Chi siamo
GUIDA ALL’ASCOLTO DAL VIVO – Collana “Spirto Gentil”
Dal vivo – Collana “Spirto Gentil” CD 30 Canzoni napoletane Mandulinata a Napule – Tito Schipa.
Partecipano: Antonio Attanasio voce; Michele Di Martino mandolino; Massimo Della Rocca chitarra; Massimo Bernardini relatore.
PIER PAOLO BELLINI:
Bene, allora possiamo prendere posto e cominciare questo terzo incontro del ciclo di Spirto Gentil. Ho già detto nei primi due incontri che la speranza è quella di poter dare un contributo particolare a quello che è il tema di quest’anno “La conoscenza è sempre un avvenimento”. L’arte dà un suo contributo. L’arte è un metodo di conoscenza ed è un metodo di conoscenza che non si accontenta di descrivere le cose. Anche quello che ascolteremo questa sera, non sono descrizioni di paesaggi o descrizioni di sentimenti, perché l’arte ha un passo in più in questo tentativo di conoscenza. L’arte è il tentativo di descrive come il cuore dell’uomo incontra gli avvenimenti, di descriverlo fino in fondo, fino a coglierne il mistero, fino a cogliere la drammaticità stessa dell’esistenza. Abbiamo visto nei due appuntamenti precedenti, e qui ripeto che è uno strano tragitto, inaspettato, quello che stiamo facendo incontro dopo incontro, abbiamo visto che i primi avvenimenti più importanti, più evidenti sono stati la vita nel concerto di Villa Lobos, e la morte nel brano di Schubert “La morte e la fanciulla”. Non è un caso che di fronte a questa contraddizione ci venga proposto questa sera un’esperienza che è esattamente il tentativo di dare ragione di questa contraddizione presente nella vita. La contraddizione di chi desidera, ha il desiderio di Infinito e nello stesso tempo sente dolorosamente il limite umano nel tentativo di raggiungere questo desiderio. La parola più sintetica di questa intuizione è quella che viene suggerita da don Giussani nel libretto introduttivo a questi napoletani, “malinconia”. In questa parola ci riconosciamo tutti, in questa verità di attesa misteriosa facilmente ci riconosciamo tutti. L’essenza del cuore dell’uomo è il rapporto con una felicità attesa di cui non si conosce né l’ultima natura né il nome. La vita da una parte, la morte dall’altra. Se la vita non fosse triste perché è assente il bene cui si tende, sarebbe disperata. La tristezza è la capacità dell’uomo che aspira all’Infinito. La traccia di profondità che don Giussani ha costantemente rinvenuto in questi canti e ha costantemente riproposto alla nostra intelligenza e alla nostra sensibilità, è esattamente la percezione di questa dignità ultima della natura umana: la percezione dell’Infinito e nello stesso tempo la coscienza della nostra incapacità. Ci condurranno in questa scoperta, in questa conoscenza, veramente in questa conoscenza, alcuni amici, anche in questo caso amici fedeli al tentativo del Meeting di Rimini di approfondire costantemente questa conoscenza. Abbiamo nell’incarico di guidarci all’ascolto un nostro amico, Massimo Bernardini, che è giornalista e autore televisivo e conduce la trasmissione “TV Talk” tra le tante cose che fa, oltretutto è stato quello che ha realizzato l’intervista ad Arbore, esattamente per il CD dedicato ai canti napoletani. All’esecuzione questa sera avremo alla voce Antonio Attanasio, che ha effettuato numerosi concerti come solista in varie città e teatri italiani, ha cantato al teatro San Carlo di Napoli e ha registrati diversi CD di canzoni napoletane. Al mandolino Michele Di Martino, diplomato con il massimo dei voti in mandolino presso il conservatorio di Padova, che ha tenuto concerti in Europa, Stati Uniti, Africa e America Latina. Alla chitarra Massimo Della Rocca, che si è diplomato presso il conservatorio statale di Musica di Avellino, ha tenuto numerosi concerti durante la sua carriera, in collaborazione con artisti molto importanti e attualmente è docente di chitarra. Prima di lasciare la voce e il suono ai nostri musicisti, vi raccomando ancora una volta di spegnere le suonerie dei vostri cellulari. Lascio la parola ai nostri musicisti. Grazie.
Canzone.
MASSIMO BERNARDINI:
Allora buonasera a tutti. Io voglio partire da quello che ci hanno appena cantato, anzi da un certo punto di vista dal piccolo mistero che c’è dietro il ritornello che ci hanno appena cantato, questo “Oi vita, oi vita mia”. Loro ce l’hanno fatto in un certo modo, però provate a pensare, noi quando cantiamo “Oi vita, oi vita mia”, quando facciamo così, noi crediamo tutti di essere napoletani. Anzi noi crediamo, facciamo attenzione, che essere napoletani voglia dire scatenarsi, battere le mani, urlare a squarcia gola. Invece Antonio che pure, avete visto, nel finale in realtà la ha scaldata un po’ questa canzone, ha riportato al cuore di questa canzone, che appunto già subito testimonia che è un cuore pieno di malinconia. Allora provate a pensarci, siamo nel 1915, la Prima Guerra Mondiale ha appena visto entrare l’Italia nel conflitto e l’autore Aniello Califano, che attenzione è un autore di grande successo, perché è quello che ha scritto “Ninì Tirabusciò”, “Serenata a Surriento”, scrive per la musica di Enrico Cannio, che è un altro re dei teatri napoletani, questi versi che appunto si identificano nel soldato che pensa alla fidanzata lontana. Provo a tradurre per chi non avesse capito. “Quante notti sono che non ti vedo, non ti sento tra queste braccia, non ti bacio questa faccia, non ti stringo forte fra le braccia, ma svegliandomi da questi sogni mi fai piangere per te. O vita, o vita mia, o cuore di questo cuore, sei stato il primo amore, il primo e l’ultimo sarai per me”. E’ appunto la nostalgia, la distanza, l’assenza dell’amata il cuore di questa canzone. Forse appunto quel ritornello lo faceva per esempio Anna Magnani così, lo faceva in un vecchio film televisivo, ecco proprio come lo ha fatto Antonio, andrebbe quasi sussurrato. Prova a risussurrarcelo.
Canto.
MASSIMO BERNARDINI:
Capite. Questo è il cuore della faccenda. Però prendiamolo per ipotesi culturale, don Giussani dice: “il cuore della faccenda è la malinconia”. Nella nostra storia questi canti, se ci pensate, sono circondati da un sentimentalismo appiccicaticcio che in qualche modo ce li offusca. Don Giussani invece ritorna a questa faccenda, dice: “Attenzione il cuore è questa malinconia”. Ecco, io vi dico proviamo a verificarla, per esempio nelle due canzoni che ci stanno per fare i nostri amici. La prima si chiama “Tu ca nun chiagne”, è stata scritta anche questa nel 1915 e c’è di mezzo un gigante della Napoli musicale, si chiama Libero Bovio. Allora, per intenderci, è l’autore del testo di “Guapperia” per esempio, di “Silenzio cantatore” che sentiremo fra un po’, di “Lacrime napoletane”, di “O paese d’o sole” e che proprio in tema di malinconia ha lasciato per esempio, se qualcuno li conosce, qualcosa come “Reginella”, “Passione” e in italiano una vecchia canzone che si chiamava “Signorinella pallida”, poi qualcuno che ha qualche hanno magari se la ricorda, ma siamo pochissimi. Io stesso non me la ricordo, io sono giovanissimo. “Tu ca nun chiagne”, dicevo “Tu che …”, per cortesia maestro me lo dica per bene che io rovino tutto.
ANTONIO ATTANASIO:
“Tu ca nun chiagne”
MASSIMO BERNARDINI:
Ecco scusi. Entriamoci dentro. E’ una meditazione notturna e parte da una immagine molto preziosa, dice “come è bella la montagna questa notte, così bella non la ho mai vista, sembra un’anima rassegnata e stanca sotto la coperta di questa lana bianca”. Ci introduce al rimpianto struggente del ritornello che dice: “Tu che non piangi e mi fai piangere, tu questa notte dove sei, voglio te, voglio te, questi occhi vogliono vederti un’altra volta”. Ecco, vedremo fra poco come l’ha musicata, questi versi come sono musicati dal maestro Ernesto De Curtis. Attenzione che qui è interessante, concertista, pianista di Beniamino Gigli, in giro per tutti i grandi teatri del mondo, è uno che ha scritto qualcosa come “Torna a Surriento” e “Non ti scordar di me”, un’altra grande canzone italiana, se qualcuno se la ricorda. Allora questo stesso maestro ha scritto anche la seconda canzone che si chiama “Voce ’e notte”, che è la seconda che sentiamo dopo “Tu ca nun chiagne”, speriamo di averla detta giusta. Allora che cosa è “Voce ’e notte”? è un testo autobiografico. 1904, l’autore si chiama Eduardo Nicolardi. Il quadro della situazione è questa: un uomo va sotto la finestra della sua ex fidanzata che ha sposato un altro e si esprime così: “se questa voce ti sveglia nella notte, mentre ti stringi vicino al tuo sposo, resta sveglia se vuoi stare sveglia, ma fa finta di dormire profondamente. Non andare vicino ai vetri per spiare, perché non puoi sbagliare: questa voce è la mia. E’ la stessa voce di quando noi due con vergogna ci davamo del voi. “Tu ca nun chiagne” e “Voce ’e notte”.
Canzoni.
MASSIMO BERNARDINI:
Allora, prima ho tralasciato di dirvi che però la storia vera, l’avevo detto che era autobiografica, per l’autore finisce in gloria. La Provvidenza che nella sua insondabile saggezza ha provocato un colpo apoplettico al vecchio marito imposto al padre della giovane sposa e così lui è riuscito a convolare in seconde nozze con la fanciulla e otto figli avrà da lei alla fine. Ma questa è un’appendice a margine, perché in realtà, come giustamente dice don Giussani, “l’assenza di tristezza come nostalgia dell’Infinito”, che ha prima citato il maestro Bellini, in realtà è, come dire, lui dice, con grande finezza, “sarebbe la banalità” questa assenza di tristezza, “di una mens quasi scema”, che nega appunto l’esistenza di ciò a cui il cuore aspira. Allora verrebbe da dire, gli autori, cioè Gabriele D’Annunzio, scusate se è poco, e Francesco Paolo Tosti, sarebbero quelli con la mens quasi scema? No, no. Vi spiego perché sto dicendo questa cosa: perché quella che arriva adesso è una canzuncella, mi verrebbe da dire, una canzuncella. Innanzitutto D’Annunzio e Tosti sono due abruzzesi e gli abruzzesi hanno un po’ questa aria anche un po’ da cosmopoliti, che hanno girato tutto il mondo. D’Annunzio è stato in Francia, Francesco Paolo Tosti a Londra, insomma sono cosmopoliti non napoletani. Però attenzione, questo ci ha fruttato una canzuncella che ha dei versi così sonori che sembrano quasi onomatopeici. L’ha scritta D’Annunzio come testo nel 1907, per sfidare un altro poeta napoletano: “Ah, io abruzzese non sarei capace di fare una canzone napoletana? Stai a sentire qui” e ha scritto questa “A Vucchella”. Il testo detto in italiano fa veramente pietà, mentre è evidente che in napoletano è veramente un’altra cosa. Comunque dice: “Sei come un fiorellino. Hai una boccuccia un pochino avvizzita. Su dammelo un bacino, come una rosellina”. Adesso vedete diventa un’altra cosa. “A Vucchella”.
Canzone.
MASSIMO BERNARDINI:
Insomma capite che Napoli è anche occasione di gioco, come dire, un po’ salottiero, un po’ sottile, ma bellissimo. Ecco però è quando si ritorna sulle personalità proprio napoletane schiette che, come dire, torna l’anima vera di Napoli. Perché per esempio in questo caso non ci sono né salotti, né viaggi, né cosmopolitismo. La prossima canzone è “I’ te vurría vasá”, io vorrei baciarti. L’ ha scritta nel 1900 un umile ciabattino, Vincenzo Russo e il figlio di un musicista posteggiatore, Eduardo di Capua. Tenete presente che erano autori per un grandissimo editore, che era Bideri, e nonostante siano quelli che hanno scritto per esempio “Maria Marì”, di Capua è addirittura quello che ha scritto “O’ sole mio”, sono tutti e due morti in miseria. Qui c’è la natura vera, popolare, la Napoli più vera e popolare, qui non c’è conservatorio, nascono in un altro modo questi due musicisti. Però pur nascendo qui, o forse proprio perché nascono così, c’è una finezza tutta particolare. Sentite il testo: “Che bella aria fresca, che profumo di Malva Rosa, tu stai dormendo sopra queste foglie di rosa, il sole poco alla volta spunta in questo giardino, il vento passa e bacia il tuo ricciolo sulla fronte. Io vorrei baciarti ma il cuore mi suggerisce di non svegliarti”. Questo distacco, questo pudore sembrano riecheggiare in quello che dice don Giussani: “C’è qui una affermazione della passione amorosa esplicitata e vissuta” e poi: “si può dunque dire che questi canti introducono il Mistero di Cristo più di qualsiasi altra produzione artistica”. Quando un grande maestro come don Giussani arriva a spendere delle parole così importanti, secondo me c’è solo da ascoltare. “I’ te vurría vasá”.
Canzone.
MASSIMO BERNARDINI:
Allora, in realtà fino ad adesso abbiamo sentito quella che io definirei una grande canzone d’autore, ma il punto è: come si intreccia questa grande canzone d’autore, come questa che abbiamo appena sentito, con l’esperienza del popolo, del popolo di Napoli? Fino a diventare la voce autentica di questo popolo e che poi tutto il mondo ha riconosciuto? Per rispondere a questa domanda mi toglierò la giacca.
Le prossime due canzoni che i nostri amici eseguiranno, sono a un secolo di distanza. Vedrete, c’è in mezzo qualcosa di altro, ma non ve lo dico prima, sono però assolutamente esemplari del rapporto di Napoli con questa musica. La prima si chiama “Te vojo bene assaje”, ci riporta addirittura agli anni ’30 del ’800 e ci riporta una cosa leggendaria che si chiama Piedigrotta. Allora Piedigrotta cosa era? C’è chi dice che fin dai tempi dei romani, in questo posto un po’ spostato dal centro della città, c’era una grotta, la grotta di Pozzuoli, in cui si facevano dei riti, i baccanali. Dal ’200 però, c’è una chiesa dedicata alla Madonna, perché vi avvenne un miracolo della Vergine. Da quel momento comincia a diventare quel luogo un luogo particolare che è. Non ve la faccio lunga, però la notte precedente la festa di Piedigrotta (l’8 settembre), quindi la notte fra il 7 e l’8, Piedigrotta diventa il luogo dove si canta e dove poco alla volta, a cominciare da questa fatidica canzone, vengono presentate le nuove canzoni napoletane. Quindi a Piedigrotta, la sera fra il 7 e l’8 settembre, per tanti e tanti anni si presentavano le nuove canzoni napoletane e a farlo diventare questo punto di riferimento è proprio questa canzone, “Te vojo bene assaje”. La canzone è stata scritta, pensate, da uno che di mestiere faceva l’ottico, nel 1835/39 in via Querce se non sbaglio, e si dice, dice la leggenda ma non c’è nessun appiglio storico, che la musica l’abbia scritta addirittura Gaetano Donizetti, che in quegli anni lì stava a Napoli. Allora i sei ottavi stupendi di “Te vojo bene assaje” sono per testimoniarci questa lunga tradizione popolare che si chiama Piedigrotta. “Te vojo bene assaje”.
Canzone.
MASSIMO BERNARDINI:
L’altra canzone invece che Attanasio e i suoi ci stanno preparando è “Tammurriata nera”. Siamo esattamente cento anni dopo, siamo nel 1944, da quasi un anno Napoli è diventata lo snodo centrale delle truppe angloamericane che stanno risalendo la penisola. La presenza in città di questi contingenti afroamericani lascerà un segno, la canzone dice un segno niro niro, cioè nero nero, che si ritrova appunto nei figli di colore che nascono, come dire, dal felice (felice insomma, bisognerebbe chiederlo a quelle madri) congiungimento fra le truppe afroamericane e le donne napoletane. Comunque Napoli sa trasfigurare anche questa cosa, che se ci pensate è dolorosissima, eppure Napoli, Napoli che fa musica, sa trasfigurarla. Torna per il testo quel Nicolardi là, avete presente, quello che prima è riuscito a sposarla, eccetera, quello degli otto figli….Il testo lo ha scritto lui, quarant’anni prima, e invece la musica l’ha scritta E.A. Mario. Attenzione, io cerco di riannodarlo sempre questo filo, cosa ha scritto E.A. Mario? “La leggenda del Piave”, quindi mica solo la canzone napoletana è stata segnata dai grandi autori… E.A. Mario ha adattato un antico stile, che era quello della tammuriata, cioè quello della canzone fatta col tamburo. Però, prima di entrarci dentro, io voglio che cerchiamo di capire cosa voleva dire e torniamo perciò alla parola tristezza che dicevamo prima, cosa voleva dire quella Napoli del 1943? Perché è lì che, come dire, il cuore di questa vicenda comincia. E per farlo, proprio in questi giorni casualmente mi è capitato fra le mani il passaggio di un libro, il libro si chiama “Kaputt” di Curzio Malaparte, scritto nel 1945. Curzio Malaparte faceva il giornalista, aveva visitato tutti i fronti della seconda guerra mondiale, poi per una serie di vicende era finito in carcere a Regina Coeli. Esce dal carcere e siccome aveva una casa a Capri, arriva col treno nella Napoli bombardata, nella Napoli, come dire, veramente in preda allo sconforto più nero e però scrive questa cosa in questo libro che uscirà due anni dopo, che si chiama “Il sangue”. Io vorrei che ascoltaste le parole di Malaparte, perché ci descrivono davvero che cos’era il cuore di Napoli in quel momento e chiamo un attore, un bravissimo attore e un amico nostro, Franco Palmieri, a leggerci questo frammento di Curzio Malaparte che ci introduce a “Tammuriata nera”.
FRANCO PALMIERI:
Era la prima volta dopo quattro anni di guerra, la prima volta in tutto il corso del mio crudele viaggio attraverso la strage, la fame, le città distrutte, la prima volta che udivo pronunciare la parola sangue con un sacro, misterioso rispetto. In ogni parte d’Europa, in Serbia, in Croazia, in Romania, in Polonia, in Russia, in Finlandia, quella parola aveva un suono di odio, di paura, di disprezzo, di gioia, di orrore, di crudele e barbarico compiacimento e di sensuale piacere, un accento che sempre mi aveva riempito di orrore e di disgusto. Mi era diventata più terribile la parole sangue che il sangue stesso. Toccare il sangue, bagnarmi le mani in quel povero sangue sparso in ogni terra d’Europa, non mi dava tanto dolore quanto udire quel nome, sangue. E a Napoli, proprio a Napoli, nella più infelice, affamata, umiliata, abbandonata, torturata città d’Europa, ecco che udivo pronunciare la parola sangue con religioso timore, con sacro rispetto, con un profondo senso di carità, con quell’alta, pura, gentile, innocente voce con la quale il popolo napoletano pronunzia le parole mamma, bambino, cielo, Madonna, pane, Gesù, con la stessa innocenza, la stessa purezza, con lo stesso gentile candore. Da quelle bocche sdegnate, da quelle labbra pallide e consunte il grido ‘o sang ‘o sang si alzava come una invocazione, come una preghiera, come un nome sacro. La folla gridando, piangendo, levando le braccia al cielo correva verso il duomo e invocava il sangue con un meraviglioso furore, piangeva il sangue perduto, il sangue versato invano, la terra bagnata di sangue, gli stracci insanguinati, il sangue prezioso dell’uomo mischiato alla polvere delle strade, i grumi di sangue sui muri delle prigioni. Negli occhi febbrili della folla, nelle fronti pallide, ossute, madide di sudore, nelle mani alzate al cielo e scosse da un tremito profondo, una pietà appariva, un sacro spavento: ‘o sang! ‘o sang! ‘o sang! Era la prima volta dopo quattro anni di feroce e spietata, crudelissima guerra, che udivo pronunciare quella parola con religioso timore, con sacro rispetto e l’udivo sulle labbra di quella folla affamata, tradita, abbandonata, senza pane, senza tetto, senza tono. Dopo quattro anni, ecco che quella parola suonava nuovamente come una parola divina. Un senso di speranza, di riposo, di pace mi invadeva al suono di quella parola: ‘o sang! Il cielo scorreva come un fiume azzurro su quella città in rovina, piena di morti insepolti, sulla sola città in Europa dove il sangue dell’uomo era ancora sacro, su quel popolo buono e pietoso, che aveva ancora per il sangue dell’uomo rispetto, pudore, amore e reverenza, su quel popolo per il quale la parola sangue era tuttavia una parola di speranza e di salute. Giunta davanti alle porte chiuse del Duomo, la folla era caduta in ginocchio chiedendo a gran voce che le porte si aprissero e il grido: ‘o sang! ‘o sang! ‘o sang! faceva tremare i muri delle case, era pieno di ira sacra, di pietoso furore. Domandai a un uomo vicino a me che cosa fosse accaduto. La voce si era sparsa in città che una bomba avesse colpito il Duomo e fatto crollare la cripta dove sono custodite le due teche contenenti il miracoloso sangue di San Gennaro. Non era che una voce, ma in un lampo si era sparsa per la città, era penetrata fin nei più oscuri vicoli, negli antri più profondi. Fino a quel giorno, in quattro anni di guerra, pareva che neppure una goccia di sangue fosse stata versata. Nonostante i milioni di morti sparsi in tutta l’Europa, sembrava che neppure una goccia di sangue avesse abbeverato la terra ed ecco, all’annuncio che le due preziose teche erano state infrante e quelle poche stille di sangue aggrumato erano andate perdute, pareva che tutto il mondo fosse coperto di sangue, pareva che tutte le vene dell’umanità fossero state tagliate per dissetare l’insaziabile terra. Ma un prete uscì sugli scalini del Duomo, alzò le braccia al cielo per imporre silenzio alla folla e annunciò che il prezioso sangue era salvo: ‘o sang! ‘o sang! ‘o sang! La folla inginocchiata piangeva, invocando il sangue e tutti avevano il viso ridente, lacrime di gioia scavavano quei visi scavati dalla fame e un’alta speranza invadeva il cuore di ognuno, come se ormai neppure una sola goccia di sangue dovesse più cadere sulla terra assetata.
Canzone.
MASSIMO BERNARDINI:
Abbiamo fatto una deviazione verso la Napoli più sanguigna e popolare e noi in realtà vogliamo chiudere il nostro incontro ritornando invece, come dire, con due capolavori indiscussi della grande tradizione della Napoli più importante, più decisiva, insomma quella che tutto il mondo conosce. Adesso sentiremo “Silenzio cantatore” e “Mandulinata a Napule”, che è fra l’altro il titolo di questo bellissimo disco, che non ho ancora citato, di Tito Schipa, da cui nasce tutto Spirto gentil, che appunto si chiama “Mandulinata a Napule”. Dice don Giussani nell’introduzione al disco, che i canti napoletani ti rovesciano addosso una intensità di tenerezza e di passione. Vediamo come ce lo documentano questi due canti. Prima verifica, “Silenzio cantatore”. Siamo nel 1922, Libero Bovio, quello che abbiamo già incontrato prima, – maestro è invece Gaetano Lama, che sarà poi il dominatore della canzone italiana, ha scritto per esempio “Cara piccina mia” e “Come le rose”, non so se qualcuno coi capelli grigi se le ricorda. Testo: Zitta, stanotte non dire niente – dice l’innamorato all’innamorata in una bellissima notte d’estate – stai fra le mie braccia ma senza parlare, Maria, dentro al silenzio, un silenzio che incanta, cantatore, non ti dico parole d’amore ma le dice il mare per me. Ecco sentite questo testo come riecheggia quello dopo “Mandulinata a Napule”, che è scritta invece dal grande Ernesto Murolo, il padre di Roberto, non so se Roberto qualcuno lo conosce, ed Ernesto Tagliaferro. Siamo negli stessi anni, gli anni ’20. Notte d’estate – “Mandulinata a Napule” – si sono spente le luci e il cielo ha creato uno scenario sul mare, stai abbracciata a me, innocenti sono quei baci, bella, stanotte ti sono fratello e sposo, stanotte amore e Dio sono una sola cosa. E così si torna a quel punto iniziale. Diceva don Giussani: l’essenza del cuore dell’uomo è rapporto con una felicità attesa, di cui non si conosce né l’ultima natura né il nome, attesa di un compimento a cui, come la canzone, noi diamo un nome: Dio. “Silenzio cantatore” e “Mandulinata a Napule”.
Canzoni
MASSIMO BERNARDINI:
Allora, grazie Antonio Attanasio; Massimo Della Rocca, chitarra; Michele Di Martino, mandolino. Però, ancora un particolare. Voglio chiudere leggendo ancora una cosa a cui ci richiama don Giussani ascoltando la musica, la cosa che proprio serve per chiudere qualcosa, qualche momento musicale. Lui dice: Il gusto estetico del canto, quando la parola è potente, quando la parola è vera, ci lascia un ultimo quid amari, qualcosa di amaro al fondo ed è anche l’inconscio ricordo della sproporzione etica, è la bellezza infatti che plasma, ricreando la nostra realtà, la realtà della nostra persona. Il senso di questa sproporzione etica è quello che dopo aver cantato, come è successo a noi stasera, con gusto e verità, lascia come la sensazione di un ultimo vuoto. E’ una tristezza ma vera, una tristezza giusta e perciò una tristezza che, come dice San Paolo, ci rimette in cammino, perché più forte della sproporzione sta con noi un vincitore, un forte che percorre la strada come un gigante e ci trascina dietro. Anto’, se c’hai ancora una canzone che ci aiuta a chiudere secondo questo suggerimento… a te la parola.
Canzone (Marinariello)
MASSIMO BERNARDINI:
Grazie, Antonio, e ai tuoi musicisti!
(Trascrizione non rivista dai relatori)