalmente – dopo si capirà perché dico “paradossalmente” -, del mio incontro con l’esperienza cristiana attraverso il carisma di don Giussani. Ora, ci si potrebbe chiedere cosa c’entra – cosa c’azzecca – don Giussani con Victor Hugo: poco o niente, perché Hugo non intendeva, almeno in quello che lui stesso dice, rappresentare un romanzo a sfondo religioso, né tantomeno suggerire rimandi allegorici (anche se poi questo avviene, come ci ha mostrato bene Luca) a una lettura d’ispirazione cristiana. In un suo scritto, Hugo commenta che il suo intento era quello di rappresentare il popolo, perseguitato ma generosamente buono. Tant’è vero che il romanzo conobbe immediatamente una fortuna straordinaria proprio tra la povera gente. Lui dice: «Il destino, e in particolare la vita, il tempo, e in particolare il secolo, l’uomo, e in particolare il popolo, Dio e in particolare il mondo: ecco quello che ho cercato di mettere in questo libro». Un romanzo storico, politico e sociale, dunque. Tuttavia, come spesso accade in una grande opera, l’opera stessa supera di gran lunga gli intendimenti del suo autore. E infatti è questo ciò che fa la differenza tra un buon prodotto e un capolavoro. Perché riesce a toccare le corde più profonde del cuore di chi vi si accosta, secondo la propria condizione esistenziale. La grandezza di questo romanzo, quindi, ben al di là degli scopi dichiarati dall’autore, è che descrive l’uomo, l’umano, nel suo livello più essenziale e vero, come desiderio di bene, di bellezza, di verità, di giustizia, di amare ed essere riamati, gratuitamente, infinitamente, come destino che non ha fine. Ecco, questo è quello che io ho imparato nell’incontro con un uomo e nell’appartenenza alla storia particolare che da quell’incontro è cominciata. E quindi è proprio per questo che mi permetto di intervenire a questo livello del problema. Comincerò a dire che, sebbene io non abbia ancora avuto la possibilità di vedere lo spettacolo realizzato da Luca, Branciaroli e dagli altri, posso però anticipare che, avendo letto un po’ di commenti – molti positivi, qualcuno anche critico -, non mi trovo d’accordo a priori con la principale di queste critiche che qualche commentatore ha mosso: che è la scelta stessa di questo romanzo che sarebbe datata e superata. “Inutilmente enfatico e tendenzioso”, ecc.. Questo tipo di commenti non è nuovo perché lo stesso Victor Hugo, al tempo dell’uscita del romanzo, fu – almeno in parte, ma in una parte non minore – contestato da alcuni: Flaubert, Rimbaud, Baudelaire, suoi illustri colleghi, l’avevano molto criticato. Ecco, precisamente da questo giudizio io mi sento estremamente distante, perché ritengo che questo romanzo – così come i vari tentativi di riduzione attualizzante, a partire dai musical degli anni Ottanta fino alla recente versione cinematografica di Tom Hooper, quello con Hugh Jackman e Anne Hathaway, per intenderci – sia invece moderno, decisamente moderno, cioè totalmente pertinente alle vicende dell’uomo di oggi. Basti pensare che, giusto per dare qualche numero, il musical, che fu scritto e musicato da due quasi sconosciuti nel 1980 a Parigi, ebbe un tale successo che fu tradotto e ri-musicato, prima in inglese e poi in 21 lingue, e rappresentato in 42 Paesi; per dire, la versione inglese dello spettacolo viene ininterrottamente rappresentata dal 1985 nel West End londinese, e a partire dall’ ‘87 a Broadway, dove si è aggiudicato tra l’altro 8 Tony Awards. Ma al di là dei numeri, trovo proprio nel suo contenuto dei motivi che lo rendono attuale, e quindi cercherò di dare qualche esempio di questo, che è anche quello che lo rende così pertinente al tema di questo Meeting. Come detto, il protagonista dell’opera è Jean Valjean, le cui vicende umane attraversano le vicende di un’epoca storica di grandi cambiamenti, in una Francia che vuole risorgere dalle ceneri del suo passato inseguendo il mito della piena libertà. Ma Jean Valjean non è, come diceva Luca, solo Jean Valjean: egli rappresenta molto di più. Incarna l’uomo in tutta la sua bassezza e in tutta la sua altezza. Incarna il titolo del romanzo, I miserabili. Nella prefazione, lo stesso Victor Hugo descrive la condizione umana del popolo, «l’abbrutimento dell’uomo per colpa dell’indigenza, l’avvilimento della donna per colpa della fame, e l’atrofia del fanciullo per colpa delle tenebre». Questi sono i miserabili. Ma quando ti è tolto tutto, quando non hai più niente, nemmeno la dignità, resta qualcosa? Cosa rende l’uomo uomo? A vedere alcuni personaggi della storia – in particolare, si citavano prima i coniugi Thénardier – verrebbe da rispondere: assolutamente nulla. L’uomo brancola nel fango, alla ricerca spasmodica di qualche briciola per sfamare le sue esigenze primarie al pari di qualsiasi animale, ma con l’unico elemento di superiorità, rispetto agli animali, definito dalla sua spiccata capacità di fare del male per ottenere i suoi scopi, giustificandosi per questo con la sua miserabile condizione della quale non si sente colpevole, ma vittima. Ma se ogni uomo potenzialmente è questo, allora viene da chiedersi: dov’è dunque l’uomo? Io credo che non vi sia domanda più inesorabile, vorrei dire, universale di questa, specialmente nel tempo in cui viviamo. Ecco, la vicenda umana di Jean Valjean e dei vari personaggi incontrati in questa storia tenta, coraggiosamente, di rispondere a questa domanda senza neanche girarci troppo intorno. Come ho detto, non ho avuto la fortuna di assistere allo spettacolo e del romanzo, del resto, ha già parlato diffusamente Luca. Quindi mi baserò, per esemplificare alcuni di questi passaggi, in parte sul romanzo ma soprattutto sul musical. Lo faccio anche per motivi complementari a quelli detti, in quanto il musical – nonostante evidenti limiti rispetto al romanzo: mancano naturalmente tutte le possibili descrizioni, contesti, paesaggi – però ha un vantaggio, che è quello di assistere lo spettatore nel riconoscimento di vari nessi anche tra scene lontane, perché stabilisce dei ponti tra situazioni molto diverse, magari riproducendo certe arie musicali che rimandano, col ricordo, con la memoria, ad altre scene, quindi facendo cogliere anche dei nessi di significato. Dunque, chi è Jean Valjean? È un detenuto ai lavori forzati. È un uomo che non è neanche più sicuro di essere ancora un uomo, ormai è un numero: 24601. Questo è ciò che definisce chi o cosa è lui: un numero in mezzo a una moltitudine di altri numeri che insieme a lui conducono una vita inutile, senza senso né attesa di niente, la cui esistenza si dipana ai margini di una società ignara o indifferente ai drammi umani di quelli come lui. Valjean, incalzato dal suo carceriere Javert – che resterà per tutta la storia il suo implacabile tormento – è costretto a trascinare la pesantissima asta che porta la bandiera di Francia impregnata di fango, quel fango nel quale la Francia stessa sembra essere sprofondata, avendo divorato i suoi figli. Questi è Jean Valjean, un galeotto dotato di una forza straordinaria, e questo a Javert rimarrà bene impresso nella memoria: da dove gli viene, questa forza? C’è un attimo in cui i due protagonisti si guardano, e nello sguardo di Javert indoviniamo un beffardo compiacimento che è dato proprio dall’orgoglio di chi sa che non scenderà mai così in basso. Perché lui è diverso, e lo sarà sempre. Non c’è redenzione per 24601. E quindi non può esserci perdono. Negli occhi del carcerato, invece, brucia il fuoco dell’odio e del rancore. Proprio quest’odio e una sete di vendetta sono la fiamma che innesca l’energia che viene sprigionata dalla sua forza eccezionale. Perché Valjean ha rubato, questo è un fatto, ma non si sente colpevole. Non si era sentito colpevole mentre rubava, a causa dell’indigenza, ma tantomeno si sente in debito ora verso la sua patria, che con rabbia trascina nel fango. Ha scontato diciannove anni di carcere per aver rubato un tozzo di pane per la sorella e i figli di lei, ai quali si trovò a dover provvedere già da ragazzo. La spaventosa forza di Valjean, dunque, materializza l’impeto della sua collera, una collera per quei diciannove anni di cui è stato derubato nell’indifferenza di tutti, e che non torneranno mai più. È entrato in prigione a 27 anni, ne esce che ne ha 46. E si tratta di una collera tanto ardente, potenzialmente devastante, quanto grande è la sua statura fisica (Valjean è un gigante), ma ancor più la sua anima. Perché c’è una grandezza nascosta nell’uomo, in ogni uomo, che è impronta a fuoco dell’amore di chi lo ha voluto, che può e deve manifestarsi quando sarà risvegliata. Ecco, Valjean incarna lo spirito del suo tempo, e forse non meno quello del nostro tempo. Nella sua forza arde il sentimento compresso di un’ingiustizia e la rivalsa di una generazione intera. Come lui, altri uomini, feriti dall’ingiustizia del mondo, dello Stato, della legge, della società, saranno i giovani Marius, Enjoras, Courfeyrac e il piccolo Gavroche, ignaro martire di una guerra assurda, che isseranno le barricate nelle strade di Parigi, pronti a versare il sangue al grido di “liberté, egalité, fraternité”. Ma a differenza di questi, nella sua vita accade una svolta inattesa. Proprio mentre è intento a dare seguito alla sua bassa immagine di sé, questa è la cosa straordinaria: è proprio in questo incontro imprevisto che trova senso il grido disperato di quei giovani rivoltosi, che perderanno invece la vita poco dopo. Urlano: «Innalziamo la bandiera della libertà, ogni uomo sarà un re!». Ma è paradossalmente solo in Valjean che si avvera questo sogno. Lui è l’uomo davvero liberato, l’uomo che da schiavo che era diventa grande come un re. La storia la sappiamo: Valjean esce di prigione per un’amnistia ma non ha nulla. Ha pagato, è vero, ma come lo aveva condannato lo sguardo impietoso di Javert, il suo sbaglio non può essere cancellato, è e sarà sempre un delinquente, lui è 24601, gira con una pergamena in cui è riportata la sua condizione e dovrà continuamente andare ai posti di controllo a farla vedere. E così sembra, infatti, che non potrà mai più essere altro. Nel suo vagare invece incontra a un certo punto il vescovo Myriel che lo accoglie nella sua casa, dandogli tutto di quello che ha bisogno. Ma Valjean non può resistere alla tentazione, di notte ruba l’argenteria e fugge. Poi viene catturato dai gendarmi e riportato dal vescovo. Come sappiamo, come è stato detto sia da Branciaroli che da Doninelli, questo è il perno di tutto il romanzo perché a questo punto accade l’inimmaginabile. Ma è questo inimmaginabile che cambierà la sua vita e il corso di tutti gli eventi futuri. Il vescovo non solo conferma di avergli donato l’argenteria ma anzi lo rimprovera di avere dimenticato il dono più prezioso, due candelabri d’argento che da soli valgono più di tutto quello che Valjean ha portato via. Proprio perché questo è il centro di tutto, mi perdonerete se mi ci soffermo ancora un attimo. Dunque, Myriel non si limita a trasformare l’argento rubato in dono, riconoscendo che gliel’aveva donato lui, gli offre addirittura di più. Valjean è sbalordito, e come non esserlo?! Proviamo a immedesimarci. Con questo gesto impensabile egli non è semplicemente liberato dalla sua colpa, riceve in dono da Myriel la scoperta di una libertà ben più grande della semplice assoluzione, una libertà che supera ogni sua comprensione, una libertà che è figlia della gratuità. In Myriel, Valjean incontra la vera libertà, una libertà a tal punto sovrana da riuscire a trasformare l’ingiustizia subita in uno strumento del proprio affermarsi; e lì le sorgenti dell’odio che lo tenevano incatenato anche fuori di prigione sono prosciugate. Valjean è libero, libero come colui che può donarsi senza calcolo, perché senza limite si riconosce amato. Non a caso, Valjean non se ne priverà più, come detto, perché in questi candelabri è come custodito il mistero dell’evento che da miserabile l’ha trasformato in un re. È noto che Hugo, sebbene cattolico di nascita e di educazione, non si riconoscesse però, almeno a suo dire, cattolico al tempo della scrittura del romanzo. Eppure non si può non cogliere qui un’analogia che non sarebbe comprensibile senza far riferimento a un’esperienza cristiana. Ho fatto quella premessa all’inizio perché c’è una corrispondenza segreta tra l’esperienza, tra la situazione di Valjean appena uscito di prigione e quella del vescovo dopo il furto. Entrambi sono stati derubati ma Myriel non si vendica, anzi si dona, pur senza cancellare l’ingiustizia subita. Dona liberamente a Valjean quello che questi gli aveva sottratto con l’inganno; e non si può comprendere il cambiamento dell’umano che ne deriva senza osservare che chi incontra Valjean veramente, attraverso la figura di Myriel, è Cristo stesso. Il gesto del Cristo che si consegna alla croce e alla lancia romana in perfetta libertà, apparentemente dando la vita all’ingiusta mano del carnefice, riverbera nell’azione virile del vescovo, secondo una logica che non si può capire perché eccede ogni misura umana. Il sangue di Gesù che fluisce copioso dal suo costato diviene dono, segno dell’inarrestabile potenza dell’amore, più grande del male e dell’ingiustizia subita: questo è ciò che conquista il cuore di Valjean, il perdono, per-dono, un dono incommensurabile. Il perdono di Myriel raffigura analogicamente il mistero della misericordia di Cristo. Non si tratta appena di lasciar correre, di farla passare liscia, di passarci sopra, infatti non lo commisera. Myriel crede nel potere sovrano della Grazia che innalza il miserabile e perciò scommette su di lui come se non fosse mai caduto. È l’amore che libera l’uomo dal suo male pagandone il riscatto col proprio sangue. Qualcuno deve pagare, se no l’ingiustizia non è sanata: paga lui. Questa è la misericordia cristiana, non basta ristabilire l’equilibrio con la restituzione del maltolto, occorre qualcuno che paghi il riscatto del peccato che ha generato quel gesto malvagio. La misericordia è un totale disequilibrio, per questo Myriel non può limitarsi a fargliela passare liscia ma aggiunge i candelabri d’argento, deve pagare lui. E infatti, proprio in forza di questo riscatto, può affidargli un compito: «Ma ricordati, fratello mio, vedi in questo un progetto più grande, devi usare questo prezioso argento per diventare un uomo onesto. Dalla testimonianza dei martiri, dalla passione e dal sangue, Dio ti ha elevato dalle tenebre, ha salvato la tua anima». E Valjean risponderà. Tutto il resto dell’opera documenta il cambiamento che matura come frutto del seme gettato dal vescovo nel suo cuore, perché il frutto ha la stessa natura del seme, una vita piena di gratuità, secondo quella stessa logica incomprensibile al mondo e che tuttavia corrisponde alla vera misura per cui ogni uomo è fatto. Ma in questo sviluppo straordinario della vicenda c’è un altro aspetto che mi sorprende: il cambiamento di Valjean non avviene per un colpo di bacchetta magica, c’è sì una decisione radicale all’origine ma l’autocoscienza nuova che ne deriva in lui si costituisce progressivamente grazie alla testimonianza grande di persone semplici, miserabili come lui, che gli confermano l’eccezionalità umana di una vita spesa per un amore gratuito. La povera Fantine su tutti, una ragazza madre costretta a prostituirsi per mantenere la figlia presso due spietati aguzzini, i Thénardier, appunto, un niente che attraversa per un momento la sua esistenza ma la segnerà a tal punto da determinarne le scelte future, decidendo sul letto di morte di lei di prendersi cura della figlia Cosette, come fosse sua. Tra l’altro, l’episodio di Fantine che viene arrestata per aver reagito alle beffe di un benestante avventore che le infila una manciata di neve nella scollatura del vestito logoro, corrisponde ad un episodio realmente accaduto a Victor Hugo il quale, dopo avere assistito a questa scena, testimoniò in favore di una prostituta ottenendone la scarcerazione. Tanti episodi sono proprio sua esperienza che lui rimette un po’ insieme. Ma poi Éponine, l’ha già detto Luca, la figlia dei Thénardier che non esiterà a sacrificare la sua vita sulle barricate per amore di un Marius che pure lei sa essere innamorato di Cosette, la figlia di Fantine! Insomma, quando l’esistenza dell’uomo è investita da questo amore-gratuità, diviene facile riconoscerne i tratti ovunque esso accade e attaccarvisi per non perdere se stessi. Ma questo suo cambiamento è continuamente messo alla prova, questa è la vita reale! Cito alcuni esempi, velocemente. Il primo è una cosa che mi ha colpito ma non ha colpito solo me. Ricordo che tempo fa sono stato invitato da alcuni amici ad una discussione con alcuni detenuti del carcere di Como, dopo che avevano visto il film di Hooper. Mi ha sorpreso che la scena che aveva fatto più riflettere tutti, era quella in cui uno sconosciuto viene scambiato per Valjean e potrebbe essere condannato al suo posto. L’occasione è ghiotta perché per lui sarebbe la definitiva liberazione dallo spauracchio del carcere da cui aveva continuato a fuggire, nascondendosi per anni. Sarebbe finalmente libero! Ma può egli tradire la sua nuova libertà? È possibile una vera libertà senza verità né giustizia? Lui, che ha incontrato la vera verità e la vera giustizia: che libertà sarebbe? Quello che ha incontrato vale tanto che è disposto ad assumersene le conseguenze. E questo dimostra che il cambiamento è reale, è ontologico, è della sua natura, non è appena una ragione di facciata. E allora, dopo una notte di tormento, si presenta davanti ai giudici e riassume, questa volta liberamente, quel nome e quel numero che sono la sua identità e che all’inizio aveva rabbiosamente rigettato. «Io sono Jean Valjean, io sono 24601». Oppure, altro episodio, il soccorso al povero Fauchelevent che rimane intrappolato sotto un carro che lo sta schiacciando. Valjean assiste alla scena, lui ormai è il sindaco di questo paese. Nessuno interviene perché nessuno è in grado di sollevare il carro: mentre lui osserva, si accorge dello sguardo indagatore di Javert, che lo sta guardando perché già sospetta chi sia lui veramente. Javert ricorda bene la forza straordinaria di Valjean ai lavori forzati. Tuttavia, Valjean non esita, non soppesa, interviene. La musica che accompagna la scena, non a caso è la stessa che all’inizio faceva da sfondo all’erculea esibizione di Valjean, proprio per caricare questo riconoscimento che sta avvenendo anche in Javert. Ma qui è interessante il significato che ne emerge. Quella forza straordinaria e violenta dell’inizio, che era proprio la forza dell’astio di allora, si è trasformata nella forza ancora più grande dell’amore che si dà senza calcolo. Oppure, infine, quando lo stesso Javert cade improvvisamente nelle sue mani, Valjean è posto, per un’ultima volta, di fronte all’alternativa tra due libertà: quella del mondo che calcola – perché può fare fuori il suo nemico e liberarsene -, oppure quella della gratuità fino al sacrificio di sé. E ancora una volta sceglie per la seconda. Ma forse, già lo citava Luca, da un certo punto di vista, l’aspetto più rilevante è proprio quando Valjean decide di rinunciare a Cosette, la figlia acquisita in cui lui ormai aveva risposto tutto il suo affetto umano, la ragazza che incarna tutto ciò che gli rimane. La scelta di rinunciare a lei, che si è innamorata di Marius, è veramente, a mio avviso, un vertice vertiginoso. Rischiando la propria vita per salvare Marius, alla fine lui resterà solo e sa che resterà solo, nudo, svuotato di ogni avere, miserabile come era all’inizio. Ma qui è chiaro che è successo in lui qualcosa che ha trasformato definitivamente la sua vita. C’è un piano che va oltre le cose che ha. Allora, vorrei concludere con un ultimo passaggio sulla scena, una delle scene finali, la scena del tragico tormento di Javert prima del suicidio, che è una scena straordinaria. Anche qui, curiosamente, c’è un nesso musicale con il tormento di Valjean nella notte in cui decide di arrendersi all’amore ricevuto. Ecco, qui si vede bene come l’esperienza della misericordia ricevuta non elimini assolutamente il dramma della libertà ma anzi lo amplifichi. Accettare la gratuità dell’amore altrui significa riconoscere di dipendere. C’è un passaggio che mi è molto caro in un testo di don Giussani, L’attrattiva a Gesù, in cui dice che «il culmine dell’amare è accettare di essere perdonati, perché picchia sul muso del nostro orgoglio, della nostra presunzione». Come è vero! Uno infatti vorrebbe essere amato perché vale, ma se tu vuoi essere amato perché vali allora non ami l’altro, ami te stesso e basta. Forse è proprio questo il problema dell’uomo moderno: il rifiuto della dipendenza. Valjean e Javert sono entrambi messi davanti alla stessa gratuità, ma uno vi si arrende e l’abbraccia come compimento di sé, l’altro invece vi resiste ostinatamente. E tuttavia, per un’ultima onestà con se stesso, non potendo evitare di riconoscere una giustizia più grande, quella del nemico di una vita, non può sostenere di lasciarlo andare. Javert è figura di una grandezza tragica, riconosce un Dio che identifica con un ordine perfetto e la sua infallibile coerenza, come uomo, con quest’ordine stabilito per lui è fede: una coerenza rispetto a quell’ordine che rappresenta Dio. Ma per questo in lui non può esserci amore perché l’amore è pieno di ferite. Allora, incontrato di nuovo Valjean mentre questi sta portando in salvo Marius, Javert ha la possibilità di chiudere finalmente la partita, eppure per la prima volta esita, ha qualcosa dentro che lo trattiene. Valjean si allontana col ragazzo e lui lo lascia andare, ma non riesce a sopportare la crepa che si è aperta nel suo cuore di pietra. È il frantumarsi del suo mondo, e si suicida. Valjean vince, non tanto perché vince la sfida con Javert, vince l’uomo che ha conosciuto la carità, ne è stato oggetto e ha scommesso tutta la sua vita su questo. Vince l’uomo che accetta di dipendere dallo sguardo che è capace di rendere l’uomo libero. Grazie. E questa è la felicità.

LUCA DONINELLI
Grazie, Davide. Sapevo di avere avuto una buona idea invitandoti. Vorrei concludere con un avviso che sono felice di darvi. Ciò che rende il Meeting un evento del tutto unico è il fatto che tutto sia completamente gratuito, come il perdono: le mostre, gli incontri, lo spazio dedicato allo sport, il villaggio ragazzi, i parcheggi e ogni altra cosa, eccetto la ristorazione, sono offerti a chi vive la settimana del Meeting e a chi lo segue da casa e in ogni parte del mondo. E sapete cosa rende possibile questa totale gratuità? Il fatto che il Meeting sia il frutto del contributo di ciascuno di noi, dai volontari ai donatori, dai relatori ai curatori di mostre, agli artisti. Tra l’altro, io sono molto felice perché ho visto che ci sono mostre come quella sul ‘68 fatta da ragazze di 20 anni, e questa per me è una cosa straordinaria. Fino ai visitatori che lo vivono, ognuno regala al Meeting qualcosa di sé, il proprio tempo, le proprie energie, il proprio denaro, i propri talenti. Anche quest’anno è possibile contribuire alla costruzione del Meeting attraverso donazioni: a questo scopo lungo tutta la fiera troverete delle postazioni “dona ora”, caratterizzate da un cuore rosso. Le donazioni dovranno avvenire unicamente ai desk dedicati dove troverete i volontari che indossano la maglietta colore magenta “dona ora”. Grazie.

Trascrizione non rivista dai relatori

Data

21 Agosto 2018

Ora

11:30

Edizione

2018
Categoria
Incontri